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Donne, ecologisti e studenti: i nuovi soggetti rivoluzionari

Al di là dei suoi esiti, nel 1917 la Rivoluzione d’ottobre simboleggia perfettamente il codice della rivoluzione novecentesca, l’idea cioè – diversamente da quelle che l’avevano preceduta e che avevano investito di volta in volta il terreno culturale, religioso e scientifico – di avere come compito una trasformazione radicale della società, uscendo dal modello di produzione e consumo esistente – quello capitalistico – per fondarne uno completamente nuovo: una rivoluzione proletaria.

Si ridisegna quindi il mondo politico e sociale. Come diceva uno dei protagonisti del secolo, Karl Marx, fino ad allora il compito della filosofia era stato quello di capire il mondo, da lì in poi quello di cambiarlo.

Da questo slittamento di paradigma si susseguono molte rivoluzioni, ma per comprenderne fino in fondo la matrice è necessario mettere a fuoco il grande cambiamento ideologico del ‘900, quello che negli auspici, nelle intenzioni, si configurava come una vera e propria scalata al cielo: il concetto degli ultimi che divengono primi, l’idea che la società capitalistica fondata sul profitto che espropria i lavoratori e le lavoratrici della loro stessa esistenza venga rovesciata e che questi ultimi si affranchino da ogni forma di sfruttamento e di alienazione, liberando con sé il mondo intero.

Un orizzonte enorme mai auspicato in precedenza e la politica provvede a questa idea rivoluzionaria quale sostanza storica configurabile per un lungo periodo. Il rovesciamento della società e dell’ordine esistente, il mutamento dei rapporti di classe con la liberazione degli oppressi. In questo cammino si inscrivono moltissime vicende, dalla Rivoluzione d’ottobre fino alla Cina di Mao Tse-tung e, negli anni più recenti, la Cuba di Castro. Ci sono stati momenti in cui tre quarti dell’umanità andavano sotto regimi che si sono chiamati post-rivoluzionari. Per la prima volta nasce una società senza proprietà privata, cosa oggi quasi inimmaginabile, in cui tutte le forme di organizzazione sono pubbliche – in realtà statuali – con un primo slittamento dall’originale interpretazione marxiana che dalla socializzazione passa alla statalizzazione dei mezzi di produzione, problema che poi si rivelerà alla base di una impossibilità di soluzione.

Tuttavia, come sappiamo, questa rivoluzione, soprattutto nella sua capitale cioè l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, fallisce il compito storico: la nuova società nata per la liberazione si rivela anche portatrice di oppressione. Malgrado questo però quell’idea si rianima nel mondo in forme diverse: nella decolonizzazione ad esempio, nelle grandi lotte d’indipendenza, nelle rivoluzioni in Sud America a partire a quella del castrismo – solo per dare un’idea di come l’esperienza rivoluzionaria abbia lasciato un segno profondo nella storia del ‘900.

Interprete di questo sogno naufragato era stato il movimento operaio occidentale. In Europa a est c’era stata la Rivoluzione d’ottobre, mentre a ovest dai primi del ‘900 si era verificata una lunga ascesa delle masse proletarie per il riconoscimento della dignità, dei diritti, per l’uscita dalla povertà e dalla miseria, per la conquista di un potere per i lavoratori dentro e fuori dalla fabbrica. Un afflato che disegna il secolo intero fino all’ultimo grande sussulto della rivoluzione proletaria, quando durante il biennio rosso del ‘68 e ‘69 in Italia e nel Maggio francese si verifica il singolare incontro tra una generazione in lotta, quella degli studenti, e la rivolta operaia.

Si è discusso molto se questo secondo ciclo si possa propriamente chiamare rivoluzionario. In Europa in politica ha preso nomi diversi: comunista, socialista, laburista, termini diversi che tuttavia hanno lasciato il problema irrisolto. Una suggestione si può ricavare dalla formula che uno studioso francese del movimento operaio usò per definire una componente della sinistra italiana: riformista rivoluzionaria. Un’idea che si affaccia diffusamente negli anni 70, per la quale si può pensare a una trasformazione della società che preceda la conquista del potere invece di seguirla, anche sulla base della lezione appresa dal fallimento a est.

Questa storia si interrompe con la sconfitta del movimento operaio in occidente, che comincia negli anni 80 con quello che Luciano Gallino chiamerà il rovesciamento della prospettiva di classe, in cui sono i padroni a vincere contro i lavoratori e non il contrario. È da lì ci si avvia verso la rivoluzione capitalista e la globalizzazione. La rivoluzione che era stata proletaria, diventa all’ingresso del nuovo millennio, una rivoluzione capitalista, una rivoluzione che si affaccia con intento totalitario. Rivoluzione restauratrice e al tempo stesso profondamente innovativa sul piano della tecnica, della scienza, della tecnica, dei rapporti tra capitale finanziario, capitale produttivo e Stato. Una vera e propria grande controriforma che avviene in alcuni Paesi in modo tumultuoso, con la conquista reazionaria del potere, ma che è inscritta in un processo storico il cui motore è proprio la trasformazione del lavoro, della società e delle culture attraverso il cambiamento complessivo dello scenario mondiale.

