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Desaparecidos, la memoria viva di Adelaida

Murale realizzato a Tucumán da César Carrillo e Fátima Leal

Con il romanzo biografico Adelaida (Nutrimenti, in corsa per lo Strega), Adrian Bravi compie un’azione di rottura con l’«eterno presente» in cui viviamo, formulando un esercizio di memoria per far riemergere un passato sommerso. Realizzando anche un atto «doveroso» per celebrare un solido rapporto d’amicizia che si è alimentata per oltre vent’anni nelle pieghe di un singolare intreccio tra la sua vita e quella della protagonista. «Sono molti i punti di contatto che mi legano ad Adelaida Gigli – racconta lo scrittore italo-argentino. Quando ero poco più di un bambino ricordo che abitavamo nello stesso quartiere di San Ferdinando, alla periferia di Buenos Aires. Arrivato in Italia, nel 1988, lei è stata la prima persona che ho conosciuto. Frequentarla, a quei tempi, mi permetteva di mantenere vivo il legame con l’Argentina, placare il senso di nostalgia che mi attanagliava. Poi, oltre a riconoscerle il ruolo di custode della storia del mio Paese, l’ho ammirata per il suo spessore di donna e di intellettuale».

Aveva 25 anni Adrian Bravi – oggi scrittore noto e apprezzato e bibliotecario all’Università di Macerata, dove ha conseguito la laurea in filosofia – quando attraversò l’Atlantico per stabilirsi nelle Marche, a Recanati, paese dove era nato suo padre emigrato nella terra d’argento negli anni Quaranta. È qui che rincontrò la sua vecchia vicina di casa, una donna di sessantuno anni e un’artista dalla vita avventurosa, difficile, piena di vitalità, complessa e a tratti tragica: per Adelaida Gigli quello nel borgo di Leopardi era stato un ritorno da esule, dopo essere andata via da piccolissima, a soli quattro anni, col padre Lorenzo, noto pittore, e la mamma bonaerense Maria Teresa Valeiras, per sfuggire al fascismo.
In questo romanzo, appena pubblicato da Nutrimenti, l’undicesimo che scrive in italiano, Bravi si serve della scrittura come «mezzo per partecipare alla storia» consolidando un cambiamento che si era già intravisto in Verde Eldorado.

Sabatino Annecchiarico: «In Argentina torna l’incubo dittatura»

Scrittore, saggista, docente universitario, Sabatino Annecchiarico, italo-argentino, è un esperto di storia, cultura e geopolitica latinoamericana. Gli abbiamo rivolto alcune domande sulla situazione politica in Argentina dopo l’elezione di Milei.
Professor Sabatino Annecchiarico, si aspettava la vittoria di Javier Milei, alle presidenziali del 10 dicembre?
Diciamo che era impossibile prevedere chi avrebbe potuto vincere queste elezioni, tant’è che, al primo turno, ha prevalso il peronista Sergio Massa. Sinceramente, la vittoria netta di Milei al ballottaggio è stata sorprendente anche per me: non mi aspettavo che Propuesta republicana (Pro), il partito della destra liberale, lo appoggiasse così apertamente al secondo turno dopo i pesanti insulti ricevuti da Milei durante la campagna elettorale. Azzardo a dire che Milei ha raccolto anche il malcontento di una fetta di elettorato che non fa parte della corrente neoliberale, di destra, bensì del peronismo e di altri indecisi, persino alcuni che tradizionalmente votavano a sinistra. Questo elettorato, che è andato in seguito a sommarsi a quello neoliberale e di destra, era stremato per la condizione economica in cui versava e quindi ha preso la decisione di votare un personaggio ignoto, uno sconosciuto nella politica argentina. I due ultimi governi, quello di Mauricio Macri (neoliberale) e di Alberto Fernández (peronista), hanno deluso un po’ tutti; in più, Milei, con delle proposte folli, ha unito questo anomalo elettorato agli antipodi, con la promessa di trovare soluzioni immediate.

