Un anno fa, il 26 febbraio del 2023, sulla spiaggia di Steccato di Cutro morivano almeno 94 persone. 35 erano bambini. Numeri certi, anche un anno dopo, non ce ne sono. Una ventina di dispersi sono stati inghiottiti dal mare. I corpi sono stati sputati sulla spiaggia per giorni, quattro o cinque al giorno.
Un anno fa la prima reazione di questo governo a una tragedia che ha insozzato i salotti degli italiani – quindi inevitabile – consisteva nell’accusare i morti di essere partiti per morire. Poi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni con tutti i membri del suo governo è andata in gita a Cutro per inscenare un Consiglio dei ministri in favore di stampa. Sono stati accolti da peluche buttati sulle auto delle scorte come maledizione per quei cadaveri bambini. Hanno licenziato un decreto mortifero a cui hanno dato il nome del lutto, come ferali influencer della politica. La presidente del Consiglio non ha visitato le salme e i famigliari per i “troppi impegni”. Poi abbiamo saputo che quella sera c’era un importante karaoke per il compleanno di Matteo Salvini dove stonare ridanciani la canzone su una migrante annegata di Fabrizio De André.
Ai familiari dei sopravvissuti Meloni aveva promesso canali umanitari e lo status di rifugiati. Promessa mai mantenuta. Il “decreto Cutro” non ha rispettato i morti e ha aumentato il sabotaggio nei confronti dei vivi.
In piazza del Popolo a Cutro c’è una scultura dell’artista Antonio Tropiano. È una mano che esce dall’onda e tiene il lembo di un’imbarcazione. Si chiama Symbolon che deriva dal verbo “symballo” che significa “unire”, ma anche soccorrere, aiutare. Filoxenia, ossia l’amore per lo straniero: è con questo termine che si definiva il valore sacro dell’ospitalità, quel principio etico fondamentale della cultura greca che distingueva l’uomo giusto dall’iniquo.
foto della manifestazione di Milano di Nicola Brescacin
Da piazzale Loreto a piazza Cairoli: a Milano, nel ventesimo sabato dall’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, la manifestazione nazionale lanciata dai giovani palestinesi, per chiedere l’immediato cessate il fuoco in Palestina. Più di cinquantamila persone, secondo i promotori, quindicimila per la Questura, in un gioco di numeri che che sembra voglia banalizzare la potenza e la necessità di un appuntamento di questo tipo.
Quella che si è data ieri non è stato altro che una risposta forte e pacifica ai manganelli di Pisa e Firenze contro studenti inermi, un fiume in piena che ha sfilato per circa quattro ore, tra le realtà aderenti associazioni, sindacati di base e realtà antagoniste: che la risposta sarebbe stata reattiva lo si poteva immaginare già contando le adesioni e i pullman arrivati in città, circa settanta.
Ad aprire il corteo le comunità e le associazioni palestinesi, poi – scelta insolita – le sigle sindacali, a seguire le realtà studentesche e i centri sociali, tante le reti solidali che hanno voluto essere al fianco di chi la diaspora la subisce da generazioni. Una miriade di “anime”, anche molto diverse tra loro, che ha come sentire comune quello di rompere la narrazione a senso unico che capeggia nel dibattito pubblico e politico nazionale.
«Con la resistenza palestinese, blocchiamo le guerre coloniali e imperialiste», recitava lo striscione d’apertura scritto in italiano e arabo, interdetto invece il centro storico e negato l’arrivo in piazza Duomo. Ovunque bandiere della Palestina, «un sasso qui, un sasso là, intifada pure qua», è uno degli slogan che va per la maggiore, tra i cartelli esposti, anche alcune sagome rappresentate come “insanguinate” di politici, tra cui la premier Giorgia Melon, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i ministri Guido Crosetto e Giuseppe Valditara.
foto di Nicola Brescacin
Immagini forti, provocatorie, per invitare a riflettere sul fatto che è stato proprio il ministro dell’Istruzione sul piano culturale a indossare culturalmente il pugno di ferro del governo contro la causa palestinese, partendo direttamente dalle scuole e dall’attivismo giovanile. Già all’indomani del 7 ottobre con una decisione senza precedenti Valditara aveva disposto l’invio di ispettori in due istituti scolastici meneghini – l’Educandato statale Setti Carraro e il liceo Manzoni -, auspicando addirittura l’arresto degli studenti che manifestavano il loro sostegno alle azioni intraprese dalle sigle della resistenza palestinese, giustificandola come lotta contro l’«antisemitismo». Un pugno di ferro usato poi fattivamente dalle forze dell’ordine a Pisa, come Firenze e Catania.
Milano ha risposto anche a questo, attraverso la voce dello spezzone studentesco, che ha rivendicato le decine di occupazioni che ci sono state nelle università italiane e che sollecita per l’ennesima volta la rottura dei tanti accordi che gli Atenei hanno con aziende israeliane coinvolte in questa guerra.
Associare quello che sta succedendo a Gaza e in tutta la Palestina al termine genocidio non è più un tabù, e non solo perché è stato detto sul palco di Sanremo, ma anche e soprattutto grazie alle tante mobilitazioni che hanno costellato la Penisola e il mondo intero in questi mesi.
Difficile negare che le responsabilità del governo italiano siano sempre più evidenti: dall’aumento delle spese militari fino alla leadership della missione militare europea nel Mar Rosso, il governo Meloni sta indirizzando il suo operato proprio nell’ottica di una continua escalation militare.
A parte, quindi, poche azioni estemporanee, il corteo si è svolto in modo tranquillo. Rimane però la gravità della sua espulsione dal centro, della sua sotto rapresentazione dai grandi media, della rimozione delle sue ragioni da parte della cultura accademica. Questa estromissione, questo divieto di accedere al centro della vita pubblica, reale e figurato, è qualcosa che colpisce non solo un corteo. La reazione davanti alle piazze che denunciano ciò che succede in Palestina è qualcosa che mostra come interi pezzi della società italiana siano silenziati e censurati. I continui inviti a “fermare il genocidio” sono stati il leitmotiv della giornata, “oggi Milano è di nuovo palestinese”, è stato detto dal camion in apertura, spiegando di essere scesi in piazza per “esistere e resistere”.
Il corteo si è concluso in Largo Cairoli, dove il monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi è stato spontaneamente “invaso” da decine di persone che sventolavano la bandiera palestinese. A vederla, è stata una risposta forse più d’impatto alle vergognose manganellate del giorno prima a Pisa e Firenze, la rivendicazione più immediata di un legittimo diritto a manifestare il crescente dissenso contro le politiche genocide di Benjamin Netanyahu, che il giorno prima è stato brutalmente negato.
Foto della manifestazione di Milano di Nicola Brescacin
Sono le cinque di una mattina di novembre. Il mio autobus raggiunge il suo approdo, la stazione di Kyjv, nel profondo della notte. Qualcuno mi accoglie e mi accompagna a un albergo, a pochi passi nel centro di una città che dovrei conoscere bene. Sono passati più di trent’anni da quando, nel 1990, vi avevo messo piede per la prima volta. Ci sono tornato spesso nel corso degli anni, ma questa volta è diverso. Non avrei mai immaginato che quella città sarebbe diventata l’epicentro di una guerra che si combatte accanitamente ormai da due anni.
Per motivi di sicurezza la camera dell’albergo dove vengo alloggiato è senza finestre, ma dal momento che è notte e che non ho quasi chiuso occhio durante il lungo viaggio (l’autobus partito da Varsavia ci ha messo dodici ore), quasi non me ne accorgo. Al risveglio mi rendo conto di trovarmi in una specie di accogliente bunker. La poliziotta a cui avevo presentato il mio passaporto nel cuore della notte, dopo aver verificato la corrispondenza tra la foto e la mia faccia assonnata, mi aveva rivolto un sorriso eloquente e un po’ sorpreso, come a dire: “ma come ti viene in mente di venire qui?”. E in effetti al risveglio nella stanza buia me lo chiedo anche io. Qualcuno bussa e lascia sul tavolo un vassoio con la colazione. Per fortuna da qualche giorno l’allarme antiaereo tace e la situazione sembra relativamente tranquilla, ma comunque, mentre lascio la chiave della mia stanza, una donna alla reception mi mostra la porta del rifugio antiaereo. Comincia così la mia prima giornata di questo breve soggiorno, per fortuna senza particolari incidenti, nella capitale di un paese in guerra.Mi aspettano a un rinomato ristorante al centro a pochi passi dal celebre Majdan e non molto lontano dal mio albergo. Così ho l’occasione di passeggiare per i viali del centro verso quello che è il cuore della città e di tutto il paese. Nell’aria si avverte una strana atmosfera. A pochi metri dal portone dell’albergo si vede ciò che rimane di un edificio colpito l’anno scorso da un missile: una parete e una porta, che appare proprio come una scenografia teatrale, a cui però manca il pavimento (tuttavia è ancora possibile immaginare una scena di vita quotidiana che si è svolta lì fino a pochi istanti prima dell’esplosione). Ciò malgrado le strade sono piene di gente di tutte le età.