È un nuovo capitalismo quello che si afferma nel nuovo secolo; e per un momento, circondato da apologeti che ne magnificano le sorti, sembra che possa avere successo. Ci sono opposizioni ma si tratta di fenomeni circoscritti, e la ristrutturazione capitalistica porta con sé una ristrutturazione dei rapporti di forza a favore delle classi dominanti.

Senonché è proprio questo trovarsi senza avversari da parte del nuovo capitalismo, che Bernie Sanders chiama uber-capitalismo, a innescarne la crisi. Senza il grande oppositore storico, il capitalismo sregolato produce in sé la propria crisi, sia sul piano ecologico con la crisi climatica, che su quello economico con la produzione di diseguaglianze fino a ora sconosciute (famosa la formula di Occupy Wall Street “We are the 99%”) e della crisi della democrazia essendo il supercapitalismo incompatibile col sistema democratico. Esso concentra infatti le decisioni nelle mani di pochissimi individui e produce uno svuotamento progressivo del sistema rappresentativo, con parlamenti ridotti a cassa di risonanza degli esecutivi e gli esecutivi come concerto di istituzioni dominate dalle ideologie di mercato.

Dunque il nuovo terreno di confronto è quello della crisi. Una crisi che a livello mondiale si manifesta con l’avvento della guerra. In questo capitalismo covano le tre grandi crisi – economica, ecologica e sociale – e si manifesta un mondo completamente destabilizzato, opposto a quello promosso dalle illusioni della globalizzazione, che avrebbe dovuto unificare il mondo attraverso l’unificazione dei mercati. Con un mondo scomposto in potenze, semi imperi e potentati ci troviamo oggi a confrontarci con una crisi di civiltà. La vittoria del capitalismo non ha prodotto una nuova fase di sviluppo, ma l’avvicinamento alla catastrofe.

E tuttavia nel processo di transizione tra il secolo della rivoluzione e l’avvio della controrivoluzione sorgono ipotesi rivoluzionarie di diversa natura: i femminismi, i nuovi movimenti studenteschi e la prospettiva ecologista. Dopo la sconfitta del movimento operaio è in questi che possiamo ricercare una possibilità di evoluzione.

L’appuntamento

Nell’ambito di Giorni di storia festival – Rivolte e rivoluzioni, in programma a  Sesto Fiorentino (info qui), Fausto Bertinotti, oggi, 29 novembre (ore 18) Fausto Bertinotti tiene una conferenza dal titolo Il significato della rivoluzione nel ‘900.

La “ritrovata credibilità internazionale”

La “ritrovata credibilità internazionale” di cui si sente spesso parlare sta nei voti che l’Italia ha collezionato ieri nel momento in cui si è deciso che Expo 2030, l’esposizione universale, si svolgerà a Riad. La capitale dell’Arabia Saudita ha battuto la concorrenza incassando ben 119 voti dai 165 delegati che si sono espressi all’assemblea generale del Bureau International des Expositions a Parigi, mentre il progetto di Roma è stato sonoramente bocciato finendo perfino dietro a Busan con appena 17 preferenze contro le 29 per la città della Corea del Sud. 

Scriveva ieri il giornalista Enrico Mentana: “Questa non è una sconfitta, è una figuraccia. Non di Roma soltanto, ma di tutto il sistema Italia. Quando un Paese come il nostro spinge la candidatura della sua capitale fino al round decisivo, e al momento della scelta porta a casa solo 17 voti su 165, evidenzia un fallimento. Tutti sapevano che Riad, per mille motivi, era la favorita, e che l’Italia aveva già ospitato l’Expo solo otto anni fa, con ciò dovendo ancor più inseguire. Ma come ci si è potuti illudere, per poi ritrovarsi con solo il voto nostro e dei nostri amici?”.

Prevedibile anche la reazione – con il solito vittimismo condito da complottismo – dell’ex Segretario generale del Ministero degli affari esteri nonché direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza che vigila sull’attività dei Servizi, l’ambasciatore Giampiero Massolo, che parla di “deriva mercantile” e “metodo transazionale, non transnazionale”. Che bin Salman sia pronto a comprare “anche seggi dell’Onu” alcuni lo scrivono da anni. Ben svegliati. 

Buon mercoledì. 

foto by Rawan92 – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=141523964

Tren Maya, la nuova minaccia per i popoli indigeni del Messico

Foto @ElSurResiste

La guerra contro i popoli indigeni del Messico ha un nuovo nome: Tren Maya. Nella carta, il “treno dei maya” è solo una linea ferroviaria che attraverserà e collegherà, per aprirle al turismo di massa, quelle terre del Messico meridionale dove, prima dell’arrivo dei colonizzatori europei, prosperava l’antica civiltà precolombiana. Ma il Tren Maya è non solo questo. La rete ferroviaria è inserita in un mega progetto che prevede la realizzazione di una grande arteria chiamata Corredor, per metà ferroviaria e per l’altra metà autostradale con l’obiettivo dichiarato di collegare le due sponde oceaniche del Paese, quella Atlantica e quella Pacifica, dal porto di Coatzacoalcos, a Est, a quello di Salina Cruz, ad Ovest.