Milei aveva un programma che garantiva lo smantellamento del welfare e la privatizzazione dei servizi fondamentali, dalla scuola alla sanità. Eppure, è stato votato da una popolazione già in difficoltà. Secondo lei, com’è stato possibile?
Sin dalla sua nascita come Repubblica democratica e federale (1816), l’Argentina è stata divisa in due correnti politiche diametralmente opposte: una a favore del libero mercato e dei porti spalancati alle transnazionali; l’altra, invece, più protezionista, nazionalista e favorevole alla presenza dello Stato nella sanità, nei trasporti e nell’istruzione, insomma, nella vita quotidiana della gente. Assicurando lo smantellamento del welfare e la privatizzazione di tutto, riducendo al minino la presenza dello Stato, Milei, che risponde alla prima corrente politica, ha fatto credere a una buona parte della popolazione argentina che lo Stato fosse il male assoluto di una società, concetto che ha ripetuto pubblicamente durante la recente visita in Italia con affermazioni pubbliche che «lo Stato è il nemico, è una associazione criminale». Ha vinto dunque portando la gente a credere che ci fosse qualcosa di razionale in ciò che diceva; razionalità sostenuta da quella potente stampa argentina favorevole a questo pensiero politico neoliberale. Ad esempio, per quanto riguarda la svalutazione del peso argentino e l’inflazione alle stelle, Milei spiegava l’importanza di puntare sul dollaro, poiché “dollarizzare” il Paese avrebbe risolto il problema. La sua propaganda è stata lungimirante: dopo le elezioni, chi guadagnava in peso avrebbe iniziato a guadagnare in dollaro. Come conseguenza, molti hanno “abboccato”, credendo che, nel giro di 24 ore, sarebbero diventati “ricchi”, e quindi tantissimi argentini l’hanno scelto per questo. Le persone, però, non si aspettavano le misure immediatamente prese dopo l’insediamento, valutate come una richiesta di avere pieni poteri. Oltre allo smantellamento del Welfare State, Milei mira a riassettare l’intero Paese.

Dall’Albania al Bangladesh. Storie di ragazzi e di futuro

Mohammed, Edmond, Abdul, Denis e tanti altri. Nomi di fantasia e volti veri che hanno popolato e popolano il mio mondo da quando, quattro anni fa, ho cominciato l’esperienza della tutela volontaria e tutela sociale. Avevo seguito il corso di formazione a Firenze nel 2017, spinta dagli eventi intorno a me a dare un segnale in prima persona di impegno “civile”. Dopo due anni di attesa, il tribunale di Firenze mi affida Edmond un ragazzo albanese a due mesi dal raggiungimento della maggiore età. Lui è molto riservato e sfuggente, io rimango in una dimensione di ascolto e osservazione. Attraverso lui, conosco anche il gruppo di minori albanesi e kosovari con cui vive, le altre tutrici e gli operatori della struttura di accoglienza. Mi rendo subito conto che il mio ruolo è inserito in un gioco di squadra, nel quale partecipa anche il tribunale che monitora il nostro percorso. Oltre le pratiche burocratiche, la tutela per me diventa qualcosa di più: organizziamo gite al mare, feste di compleanno o di Natale, e quasi mi dimentico che questi ragazzi hanno lasciato famiglie e povertà, e che la loro missione è riscattare un destino che sembra immodificabile. Edmond intanto ottiene il prosieguo amministrativo di 6 mesi in 6 mesi perché il giudice onorario vuole assicurarsi del suo percorso, ci sono dei nodi ancora da sciogliere. Dopo tre anni, con una grande determinazione completa il percorso per diventare parrucchiere, inserendosi con un sorriso più sicuro nel mondo degli adulti. Proseguo la mia esperienza accettando la tutela volontaria di Denis: è espansivo, solare, dinamico e attivo; la tutela si trasforma in una ricerca continua di attività creative, come lezioni di chitarra, concerti di musica.