Si incontrano anche uomini in mimetica, ma non così come ci si aspetterebbe dalla capitale di un Paese in guerra. La metropolitana, che funziona anche da rifugio antiaereo, è aperta. Anche gli edifici “istituzionali”, i ministeri, il Parlamento (la “Verhovna Rada”), non appaiono danneggiati. Se non fosse per i cartelloni che incoraggiano gli abitanti di Kyjiv ad arruolarsi e che tappezzano i viali della città, sembra quasi che la guerra non ci sia. Evidentemente salvaguardare il centro nevralgico dello Stato è stata una priorità del governo ucraino. Kharkiv, la seconda città ucraina, che si trova a soli quaranta chilometri dal confine con la Federazione Russa, invece è diventata una città spettrale – così almeno mi raccontano amici che provengono da lì e che sono dovuti andare via – con i palazzi del centro ridotti in macerie. Qui invece sono state installate le migliori difese antiaeree di cui l’Ucraina dispone e solo per questo motivo la vita prosegue nei binari di una apparente normalità.
La differenza che noto rispetto ai miei precedenti soggiorni nella capitale ucraina è la prevalenza della lingua ucraina su quella russa. Per le strade si sente parlare ucraino molto più frequentemente. Le ragioni sono ovvie ma vale la pena spendere qualche parola per inquadrare meglio la problematica. Quando per la prima volta misi piede a Kyjiv, che allora era solo una città dell’Unione Sovietica (capitale di una Repubblica Sovietica, paragonabile al capoluogo di una regione autonoma), il russo era la lingua prevalente; parlava ucraino chi proveniva dalle regioni dell’Ucraina occidentale e dalle campagne dell’Ucraina centro-orientale. In ogni caso si può dire che la quasi totalità degli abitanti dell’Ucraina sovietica comprendevano il russo. In sostanza in Ucraina hanno sempre coesistito diverse lingue, tra cui il russo e l’ucraino (in passato anche l’iddish e il polacco). Nella vita quotidiana degli abitanti di queste regioni la lingua non ha mai costituito un problema. Mi è capitato spesso di assistere a dialoghi tra persone che parlavano due lingue diverse (il russo e l’ucraino) e che si comprendevano senza alcun problema, dal momento che almeno uno dei due interlocutori comprendeva anche l’altra lingua. Ma una delle conseguenze dell’aggressione da parte della Federazione Russa del 24 febbraio del 2022 è stata la fine della “pacifica coesistenza” tra il russo e l’ucraino.
Tra l’altro a soffrire le peggiori conseguenze dell’invasione sono state proprio le regioni in prevalenza russofone dell’Ucraina orientale, ridotte in macerie dai continui bombardamenti. In ogni caso è fin troppo chiaro che non sono motivi linguistici alla base della decisione di invadere l’Ucraina. Tra l’altro, passeggiando per i viali di Kyjiv, sento parlare anche il russo (seppure meno frequentemente di qualche anno fa), specialmente da anziani (e la cosa non provoca alcuno scandalo o sensazione); invece i giovani a Kyjiv studiano e parlano quasi tutti un discreto inglese. Infatti quando arrivo all’appuntamento i ragazzi e le ragazze dell’organizzazione che ha invitato me, insieme a una piccola delegazione internazionale, mi dà il benvenuto in inglese. Nella piccola comunità internazionale di “hipster” della quale faccio parte si opta per questa “lingua franca”, che ormai bene o male tutti masticano, me compreso. Sono l’unico del gruppetto che conosce anche alcune misteriose, esotiche e inutili lingue slave (russo, ucraino e polacco), forse una gradita sorpresa per il comitato organizzatore, ma più che altro una bizzarria.
Ci hanno preparato un programma nutrito di visite e incontri con artisti e, più in generale, con altri giovani “hipster” locali. In questi incontri con la comunità locale dei “creativi” nessuno parla volentieri della guerra. Si cerca, nei limiti del possibile, di dimenticarla.
Ma la presenza della guerra si percepisce, insieme a un certo pudore nel mettere a nudo le cicatrici che sta lasciando nell’interiorità e nella memoria di tutte le persone, giovani e vecchi, uomini e donne, l’infausta data del giovedì 24 febbraio 2022. Un singolo giorno nel quale tutto è cambiato per tutti. Non è la prima volta che accade una cosa del genere. Era già successo, ad esempio, il sabato del 18 luglio del 1936, il giorno in cui un esercito golpista tentò di rovesciare il governo repubblicano in Spagna e che segnò l’inizio della Guerra civile spagnola (molte sono le analogie con quel fatto storico: come allora, i vertici militari che avevano pianificato l’azione inizialmente contavano su un rapido esito positivo).
Oppure pensiamo a tre anni dopo, il venerdì 1 settembre del 1939 con l’invasione della Polonia da parte delle truppe della Germania nazista e, due anni più tardi, la domenica del 22 giugno del 1941, quando ebbe inizio l’invasione dell’Unione Sovietica (come allora, anche in questo caso l’errore di avere lanciato le truppe su troppi obiettivi strategici nello stesso tempo determinò il mancato raggiungimento dello scopo principale: l’annientamento dello stato invaso da parte dell’esercito invasore). In un solo giorno, quel fatale giovedì, l’orizzonte esistenziale di milioni di persone, costrette ad accettare la possibilità concreta di perdere i propri cari o di finire sepolti vivi sotto le macerie della propria abitazione, è cambiato in modo radicale.
Da quel giorno siano passati ormai due anni, ma le persone con cui entriamo in contatto e con cui riusciamo a parlare, quando ci raccontano di quell’esperienza, tradiscono, anche senza volerlo, il trauma e la paura vissuti in quei giorni. Nel corso dei mesi successivi, col passare del tempo, la guerra si è trasformata in un dato di fatto, un elemento del paesaggio, come una catena montuosa, o meglio, come un fiume, che continua a colpire, strappare e trascinare via vite umane con la sua forza cieca e inarrestabile. Ma per noi che veniamo da paesi Ue questa non è la nostra “normalità” e dobbiamo fare una certa fatica ad ambientarci.
Durante il nostro breve soggiorno la città è stata risparmiata dai bombardamenti, ma col passare dei giorni ci rendiamo conto che la guerra è ovunque. Ce la ricordano le foto in memoria dei soldati morti al fronte sui muri, i traumi legati a ricordi vissuti direttamente dalle persone, che dalle regioni più colpite sono approdati nella capitale, dove le difese antiaeree garantiscono bene o male la possibilità di condurre una vita quasi “normale”. La tecnologia e gli aiuti dei paesi “occidentali” sono stati e continuano ad essere vitali per garantire questa fragile “normalità”. Comunque la si pensi, non si può negare che è grazie ai sistemi di difesa anti-missile Patriot se i palazzi del potere della capitale dell’Ucraina sono ancora in piedi e se i danni alle infrastrutture della città sono limitati. Inutile pensare che il Paese aggressore, dotato di un arsenale infinitamente più grande del Paese aggredito, a un tratto, di sua spontanea volontà, cesserà le operazioni militari senza avere raggiunto il suo obiettivo (l’annientamento del “nemico”).
I recentissimi sviluppi, ma anche il massiccio bombardamento delle maggiori città dell’Ucraina, tra cui la capitale, del 29 dicembre 2023 (si stima siano stati lanciati 110 missili in una sola notte) ne sono una triste dimostrazione. Dopo 24 mesi di conflitto bellico, la legittimità della guerra rappresenta una pura (e inutile) astrazione. Mi sono chiesto e ho domandato ai miei interlocutori locali se questa guerra sia l’ultima del secolo appena trascorso oppure la prima del nuovo secolo. Ma mi sono subito reso conto quanto fosse ridicola una distinzione di questo genere. Anche le bombe e i missili del secolo scorso uccidevano, allo stesso identico modo di quelli del nuovo secolo (in effetti, anche se una buona parte dell’armamento dell’esercito invasore è obsoleto, ha svolto e continua a svolgere il suo compito egregiamente).
La guerra non è un esercizio filosofico, ma possiede una sua agghiacciante logica. E questa, che probabilmente verrà ricordata come “la guerra dei droni”, giocattoli che si possono acquistare liberamente anche in ogni autogrill e che, opportunamente modificati, possono anche distruggere un carro armato, somiglia vagamente a un letale videogioco, ma non si differenzia in modo sostanziale dalle altre.
Durante il nostro soggiorno ci portano a visitare Irpin’, una paese a nord-ovest della capitale a soli otto chilometri di distanza. Lì nel mese di marzo del 2022 si è svolta una importante battaglia. L’esercito della Federazione Russa l’aveva occupata e saccheggiata (la spoliazione di negozi e appartamenti era una pratica diffusa e praticata senza alcun freno da parte delle truppe di occupazione nei primi mesi della guerra), ma dopo poche settimane gli ucraini sono riusciti a liberarla. Si stima che durante l’evacuazione della città, che conta poco più di 60mila abitanti, siano caduti 200 civili (le operazioni erano complicate anche dall’interruzione di strade e ponti per fermare l’esercito invasore). Questo è il punto più vicino alla capitale dove sono arrivati gli invasori, a soli dieci minuti dalla sua periferia.
C’ero capitato molti anni fa, nei primi anni Novanta, poco dopo la proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina (1991), Era una cittadina circondata da un bosco, bagnata da un fiume da cui prende il nome e nota per la sua aria più salubre rispetto a quella della capitale. Collegata da un trenino elettrico, era abitata perlopiù da pendolari. Prendevo anche io quel trenino elettrico per andare a Kyjiv e ricordo le facce tristi dei viaggiatori infagottati (all’epoca in autunno faceva molto più freddo), i mendicanti e gli strilloni che passavano in continuazione. L’Ucraina era un paese da inventare, nel quale ci si arrangiava. I negozi si erano riempiti ma la merce era decisamente troppo cara per lo stipendio di un insegnante o di un qualsiasi impiegato e l’inflazione si divorava i risparmi.