Lavori nella foresta Foto @ElSurResiste

Siamo nell’istmo di Tehuantepec, nel Sud del Paese, dove il continente americano si restringe sino a che i due grandi oceani distano l’uno dall’altro poco più di 200 chilometri, prima di tornare ad allargarsi nella penisola dello Yucatan. Il progetto del Corredor di Tehuantepec prevede, oltre a questa grande arteria di comunicazione, anche la realizzazione di ben dieci grandi aree industriali, l’ampliamento dei due porti sopracitati e delle rispettive raffinerie, la realizzazione ex novo di un terzo stabilimento per la lavorazione del petrolio al largo della costa di Dos Bocas, dove verranno posate una serie di piattaforme petrolifere per sfruttare i giacimenti fossili del mar dei Caraibi.
Da sottolineare che il porto di Dos Bocas, si trova a due passi da El Bosque, un paese di pescatori che negli ultimi anni, in brevissimo tempo, è stato divorato dal mare a causa del mutare della corrente del Golfo imputabile ai cambiamenti climatici.

Il Corredor che minaccia di cambiare per sempre la geografia del Centroamerica e di fare piazza pulita, oltre che di quello che rimane della selva tropicale e della sua biodiversità, anche della cultura degli ultimi discendenti dei maya, è nato ai tempi della presidenza di Ronald Regan negli Stati Uniti. Ma è solo nel 2020 che i lavori sono cominciati, complice l’arrivo della pandemia che ha impedito le mobilitazioni popolari nelle piazze.

E con l’avanzare dei lavori, sono avanzate anche le violenze nei confronti dei popoli originari i cui villaggi avevano il solo torto di trovarsi lungo il percorso del Tren. Nella sponda atlantica del Paese e nello Yucatan intere comunità indigene sono state sgomberate con la forza e chi si opponeva ha subito aggressioni, intimidazioni e violenze. Nei territori zapatisti del Chiapas, sulla sponda occidentale del Messico, decine di attivisti sono state feriti con armi da fuoco o da taglio per mano di ignoti legati alle organizzazioni di narcotrafficanti. Edifici comunitari sono stati incendiati da gruppi paramilitari che godono del sostegno delle istituzioni federali, campi di mais che davano sostegno alle comunità, sono stati devastati da improvvisate esercitazioni dell’esercito su mezzi pesanti.

Proteste sui binari Foto @ElSurResiste

L’obiettivo del Corredor è principalmente quello di trovare un’alternativa al canale di Panama come arteria di passaggio delle merci da un oceano all’altro. Un’alternativa che gli Stati Uniti considerano strategica, dopo che la sovranità del canale è tornata ai legittimi proprietari, i panamensi, e si è conclusa l’occupazione militare Usa. La crescente ed inarrestabile influenza della Cina su Panama inoltre, ha reso la realizzazione dell’opera ancora più urgente per l’economia degli Stati Uniti.

Per quanto riguarda il costo dell’opera, il Governo federale del Messico ha stanziato quest’anno poco più di 21 miliardi di pesos, equivalenti a circa un miliardo e 76 milioni di euro, per la sola linea ferrotranviaria. La realizzazione dei poli industriali invece, viene valutata sui 50 miliardi di pesos (più di due miliardi e mezzo di euro). Cifre che, diamolo pure per scontato, sono destinate e crescere.

Ma, se la regia dell’opera è nordamericana, la realizzazione del Corredor si affida ad imprese europee. Su tutte, la Deutsche Bahn, la società ferroviaria tedesca, che ha giustificato la sua partecipazione all’operazione come un incentivo “umanitario” allo sviluppo di un’area economicamente arretrata.
L’ufficio comunicazione della Deutsche Bahn si è messo d’impegno per far passare il Tren Maya come una sorta di ecologico “trenino Disney” che scarrozzerà i turisti su parchi archeologici, portando ricchezza in aree oggi difficilmente accessibili perché coperte dalla foresta tropicale o perché utilizzate dalle comunità che vi praticano un’agricoltura di sostentamento. Ma anche senza voler considerare l’impatto ambientale del turismo di massa in una zona ricchissima di biodiversità, va considerato che la realizzazione di questo treno implicherà un radicale cambio di paradigma sociale in questi territori comunitari dove gli indigeni hanno realizzato autogestioni sul modello delle autonomie zapatiste del Chiapas.

Terreni ieri economicamente improduttivi, sono stati messi in vendita ed acquistati da affaristi senza scrupoli, gli indigeni sgomberati a pistolettate da bande di paramilitari prezzolati e la selva spianata con le ruspe per far posto a cantieri edili dove sorgeranno resort di lusso in cui i ricchi rampolli nordamericani andranno divertirsi ed a consumare quelle droghe che nel loro Paese sono vietate. Proprio la droga infatti, gioca un ruolo non indifferente in questa speculazione edilizia alla cui base ci sono capitali che in America latina solo il narcotraffico può mettere a disposizione.

