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Venti anni di lotta per i diritti di tutti

Sono passati 20 anni dall’approvazione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. E ricordiamo i tanti divieti cancellati dalla Corte costituzionale e, soprattutto, io voglio ricordare i divieti ancora da rimuovere. Spesso mi chiedono chi ricordo di più tra le tante coppie che ho seguito e per quale motivo. Non dimenticherò mai Alberto e Neris, il piccolo Pietro che ormai è grande e la piccola Beatrice che non c’è più. Alberto e Neris si sono sposati nel 2001 e come tante persone che si amano avevano immaginato la loro famiglia con dei figli. Dopo la nascita di Beatrice, nel 2003, erano felicissimi ma solo dopo pochi mesi hanno scoperto che Beatrice era affetta dall’atrofia muscolare spinale di tipo 1. Una malattia terribile e di cui Albero e Neris erano portatori. Non lo sapevano, non avrebbero mai potuto immaginare che quelle prime difficoltà motorie avrebbero condannato la loro bambina a morire per soffocamento. L’atrofia muscolare spinale (Sma) identifica un gruppo di malattie neuromuscolari ereditarie che interessano le cellule nervose, chiamate motoneuroni, destinate al controllo dei movimenti dei muscoli volontari. Queste malattie causano la degenerazione e la morte motoneuronale con la conseguente inarrestabile paralisi amiotrofica di tutta la muscolatura scheletrica. La Sma 1 è la forma più grave e con la sua incidenza di circa 1 caso su 6mila nati vivi costituisce oggi la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita.

Sono colpiti i muscoli scheletrici del tronco e degli arti. In generale quelli più vicini al centro del corpo sono i più colpiti rispetto a quelli più distanti e con maggiore interessamento dei muscoli della bocca e della gola e quindi con maggiori problemi nella masticazione e deglutizione del cibo. Anche i muscoli respiratori sono coinvolti. La malattia è incurabile. I bambini si ammalano entro i primi sei mesi di vita, non riescono a mantenere la posizione seduta senza un sostegno e muoiono entro i primi due anni di vita per paralisi respiratoria. Beatrice è morta il 29 novembre 2003, quando aveva appena compiuto sei mesi di vita. Un dolore che rimane nel cuore e che non passerà mai per Alberto e Neris, mai. Dopo qualche anno hanno riprovato ad avere un figlio, sottoponendosi a tutte le indagini diagnostiche prenatali nel 2004. Ma la patologia è di nuovo lì e sono costretti a interrompere la gravidanza. Poi finalmente nel 2005 nasce Pietro che non è affetto dalla stessa patologia di cui sono portatori i genitori. Ma la coppia potrebbe accedere alla fecondazione assistita per chiedere di sapere, tramite indagini cliniche diagnostiche sulla blastocisti che la legge chiama embrione, se è presente quella malattia nella forma più grave.

La forza trasformatrice insita nella Costituzione

In un momento storico in cui in vari luoghi del mondo sta diventando sempre più rischioso esprimere il dissenso politico, in alcuni casi represso con pesanti limitazioni alla libertà personale quando non addirittura con la morte, la democrazia nella sua essenza torna a mostrarsi una forma di governo che non va mai considerata come permanentemente acquisita, ma che al contrario richiede attenta osservazione e quotidiana elaborazione, così come il rispetto dei principi fondamentali e della pari dignità sociale che con essa dovrebbero essere garantiti.
In prossimità della Giornata internazionale dei diritti delle donne (e lo si deve fare tutti i giorni dell’anno) si ricordano i molti ordinari e straordinari atti di impegno e rivendicazione che hanno condotto in varie parti del mondo, pur con differenti condizioni iniziali, alle conquiste politiche, economiche e sociali di cui tutti gioviamo oggi, individualmente e come collettività, attraverso il richiamo alla memoria della strada percorsa e per spronare a quanto vi è ancora da fare.

Un libro redatto a più mani, intitolato Le leggi delle donne che hanno cambiato l’Italia, promosso dalla Fondazione Nilde Iotti e pubblicato da Futura editrice ripercorre proprio lo sviluppo delle riforme legislative che nel nostro Paese, dalla prima legislatura fino ad anni recenti, hanno riconosciuto alle donne sotto vari aspetti un ruolo cardine per ottenere alcuni tra i più grandi passaggi evolutivi della nostra società nel suo insieme. Scorrere l’indice già desta motivi di riflessione. Addirittura commozione si prova nel leggere lo svolgimento di una cronologia che parte dal diritto di voto del 1945, passando per l’ammissione delle donne ai pubblici uffici e professioni del 1963, alle grandi riforme in materia di diritto di famiglia, scioglimento del matrimonio e interruzione di gravidanza degli anni 70, insieme agli interventi volti alla parità di trattamento in tema di lavoro. L’abrogazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore del 1981 potrà oggi sembrare vicenda lontanissima, è solo del 1996 la legge contro la violenza sessuale, definita finalmente come crimine contro la persona e non più contro la morale pubblica. Sono stati punti di riconoscimento, nero su bianco, di percorsi evolutivi innanzitutto di prassi e coscienza sociale, successivamente trascritti nella normativa, ma anche oggetto di tentativi, più o meno espliciti e recenti, di involuzione.