La situazione nel corso degli anni Novanta è gradualmente migliorata, ma quando sono arrivato a Irpin’ avevo ancora in mente i lontani ricordi di quegli anni difficili. In città sono ancora evidenti i segni della battaglia, le macerie annerite dagli incendi e le tracce delle esplosioni sull’asfalto. Ma si vedono anche i segni della rinascita: i cantieri della ricostruzione, i bambini che giocano nel parco pubblico. Il panorama che mi offre oggi la città, malgrado tutto quello che è successo, è sicuramente molto più vivace e allegro di trenta anni fa. Già prima della guerra la città, avendo accolto molti abitanti della capitale in cerca di pace e di aria pulita, si era rinnovata e ingrandita. Anche per questo oggi la ricostruzione procede piuttosto speditamente. Ma se nel 2022 l’esercito invasore avesse superato questa città e avesse puntato sulla capitale, a soli otto chilometri da qui, senza incontrare ostacoli, forse lo scenario oggi sarebbe completamente diverso. Probabilmente sia questa sia la capitale si sarebbe trasformata in una città-fantasma, al pari di quelle “conquistate” dall’esercito invasore, trasformate in un deserto di macerie.
L’assurdità di questa guerra oggi risiede proprio in questo: le risorse spese dai due eserciti hanno raggiunto cifre colossali, tali da non essere più comparabile con il valore delle risorse dei territori contesi. I vertici politici e militari, nel pianificare la cosiddetta “operazione militare speciale”, di certo avranno soppesato costi e benefici di tale impresa e con ogni probabilità avranno ritenuto che il guadagno sarebbe stato maggiore rispetto alle eventuali perdite. Ma già dopo il primo anno di guerra questo calcolo si è rivelato completamente errato. Le risorse economiche bruciate da parte degli invasori sono state di proporzioni talmente colossali, che nemmeno una vittoria militare, nella realtà per nulla semplice o scontata, avrebbe potuto ripagarle ed il prolungato conflitto bellico ha completamente distrutto ogni risorsa nei territori contesi. Si combatte accanitamente da mesi per città già rase al suolo. Ma a questo punto è entrata in gioco una logica che non è economica, ma puramente militare. Non importa il costo, ma la vittoria a ogni costo.
E tutto ciò mi porta a una amara conclusione: finché le circostanze giocheranno a favore del Paese invasore, si andrà avanti. L’arsenale della Federazione Russa non comprende solo una pressoché illimitata disponibilità di armamenti (di sicuro molto superiore a quelle di cui può disporre l’Ucraina), ma anche un grande apparato industriale interamente dedicato alla produzione militare, un sistema educativo nel quale ai bambini fin dall’asilo vengono inculcati i valori dell’eroismo militarista e la retorica della necessità del sacrificio della vita per la patria. A ciò si aggiunga l’impegno del Patriarcato di Mosca, schierato senza alcuna remora a servizio dell’esercito invasore e della retorica militarista del Cremlino, che promette un posto in paradiso ai soldati morti in battaglia e i mass-media, sotto il saldo controllo dei vertici al potere, nei quali è imperante la narrazione della guerra giusta, necessaria e necessariamente vittoriosa. Questo apparato, così coeso e compatto, può contare su cospicue risorse economiche che derivano dai proventi delle vendite delle risorse naturali, principalmente gas e petrolio.
Dal mio faticoso ritorno in Italia (un treno notturno fino al confine polacco, due treni in Polonia e un aereo) sono passati poco più di due mesi. Anche se la sua presenza su giornali e televisioni da mesi è “oscurata” da altri conflitti bellici, la guerra in Ucraina continua. Da qualche mese abbiamo festeggiato l’arrivo dell’anno nuovo. Anche lì da loro, malgrado le sirene dell’allarme antiaereo fossero risuonate nei giorni appena precedenti, mentre alla televisione passavano le immagini dei pompieri che scavano tra le macerie per soccorrere le vittime del più intenso bombardamento missilistico dall’inizio dell’invasione, la gente ha cercato di strappare qualche ora di svago, augurandosi un anno migliore di quello appena finito. Ma la pace è ancora una chimera. Per ora di certo sappiamo solo che questa, come tutte le altre guerre che l’hanno preceduta, un giorno finirà.
Questo testo è l’introduzione al libro di Left “Ucraina senza tregua” curato da Lorenzo Pompeo con contributi di Domenico Gallo, Pier Giorgio Ardeni, Mao Valpiana, Pino Ippolito Arminio, Gregorio Piccin, Andrea Ventura, Manuela Petrucci, Jean Leonard Touadi e molti altri
Sembra di essere tornati ai bruttissimi tempi del G8 di Genova. A farne le spese i liceali di Pisa, anche quindicenni, disarmati e pacifisti, rimasti sotto choc per la carica della polizia che hanno subito. Sono sotto choc sia i ragazzi che hanno subìto le violenze, sia gli altri che vi hanno assistito. Altro che Assassin’s Creed ragazzi! I millenials hanno visto le cariche dei celerini solo in qualche film. La polizia violenta non è polizia, è repressione. Non sono forze dell’ordine, sono l’ordine delle forze. Dal governo al manganello il passo è diventato breve, brevissimo.
Le immagini, sotto gli occhi di tutti, rimarranno una pagina buia nella storia della città: quei ragazzini e quelle ragazzine che manifestano davanti al Liceo artistico Russoli, in via San Frediano a Pisa, manganellati a casaccio, spintonati a terra e di nuovo picchiati. Altri fatti sdraiare a terra a pancia sotto con le mani dietro la schiena.
Certo, purtroppo è già successo altre volte, troppe: l’anno scorso alla Sapienza il 17 giugno 2023 quando gli studenti protestarono contro il convegno di Fratelli d’Italia e furono violentemente manganellati; a Palermo il 23 maggio 2023 per il corteo alternativo (e autorizzato) in onore del giudice Giovanni Falcone assassinato dalla mafia; a Torino due volte questo inverno all’Università: la seconda, il 6 dicembre scorso, venne colpita anche una costituzionalista, la docente Alessandra Algostino in strada insieme ai suoi studenti. “Cariche a freddo, a presidio concluso” è stato il commento di chi c’era. L’ultima, solo pochi giorni fa, i manifestanti che sostenevano lo “stop al genocidio” del rapper Ghali, picchiati davanti alla Rai di Napoli. E ora Pisa.
Colpisce stavolta la strategia mirata della polizia: chiude con una camionetta l’uscita della strada e dall’altra parte, ad aspettare i giovani, forze dell’ordine in tenuta antisommossa. Una trappola che ricorda gli anni Settanta.
E’ inutile battersi il petto per Navalny, celebrarlo come “eroe del dissenso”, per poi fare tutto questo in casa nostra. Ma non era la nostra… “Patria” e quei giovani i figli della nostra patria?
Una vergogna nazionale su cui non si comprende come possa non dare immediate dimissioni il ministro dell’Interno Piantedosi, non intervenga il ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, di solito loquace, e la presidente Meloni. Anche una parola del Capo dello Stato Mattarella non stonerebbe affatto. A Pisa lo scorso venerdì sera non si è andati a spasso o a cena fuori: nella piazza davanti alla Prefettura e in Piazza XX Settembre si sono radunati due cortei di cittadine e cittadini. Hanno tutti volti serissimi.
La lettera dei docenti del Liceo Russoli, Giornata di inaudita violenza davanti all’istituto scolastico :
Pisa, 23 febbraio 2024
“Siamo docenti del Liceo artistico Russoli di Pisa e oggi siamo rimasti sconcertati da quanto accaduto in via San Frediano, di fronte alla nostra scuola”. Così la lettera dei docenti del Liceo Russoli di Pisa, davanti al quale sono accaduti scontri violentissimi. “Studenti per lo più minorenni sono stati manganellati senza motivo perché il corteo che chiedeva il cessate il fuoco in Palestina, assolutamente pacifico, chissà mai perché, non avrebbe dovuto sfilare in piazza Cavalieri. Gli agenti in assetto antisommossa avevano chiuso la strada e attendevano i ragazzi con scudi e manganelli, mentre dalla parte opposta le forze dell’ordine chiudevano la via all’altezza di piazza Dante. In via Tavoleria un’altra squadra con scudi e manganelli”.
“Proprio di fronte all’ingresso del nostro liceo – proseguono i docenti – hanno fatto partire dapprima una carica e poi altre due contro quei giovani con le mani alzate. Non sappiamo se se siano volate parole forti, anche fuori luogo, d’indignazione e sdegno, fatto sta che, senza neanche trattare con gli studenti o provare a dialogare, abbiamo assistito a scene di inaudita violenza. Ci siamo trovati ragazze e ragazzi delle nostre classi tremanti, scioccate, chi con un dito rotto, chi con un dolore alla spalla o alla schiena per manganellate gentilmente ricevute, mentre una quantità incredibile di volanti sfrecciava in via Tavoleria”.
“Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi -si continua nel documento- Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento/duecento studenti scesi in piazza pacificamente: perché si è deciso di chiuderli in un imbuto per poi riempirli di botte? Chi ha deciso questo schieramento di forze, che neanche per iniziative di maggior partecipazione e tensione hanno attraversato la nostra città? Oggi è stata una giornata vergognosa per chi ha gestito l’ordine pubblico in città e qualcuno ne deve rispondere”.
L’autrice: Rossella Guadagnini, giornalista e blogger, scrive e ha scritto per diverse testate: Adnkronos, la Repubblica, MicroMega, il manifesto.
Il dibattito politico sull’autonomia regionale differenziata, cioè il Ddl Calderoli “spacca Italia” della maggioranza Meloni – Salvini – Taiani, sembra in questi giorni essersi silenziato. Non è un bene. Tra alcune settimane, infatti, prima delle europee, lo “spacca Italia”, dopo esserlo stato in Senato, sarà adottato anche alla Camera e diventerà legge.
Da quel momento, in virtù del fatto che hanno già avanzato richiesta di Autonomia regionale differenziata nel 2018/2019, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna godranno di un iter privilegiato che potrebbe vederle acquisire l’autonomia legislativa in molte materie già nel corso del 2024.
È ciò che il senatore Calderoli ha già predetto, ed i presidenti di Veneto e Lombardia, Zaia e Fontana, non si faranno sfuggire.
È ciò che sarà possibile da subito, nelle materie non vincolate ai Lep, (rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni – commercio con l’estero – professioni – protezione civile – previdenza complementare e integrativa – coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario – casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale – enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale e l’organizzazione della giustizia di pace).
Non sono insignificanti solo perché meno proposte in maniera critica all’opinione pubblica come la scuola, la sanità, l’ambiente e l’energia.
E sono anche tutte ad alto tasso di ulteriore privatizzazione e finanziarizzazione, basti pensare alla previdenza complementare e integrativa e alle banche, di “esternalizzazione” ed appalto di servizi pubblici, basti pensare alla protezione civile, così come di deleteria competizione tra regioni, basti pensare al commercio estero e ai rapporti internazionali.
C’è di più: anche singole funzioni di governo delle materie vincolate ai Livelli essenziali delle prestazioni, ora assolte da organi centrali dello Stato sulla base di leggi adottate dal Parlamento, ma che per loro natura non necessitino di Lep, potranno essere da subito devolute.
Anche la Sanità potrà essere devoluta.
Infatti, a differenza dei Lep delle altre materie, i Lea sono già previsti e già “tariffati” dal primo gennaio 2024 dalla normativa in essere, ed il finanziamento è costituito dal Fondo sanitario nazionale già definito dalla legge di Bilancio 2024.
Vari politologi e costituzionalisti del Sud segnalano, e paventano, addirittura la possibilità che le regioni del Nord, a partire da Veneto, Lombardia e d Emilia-Romagna, giungano ad accordi tra loro, possibili sulla base della normativa vigente, e costituiscano una indipendente regione del nord, almeno nelle materie sulle quali si accordano.
In Campania ed in Puglia l’opposizione a questi scenari è assurta a tale consistenza che è stata organizzata una manifestazione a Roma il 16 febbraio scorso, si è già ipotizzato il ricorso a referendum abrogativi e si preannuncia ricorso alla Corte costituzionale contro l’adozione di eventuali intese da parte delle regioni del Nord.
In tale quadro politico, fosco per gli interessi popolari e l’unità del Paese, Pd, M5s e Si Verdi sembrano non rendersi conto che “chiudere la stalla quando i buoi sono usciti”, cioè, votare contro alla Camera quando il Ddl Calderoli sarà presentato, senza aver prima mobilitato l’opinione pubblica, le regioni e le autonomie locali è da sprovveduti, quando non da correi.
Non si spiega altrimenti l’assenza di una organica ed organizzata politica di opposizione, basata sulla mobilitazione dell’opinione pubblica, delle amministrazioni regionali di Emilia-Romagna e Toscana, che ancora non si sono pronunciate con atti politici concreti a differenza di Campania e Puglia, e dei Comuni metropolitani e no, che ancora non hanno previsto efficaci iniziative di contrasto politico istituzionale, e delle opposizioni nelle regioni governate dal centro destra sia al Nord che al Centro.
In Emilia-Romagna, ad esempio, è indispensabile che la maggioranza si esprima per il ritiro in tempi utili, cioè prima che il Ddl Calderoli sia approvato anche dalla Camera dei deputati, della richiesta di autonomia avanzata nel 2018 dalla Regione, che la mette nella condizione di poter godere degli stessi privilegi di Veneto e Lombardia da subito, di essere parte, quindi, del progetto leghista e della destra per la “secessione dei ricchi”.
Come hanno già richiesto oltre 6mila elettori emiliano romagnoli con una specifica Legge di iniziativa popolare regionale.
Il messaggio sarebbe chiaro: il centro destra non si azzardi a spaccare l’Italia ed a gestire le prime devoluzioni a Lombardia e Veneto.
L’Emilia-Romagna si tira indietro e si opporrà con Campania e Puglia anche sul piano del diritto costituzionale.
È indispensabile, sia per motivi di coerenza con quanto votato in Senato, quindi di dignità politica, sia per tutelare la governabilità dei Comuni, i diritti e le remunerazioni del lavoro contro la reintroduzione delle gabbie salariali, e l’unità del Paese.
Per questo la presa di posizione deve essere corale ed immediata.
Consigli comunali, sindacati confederali e autonomi, ed Associazionismo democratico, ad iniziare da Anpi, sarebbe opportuno invitino esse stesse l’Assemblea regionale a ritirare la richiesta di autonomia differenziata, ad organizzarsi per adire alle vie costituzionalmente previste, referendum e ricorsi alla Corte costituzionale, ed a mobilitare a tal fine l’opinione pubblica.
L’autore: Gianluigi Trianni fa parte di Medicina Democratica e dei Comitati NoAD
Nella foto: frame del video di tele Romagna sulla consegna delle 6mila firme della Lip Emilia Romagna
All’ispettorato del lavoro, all’Asl e all’Inps di Nuoro stanno vagliando una vicenda spiacevole ma significativa. La racconta il giornalista Giorgio Sbordoni sul sito della Cgil Collettiva e racconta di una ragazza ventenne licenziata dopo essere rimasta incinta. Fin qui, purtroppo, nulla di nuovo rispetto a un Paese che spende grandi parole sulla denatalità ma poi fa scontare alle donne ogni gravidanza.
In questo caso però alla malcapitata lavoratrice è successo che la sua datrice di lavoro (donna) le abbia consegnato un test di gravidanza a fine turno chiedendole di usarlo nei bagni della ditta, con la stessa maldicenza di un test antidoping dopo una gara olimpica. Ad aggiungere disagio sarebbero stati anche due colleghi maschi che hanno assistito all’illegale ordine impartito.
In quel caso il test fu negativo. Volere disporre dei corpi dei propri lavoratori e esercitare un controllo di quel tipo con quelle modalità è un episodio che sembra uscito da un capitolo di Margaret Atwood.
Quando in seguito la ventenne scopre di essere incinta è facilmente immaginabile come si concluda la storia: la ginecologa dispone l’astensione anticipata dal lavoro per gravidanza a rischio per un mese, dal 18 gennaio al 25 febbraio. Il 25 gennaio la giovane si rivolge al patronato Inca Cgil per inviare la comunicazione telematica dello stato di gravidanza all’Inps e alla datrice di lavoro. Il 16 febbraio la lavoratrice segnala al sindacato di non aver ricevuto la mensilità di gennaio. Sollecita il pagamento alla datrice di lavoro che, invece, le comunica, via whatsapp, di averla licenziata per giusta causa, inviandole la comunicazione Unilav.
Secondo gli ultimi dati del Censis l’Italia continua ad essere ultima in classifica per occupazione femminile in Europa: “Il tasso di occupazione dei maschi con figli è pari all’89,3%, quello dei maschi senza figli al 76,7%”, mentre “per le donne senza figli è pari al 66,3% e per quelle con figli al 58,6%. Il divario tra il tasso di occupazione delle donne con figli e quello degli uomini con figli in termini di punti percentuali è pari in Italia a -30,7”.
Chissà che ne pensano al ministero per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità.
Il 5 maggio 1936 le truppe italiane comandate dal maresciallo Pietro Badoglio entravano trionfalmente ad Addis Abeba e l’annullamento dei grandi simboli dell’indipendenza etiope iniziò pochi mesi dopo l’occupazione. Nell’ottobre del 1936, fu smantellato il monumento a Menelik II; poco dopo cadde la statua in bronzo del Leone di Giuda, inviata a Roma e installata sul monumento ai caduti della battaglia di Dogali. Nel 1937, anche l’obelisco di Axum, sottratto ad uno dei siti più antichi e venerati della nazione, veniva eretto nella capitale italiana per celebrare il quindicesimo anniversario della marcia su Roma. Per la sua restituzione all’Etiopia, pur stabilita dal trattato di pace italo-etiope del 1947, ci sono voluti sessantuno anni di diplomazia e di pubblici appelli, fino al 4 settembre del 2008, lo stesso anno che vide il ritorno in Libia della Venere di Cirene, che era stata trasportata a Roma nel 1915.