Manifestazioni contro il Corredor, foto @ElSurResiste

Per tutta l’estate, nelle città del Tabasco, del Campeche, del Chiapas e degli altri Stati del Messico meridionale, gli indigeni hanno organizzato manifestazioni contro il Corredor e in difesa della Madre Terra, gridando “Este tren no es maya, este tren es militar”. Questo treno non è maya, questo è un treno militare. Manifestazioni che, il più delle volte, sono state represse violentemente dai blindati dell’esercito.

Foto @ElSurResiste

Proprio l’esercito messicano gioca un ruolo cruciale nell’operazione, e non soltanto come strumento repressivo o di difesa dei cantieri. “In Messico la legge consente alle forze armate di ‘fare impresa’ come una qualsiasi azienda privata – spiega Chasqui Camilo, attivista indigeno -. Le Forze armate possono presentare progetti, dirigere i lavori, dettare i tempi, assumere personale civile e anche ad appaltare a ditte terze”. Una procedura per certi versi simile al nostro “commissariamento” che ha, per di più, il vantaggio di scavalcare qualsiasi norma di tutela ambientale ed evitare i controlli sulle spese e le verifiche di bilancio. Il tutto, ovviamente, con il ‘nobile’ scopo di portare a compimento il più velocemente possibile un’opera ritenuta di supremo interesse nazionale.

“E quando dall’altra parte della barricata c’è l’esercito – continua Camilo – e la scusante del ‘supremo interesse’ della nazione, è difficile anche adire a vie legali. Inutilmente i nostri avvocati si sono appellati alla legge e alla Costituzione messicana che, anche se solo sulla carta, dovrebbe tutelare i diritti dei popoli originari”.

Foto @ElSurResiste

Solo in un caso, la comunità di Porto Madera ha ottenuto una sospensiva dei lavori della realizzazione di una area industriale nel suo territorio comunitario. Per tutte risposta il loro portavoce, David Hernandez Salazar, è stato sequestrato per settimane ed è stato liberato solo in virtù una grande mobilitazione popolare. Hernandez non ha potuto comunque evitare di essere messo a processo per una serie di accuse quantomeno artificiose mossegli dagli avvocati delle forze armate.

“David ha comunque dimostrato che la battaglia per i diritti dei popoli originari e per la costruzione di un mondo libero dal capitalismo può essere vinta – commenta Andrea Mazzocco, autore del libro Economia comunitaria indigena, edito da Ombre Corte -. In tutto il Messico, è in atto un processo volto alla realizzazioni di grandi opere strategiche che implicano un riordinamento territoriale nel quale le autonomie indigene non hanno spazio. L’aumento delle aggressioni e delle intimidazioni agli indigeni dimostra solo che, senza l’uso della forza, il sistema capitalista non sopravviverebbe a lungo”.

Foto @ElSurResiste

In primavera, Mazzocco, come attivista di Ya Basta Êdî Bese, ha guidato una folta delegazione di attivisti e giornalisti europei e americani, tra i quali chi scrive, in una carovana organizzata dall’esercito zapatista (Eznl) e dal congresso nazionale indigeno (Cni) per documentare le devastazioni del Corredor Interoceánico.

“Il Corredor ha anche una precisa funzione geopolitica di frontiera esternalizzata – sottolinea Mazzocco – Il progetto punta a tagliare in due il Messico lungo l’istmo di Tehuantepec con una arteria industriale costellata da caserme militari. Per i migranti diretti a nord il Corredor sarà solo l’ennesimo muro. Come già accade a Monterrey, il loro destino sarà quello di essere trasformati in manodopera ricattabile e facilmente sfruttabile nelle aree industriali con la complicità delle istituzioni federali e l’aiuto della organizzazioni criminali”.
No, questo treno decisamente non è maya!

Il libro

Riccardo Bottazzo è giornalista e scrittore. Si occupa di ambiente, migrazioni e movimenti dal basso. Ha scritto per Altraeconomia Disarmati. Paesi senza esercito e altre strategie di pace, in cui ha raccontato come alcuni Stati abbiano rinunciato ad avere un esercito: dalle isole Marshall ad Andorra fino al Costa Rica e altri ancora. Nel libro ci sono approfondimenti sulla situazione attuale del mondo pacifista con l’analisi del rapporto tra l’apparato militare e le questioni relative ai cambiamenti cliatici, il diritto internazionale, i bilanci statali.

 

Fiducia? Poca

Il 22 luglio del 2021, erano i tempi del governo Draghi, Giorgia Meloni dichiarava: «Il governo sostenuto dal 90% del Parlamento che pone il voto di fiducia su ogni provvedimento è un po’ come la mamma che chiede in continuazione al bambino “mi vuoi bene”? La risposta è scontata, ma fa molta tenerezza. La democrazia è un’altra cosa però».