Non basta rompere il tetto di cristallo

Ilustrazione di Marilena Nardi

L’entusiasmo della prima volta di una presidente del Consiglio aveva indotto la speranza ed addirittura – non per tutte- la convinzione che si sgretolasse finalmente il “tetto di cristallo”.
Credo che l’idea che la parità si ottenga semplicemente rompendo il tetto di cristallo sia una trappola, come trappola è stato perseguire la conciliazione e non la condivisione del lavoro domestico.
Ovviamente, non intendo e non voglio sottovalutare il valore di coloro che sono riuscite ad affermare sé stesse superando gli stereotipi, così come non ha senso contrastare in astratto e a prescindere soluzioni di conciliazione che aiutano le lavoratrici.
Non è nelle singole esperienze che si annida la trappola di cui parlo, ma nell’assenza di prospettiva. Si celebra il risultato individuale anche se questo non rappresenta una leva per le altre, che rimangono incollate alla base delle piramide e discriminate.
Lo stesso vale per la conciliazione: il cambiamento è importante se è tale per tutte e non se è usato come alibi per evitare la condivisione.

Un po’ più di un anno dopo vediamo una conferma di questa trappola nelle politiche della presidente del Consiglio, che oserei dire rappresenta la conferma che non è sufficiente la biologia per realizzare la propria identità di donna (cfr Simone de Beauvoir): bisogna contrastare la costruzione sociale imperniata sul patriarcato, non usare il successo personale come modo per negare il problema.
Questo governo invece tratta la povertà come una colpa, le marginalità e le fragilità come devianze, moltiplica le soluzioni punitive, penali, i nuovi reati, lo stigma, quando occorrerebbe costruire soluzioni partendo dall’analisi delle condizioni, riconoscendo l’idea che vanno redistribuite risorse e poteri.
Provo a tradurre concretamente gli effetti delle scelte della presidente del Consiglio, premettendo che l’ossessione con cui parla di natalità è essa stessa discriminatoria: dal suo punto di vista donna diventa sinonimo di madre meglio se con almeno due figli. Già questo chiarisce quanto la libertà femminile sia misconosciuta.

L’Ungheria che confessa parlando di Ilaria Salis

Gli schizzinosi ungheresi – pur abituati alle maniere forti dell’autocrate Orbàn – sono sorpresi che l’Italia si occupi del rispetto dei diritti umani nell’ambito di un processo in cui è coinvolto un suo cittadino. “È sorprendente che stanno cercando di interferire con un caso di tribunale ungherese dall’Italia”, dice il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó. “Questa signora presentata come una martire in Italia, è venuta in Ungheria con un chiaro piano di attaccare persone innocenti nelle strade come parte di un’organizzazione estremista di sinistra”, ha detto ancora il ministro ungherese che, secondo quanto rende noto il portavoce del governo ungherese Zoltan Kovacs, in visita a Roma “ha enfatizzato l’importanza della cooperazione italo-ungherese, specialmente in sicurezza ed economia, con l’Italia seconda destinazione dell’export ungherese, e sottolineando la crescente partnership tra le due nazioni”.

Il comunicato è da custodire perché è una perfetta ammissione di colpa del governo ungherese. C’è dentro il sovranismo dei diritti umani, lo stesso che sogna il nostro ministro Piantedosi quando vorrebbe applicarne di inapplicabili e così scrive decreti come il cosiddetto Cutro che si smontano cammin facendo. C’è l’idea giustizialista del processo come inizio della vendetta di Stato. Se un criminale è pericoloso merita un processo iniquo e violento, come sogna il capo della Lega Salvini, soprattutto contro coloro che non hanno colletti bianchi. E soprattutto c’è l’amicizia e l’affinità politica dichiarata con il governo Meloni, nonostante la fatica della presidente del Consiglio di recitare la parte della moderna europeista. 

Buon giovedì. 

Il “potere forte” è l’iniquità

Nei Paesi del G20, in media, per ogni dollaro di gettito fiscale, meno di 8 centesimi provengono oggi dalle imposte sul patrimonio, mentre più di 32 centesimi (oltre quattro volte tanto) arrivano dalle imposte su beni e servizi che gravano in modo sproporzionato sulle famiglie a basso reddito.

Lo scrive Oxfam, alla vigilia della prima riunione dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20 a San Paolo, in Brasile. I dati mostrano come nel 2022 l’1% più ricco, in termini reddituali, nei Paesi del G20 ha percepito 18mila miliardi di dollari. Un ammontare superiore al Pil della Cina. Negli ultimi quattro decenni, la quota di reddito (al netto delle imposte) detenuta dall’1% dei più facoltosi nel G20 è aumentata in media del 45%, mentre nello stesso periodo l’aliquota massima dell’imposta sui redditi personali è diminuita di circa un terzo, passando da quasi il 60% nel 1980 al 40% nel 2022. 