L’obelisco di Axum e la Venere di Cirene: due casi celebri che ancora oggi alimentano, nella coscienza comune, l’immagine di un’Italia benevolmente orientata al rispetto dei popoli vittime dell’aggressione coloniale. In realtà, non è che l’infinitesima parte visibile di un patrimonio sommerso e dimenticato, accumulatosi nelle raccolte dei musei italiani con i primi viaggi di esplorazione commerciale alla metà dell’Ottocento, con i doni diplomatici, per lo più da leggersi nel contesto di rapporti condizionati dalle mire coloniali, e infine cresciuto in maniera esponenziale con i trafugamenti legati all’occupazione. Da tempo l’Etiopia rivendica la restituzione delle centinaia di oggetti preziosi e di manoscritti depredati dagli inglesi nel sacco del palazzo imperiale di Magdala, ora dispersi in varie istituzioni britanniche, tra cui il British Museum, il Victoria and Albert e la British Library, un caso che meriterebbe di essere portato all’attenzione internazionale al pari di quello dei bronzi del Benin, recentemente illuminato dalle ricerche di Dan Hicks. In Italia, nonostante l’attenzione crescente al fenomeno della decolonizzazione, la geografia, l’entità e la natura dei patrimoni provenienti dall’Africa rimangono ancora in larga parte oscure.
allestimento della mostra ai Musei Reali di Torino
L’impegno degli storici per andare alle radici profonde del colonialismo italiano, e a quelle della sua mancata o mai completa rilettura critica da parte della coscienza nazionale, ha tracciato negli ultimi decenni un fondamento che rappresenta per i musei un formidabile strumento per affrontare la sfida intorno a questi segmenti patrimoniali dimenticati. A patto che vi sia la consapevolezza del ruolo che le testimonianze materiali possono rivendicare nella costruzione di nuove idee e di nuove coscienze sociali, contro ogni ideologia estetizzante che vede nel museo una morta gora di deportazione. È la storia stessa dei musei, anch’essa intricata e dinamica, fatta di affondamenti e di riemersioni, a fornire un documento esplicito di come abbia agito la rimozione collettiva di parti significative della nostra storia nazionale. Fa da capofila il controverso destino del Museo coloniale di Roma e delle sue raccolte, ma anche l’immobilità, quando non la chiusura prolungata, di molti musei antropologici italiani, tra cui il Museo di Antropologia ed etnografia dell’Università di Torino; per arrivare alle mille strade delle collezioni civiche, dei musei diocesani e missionari, dove le raccolte extraeuropee hanno avuto, nel migliore dei casi, vita stentata, e nel peggiore, drasticamente negata. Esistono poi episodi apparentemente insospettabili, come quello dell’Armeria Reale di Torino, che già dagli anni Sessanta dell’Ottocento comincia ad accogliere manufatti provenienti dalle esplorazioni commerciali nell’Africa Orientale, per precisare man mano l’orientamento secondo le direttrici della penetrazione italiana, con vetrine dedicate all’Eritrea e alla Somalia e infine alla Libia. Anche tanti oggetti ricevuti in dono o acquistati nel corso dei viaggi compiuti dal principe Umberto di Savoia (poi re Umberto II), e da lui lasciati al castello di Racconigi, sono in ampia parte legati alle sue visite nelle colonie italiane.
«Quello oggi depositato presso musei ed istituzioni, pubbliche e private, è un materiale fondamentale per una odierna riflessione sulla nostra conoscenza dell’“Altro” e sul nostro passato coloniale». Sono parole che Nicola Labanca ha scritto nel 1992, in occasione del riallestimento della sezione coloniale del Museo della guerra di Rovereto. Sono trascorsi trent’anni ed è doveroso ammettere che ci troviamo, almeno in Italia, davanti a un bilancio di ricerche assai misero e in gran parte confinato al solo patrimonio documentario. Eppure, nonostante l’enormità delle perdite, la mostra Africa. Le collezioni dimenticate testimonia quale contributo i musei possano portare alla storia del colonialismo italiano, e ancora di più alla revisione degli stereotipi che ancora avvolgono l’immagine del continente africano nelle nostre rappresentazioni e nelle nostre coscienze.
Il caso del raro kebero etiope dell’Armeria Reale esposto nella mostra è uno tra i molti esempi possibili dell’intreccio di relazioni che legano l’Italia al Corno d’Africa. Donato dall’imperatrice Taytu alla chiesa della Trinità della regione di Debre Berhan (Shewa), riconvertito da Menelik II in dono diplomatico per Umberto I di Savoia e infine inserito da Hailé Selassié nella primissima richiesta di restituzioni presentata al governo italiano nel 1946 per il tramite dell’Ambasciata britannica. Riportarlo alla luce significa fissare per sempre un frammento di storia, con quel potere esclusivo che gli oggetti e le loro immagini esercitano sulla nostra memoria, per lungo tempo condizionata dalla propaganda coloniale.
Il progetto della mostra è maturato lentamente, anche nel contesto dell’impulso dato dal ministero della Cultura italiano alla ricostituzione del “Comitato per il recupero e la restituzione dei beni culturali” e con la nomina di uno specifico gruppo di lavoro per lo studio delle collezioni coloniali.
A Torino, il dialogo tra i Musei Reali, la direzione regionale musei e il museo di Antropologia ed etnografia ha portato all’avvio di un progetto di ricerca orientato alla “diplomazia culturale”, sfociato in un protocollo d’intesa pensato per mettere a sistema competenze e risorse per la valorizzazione delle collezioni extraeuropee. Le prime ricognizioni, condotte nel corso del 2021, hanno censito centinaia di manufatti provenienti dalle aree più diverse di quattro continenti, eredità di esplorazioni e di viaggi, ma anche di relazioni dinastiche, diplomatiche e commerciali intrattenute dai principi e dai re di casa Savoia, e dai loro rappresentanti, a partire dal Settecento.
Un patrimonio senza confini, impossibile da censire in mancanza di una strategia pluriennale di studio, di restauro e di riabilitazione, e soprattutto senza una condivisione costante con le comunità che lo hanno prodotto, nelle regioni di provenienza e in quelle della diaspora. Parallelamente, emergeva il caso peculiare dell’Africa, presente nelle collezioni dei Musei Reali con un documento d’eccezione come l’Olifante cinquecentesco della Sierra Leone, più volte pubblicato ed esposto in Italia e all’estero come testimonianza delle relazioni secolari con il continente europeo, ma anche, nel contesto che si andava sondando, segno di una coscienza ferma alla “meraviglia” dell’antico collezionismo, rigeneratasi nel gusto delle avanguardie europee che ancora alimenta tanta parte dell’apprezzamento occidentale per l’arte africana. Da questi pensieri, e dall’intenzione di aprire una pagina nuova di lavoro è discesa la periodizzazione ravvicinata del percorso espositivo, che copre il secolo che va all’incirca dal 1832, data del primo viaggio in Sudan di Antoine Brun-Rollet, savoiardo e cittadino sabaudo, al 1936, anno dell’occupazione italiana di Addis Abeba. Partendo dai profili di coloro che la propaganda coloniale definì “precursori”, il percorso esplora poi, con centocinquanta manufatti, l’identità delle collezioni legate al Congo, all’Eritrea, alla Libia, alla Somalia e infine all’Etiopia, dove la perdita dell’indipendenza è emblematicamente evocata dalla Beretta a otto colpi di Hailé Selassié. Un altro oggetto dal destino travagliato, forse razziato nel Palazzo imperiale di Addis Abeba e forse da identificare nella pistola che compare nella richiesta etiope di restituzione del 1946, accanto al kebero in argento.
La ricerca collettiva e multidisciplinare che ha portato al disegno finale della mostra si è sviluppata anche attraverso il dialogo con Lucrezia Cippitelli, da anni impegnata in progetti di decolonizzazione, e Bekele Mekonnen (1964, vive e lavora a Addis Abeba), artista concettuale, educatore ed intellettuale pubblico, che, a partire dalle collezioni torinesi, ha sviluppato per la mostra l’opera site-specific The smoking table, ispirata al tema della Conferenza di Berlino del 1884-85 e a quello della difficile ma necessaria azione di decostruzione della colonialità.
Un progetto che può documentare solo in parte il ruolo svolto da Torino nel processo coloniale, ma l’augurio è che il percorso possa proseguire nel quadro della collaborazione con studiosi e artisti africani che si è avviata, nella prospettiva di una museologia condivisa e concretamente impegnata nel dialogo e nella cooperazione internazionale.
Le autrici: Elena De Filippis (direttore regionale Musei Piemonte), Enrica Pagella (direttrice Musei Reali) e Cecilia Pennacini (docente universitaria e direttrice Museo di antropologia ed etnografia), hanno curato la mostra “Africa. Le collezioni dimenticate”
30 marzo 2023. Rispondendo alla Camera il ministro Carlo Nordio assicurava che «il reato di tortura è un reato odioso e abbiamo tutte le intenzioni di mantenerlo». La curiosità era lecita poiché alla Camera c’è una proposta di legge di Fratelli d’Italia per stravolgere il reato di tortura e incidentalmente FdI è il primo partito jn Parlamento nonché il partito guidato dalla presidente del Consiglio.
Aspettarsi uno sgambetto sul reato di tortura è corroborato anche dalle campagne elettorali di Salvini e Meloni, quando ancora si assomigliavano moltissimo prima di separarsi in recitazioni diverse. Salvini e Meloni l’abrogazione del reato di tortura l’hanno promesso a più riprese alle frange più estreme delle forze dell’ordine. Hanno incassato quei voti e devono restituire un segnale di gratitudine.