L’altra cosa ora vede Giorgia Meloni al posto di Draghi a Palazzo Chigi. Sarebbe prevedibile registrare un deciso cambio di passo e invece Draghi e Meloni si assomigliano moltissimo (anche) in questo. Ieri, lunedì 27 novembre, la Camera ha approvato il voto di fiducia per la conversione in legge del decreto “Immigrazione” che il governo Meloni aveva posto tre giorni prima. Nei 400 giorni dall’insediamento, avvenuto il 22 ottobre 2022, è la quarantaduesima volta che l’attuale governo pone un voto di fiducia su un provvedimento in una delle due aule del Parlamento. Secondo le verifiche di Pagella Politica, questo è lo stesso ritmo tenuto dal precedente governo tecnico, guidato da Mario Draghi, che più volte in passato è stato criticato dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni proprio per l’eccessivo ricorso ai voti di fiducia.

C’è un aspetto apparentemente banale che sembra sfuggire ogni volta che si avvicinano le elezioni: la credibilità di un politico non si può continuare a misurare per il baccano che procura stando all’opposizione. Concediamo alla politica un’incoerenza che non perdoneremmo a nessuno dei nostri amici, dei nostri famigliari o dei nostri collaboratori. Così alla politica non sembra nemmeno più necessario dare delle spiegazioni.

Buon martedì. 

Nella foto: Giorgia Meloni e Mario Draghi nella cerimonia del passaggio della campanella, Palazzo Chigi, Roma, 23 ottobre 2022 (governo.it)

Inchiesta europea. I giovani italiani sono i più pessimisti sul proprio futuro

Preoccupazione per il presente, ansia verso il futuro. I giovani europei, che vivono in un mondo inquieto dominato da guerre, disuguaglianze e crisi climatica, dipingono un quadro a tinte fosche per rappresentare il domani. Un domani incerto, che genera in loro pessimismo e limita le prospettive per costruire il presente e il futuro. Lo rivela uno studio europeo sull’impegno delle giovani generazioni intitolato “The Movers of Tomorrow?” (I promotori del domani?) realizzato dalla Fondazione Allianz, in collaborazione con l’Istituto Sinus: un’indagine su 10mila giovani (tra i 18 e i 39 anni) con 312 domande e 2,6 milioni di risposte, che ha esaminato come i giovani europei in Germania, Grecia, Polonia, Gran Bretagna e Italia, vedono le loro società e il futuro, su temi di grande attualità e interesse pubblico.

Se guardiamo al caso italiano, i nostri giovani sono ancora meno ottimisti sul proprio futuro (50% contro il 62% della media dei cinque Paesi), sul futuro del proprio Paese (26% contro il 36%) e sul futuro dell’Europa (39% contro il 47%). Quello che dovrebbe far di più riflettere la politica, che spesso parla di giovani, ma senza averne una reale percezione, è che meno della metà degli intervistati italiani (41%) ha fiducia nelle istituzioni e, altrettanto bassa (48%) è la fiducia nei confronti dei media indipendenti. Va da sé che questi ultimi due dati ci dice molto, purtroppo, sullo stato di salute della nostra democrazia.

Lo scollamento della classe dirigente con le nuove generazioni è reso ancor più esplicito se guardiamo ai conflitti che imperversano nel mondo negli ultimi due anni. Circa il 60% dei partecipanti al sondaggio concorda sul fatto che il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe estendersi fino al proprio Paese. Circa lo stesso numero respinge categoricamente l’idea di un servizio militare obbligatorio. Mentre il ministro della Difesa Crosetto parla di impegno del «governo per cercare il superamento del patto di stabilità e per favorire il percorso verso il 2% del Pil alle spese militari», solo il 17% dei giovani intervistati considera prioritario il rafforzamento delle nostre forze armate.

Checchesenedica, e a dispetto dei grandi proclami dell’esecutivo sul miglioramento della situazione economica e dell’occupazione, i giovani italiani (insieme ai greci) sono i più pessimisti per quanto riguarda la crescita economica, le opportunità di lavoro e l’equilibrio tra lavoro e vita privata, con aspettative che tendono a peggiorare. Vedono le società sempre più divise, dove le disuguaglianze e le discriminazioni nei confronti di poveri e minoranza sono sempre più evidenti. Il dramma della nostra epoca, osservando i comportamenti delle nuove generazioni, è che il 60% degli intervistati discute delle proprie idee politiche con gli amici e in famiglia e non ripone fiducia negli spazi politici, nei partiti, nei corpi intermedi, perché considerati “obsoleti”, spingendo per altre forme di partecipazione. Un dato che dovrebbe far riflettere la politica, soprattutto la sinistra che fa della socializzazione e della condivisione delle idee e delle lotte la sua raison d’être. Non si tratta di disinteresse, dunque, come spesso leggiamo e ascoltiamo, ma di capacità di dare spazio alle rivendicazioni dei giovani e di canalizzare il loro impegno all’interno di una piattaforma politica più ampia.