La ridotta tassazione della ricchezza e un prelievo più blando sui redditi da capitale hanno esasperato ulteriormente l’iniquità dei sistemi fiscali. Oxfam osserva infatti che, considerando il complesso delle imposte dirette, indirette e dei contributi sociali nei Paesi del G20 – come Brasile, Francia, Italia, Regno Unito e Stati Uniti – chi guadagna di più, versi in proporzione al reddito, minori imposte di chi percepisce entrate inferiori. Nei Paesi del G20 risiedono inoltre quasi quattro su cinque dei miliardari globali.

Buon mercoledì. 

La rivoluzionaria lotta di Ocalan e dei curdi, che noi non dimentichiamo

manifestazione per la liberazione di Ocalan

Nel febbraio del 1999, 25 anni fa, Ocalan veniva espulso da Roma e consegnato, di fatto, ai suoi carcerieri turchi. Fu un atto vergognoso di vigliacca sudditanza dell’Unione Europea e del governo italiano ai poteri militari e capitalistici internazionali. E’ una ferita alla legalità internazionale e a tutte le convenzioni e i trattati internazionali sui diritti delle persone che non abbiamo voluto dimenticare.

Il comitato internazionale per la libertà di Ocalan “il tempo è ora” coglie l’occasione per continuare e rilanciare una articolata campagna di massa. Nelle scorse settimane  si sono svolte manifestazioni poderose, di potenza sociale in tutta Europa. Tante sono state le manifestazioni della rete Kurdistan in Italia. L’obiettivo è rilanciare l’iniziativa politico/istituzionale richiamando governo e Parlamento ad esercitare il diritto/dovere di tutelare la persona di Ocalan, a cui il Tribunale italiano ha riconosciuto l’asilo, in base all’articolo 10 della Costituzione.
Ad Ocalan è impedito da anni di incontrare i propri familiari ed i propri difensori, con privazione assoluta del diritto alla difesa. In palese contrasto innanzitutto con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti della persona. A Roma, come portavoce italiano del Comitato per la libertà di Ocalan “il tempo è ora”, ho ricordato che Ocalan era venuto a Roma come portatore di una proposta di pacificazione della Turchia e di tutto il Medio Oriente. Ma le pressioni della Turchia, secondo esercito di terra della Nato, i ricatti della Confindustria, preoccupata per i rapporti mercantili tra Italia e Turchia, le pressioni delle fabbriche di armi ( è bene ricordare che Erdogan, a Kobane, bombarda le popolazioni dagli elicotteri italiani dell’Agusta Westland Leonardo) indussero la vigliacca Europa ed il vigliacco governo italiano a consegnare Ocalan ai suoi carcerieri.

Ma Ocalan è tra noi, con i suoi scritti. I suoi pensieri spezzano le sbarre: non possono essere imprigionate le idee. Abbiamo lanciato conferenze e seminari in tutta Italia per illustrare la straordinaria resistenza del popolo curdo e la guida politica ed intellettuale di Ocalan. Il popolo curdo resiste: nei villaggi, nelle carceri, con l’organizzazione straordinaria delle donne, alfiere delle libertà.

Sotto la guida di Ocalan progetta una società alternativa, di pace e di democrazia.. Vediamo le sue idee sperimentate in Rojava, nelle terre liberate, nei territori che vivono “tempi di speranza”. I suoi scritti dall’isola/ prigione di Imrali richiamano alla mente le “lettere dal carcere” di Gramsci , in quanto sono strumento straordinario di pedagogia democratica di massa.. Un manifesto di cultura democratica che è strumento anche per la nostra ricerca contemporanea. Penso che ad Ocalan ci si potrebbe affidare anche in vista della necessaria negoziazione , il processo di soluzione pacifica , per la complessiva area ; così come Marwan Barghouti libero potrebbe avere l’autorevolezza di negoziare nel conflitto israelo /palestinese. Se esistessero ancora strutture e organismi internazionali , come le Nazioni Unite, che oggi sono stati distrutti dalle guerre imperialiste. Non a caso Ocalan chiama l’intreccio di culture, popoli, conflitti una ” sociologia della libertà”. Il suo “confederalismo democratico”, infatti, è un nuovo paradigma politico e sociale , una soluzione non nazionalistica ma egualitaria, contro i settarismi della guerra perenne in Medio Oriente. Con la massima partecipazione popolare. Delle donne soprattutto, protagoniste della lotta contro il capitale ed il patriarcato, che tentano di dominare le menti e i corpi. La nostra iniziativa , nei prossimi mesi, rilancerà anche un fondamentale tema politico/giuridico. Il primo ottobre 1999 il Tribunale di Roma ha accolto la richiesta formulata dagli avvocati di Ocalan, dichiarando il diritto di Ocalan all’asilo politico ai sensi dell’articolo 10, terzo comma, della Costituzione. Di nuovo apriremo una vertenza nei confronti del governo e del Parlamento. Le istituzioni italiane non possono continuare a far finta di nulla. Hanno il dovere di rimettere al centro la legalità internazionale e i diritti fondamentali della persona , compiendo tutti i passi necessari al fine di dare esecuzione alla sentenza di riconoscimento dell’asilo in favore di Abdullah Ocalan. Il quale deve essere liberato! Il tempo è ora!