Non ci restano che i tutor volontari

All’indomani della conversione in legge del decreto “Cutro” e del decreto 133/2023, ci siamo trovati di fronte all’ennesima risposta emergenziale ad un fenomeno strutturale. Il problema più allarmante è che le nuove disposizioni di legge minano la garanzia dei diritti umani limitando la libertà e negando l’accesso alla tutela dei migranti. Gli effetti di questo irrigidimento nella politica migratoria si vedranno anche sui minori stranieri arrivati soli: se finora hanno goduto della protezione prevista dalla L. 47/2017 (legge Zampa), oggi il governo vuole cambiare i modi di accertamento dell’età dei minori privi di documenti.
Oltre ad aver diminuito il costo giornaliero per l’accoglienza, che rende insufficienti le risorse per garantire i servizi previsti dalla legge, viene meno anche la presunzione della minore età, col rischio che un minore, erroneamente identificato come maggiorenne, possa essere espulso. Inoltre, malgrado diverse condanne della Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per il trattenimento di minori stranieri non accompagnati all’interno degli hotspot, oggi non solo si persevera nella prassi, ma viene anche normata la possibilità che minori sopra i 16 anni possano essere trattenuti nei centri per gli adulti, senza adeguate protezioni e in situazioni di promiscuità.

Mossa che vorrebbe essere giustificata dall’aumento dei flussi migratori, eppure i numeri parlano chiaro: negli ultimi due anni i minori stranieri arrivati soli sono aumentati di poche migliaia, soltanto si aggiungono al numero di quelli ancora presenti nelle comunità di accoglienza. Il collasso del sistema di accoglienza è la conseguenza di una struttura che risulta inadeguata ai bisogni; la maggior parte dei minori arrivati soli, infatti, ha già compiuto 17 anni, e un percorso di inclusione sociale richiede tempo e una particolare attenzione durante la fase di transizione alla maggiore età. Anche la Commissione europea, nel Piano di integrazione ed inclusione del 2020, sottolinea l’importanza di questo passaggio per i minori che si trovano senza un sostegno familiare e sociale, alla luce del loro percorso di integrazione. Quando il minore migrante perde la sua connotazione di minore per diventare soltanto uno straniero, viene minato il principio cardine del miglior interesse che deve guidare il percorso di autonomia in una cornice di tutela e salvaguardia dei diritti dei minorenni.

Senza famiglia né diritti

Si parte dai numeri: secondo il Viminale, solo nel 2023 sono giunti in Italia 17.319 minori stranieri non accompagnati (Msna). Un dato in crescita: nel 2022 erano arrivati 14mila, nel 2021 12mila. A fine dicembre 2023, comprendendo chi era arrivato prima e non aveva ancora un tutore legale, erano 23.226, secondo i dati del ministero del Lavoro e delle politiche sociali, tremila in più rispetto a dicembre 2022. Il 70,2% rientra nella fascia d’età compresa fra i 16 e i 17 anni e anche questo è un indice di approssimazione. Nel valutare i dati anagrafici si continua ad utilizzare, come strumento principale, la radiografia dei polsi, un parametro che ha margini di errore di due anni, determinato sulla base di quella che era la conformazione fisica della popolazione anglosassone negli anni Cinquanta. Inevitabile che tanti minorenni vengano considerati maggiorenni.

È uscito recentemente su questo tema un interessante volume, Perdersi in Europa senza famiglia. Storie di minori migranti di Cecilia Ferrara e Angela Gennaro pubblicato con Altreconomia. Tante le domande poste da questo lavoro di giornalismo investigativo: quali sono le rotte che utilizzano i minori stranieri non accompagnati per raggiungere l’Europa? Quali sono i pericoli che corrono? L’Unione europea è in grado di accoglierli e proteggerli? Ma soprattutto intende farlo? Le autrici operano con la rete di giornalisti Lost in Europe, che ormai da anni tenta di condurre un lavoro capillare in tutto il continente. «Il gruppo è nato nel 2017 – racconta Cecilia Ferrara – per l’impegno di due giornaliste olandesi, Geesje van Haren e Sanne Terlingen, che hanno cercato di capire in che maniera, all’epoca, almeno 10mila minori fossero spariti negli Stati dell’Ue, molti caduti nelle reti di sfruttamento o della criminalità organizzata, spesso fuggiti dai circuiti di accoglienza. Ci sono entrata partendo dalla sparizione di un minore eritreo poi finito in Gran Bretagna. Il gruppo è cresciuto lavorando in maniera crossborder, mettendo in connessione quanto avveniva fra i singoli Paesi. Affrontiamo storie di persone adescate da reti criminali che non conoscono frontiere e ci scontriamo con l’incapacità degli Stati di andare oltre i propri confini per agire in maniera unita».