Grafico sull’atteggiamento dei giovani verso la protesta (Rapporto Fondazione Allianz)

Secondo lo studio, le nuove generazioni sono motivate soprattutto dal cambiamento climatico. C’è chi, come il vicepremier e ministro degli esteri, Antonio Tajani, si riferisce all’ambientalismo come “religione” di cui “non abbiamo bisogno”, perché “una religione ce l’abbiamo già” e chi, invece, crede che l’ambientalismo sia il fondamento teorico per salvaguardare il nostro ecosistema. Non sappiamo su che pianeta viva Tajani, ma i giovani italiani sanno di vivere sul pianeta terra e vedono la battaglia contro la crisi climatica, essenziale. Il 68% di coloro che sono preoccupati per il riscaldamento globale si sono già impegnati in qualche modo, ad esempio facendo donazioni o firmando petizioni online. Lo studio mostra anche che molti desiderano il cambiamento e sono interessati a impegnarsi, ma sono molto meno quelli che agiscono davvero: Il 56% è favorevole alle proteste di piazza, ma solo poco meno di un terzo vi ha partecipato almeno una volta.

Come osserva Luca Iacoboni, responsabile relazioni esterne e strategia per la decarbonizzazione di Ecco, think tank italiano indipendente per il clima, «i giovani italiani sono preoccupati e disillusi rispetto al proprio futuro, ma allo stesso tempo vogliono migliorarlo». «Interessante leggere – continua – che il cambiamento climatico non è solo una delle priorità delle giovani generazioni, ma è anche legato a migliori condizioni di vita, un più forte stato sociale e un lavoro soddisfacente. Chi saprà coniugare l’azione climatica con la risposta all’attuale crisi sociale, riuscirà a far superare alle giovani generazioni la disillusione che attualmente esprimono, soprattutto rispetto alla politica dei partiti e alle istituzioni. La chiave per mobilitare le giovani generazioni è riaffermare i diritti “acquisiti” ma declinarli anche secondo la chiave della sostenibilità, assicurando ad esempio a tutti non solo il diritto alla casa, ma una abitazione efficiente e con basse bollette, modalità di trasporto non inquinanti all’interno di città più vivibili e un diritto al lavoro che sia sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale».

Dati dal Rapporto Fondazione Allianz

Dello stesso avviso è Esra Kücük, Ceo della Fondazione Allianz, che vede i giovani in una sorta di «sala d’attesa per il futuro». Questo non significa che vogliono aspettare passivamente il domani. Hanno cambiato le abitudini di consumo, boicottando prodotti considerati dannosi per l’ambiente, promuovono azioni eco-sostenibili ma, purtroppo – sottolinea il Ceo dell’organizzazione no profit – «spesso non sanno come impegnarsi». Anziché alimentare guerre generazionali, la società civile e la politica dovrebbe guardare a questi dati con attenzione e aprire una seria riflessione, in cui le nuove generazioni siano effettivamente parte attiva. Ne vale del nostro futuro perché, per dirla con Sandro Pertini, «i giovani costituiscono l’avvenire».

Il discredito delle toghe è un venticello di governo

Il vittimismo della compagine di governo ha assunto una piega gnegneista ieri per bocca del ministro alla Difesa Guido Crosetto che in un’intervista al Corriere della Sera è tornato a sventolare il più banale dei complotti: quello giudiziario. 

L’unico grande pericolo” per la continuità dell’esecutivo, ha detto il ministro, “è quello di chi si sente fazione antagonista da sempre e che ha sempre affossato i governi di centrodestra: l’opposizione giudiziaria”. Che intende Crosetto? “A me – ha spiegato – raccontano di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di come fare a ‘fermare la deriva antidemocratica a cui ci porta la Meloni’. Siccome ne abbiamo visto fare di tutti i colori in passato, se conosco bene questo Paese mi aspetto che si apra presto questa stagione, prima delle Europee…”.

In un Paese decente un ministro che agita il sospetto di un golpe di Stato dovrebbe avere almeno uno straccio di prova, dovrebbe essere passato in Procura con una regolare denuncia e dovrebbe avere già stilato una folta relazione da sottoporre al Parlamento. Il ministro di Fratelli d’Italia non ha fatto nulla di tutto questo. Anzi in serata si è detto stupito dal “clamore” delle sue dichiarazioni, come un alieno atterrato per sbaglio sul pianeta democrazia spiegandoci che voleva solo “difendere le istituzioni cercando la verità”. E questa è la sua confessione più grave ma più sincera: il discredito altrui come riconosciuto strumento di governo è una prerogativa di questo esecutivo. E torna in mente Gasparri che agitava la carota contro Report perché sapeva che Report stava indagando su di lui. 

Buon lunedì. 