Insegnanti senza stipendio: «Spieghiamo la Costituzione ma dove sono finiti i nostri diritti?»

Si può insegnare senza ricevere uno stipendio? Purtroppo sta accadendo. Addirittura da 5 mesi, come segnalano a Left delle insegnanti supplenti di un istituto di Busto Arsizio. Una scuola statale, non privata. Dove da ottobre le docenti non ricevono il compenso del proprio lavoro. Il fenomeno comunque è più esteso, se scorriamo le cronache sindacali recenti che riguardano la scuola.

Il 13 febbraio scorso sul problema del ritardo degli stipendi dei precari con contratto breve e saltuario si è tenuto un sit-in della Flc Cgil davanti al ministero dell’Istruzione e del merito. Un altro sindacato della scuola, Gilda, il 26 febbraio ha sottolineato la necessità da parte dei ministeri dell’Istruzione e dell’Economia di trovare soluzioni. «Continuano a segnalarci ritardi sui pagamenti degli stipendi dei precari, anche in alcuni casi di due o tre mesi», si legge nel comunicato sindacale. Gilda sollecita i ministeri a trovare «procedure di pagamento meno farraginose per rispettare il sacrosanto diritto di chi lavora, ad essere retribuito alla fine di ogni mese».

Procedure che nel caso delle insegnanti di Busto Arsizio mostrano molte lacune. Cinque mesi senza stipendio e senza sapere nemmeno per quale motivo. Il ritardo dipende dalla scuola e quindi dall’autorizzazione a pagare le supplenti? O dipende dall’organizzazione complessiva dei ministeri? Le docenti attendono da ottobre, appunto. Il loro caso è finito anche nelle cronache locali. Quello che vogliono sottolineare nella loro lettera a Left è un aspetto di cui non si tiene sufficientemente conto: la tutela di diritti costituzionali.
«La burocrazia non può essere un alibi per privare un insegnante di diritti umani e costituzionali, quali il diritto alla vita e al lavoro stipendiato – si legge -. Un diritto alla vita e alla salute che vengono fortemente compromessi, nel momento in cui chi occupa posti di responsabilità non si preoccupa minimamente di lasciare per 5 mesi senza stipendio delle persone e conseguentemente le loro famiglie. Alcune di noi, a Natale, non hanno neanche potuto permettersi di fare un regalo al proprio figlio, altre non hanno potuto neppure godersi quel tempo di pausa, per le preoccupazioni gravose, conseguenti alle incombenze che non potevano essere pagate, altre non hanno potuto soddisfare cartelle esattoriali con gli stralci pattuiti dalla normativa di cui sono decadute le condizioni.
Chi ci rimborserà per questi danni morali e economici?».

Le insegnanti lamentano il modo in cui è andata avanti la loro vicenda. «È questa indifferenza che pesa, come se il problema fosse di chi lo subisce suo malgrado e non di chi lo ha creato. È questo tunnel di burocrazia che diventa un alibi per qualsiasi cosa in Italia, per togliere diritti acquisiti e costituzionali. È questa deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione in ogni suo livello, dinanzi a situazioni che non possono essere ignorate e che devono essere prontamente risolte, mettendo in campo, tutte le risorse possibili per farlo. È questo inaccettabile scaricabarile, tipicamente italiano, dove nessuno pare responsabile dei danni arrecati e soprattutto nessuno pare sentirsi chiamato alla sua soluzione immediata».

«Ci viene chiesta, praticamente, da mesi – continua la lettera – una schiavitù volontaria con il ricatto morale del punteggio o della necessità di lavorare, ci viene chiesto di essere sempre al massimo della performance in aula, senza essere messe nelle condizioni di serenità necessarie per dare il massimo ai ragazzi (ma nonostante questo lo abbiamo sempre fatto, tenendo duro, in una resistenza che deriva dall’amore per il nostro lavoro e dalla passione che cerchiamo di metterci ogni giorno). Veniamo, anzi, ostacolate nella coerenza, dato che insegnare nei cosiddetti Focus di educazione civica, la Costituzione, nelle sue varie implicazioni connesse agli stili di vita, stride ogni giorno di più con l’ambiente che si è creato nella scuola».
Parole infine di apprezzamento per l’istituto in cui insegnano, «una ottima scuola dal punto di vista dei docenti profondamente umani e preparati, sempre disponibili e interessati ai ragazzi prima come persone e non soltanto come alunni». E l’amarezza del non vedere riconosciuto un lavoro nel quale, come accade a moltissimi docenti italiani, mettono interesse e passione.