Vita tua, vita mea

Fatti non foste a viver come bruti/ ma a perseguir virtute e conoscenza.
Questo dice Ulisse a Dante nel canto XXVI dell’Inferno. La realtà umana più vera sarebbe quindi quella di perseguire la conoscenza, di inseguirla, di cercarla, è la realtà della ricerca. La sete di conoscenza inesauribile, per le cose del mondo e per la realtà umana. Ulisse, l’eroe dell’astuzia e della conoscenza, si trova però collocato da Dante all’inferno. Come a dire che a realizzare la realtà umana più vera poi ci si trova puniti da dio, all’inferno, ad ardere in una fiamma eterna, bruciati come Giordano Bruno o continuamente strappati della carne come Prometeo che aveva osato rubare il fuoco agli dei. Oppure cacciati dal Paradiso terrestre per aver osato infrangere il divieto di sapere del bene e del male ovvero del buono e del cattivo. Poter distinguere, poter usare la propria sensibilità umana, non divina, per decidere se una realtà, umana o non umana, è qualcosa di buono oppure no, qualcosa da accettare, con cui avere rapporto, oppure qualcosa da allontanare da sé, da rifiutare.
I poeti e gli artisti raccontano da sempre, con le loro opere e la loro vita, che la realtà umana più profonda è quella di cercare la conoscenza. E però, spesso anche se non sempre, ci hanno anche detto che questa ricerca si rischia di pagarla con la vita o con la malattia mentale. Non sarebbe concesso agli esseri umani di poter conoscere senza pagare duramente la ricerca e la conoscenza.
Conoscere ciò che ancora non si conosce, comprendere, seguire quella sapienza innata negli esseri umani di cercare lo sconosciuto avendo una fiducia istintiva, senza ragione, negli altri.

Avere la certezza che ci sia qualcuno simile a noi, un altro essere umano come noi ma diverso, che ci dia quella conferma che la nostra sete di conoscenza possa essere colmata, che possa realizzarsi come sapere e vedere, come aumento della propria sensibilità, un sentire e sapere dell’altro anche senza parlare.
È possibile non pagare il pegno della cacciata dal paradiso per aver morso la mela della conoscenza, del saper distinguere il bene dal male? È possibile non pagare il pegno di credere al peccato originale e di pensare che non c’è possibilità di reale conoscenza e rapporto con gli altri?
È possibile non credere alle stupide favole della Bibbia e scoprire che non tutte le storie che iniziano male devono finire male…

Prevenire la violenza, fin dai primi segnali

Si parla di violenza di coppia in adolescenza, di Teen dating violence. Bene, perché in genere si conosce la violenza nelle coppie adulte ma quella dei ragazzi rimane in un mondo di sospensione che la rende pressoché inesistente. Invece c’è, se in un campione di 800 giovani italiani fra i 14 e i 18 anni più della metà ha vissuto nella relazione sentimentale comportamenti e atteggiamenti lesivi per la propria salute psichica e fisica. Lo dichiara un sondaggio diffuso da Save the Children assieme alla campagna social dall’hashtag Chiamala violenza.
Parole efficaci per portare i ragazzi a distinguere i rapporti validi da quelli che sono invece pericolosi. La violenza si può vedere e chiamare per nome. Non solo quella visibile nel comportamento, ma anche quella nascosta in credenze e stereotipi e quella del tutto invisibile che si manifesta nel malessere dell’altro, ossia una violenza non cosciente che, esprimendosi come pulsione al di là del comportamento, può annullare, negare, sminuire, imbruttire la realtà psichica dell’altro e lederne l’identità (Fagioli, 1972).