Ieri in Aula è tornato il ministro Nordio e questa volta ci fa sapere che «il governo è al lavoro per modificare il reato di tortura adeguandolo ai requisiti previsti dalla convenzione di New York». Dice Nordio che si tratta di «un problema solo tecnico», niente di che. Come se non sapessimo che mettere mano a una legge faticosamente ottenuta nel 2017 sia già un messaggio, uno spiraglio di speranza ai torturatori.
Come fa notare il presidente di Antigone Patrizio Gonnella «modificare l’articolo 613-bis che proibisce la tortura per adeguarla alle norme Onu è una truffa delle etichette» e significa aprire una sequela di richieste di sospensione di processi come quello per i pestaggi e le mattanze di Santa Maria Capua Vetere o di Reggio Emilia. Il risultato politico già c’è.
Non è una questione carceraria è una questione artistica. Potrebbe essere riassunta così la posizione di Armando Punzo, fondatore della Compagnia della Fortezza, dal nome del carcere di Volterra in cui da trent’anni si reca ogni mattina, per costruire e creare con i suoi attori detenuti.
Vita creativa che l’anno scorso, 2023, gli è valso il riconoscimento del Leone d’oro alla carriera alla biennale di Venezia. Non è una questione carceraria. Eppure Armando Punzo ha fatto per il carcere più di tanti che hanno tentato di modificare assetti e regole del mondo penitenziario. Armando Punzo è stato al Piccolo Strehler di Milano con il suo spettacolo Naturaee i suoi artisti detenuti, circa quaranta. Era lì per dare vita a una fantasmagoria di colori, di suoni, di immaginari, per dire che l’uomo Felix è possibile costruirlo oggi, adesso, non in un’utopica terra del domani.
Assistere a Naturae è come assistere a uno splendido sogno fatto di armonia, di gioia, in cui è possibile credere a un’età dell’oro non collocata in un ipotetico passato, ma oggi, nel presente, nella vita di tutti giorni.
Armando Punzo, “Naturae”, Piccolo Strehler, foto Stefano Vaja
Sul palco una colata di sale che rimandava alle Saline. Luogo vicino a Volterra dove negli anni passati è stato rappresentato lo spettacolo Naturae. Lo sfondo è anche esso bianco, quadrettato come carta millimetrata, per una scena abbagliante. A scena aperta Armando Punzo vestito di nero, con i suoi capelli grigi e la sua figura segaligna, si muove con un sorriso. A poco a poco dispone i suoi personaggi sulla scena che si popola progressivamente di felicità, di attori, di sogni, di musica. Elemento essenziale del tutto è proprio la musica originale di Andreino Salvadori che sa essere evocativa, suggestiva, e trasporta come in una trance ipnotica in un sogno felice. Ma non è soltanto la musica a creare questo effetto, a questa felice epifania contribuiscono anche i costumi e il trucco, fatti di semplicità, di bellezza, di sognante freschezza.
A dominare non è più il canone shakespeariano, che da sempre rappresenta le malefatte degli uomini, i suoi umori neri. A governare il tutto è la fiducia nell’uomo e nella sua forza rigeneratrice, è l’homo felix che Armando Punzo si ostina a inseguire, a costruire, a rincorrere. Ma quello di Armando Punzo non è soltanto un sogno, se è stato capace di trasformare il carcere di Volterra insieme ai suoi attori e alle autorità penitenziari, da luogo di esclusiva pena a luogo d’arte, di ricerca. Che presto darà vita al primo teatro stabile in carcere, aperto alla cittadinanza.
L’uomo Felix di cui ci parla Armando Punzo non è domani è oggi.
Che la sua non sia soltanto velleità ma costruzione, lo si evince anche confrontando i dati nazionali forniti da Associazione Antigone, con i dati della specifica realtà di Volterra dove opera Armando Punzo.
Il rapporto dell’associazione Antigone del 2023 fornisce questi dati.
«A fronte di una capienza ufficiale di 51.249 posti, i presenti nelle nostre carceri al 30 aprile erano 56.674. … Secondo i dati pubblicati dal Garante nazionale, sono state 85 le persone ad essersi tolte la vita all’interno di un istituto penitenziario nel corso dell’anno, una ogni quattro giorni. … Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Oms (risalenti al 2019), il tasso di suicidi in Italia era pari a 0,67 casi ogni 10mila persone. Mettendo il dato in rapporto con quello relativo al carcere, vediamo come negli istituti penitenziari i casi di suicidio siano 23 volte superiori rispetto ai suicidi in libertà». È altissimo il consumo di psicofarmaci tra la popolazione detenuta, per poter resistere a un tempo dilatato, a un tempo inesistente, a un tempo privo di contenuto come è quello carcerario. Ma a Volterra non ci sono suicidi, il consumo di psicofarmaci è pressoché nullo, e le celle sono singole. Quindi non ci sono fenomeni di sovraffollamento. È un’isola in cui l’affermazione dello Stato non passa attraverso la vendetta effettuata sulla sua popolazione più fragile. Passa attraverso possibilità trasformative ed evolutive, attraverso l’arte e il bello, come impegno quotidiano, come richiamo alla parte più pura di ognuno di noi.
Backstage “Naturae”, foto di Gianfranco Falcone
Allo Strehler sono arrivato alle dieci del mattino. Ho passato con gli attori detenuti l’intera giornata. Il backstage è sempre uno dei momenti più poetici del teatro. All’ingresso mi aspettavo controlli severi, di dover lasciare il cellulare, la carta d’identità. Invece era tutto molto fluido, molto libero. Tutto e tutti erano consegnati a un individuale responsabilità. I detenuti circolavano tranquillamente per il teatro preparandosi alla rappresentazione. Armando Punzo insieme ai suoi collaboratori, all’assistente alla regia Alice Toccacieli, al compositore della colonna sonora, riguardava video della sera precedente, correggeva, commentava per cercare la perfezione. Anche la posizione di un vaso diventava oggetto di discussione. Perché da quello dipendevano i movimenti degli attori, i tempi scenici.
Non è una questione carceraria è una questione artistica. E inevitabilmente quest’arte diventa elemento trasformativo. Lo diventa per noi spettatori che assistiamo al bello, lo diventa per chi è protagonista e costruttore del bello, carcere o non carcere che sia.
Io c’ero. Ed essendo allo Strehler fin dalla mattina, a pranzo ho potuto dialogare con Armando Punzo e Alice Toccacieli, assistente alla regia.
Un pranzo artistico. Intervista ad Armando Punzo e Alice Toccacieli
I tuoi attori stanno lavorando molto sul loro percorso teatrale. È come se continuassero a fare dei corsi di specializzazione sul teatro, sull’essere attori.
Questo è quello che speriamo di fare, che tutto questo per alcuni possa diventare anche un lavoro. Perché l’idea del teatro che abbiamo, la costruzione che facciamo, è legata a questo: alla formazione non solo come attore ma anche ai diversi mestieri del teatro.
Per i tuoi attori è cambiato qualcosa dopo che l’anno scorso ti è stato conferito il Leone d’oro alla carriera?
Premesso che secondo me è sbagliato pensare teatro – cresco; teatro – comprendo. I percorsi sono molto più complessi nella vita. Detto questo, loro erano molto contenti, erano molto fieri di tutto questo. Toccacieli. Abbiamo fatto i Vip alla biennale.
Sono venuti anche i detenuti attori? Toccacieli. Certo, siamo andati a ritirare il premio, è stato bello. Punzo. Sono venuti tutti. Abbiamo fatto lo spettacolo. C’era tutta la compagnia. Era un premio a me però è un premio a tutta questa storia. Toccacieli. Siamo scesi col taxi sul molo privato. È stato un momento divertente per tutti.
Come sta procedendo la creazione del teatro del Teatro Stabile all’interno del carcere di Volterra, La Fortezza? Punzo. C’è l’architetto Mario Cucinella che adesso ha vinto il bando e lui realizzerà il teatro. Lui è molto attento a un’architettura sostenibile.
Quali tempi vi date?
Ci sono già tutte le autorizzazioni. È già un anno che stiamo lavorando a questa cosa. Adesso loro fanno il progetto esecutivo, lo presentano e poi partono le gare internazionali. Cucinella è un grande, non solo come nome ma anche come persona. C’era ieri sera a vedere lo spettacolo.
Il movimento teatro in carcere a che punto è oggi?
Non direi movimento. Non è un movimento. Ci sono tante esperienze adesso al di là del carcere. Noi facciamo questo progetto: Per aspera ad Astra, che è importante, che mette insieme diverse esperienze dal Nord al Sud al Centro. Però non è un movimento. Sono tutte esperienze singole, di artisti, separate, che hanno la loro estetica. Non è un movimento. Chiaramente ci sono delle persone che si sono interessate a tutto questo grazie anche al nostro lavoro, anche per mia responsabilità.
Sei uno degli iniziatori se non l’iniziatore del teatro in carcere.
Sì, ho iniziato questa cosa. E questa cosa chiaramente ha prodotto anche tante persone che fanno questa attività. Però un movimento, secondo me, no. Non lo definirei così.
Quando ti feci la prima intervista mi dicesti del tentativo di costruzione l’uomo Felix, uomo che può essere costruito già da adesso. Un uomo che non sia portatore della dimensione shakespeariana che esprime tutti i vizi e malanni del mondo. In questi giorni sto rileggendo Lisistrata, l’Edipo re e il teatro greco antico. In quello che fai c’è qualcosa di quel teatro? Quelle radici te le porti dietro o non ti appartengono più?