Nella foto: frame di un video di una manifestazione di docenti precari a Roma, 2 settembre 2020

La scelta di Emme. Scacco alla povertà non solo materiale

Il bambino poggia la schiena sul palo di una porta, il pallone tra le mani, lo sguardo tra l’assente e il sospeso, come senza aspettative. L’immagine in copertina è una sintesi diremmo di Mio padre non mi ha insegnato niente (edizioni Fuoriscena – gruppo RCS), l’ultimo romanzo di Massimiliano Smeriglio. Un titolo che pare un giudizio lapidario. Un’espressione che racchiude il principio inequivocabile intorno a cui si sviluppa la vita di Emme, “figlio dell’imperizia”, come viene descritto in quarta di copertina, che si fa artefice del suo destino, non accettando di rimanere prigioniero della sua stessa storia. Un libro che è il resoconto di un viaggio a ritroso nelle memorie nascoste di un personaggio che si evolve nel tempo mentre difficoltà, amarezza e desideri non espressi, o soffocati dalla povertà e dalle assenze, plasmano il suo carattere. Una storia nella quale tanti potranno rispecchiarsi, come fa la bella letteratura. Il senso della misura di ciò che è mancato a un figlio venuto al mondo contro la volontà dei genitori, frutto del primo rapporto occasionale «goffo e sbrigativo» tra due ragazzi poco più che adolescenti che le hanno tentate tutte pur di interrompere la gravidanza. E loro stessi, senza scrupolo alcuno, a metterlo a conoscenza di quello che è accaduto dal momento del suo concepimento: «Non credo fossero coscienti del mostro che cresce dentro quando ti raccontano, sorridendo, tutto quello che hanno fatto per non farti nascere. Sia chiaro non li biasimo per questo, anche se il silenzio sarebbe stata la scelta più amorevole. Conoscere i dettagli di tentativi reiterati di stroncarmi prima della venuta al mondo non ha aiutato», si legge. E le fasce di contenimento, sempre più strette per evitare lo scandalo, non furono efficaci per provocare l’asfissia dell’ospite indesiderato ma solo qualche segno quando, a metà degli anni Sessanta, fece il suo ingresso sulla scena: «Ero nato malconcio, con la testa un po’ deforme, stretta com’era dalle fasce di contenimento. Rimasi in ospedale, al San Giovanni, parecchi giorni prima di prendere una forma umana». Il quartiere romano della Garbatella, con le sue osterie frequentate da «uomini di mezza età consumati dall’alcol e giovani senza denti», è il teatro degli eventi di una famiglia che fa i conti con la povertà non soltanto materiale, ma soprattutto affettiva, e di bande di ragazzini che imparano a sopravvivere nei cortili tra una pallonata e l’altra. Il ritmo della memoria è incalzante e mette in sequenza le immagini di una realtà a tratti cruda, violenta, impietosa. Emme cresce con due figure genitoriali «sfocate» al punto che «per non venire spazzato via dalla potenza inerziale degli eventi», si aggrappa ai nonni e alle zie e più tardi, ai tempi degli studi universitari, si fa prendere dall’attivismo politico e culturale per non vedere «le strettoie della vita quotidiana». Consapevole che avrebbe dovuto farcela da solo, compie le sue scelte mentre i rapporti con la sua famiglia si allentano sempre di più. Sbiadiscono, si silenziano. Alla fine il protagonista trova la via d’uscita per non rimanere intrappolato tra rancore e propositi di vendetta: «Nel tempo ho cercato di allenarmi alla bellezza, senza peraltro prendere congedo da mondi ammaccati. Nel mezzo tra l’alto e il basso si coglie il punto di luce, quello che lascia senza fiato. O semplicemente solleva speranze». La storia personale di Emme incrocia in più punti la grande Storia: le Fosse Ardeatine, con il bisnonno Enrico Mancini tra le vittime della furia nazista; la contestazione studentesca della Pantera; l’omicidio di Vincenzo Paparelli in un derby Roma-Lazio e quello di Valerio Verbano.
Un noir sociale, un racconto di vita, con le sue storture e contraddizioni. «Raccontare una storia può servire a comunicare qualcosa, in maniera diretta e dirompente, a portare i lettori dentro la vita di altre persone stabilendo una connessione intima. E questa è una storia piccola, familiare – ci spiega Smeriglio, docente universitario che di recente, lo ricordiamo, ha lasciato la delegazione dem a Bruxelles – inserita dentro un contesto storico ampio che è quello italiano della fine del Novecento. Un contesto in bianco e nero, politicamente stabile, ordinato, e tuttavia non promettente per le classi subalterne in cui il protagonista della storia si muove. Una storia diversa da quella dei miei romanzi precedenti: qui c’è un viaggio introspettivo dell’io narrante che scava tra i suoi sentimenti più profondi e porta alla luce i segni che riporta sulla propria pelle. Le vicende collettive sono poste su un piano diverso, secondario, e assumono rilevanza nel momento in cui si intrecciano con quelle personali».
Un io narrante coraggioso, che trova le parole per riportare i disperati tentativi di abortire da parte della madre, quasi per prendere coscienza del suo arrivo indesiderato al mondo. Un figlio che misura la distanza affettiva abissale con un padre che non gli ha insegnato neanche a guidare o a fare il nodo della cravatta: «Anche se non la definisco un’autobiografia, è una storia densa di verità che mi riguarda da vicino, che prende spunto da alcune vicende familiari per poi dipanarsi in un contesto più ampio». Scrivere è un’urgenza e un atto “salvifico” per Smeriglio: «La mia vicenda personale si intreccia molto e in maniera confusa con quella dell’io narrante. Scrivere questa storia è stata una necessità, un urgenza per portare fuori da me la vicenda». Tuttavia, come un happy ending, «il destino non è un finale già scritto», dice Smeriglio, perché «la vita del protagonista trova una sua evoluzione anche attraverso il rapporto con la famiglia allargata, con i nonni e con gli amici, in un contesto popolare in cui anche il contesto affettivo è largo, è il quartiere che educa. Di fronte ad una tragedia iniziale ci sono degli strumenti, dei corrimano a cui poggiarsi per arrivare ad un risvolto positivo».