Per nominarla occorre però riconoscerla e in questo senso colpiscono i dati per cui la gelosia (30% degli intervistati) e la condivisione della password dei social (21%) sarebbero interpretati come prova d’amore. Preoccupa l’adolescente che, invece di muoversi nella naturale e complicata esplorazione del rapporto sentimentale, scivola in dinamiche violente, confondendo la premura con la prepotenza e il gesto d’amore con la possessività. Accade che un attaccamento eccessivo sia letto come interesse e che sia quindi accettato un atteggiamento di controllo e dominio: capita di trovare ragazze per le quali inviare una foto al loro ragazzo per mostrargli come sono vestite, rimanere in casa e non uscire con gli amici per far piacere a lui e farsi controllare ogni attività sullo smartphone è normale. Non c’è consapevolezza. A questo proposito ben vengano i centri antiviolenza per giovani che intende promuovere Carla Garlatti, autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, e gli interventi scolastici auspicati dal 43% dei ragazzi. Proposte essenziali. Ma se un 65% dei giovani dichiara di aver subìto almeno un comportamento di controllo, come essere chiamato al telefono con insistenza per sapere dove si trova, e un 26% racconta che il partner ha creato profili falsi online per controllarlo, significa che non sono sufficienti interventi scolastici né centri dedicati.

Lavorare meglio, lavorare tutte

Illustrazione di Marilena Nardi

Qualche riflessione sull’attuale condizione delle donne lavoratrici nel nostro Paese, tracciando anche le coordinate di quella che è stata la faticosa attuazione dell’art. 37 della nostra Costituzione, che afferma nella sua prima parte il principio per cui «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Una disposizione con cui si era voluto al tempo reagire – segnando una svolta radicale rispetto al passato – a quello che era stato l’approccio del fascismo al tema del lavoro femminile, oggetto di numerosi interventi normativi negli anni della dittatura. Basti qui almeno ricordare che le politiche con cui il fascismo intervenne in tema di lavoro delle donne furono fortemente condizionate da diversi ulteriori obiettivi del regime: quelli demografici, in primo luogo, miranti a ricondurre le donne in seno alla famiglia quali fattrici di figli per la patria (e per i bellicosi progetti di conquista del regime, a partire da quelli coloniali); ma anche quelli strettamente economici e – potremmo dire – di “immagine”: ricacciare le donne all’interno delle mura domestiche apparve, al tempo, utile e funzionale anche all’obiettivo di contenere la disoccupazione maschile (in particolare dopo la crisi del ’29); vietando tutta una serie di occupazioni ed introducendo divieti di assunzione, o addirittura imponendo il licenziamento delle lavoratrici, il regime perseguì infatti anche l’obiettivo di “liberare” posti per gli uomini e di presentarsi, nello scenario internazionale, come un Paese che meglio di altri conteneva la disoccupazione (non venendo conteggiate le donne espulse dal lavoro e ricondotte ad un ruolo esclusivamente familiare tra i disoccupati).

Quale fosse l’ideologia del fascismo in merito alla posizione della donna nella società e nel lavoro emerge bene da queste parole di Ferdinando Loffredo, che possiamo leggere in un volume assai celebrato all’epoca: «La indiscutibile minore intelligenza della donna ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito … Il lavoro femminile crea nel contempo due danni: la “mascolinizzazione” della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito … ; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe» (Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, 1938).