Noi diciamo, io dico: Shakespeare per dire un grande della letteratura mondiale, che appartiene al genere umano, ma c’è anche tutta la questione della tragedia greca. C’è poco da fare, Shakespeare viene a seguito di quello. Non è che Shakespeare sia un caso isolato. È un’altra sensibilità, ma ha sviluppato comunque quello che l’ha preceduto. Poi c’è la funzione del teatro greco, la catarsi, e cose così. Non è questo. E comunque quello che fai vedere degli esseri umani anche lì sono sempre gli stessi orrori.
Ciò che mi ha stupito è che nulla è cambiato. 2500 anni fa le domande erano le stesse e c’era come oggi l’assenza di risposte.
Il problema è proprio quello. Il problema è da prendere partendo proprio da un altro punto di vista, è da prendere partendo dalla questione della felicità, dell’eudemonia. Veramente. L’uomo è fatto per la felicità. Sembrano delle affermazioni un po’ così, idealistiche, assurde, stupide, banali. Però devi partire da un punto di vista diverso qualunque esso sia, anche se te lo inventi. Perché tutto è inventato, non c’è niente di originale, non c’è niente che viene prima. Nulla è così. Io mi invento che adesso la felicità è la cosa più importante e parto da lì. E tutte le altre cose le metto in crisi, a partire da quel concetto, perché tutto è inventato.
Perché viene presa come buona realtà il punto di vista dei greci, per esempio per trattare l’uomo e raccontarlo? È stato un punto di vista. In quel momento ad alcuni è sembrato un punto di vista importante, sembrava l’unico punto di vista, ma in quel momento. Tranquillamente non accetto di partire da quello se penso ad un essere umano.
Perché dell’uomo devo andare a guardare la merda, le cose negative? Perché devo partire da quello? Se poi faccio un salto per un attimo solo nel carcere, che significherebbe questo? E allora i reati, e il luogo di nascita, e tutta la roba che veramente non se ne può più, il sociale, il Sud, la povertà e tiritì, tirità. Questo è un modo. Ma invece voglio scavalcare questo modo, ed è il lavoro di Naturae. Io voglio partire da lì. Mi posso prendere questa libertà? C’è anche chi dice di no. Che dice “Tu sei un’idealista, uno che si chiude in una torre d’avorio. Sei un utopista, sei un cretino, sei un coglione che crede alle favole. Quando invece la vita non è fatta di favole, è fatta di quella realtà”. Il problema è capire come uno si vuole porre.
È un viaggio in solitaria.
Bisogna dire che nella storia ce ne sono anche altri. Per esempio ero a Bologna a vedere una mostra. Sono entrato e c’era una installazione video musicale con immagini di un’artista portoghese. Questa cosa era bella, era meravigliosa. Non c’era niente di Aristotele, non c’era prima la tragedia, il dramma con lo sciogliere il nodo e poi finalmente arrivare. L’installazione era semplicemente fatta di musiche, parole, immagini ed io mi sono seduto davanti a questa cosa. E ho pensato “Io voglio star qui. Questa cosa mi porta bene, mi fa bene, mi fa compagnia. Spendo bene il mio tempo a stare qui. Mi piace.” E non c’è nessun riferimento alla tragedia, e non era qualcosa che potessi dire “ma che cazzata, che assurdità”. Era un montaggio di immagini, suoni. Evidentemente il punto di vista di questo artista è un po’ come quello che sto dicendo io adesso. Evidentemente lei ha voluto vedere altro, ha scelto. Non ha voluto vedere delle cose. Il che non significa che non le conosca. So anche io cosa siamo noi. Ma mi devo fermare a questo? Quindi evidentemente ha dato spazio ad altri aspetti. Il lavoro che noi facciamo è questo. È provare a dare spazio ad altre cose dentro di noi. Perché se no c’è conflitto, la risoluzione del conflitto, e poi ci fai il teatrino e fai una cosa vecchia, stai di fronte a della gente che ha delle problematiche, tutte giuste lo sappiamo, ce le abbiamo tutti i giorni, e quindi siamo di fronte a un teatro di rappresentazione. Toccacieli. Però noi siamo anche un discorso di linguaggio che è proprio da mettere a punto. Punzo. Se cambi punto di vista devi cambiare linguaggio per forza. Perché quello che sto dicendo io non presuppone il linguaggio di un teatro di tradizione, conservatore. Non presuppone la mimesi.
È su tuo suggerimento che ho letto il teatro della crudeltà di Antonin Artaud. Mi sembra che alcune cose che lui afferma si ritrovino nel tuo teatro.
Artaud era poco teatrante e molto visionario. Non è uno che ha realizzato le cose che ha detto. Però è stato un visionario nella parte proprio teorica. Ha cominciato a immaginare delle cose che non esistevano in quel momento e quindi lui diventa sempre una fonte di ispirazione. Non è che puoi mettere in pratica quello che lui dice. Si potrebbe anche dire che lui era un pazzo e la risolviamo così. Toccacieli. Lui non ha scritto un metodo, è stato un poeta. Punzo. Ha sollevato delle questioni e, se poi quelle questioni sono anche tue, tu rispondi. Ma non posso dire che sono artaudiano. Perché artaudiani erano altri. C’è stato anche Peter Brook che stato è stato artaudiano. Cioè ci sono delle cose che ognuno poi frequenta. Comunque sicuramente è una una lettura che ti dà da pensare, ti dà veramente da riflettere, perché sono sfide.
Ne parlavo con Lina Prosa autrice della trilogia di Lampedusa Beach. Lei riteneva imprescindibile la lettura di Antonin Artaud.
Pensa una cosa. Io dico di essere artaudiano perché lo leggo. Poi faccio una cosa completamente diversa, che è mille anni luce lontana da Artaud, dai presupposti di Artaud. Noi artisti diciamo delle cose, ma bisogna vedere cosa si fa realmente. Perché tu dici io sono visionario e poeta. Poi sei conservatore e tradizionale nella pratica. Questo è il rischio di quando uno si auto declama.
Questo accade in tutti gli ambiti.
Ma a volte uno si pensa anche così, non è che lo dicono ed è finta. A volte uno si sente, si racconta a se stesso. Poi va a vedere i lavori.
Backstage “Naturae”, foto Gianfranco Falcone
Due anni fa nel viaggio di ritorno dal carcere di Volterra ero immerso nell’atmosfera magica suscitata dal tuo spettacolo, Naturae, la valle della permanenza. Non era soltanto lo spettacolo a farmi riflettere, c’era anche la dimensione delle relazioni tra voi della compagnia, tra il teatro e il pubblico. È stato difficile riabituarsi a quello che tu hai definito il teatro di rappresentazione. Quello che si respira nel tuo teatro è qualcosa di molto diverso. Toccacieli. Dico una cosa su questo che secondo me è importante. Nello spettacolo di oggi, che hai visto in carcere, ma oggi secondo me questa cosa la vedi meglio, è proprio anche la composizione dei diversi segni del linguaggio teatrale. Quindi la musica, la parola, i costumi, il colore, il movimento scenico, l’attore, che vengono organizzati, non tanto come diceva Armando prima per raccontarti una storia come si sviluppa, dalle sue radici alle sue conseguenze. Ma è proprio una costruzione completamente analogica, del tutto poetica, che restituisce uno stato d’animo. Il problema non è raccontare: prima succede questo e poi succede quest’altro. Il punto è piuttosto: io vorrei che tu stessi dentro questa sensazione.
Sì, mi ci ritrovo.
Si potrebbe anche dire “Ti voglio in qualche modo accogliere in questa situazione”. Quindi il lavoro si organizza in questo senso. Trova la sua forma intorno a questa struttura. Quindi è molto più simile, se vogliamo parlare in termini letterari, è molto più simile a una poesia che a un romanzo.
Mi ritrovo. Riesco a seguirti proprio partendo dall’esperienza della sensazione che ebbi a Volterra dopo aver visto il vostro spettacolo.
Cioè è la metafora la figura retorica.
Più che una storia sono delle emozioni messe insieme.
Ci sono delle immagini che si rincorrono, che si sovrappongono, che si moltiplicano, e che sono portatori di fiori continuamente. Rifioriscono, rifioriscono, rifioriscono. Non puoi dire prima c’è questo poi questo perché vogliamo arrivare a questo. Non funziona così questo lavoro.
Dire che è una comunicazione da inconscio ad inconscio.
Ieri sera ho incontrato una persona fuori che aveva visto lo spettacolo. Un ragazzo. Non aveva capito che eravamo della compagnia. Quando l’ha capito abbiamo fatto due parole, e lui ha detto “Mi è sembrato il sogno ad occhi aperti di un gentile visionario”. Io ho detto ad Armando “Secondo me devi essere contento che hanno detto così, mi sembra una cosa molto bella”.
Il modo in cui Armando si presenta è la gentilezza e il garbo poi ovviamente diventa un leone quando è sulla scena. Perché vuole le cose in un determinato modo. Quello che ti contraddistingue è l’estremo garbo. Ma è il garbo che ho visto nelle persone che hanno delle grandi passioni, la consapevolezza di quello che stanno facendo.