Emme non resta intrappolato nel gioco della fatalità. Riesce ad affrancarsi dalla sua condizione d’origine: «Ci sono varie accezioni della povertà nel racconto. Una povertà materiale piuttosto evidente, un dato abbastanza diffuso nel contesto sociale di provenienza. C’è una povertà affettiva e relazionale, una povertà di linguaggio che è ancora più grave. Nella famiglia di Emme – sottolinea ancora l’autore – i linguaggi sono scarnificati e i sentimenti non trovano le parole. Da questo status ci si emancipa con il tempo sviluppando meccanismi di consapevolezza e cercando di tenere a bada i demoni, cioè la rabbia, l’odio, il rancore, perché l’esito di contesti di questo tipo è inevitabilmente meccanismi di odio che sono prevalentemente auto-distruttivi. C’è una bella frase dello scrittore americano Don Winslow che dice ‘si diventa ciò che si odia’. Bisogna fare un grande lavoro per non diventare come i propri aguzzini, anche se aguzzini inconsapevoli o non del tutto consapevoli come i genitori dell’Io narrante. Ci si emancipa con un lavoro costante di centratura della propria soggettività».
In questo suo quinto romanzo, Massimiliano Smeriglio ribalta l’inquadratura sul sociale non rispettando la logica delle categorie prestabilite. Le fa saltare, esattamente come fa la vita. E compiendo un passo ulteriore fa in modo che il protagonista non possa essere etichettato come vittima, andando oltre una narrazione di persona in balia degli eventi. È un soggetto attivo che prende in mano le redini della propria vita: «Non è detto che le vite periferiche siano sempre condannate ad un esito scritto al momento della nascita o dal numero del codice di avviamento postale: si può determinare un’evoluzione dell’essere, della persona dentro un contesto sociale ricco dal punto di vista affettivo, culturale e delle relazioni. L’io narrante pronuncia la frase “si può essere branco senza diventare iene”, cioè si può sviluppare una forma di affettività diffusa nel gruppo degli amici o della famiglia allargata senza per questo degenerare in forme negative. Per Emme il rapporto con il gruppo dei pari, che perdura nel tempo, è stato fondamentale per trovare la forza e le risorse per venirne fuori senza sporcarsi. Per la presenza di questo elemento relativo alla dimensione educante, questo è considerato un romanzo di formazione».
Con la sua attività Smeriglio mette in connessione politica e letteratura, secondo il principio dei vasi comunicanti: «L’impegno politico è una forma suprema di connessione di diversi linguaggi e prospettive, e pertanto non può essere scisso da una dimensione culturale. La crisi dell’attuale sistema politico italiano è la conseguenza della scarsissima propensione alla curiosità, al mancato rapporto con gli intellettuali e con tutto ciò che si muove fuori dalla bolla politicista. Cerco di tenere aperti tutti i canali – ci dice – che vanno nella direzione della rigenerazione e della ricostruzione di una narrazione della società, che è culturale e poi diventa politica. La politica ridotta all’amministrazione, al politicismo, al posizionamento senza più ideologia o sistema valoriale su cui poggiare ha determinato il disastro della sinistra contemporanea».
Prendendo spunto dal titolo del libro, formula il suo giudizio sull’eredità lasciata dai padri della politica. «A differenza dei padri naturali, quelli della politica si possono scegliere – spiega – e quindi è più facile non sbagliare. Noi abbiamo alle spalle una generazione che ha costruito la nostra Repubblica, persone che hanno sofferto, fatto la lotta di liberazione, la Resistenza, che hanno dovuto fare scelte estreme». Tra i miei padri politici  di Smeriglio, c’è il mio bisnonno, Enrico Mancini, partigiano combattente di Giustizia e Libertà, torturato a via Tasso e alla pensione Oltremare dalla banda Koch e poi trucidato alle Fosse Ardeatine. «Altri padri e madri della politica per me – prosegue Smeriglio – sono Umberto Terracini, Piero Calamandrei, Antonio Gramsci, Rosa Luxemburg, Piero Gobetti. Il Novecento italiano è stato un periodo storico non solo tragico, ma anche straordinario per l’emancipazione collettiva, la crescita del movimento operaio, le grandi conquiste dallo Statuto dei Lavoratori, al divorzio, all’aborto, alla legge 180 sui manicomi. Tante cose che sono state fatte grazie all’impegno di milioni di persone che hanno reso in quel frangente, nei primi cinquant’anni della Repubblica, l’Italia un paese migliore». Il suo romanzo è, dunque, anche un contributo al dibattito politico e sociale del Paese. Chiediamo se quella di oggi è una sinistra che non riesce a essere un baluardo della giustizia sociale. Smeriglio è netto: «Veniamo da 11 anni di governi tecnici in cui con tutto il rispetto per grandi personalità tecnocratiche abbiamo fatto passare per persone di sinistra la Fornero, Monti e Draghi. Da uomo di sinistra non li riconosco come tali. Negli ultimi vent’anni la sinistra non ha avuto a cuore la vita e l’emancipazione degli ultimi, di chi vive di salario, di pensione, e ciò ha portato al trionfo prima del populismo e adesso della destra perché non veniamo più percepiti dal popolo come un interlocutore utile a migliorare le condizioni di vita delle persone. In questo senso – conclude lo scrittore e politico – la straordinaria storia del partito comunista italiano, del movimento femminista e dei movimenti sociali post 1968, sembra non essere particolarmente ascoltata dall’attuale classe dirigente della sinistra italiana. Se non si rimette al centro il conflitto tra le classi, come motore della storia, non ci sarà alcuna svolta».