Teresa Manente (Differenza Donna): Un no è un no

«Manifestiamo l’8 marzo a Bruxelles, non ci arrendiamo», dice l’avvocata di Differenza Donna, Teresa Manente dopo lo stravolgimento della direttiva europea stilata nel marzo 2022 che obbligava gli Stati membri a legiferare in tema di stupro giudicando reato ogni atto sessuale senza il consenso della donna. «Stiamo organizzando un movimento internazionale che metta in rete i movimenti di donne spagnole, tedesche, svedesi dove le leggi sono più avanzate, ma anche polacchi e ungheresi dove i diritti delle donne sono maggiormente attaccati dai rispettivi governi», rilancia l’avvocata dell’associazione che dal 2020 gestisce il numero nazionale antiviolenza 1522.
«Questa alterata direttiva Ue sulla violenza sulle donne non deve passare – rimarca anche Linda Laura Sabbadini, già direttrice Istat e Chair W20 2021-. Si dovrà votare a marzo-aprile nel Parlamento europeo, ma chiediamo di fermarla perché snatura la stessa Convenzione di Istanbul, facciamo un appello a tutti i gruppi dell’Europarlamento affinché venga fermata questa versione della direttiva che fa tornare indietro le donne». Qual è il punto cruciale? Così lo spiega Manente che il 9 marzo interviene all’incontro “Il politico è personale” organizzato a Roma da Cassandra D, con altri: «Il punto è che dall’articolato della direttiva, vincolante per i Paesi Ue, sono stati espunti passaggi essenziali per la lotta alla violenza di genere. In primis, la questione è che un no è un no e deve essere riconosciuto anche se la donna è partner o moglie. Il silenzio non equivale a un assenso, perché non sia stupro ci deve essere un assenso chiaro da parte della donna». Tornare indietro rispetto a tutto questo significa negare 30 anni di nostre battaglie, denuncia Teresa Manente. E aggiunge: «Non è un caso che vadano a colpire e a cancellare proprio l’articolo sullo stupro che è uno dei reati più gravi che la donna possa subire, perché è la negazione del rapporto uomo donna, è la strumentalizzazione del corpo della donna».

Venti anni di lotta per i diritti di tutti

Sono passati 20 anni dall’approvazione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. E ricordiamo i tanti divieti cancellati dalla Corte costituzionale e, soprattutto, io voglio ricordare i divieti ancora da rimuovere. Spesso mi chiedono chi ricordo di più tra le tante coppie che ho seguito e per quale motivo. Non dimenticherò mai Alberto e Neris, il piccolo Pietro che ormai è grande e la piccola Beatrice che non c’è più. Alberto e Neris si sono sposati nel 2001 e come tante persone che si amano avevano immaginato la loro famiglia con dei figli. Dopo la nascita di Beatrice, nel 2003, erano felicissimi ma solo dopo pochi mesi hanno scoperto che Beatrice era affetta dall’atrofia muscolare spinale di tipo 1. Una malattia terribile e di cui Albero e Neris erano portatori. Non lo sapevano, non avrebbero mai potuto immaginare che quelle prime difficoltà motorie avrebbero condannato la loro bambina a morire per soffocamento. L’atrofia muscolare spinale (Sma) identifica un gruppo di malattie neuromuscolari ereditarie che interessano le cellule nervose, chiamate motoneuroni, destinate al controllo dei movimenti dei muscoli volontari. Queste malattie causano la degenerazione e la morte motoneuronale con la conseguente inarrestabile paralisi amiotrofica di tutta la muscolatura scheletrica. La Sma 1 è la forma più grave e con la sua incidenza di circa 1 caso su 6mila nati vivi costituisce oggi la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita.

Sono colpiti i muscoli scheletrici del tronco e degli arti. In generale quelli più vicini al centro del corpo sono i più colpiti rispetto a quelli più distanti e con maggiore interessamento dei muscoli della bocca e della gola e quindi con maggiori problemi nella masticazione e deglutizione del cibo. Anche i muscoli respiratori sono coinvolti. La malattia è incurabile. I bambini si ammalano entro i primi sei mesi di vita, non riescono a mantenere la posizione seduta senza un sostegno e muoiono entro i primi due anni di vita per paralisi respiratoria. Beatrice è morta il 29 novembre 2003, quando aveva appena compiuto sei mesi di vita. Un dolore che rimane nel cuore e che non passerà mai per Alberto e Neris, mai. Dopo qualche anno hanno riprovato ad avere un figlio, sottoponendosi a tutte le indagini diagnostiche prenatali nel 2004. Ma la patologia è di nuovo lì e sono costretti a interrompere la gravidanza. Poi finalmente nel 2005 nasce Pietro che non è affetto dalla stessa patologia di cui sono portatori i genitori. Ma la coppia potrebbe accedere alla fecondazione assistita per chiedere di sapere, tramite indagini cliniche diagnostiche sulla blastocisti che la legge chiama embrione, se è presente quella malattia nella forma più grave.