Quando il gioco diventa pericoloso: le dipendenze tecnologiche tra gli adolescenti

La valutazione dell’impatto della tecnologia sulla realtà chiama in causa questioni di enormi dimensioni, come le biotecnologie, l’Intelligenza artificiale, le nuove fonti energetiche, nelle quali sempre si rintracciano aspetti positivi e evolutivi, e aspetti problematici e controversi. Come fare a definire il confine tra rischi e opportunità? La tecnologia serve per risolvere problemi oppure li crea? La verità, tanto ovvia quanto non esauriente, è che entrambe le possibilità si possono verificare, e questo dipende, in modo evidente, dall’uso che se ne fa. La disponibilità sempre più rapida di nuovi strumenti tecnologici mette a dura prova la capacità di comprenderne per tempo gli effetti sul singolo individuo e sulla società e da ciò può nascere la preoccupazione di arrivare a individuare i rischi correlati all’uso di un nuovo strumento quando è ormai tardi per intervenire sulle conseguenze: si pensi, ad esempio, alla dibattuta questione degli effetti che la prolungata esposizione a social media, videogiochi e strumenti digitali in genere avrebbero sulle strategie di apprendimento in età evolutiva.

La questione dell’impatto sulla vita psichica e sui rapporti interumani delle innovazioni tecnologiche, in particolare per le nuove generazioni, pone dunque degli interrogativi nuovi e difficili, di cui si è discusso nella giornata del 14 novembre, a Roma, presso la sala Basaglia in Piazza Santa Maria della Pietà, all’interno dell’itinerario formativo dedicato ad operatori socio-sanitari Trappole digitali. Adolescenti e dipendenze tecnologiche, e aperto alla partecipazione di chiunque fosse interessato all’argomento. L’evento si inserisce nel progetto Educatamente 2.0, organizzato dalla Asl Roma 1 con la collaborazione scientifica del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Roma La Sapienza.

Come psicologa clinica, psicoterapeuta e consultant per l’area psicologia e psicoterapia del comitato scientifico della World Association on Dual Disorders-Italia, che ha patrocinato il mio intervento, sono stata invitata a relazionare sul tema Gaming Patologico. Quando il gioco diventa pericoloso. La questione del Gaming Disorder l’ho già affrontata insieme a Dori Montanaro, Marinica Montanaro e Ilario Ritacco, all’interno del volume dal titolo omonimo pubblicato nel 2021 per la collana Bios Psiché Adolescenti della casa editrice L’Asino d’oro e sarà anche argomento di una giornata di formazione Ecm organizzata dalla Associazione Magma in collaborazione con la Scuola Medica Ospedaliera di Roma e del Lazio, dal titolo Gaming Disorder. Definizione e strategie di intervento, che si terrà il prossimo 15 dicembre.

L’interesse per il fenomeno nasce dal fatto che i casi di dipendenza da videogiochi, già nota da anni nei paesi asiatici, stanno aumentando nel mondo occidentale, parallelamente al crescere dell’offerta di essi sul mercato. È infatti dell’inizio del 2022 l’introduzione della nuova categoria “Gaming Disorder’” all’interno dell’Icd-11 (International Classification of Diseases), il manuale diagnostico dell’Oms, nella sezione relativa ai disturbi del comportamento legati alle dipendenze. Questo disturbo, su cui c’è molto ancora da approfondire, presenta quindi delle caratteristiche in comune con altre forme di dipendenza (come astinenza, craving, isolamento sociale) che si intrecciano con delle caratteristiche specifiche dei videogiochi, come l’interattività e l’immersività, in grado di fornire un’intensa stimolazione sensoriale. L’uso del videogioco prenderebbe in queste condizioni una forma alterata e compulsiva che perderebbe, o lascerebbe fortemente sullo sfondo, la sua dimensione ludica e ricreativa.

L’aspetto della stimolazione sensoriale è al centro di una ricerca sulla psicodinamica delle dipendenze che porto ormai avanti da anni. Essa è ora supportata da una consistente mole di risultati in campo clinico e di studi diretti e sistematici processo- risultato sull’impatto del trattamento psicoterapico. La conoscenza e la ricerca sugli aspetti biopsicosociali causativi e di mantenimento della psicopatologia del videogioco, costituiscono il punto di partenza imprescindibile per individuare ogni forma di trattamento terapeutico e per impostare adeguati progetti di prevenzione in età evolutiva. Di tutto questo si è parlato durante i lavori dedicati allo studio delle dipendenze tecnologiche.

Giulia non doveva morire

Roma, Circo Massimo, 25 novembre, foto di Renato Ferrantini

Sono passati interminabili giorni, altri insopportabili femminicidi, da quando Giulia è sparita. Tristemente, abbiamo fin dall’inizio sentito che era una sparizione definitiva, ma colpisce che proprio queste parole Giulia stessa abbia usato ripetutamente nel messaggio vocale in cui descriveva, come in un manuale sulla spirale della violenza, la sua consapevolezza paralizzata dal senso di colpa. “Dice che pensa solo ad ammazzarsi”, “sto cominciando ad accumulare rabbia …vorrei che sparisse ….vorrei sparire dalla sua vita, ma il rischio che si faccia del male e che potrebbe essere colpa mia ….mi uccide”. Giulia viveva sulla sua pelle la violenza di quel ricatto, che oggi sappiamo esser stato falso, perché Filippo non pensava ad uccidersi, ma a eliminare Giulia. Non sto parlando di premeditazione, si occuperà l’autorità giudiziaria di stabilire se c’è stata anche questa aggravante, oltre a quella della relazione, finalmente introdotta nella nostra legislazione: gli omicidi “in famiglia”, ovvero di persone alle quali si era legati da un rapporto affettivo, sono agli occhi di ogni essere umano, prima che di fronte alla legge, un abominio, nel senso etimologico della parola: sono disumani. Filippo Turetta verosimilmente non aveva un tormento come quello che abbiamo tutti sentito nella voce oltre che nelle parole di Giulia, non vediamo altro del suo mondo interno se non quelle minacce di suicidio e l’orribile morte che ha dato a Giulia. il “bravo ragazzo”, mai un problema né a scuola, né in famiglia, né fra amici, nascondeva una realtà mentale non cosciente, non visibile, di vuoto e violenza terribili.