 

Processare le ceneri di chi si brucia per delle idee

Nell’epoca dell’utile sgomento il venticinquenne statunitense Aaron Bushnell è stato talmente maleducato da darsi fuoco di fronte all’ambasciata israeliana a Washington. Un aviatore dell’esercito americano che decide di urlare contro un genocidio usando il suo suicidio è un tilt per la stampa mansueta. Nelle riprese video Bushnell urla di non voler “essere più complice del genocidio” e dichiara di prepararsi “a un gesto estremo che non è nulla rispetto a ciò che vivono le persone a Gaza nelle mani dei colonizzatori”. 

I giornalisti pensosi si saranno domandati: come si scrive una storia così? Non scriverla o spuntarla fino ad arrotondarla deve essere sembrata la scelta migliore e così Aaron Bushnell l’indomani sul New York Times si merita un titolo che brilla per ciò che non dice: “un uomo muore dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington, dice la polizia”. Un record di decontestualizzazione che è il contrario degli insegnamenti di ogni corso di giornalismo. E pensare che lo stesso giornale il 17 marzo del 1965 scriveva di “un’anziana vedova in condizioni critiche qui oggi dopo essersi data fuoco all’angolo di una strada la scorsa notte per protestare contro la politica estera degli Stati Uniti”. Smussarsi per sopravvivere. 

Dopo averlo taciuto qualcuno deve avere pensato che Bushnell anche da morto meritava di essere screditato. Così – come osserva l’editorialista Belén Fernández – il Time riesce a inserire la parola Gaza nel titolo ma ricorda nell’articolo che la “politica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti stabilisce che i membri del servizio in servizio attivo non dovrebbero impegnarsi in attività politiche di parte”. Sono tempi così, dove protestare contro un genocidio è una posizione “di parte”. “Forse le ceneri di Bushnell potranno essere processate in un tribunale militare”, scrive Fernández. O forse siamo ancora al dito e alla luna, ancora peggio del 1965. 

Buon martedì. 

Manganellate agli studenti. È violenza contro chi esercita un diritto costituzionale

I fatti avvenuti a Pisa e a Firenze lo scorso 23 febbraio sono solo l’ultimo degli episodi di manifestazioni pubbliche di cittadini aggrediti dalle forze di polizia.
Parlare chiaro è sempre bene ed è parlare chiaro affermare che a Pisa e a Firenze non c’è stato alcun esercizio legittimo dell’ordine pubblico da parte delle forze dell’ordine, inviate nelle piazze centrali non per vietare una “manifestazione non autorizzata”, non per disperdere i manifestanti secondo modalità espressamente previste dalla legge, non per contenere un corteo al fine di proteggere luoghi o palazzi delle città ritenuti sensibili.
L’illegittima violenta aggressione della polizia che si è accanita su ragazzi liceali di Pisa, tutti pacifici, tutti a volto scoperto, tutti disarmati, persino tutti a mani alzate per evitare l’aggressione, incastrati in un vicolo per impedire di raggiungere una piazza e qui manganellati, dimostra che la linea governativa nella gestione dell’ordine pubblico sta assumendo una piega che deve inquietare chiunque.

Parlare chiaro è rinfrescare la memoria a chi non ricorda o deliberatamente ignora che l’art. 17 della Costituzione sancisce il fondamentale diritto dei cittadini di riunirsi pacificamente e senz’armi: è un diritto costituzionale, che nessuna norma o atto o comportamento può violare. E per chi nemmeno conosce gli elementari del diritto costituzionale è bene sottolineare che l’art. 17 della Costituzione non richiede affatto che per riunirsi in luogo pubblico sia necessaria l’autorizzazione dell’autorità, semplicemente che se ne debba dare preavviso, specificando che il diritto può essere vietato solo se l‘autorità indichi motivi comprovati di sicurezza e di incolumità pubblica.