L’autore: Gianfranco Falcone è psicologo e blogger (Viaggi in carrozzina) e collabora con la rivista on line Mentinfuga, dove scrive di temi culturali, di teatro e diritti. Da alcuni anni si muove con una sedia a rotelle. Ha da poco pubblicato il romanzo 21 volte Carmela (Morellini editore).
Dopo Naturae, andato in scena il 18 e 19 febbraio al Piccolo Strehler, il prossimo appuntamento con Armando Punzo è a Ravenna. Il 23 marzo Il figlio della tempesta – Musiche, parole e immagini dalla Fortezza
In apertura, Naturae, Piccolo Strehler, foto di Stefano Vaja
Nel suo ultimo libro Fascisti contro la democrazia (Einaudi) lo storico Davide Conti, uno dei massimi esperti dello stragismo in Italia, ci offre una ricostruzione minuziosa delle biografie politiche di Giorgio Almirante e Pino Rauti. Il libro di Conti si configura come una lettura del nostro recente passato connessa all’interpretazione del presente.
Davide Conti, come è stato possibile, a meno di due anni dalla Liberazione, che in Italia nascesse un partito annoverante fra le sue fila molti “uomini di Mussolini”, fra i quali anche alcuni iscritti nelle liste dei criminali di guerra stilate dalle Nazione Unite?
La nascita ufficiale del Msi il 26 dicembre 1946 ha rappresentato il segno dei mancati conti dell’Italia con la storia del fascismo. All’alba della Repubblica l’assunzione di responsabilità storico-politica della pesante eredità del regime venne completamente elusa tanto dalle classi dirigenti del Paese (principali responsabili dell’avvento della dittatura) quanto da quell’opinione pubblica che, specialmente nella piccola e media borghesia, aveva consegnato a Mussolini un largo consenso. Questa rimozione si unì al quadro geopolitico della Guerra fredda in chiave anticomunista e alla «mancata Norimberga italiana», ovvero all’impunità garantita ai criminali di guerra fascisti dagli stessi Alleati anglo-americani, creando le condizioni per la nascita di un soggetto politico ostile in radice ai valori fondativi della nostra democrazia costituzionale.
Perché un libro su Almirante e Rauti?
Almirante e Rauti rappresentano due anime centrali del neofascismo. Insieme a Pino Romualdi, artefice della nascita del Msi, e Arturo Michelini, segretario missino dal 1954 al 1969, incarnano il profilo identitario dei «fascisti in democrazia» ovvero di una comunità politica che si pone come obiettivo strategico la fine della Costituzione nata dalla Resistenza. Almirante e Rauti saranno i principali oppositori della linea «moderata» di Michelini. Il primo rimase nel partito aggregando tutte le componenti estremiste «antisistema». Il secondo nel 1956 promosse una scissione da cui nacque il gruppo Ordine Nuovo. È significativo che Rauti rientri nel Msi solo nel novembre 1969, all’indomani dell’elezione di Almirante segretario e a poche settimane dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 realizzata da uomini del gruppo di Ordine Nuovo non reinseritisi nel
L’affermazione della presidente Meloni «il Msi è stato un partito della destra repubblicana» esaurisce la descrizione di quel partito?
La rappresentazione di un Msi che ha partecipato a passaggi della vita repubblicana fa parte della retorica neo e post fascista che cerca di presentare quel soggetto politico come elemento interno alla democrazia. Al contrario, al netto dei tentativi di «inserimento» (secondo la linea adottata da Michelini) i missini presentarono sé stessi e la loro radice ideologica come «alternativa di sistema» cioè come alternativa e disconoscimento della Costituzione repubblicana.
Il libro cita i due convegni di Roma del 1961 e 1965 (fra esponenti della Nato, ufficiali italiani, dirigenti del Msi e membri di formazioni di destra) che ebbero lo scopo di ammodernare la guerra al comunismo con le tattiche di “controinsorgenza”, “stati maggiori allargati” ai civili, “conquista delle menti”. La stagione delle stragi inizia pochi anni dopo e dal 1969 al 1974 in Italia ci furono ben 2.134 attentati…
Il convegno del 1965 segna un punto di svolta per l’estrema destra. I due precedenti consessi Nato di Roma e Parigi del 1960 e 1961 non avevano ancora registrato, pur elaborando nuove e articolate misure anticomuniste di «guerra non ortodossa», la presenza organica dei neofascisti. Nel convegno del 1965 la presenza di Rauti e Giannettini rappresenta l’inclusione, in ambito Nato, dell’estrema destra nella battaglia contro il comunismo. Gli anni delle stragi realizzate dai neofascisti (protetti da alti esponenti delle istituzioni dello Stato) sono la risultante della condizione della democrazia italiana, ovvero un sistema «bloccato» in ragione del vincolo esterno (l’appartenenza dell’Italia all’Alleanza atlantica) che non permette al Pci, uno dei partiti fondatori della Repubblica nonché la principale forza di opposizione che arriverà a rappresentare un italiano su tre, di partecipare e concorrere democraticamente alla guida del Paese.
Nonostante le inchieste, Rauti e Almirante non patirono serie conseguenze giudiziarie, e pur con la ferocia della violenza stragista degli anni 70 in Italia, il golpe non ci fu. Fu il sistema democratico a tenere? Come evitammo il colpo di Stato?
Rauti fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana ma venne poi scarcerato e assolto dalle accuse. Almirante subì in più occasioni la richiesta di autorizzazione a procedere in Parlamento per ricostituzione del partito fascista. Anche in questo caso senza nessun esito. Queste iniziative tuttavia restituiscono, al netto della misura giudiziaria, il clima politico dell’epoca e la percezione identitaria del Msi. Il colpo di Stato in Italia sarebbe stato molto difficile da realizzare. Gianadelio Maletti, capo del reparto Difesa del Sid e condannato per favoreggiamento di Guido Giannettini e del neofascista di Ordine Nuovo Marco Pozzan coinvolti nell’inchiesta per la strage di Piazza Fontana, ha affermato che un tale esito avrebbe significato la guerra civile. Uno scenario che nessun dirigente politico o istituzionale avrebbe potuto accettare. Le stragi mirarono ad una svolta autoritaria di altra natura, ovvero alla proclamazione di uno stato di emergenza per sospendere la Costituzione in nome della sicurezza nazionale. Non si arrivò a quel punto ma senz’altro gli eccidi di civili contribuirono a porre una seria ipoteca sullo sviluppo storico della nostra democrazia.
Nel libro lei ricorda come Almirante fosse ossessionato dal “rischio di comunistizzazione” e citando il golpe greco del 1967 come un modello di salvezza nazionale. Esisteva in Italia il rischio di una rivoluzione comunista?
La visione di una rivoluzione comunista in Italia non esisteva più nella stessa prospettiva del Pci dalla svolta di Salerno del 1944. La questione comunista era determinata dagli equilibri della Guerra fredda che non permettevano, nemmeno per via democratica, l’alternanza al governo del Paese ad un partito legato all’Urss. Questa condizione segnò, a fronte del progressivo allargarsi del peso politico ed elettorale del Pci, il presupposto di sviluppo del Msi in chiave anticomunista. All’inizio degli anni 70 il partito di Almirante raggiunse il suo massimo storico di consensi. Un punto che coincide, insieme, con una delle fasi di più alto sviluppo democratico in termini di diritti e di più alta destabilizzazione eversiva del nostro Paese.
Il libro evidenzia come la politica degli “opposti estremismi” della Dc di quegli anni ponesse comunismo e fascismo su un medesimo piano impedendo così di combattere il neofascismo fino in fondo.
La teoria degli opposti estremismi fu una retorica propagandistica usata dalla Dc e poi, a partire dal 1974, disconosciuta dagli stessi dirigenti democristiani come Paolo Emilio Taviani e Aldo Moro. Dal 1974, anno delle stragi di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus nonché dell’inchiesta sulla trama eversiva della Rosa dei Venti, iniziò un primo intervento volto a disarticolare l’insieme delle condizioni che avevano reso possibile quel tipo di destabilizzazione. Viene rimosso il capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno Federico Umberto D’Amato; viene arrestato il capo del Sid Vito Miceli (poi assolto e prima ancora eletto nelle liste del Msi nel 1976); a fine 1973 viene sciolto Ordine Nuovo; si dispongono, ad opera del ministro della Difesa Giulio Andreotti, una serie di sostituzioni nelle alte cariche delle Forze armate.
È corretto affermare che quel “Fronte articolato anticomunista”, in grado di unificare le forze conservatrici compresi i neofascisti, a cui la destra di Rauti e Almirante ambiva, si è infine realizzato con le elezioni politiche del 25 settembre 2022?
Il contesto storico è profondamente mutato. Almirante e Rauti operarono nel quadro della Guerra fredda cercando di ritagliare uno spazio, sempre subalterno, per il neofascismo in chiave anticomunista. Oggi la presidente del consiglio Meloni, alla guida di una forza postfascista che rivendica l’identità missina e rifiuta di riconoscersi nell’antifascismo come fondamento della nostra democrazia, opera in una società globale ed ha collocato il suo partito dentro le linee di crisi dei sistemi democratici che non riescono a rispondere alle principali questioni del nostro tempo (disuguaglianza sociale e di genere, crisi climatica e del lavoro, diritto alla salute e all’istruzione). Questo ha riproposto il tema retorico dell’alternativa di sistema a destra. Lungi dall’essere una misura concreta e reale, concorre tuttavia ad aggravare lo iato tra popolo e democrazia sostanziale.