Per ricordare tutto questo è stato necessario il comunicato del Quirinale, fermo e determinato, perfettamente coerente con il ruolo di garante che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica. Intervento necessario quello del presidente Mattarella, ma che dà anche il segnale di quale sia l’orientamento di fondo del governo di destra: l’evidente irritazione che ha provocato in alcuni componenti delle forze politiche che formano il governo, da FdI alla Lega a FI, dimostra che la difesa costituzionale dei diritti elementari deve essere costantemente vigile e attiva, da parte di tutti i cittadini.
La violenza delle forze di polizia usata a Pisa, e anche in altre città, contro cittadini indifesi non è – come si è sentito dire – esagerata, o frutto di errori o di “difficoltà operative”: esagerare significa farsi prendere la mano, superare i limiti di un (pur) legittimo esercizio derivante dall’autorità che si incarna; “errori” o asserite “difficoltà operative” sono concetti inammissibili, privi di logica spiegazione a fronte di quanto è accaduto.

La violenza illegittima esercitata dalla polizia viene da ordini precisi, che dal ministero dell’interno passano ai gradini territoriali inferiori. È un’offesa all’intelligenza dell’opinione pubblica invocare “la responsabilità individuale del fatto”, come ha fatto il ministro degli esteri Tajani e vice presidente del consiglio, per deviare sugli interrogativi che riguardano la responsabilità del ministro dell’interno Piantedosi. In un Paese civile democratico come l’Italia non sono contemplati gruppi di agenti – perfettamente abbigliati in assetto antisommossa – che aggrediscono e picchiano i manifestanti perché mossi da spontanea consapevolezza di esercitare l’ordine pubblico.
È stato detto che i regimi autoritari cominciano nelle strade. È così. Ed è bene averne consapevolezza, perché il rigore nella difesa dei diritti costituzionali significa, allora, che continuare a manifestare pacificamente il dissenso nelle strade costituisce il maggior pericolo per chi sta tentando di riportare le lancette indietro nel tempo o di creare un nuovo stile autoritario nella nostra Repubblica.

A proposito di responsabilità individuali e collettive, vale la pena ricordare che risalgono a 23 anni fa le diverse proposte di legge in Parlamento dirette ad adottare i codici identificativi su uniformi e caschi del personale delle forze di polizia impegnate in servizio di ordine pubblico. La prima, del 2001, a firma Pisapia e altri, è stata respinta il 31.5.2002. Le altre 4 – presentate a partire dal 2018, per ultima quella dell’ottobre 2022 a firma Cucchi e altri – giacciono nei cassetti delle Commissioni Affari costituzionali delle rispettive Camere a cui sono state assegnate. Per esse non è mai stato iniziato l’esame.
L’identificazione degli agenti di polizia che si occupano di ordine pubblico è già regola diffusa in ambito europeo: dopo l’invito del Consiglio d’Europa agli Stati membri nel settembre 2001 (sortito a seguito dei fatti del G8 di Genova) ad adottare provvedimenti per individuare con maggiore facilità le forze dell’ordine quando prestano servizio in manifestazioni pubbliche e dopo la risoluzione del Parlamento europeo del novembre 2012, Francia, Spagna e Germania hanno introdotto un sistema di identificazione. L’Italia è ferma “alla proposta”, vincolata da precise ragioni politiche a cui non è estranea la contrarietà delle organizzazioni sindacali di polizia.

Occorre la richiesta collettiva per ottenere che il Parlamento esprima una legge che finalmente allinei l’Italia – oltre che alla sua Costituzione, continuamente disapplicata – anche alle altre democrazie europee in tema di esercizio dell’ordine pubblico e tutela del libero diritto di riunione dei cittadini. La difesa dei diritti costituzionali si realizza anche in questo modo.
Visti i fatti e i comportamenti governativi di questi giorni, si può facilmente immaginare – nell’ipotetico panorama di un nuovo ordinamento costruito sulla proposta di “premierato” avanzata dalla destra – quale rilievo potrebbe avere l’intervento del presidente della Repubblica che oggi ricorda, in primis al ministro dell’interno, come i manganelli siano estranei alla autorevolezza delle Forze dell’ordine. Un presidente della Repubblica, spogliato in quel sistema di premierato del ruolo di garante, verrebbe ignorato, o rintuzzato allo scopo di metterlo sui suoi nuovi binari istituzionali.
Anche i fatti dello scorso 23 febbraio sono l’evidente segnale che il dissennato “premierato” promosso dalla destra avrebbe campo libero nell’usare la repressione dei diritti costituzionali, a cominciare dalla libera manifestazione del pensiero in ogni piazza e strada italiane.

L’autrice: L’avvocato Silvia Manderino è vice presidente del Coordinamento democrazia costituzionale

Qui l’intervento dell’avvocato Silvia Manderino al convegno di Firenze del 10 febbraio 2023 

Qui il video Integrale dell’evento Premierato e autonomia differenziata le ragioni del no