Che a monte di ogni femminicidio ci sia la mentalità (basta chiamarla cultura!) patriarcale, è fuori discussione, ma nemmeno si può negare che questo dato strutturale oggi sia cambiato a tal punto da rendere emergenziale la realtà di quasi quotidiani femminicidi che stiamo vivendo. In un bellissimo articolo (su La Stampa di mercoledì 22 novembre), Maurizio Maggiani dipinge un quadro storico, tutto personale ma al tempo stesso collettivo, dell’evoluzione sociale e politica che ha portato a tutto questo: la famiglia patriarcale, la ribellione al padre, gli ideali rivoluzionari finiti in tragedia, la rivoluzione femminista, l’unica “non definitamente fallita”, perché donne e uomini lottavano contro lo stesso nemico, apparentemente, la proprietà e il possesso, volevano“la fine di questo mondo e di questo ordine di potere, e il potere che le femmine rivendicavano era un nuovo ordine d’amore”. Poi quell’amore non l’abbiamo trovato, conclude Maggiani, e i nostri figli ne pagano le conseguenze. “Quanta impotenza e quanto disordine abbiamo lasciato in eredità? quanta frustrazione? (…) Cosa abbiamo lasciato di servibile ai maschi perché trovassero la strada della ribellione se non al sistema almeno ai loro padri?”

Le ragazze di oggi vivono ancora di quell’ideale, dissolvere il sistema patriarcale del possesso, Elena Cecchettin, oggi una per tutte, lo testimonia in questi giorni di profondo dolore. Un sistema ormai moribondo e proprio per questo più pericoloso, per il colpo di coda, la reazione disperata e imprevista di chi è erroneamente considerato già sconfitto o inoffensivo.
Ma a ventidue anni, nel pieno di una relazione ormai scaduta nel grave malessere, non si pensa al patriarcato, non si ragiona di massimi sistemi: l’altro che, incapace di affetti, tenta di esercitare un potere – perché il possesso, è evidente, è pretesa di legame senza affetto – appare così debole da indurre al senso di colpa dell’abbandono. E nel messaggio vocale di Giulia l’abbandono, la sparizione, evoca l’horror vacui della morte interiore, che in psichiatria chiamiamo anaffettvità. E’ in questa condizione che maturano i femminicidi più efferati, e più sconvolgenti perché imprevisti: Giulia temeva il crollo, il suicidio di Filippo, non vedeva oltre l’impotenza la violenza, non sentiva su di sé il pericolo mortale. Forse a momenti aveva avuto paura, ma le mancava la conoscenza.

Hanno ragione i magistrati quando dicono che ogni donna che abbia subito un rapporto di possesso deve temere perla sua incolumità nella separazione. Ma bisogna che si sappia il perché: è la pulsione d’annullamento che nel distacco fa sparire anche l’immagine di quello che era stato: un anno di vita insieme, magari con qualche momento, almeno all’inizio, di speranza in una gioia di vivere. Quando la memoria del rapporto vissuto sparisce totalmente, esplode la violenza che sta sotto all’anaffettività.
E’ vero, ai nostri figli abbiamo consegnato un mondo senza affetti, senza la conoscenza degli affetti. L’amore è ancora considerato impossibile, l’essere umano violento per natura, la diversità tra donne e uomini copre di una coltre di violenta ignoranza la verità dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani per nascita. Tante donne costruiscono lo loro identità, sono brave, forti, benché non sia ancora finito per tutte il tempo in cui avevamo bisogno degli uomini per la sopravvivenza perché veniva negata violentemente la nostra intelligenza diversa. Ma sta finendo, il patriarcato non vuole dissolversi, ma accadrà, e non vogliamo più pagare un prezzo così alto di vite umane, di donne e bambini: non dimentichiamo mai che troppo spesso alla violenza e perfino ai femminicidi assistono e non sempre sopravvivono i figli.

Allora se vogliamo fare prevenzione, dobbiamo cominciare ad occuparci di realtà mentale non cosciente: andiamo alle manifestazioni, urliamo per la nostra libertà, ma non chiamiamo sano quello che è così malato da portare la morte. L’uomo violento è figlio di un ideologia violenta, questo è innegabile, ma innegabile è pure che la gelida lucidità che arma la mano di questi assassini e li spinge a portare a termine l’orrendo crimine con una capacità di intendere e volere che spesso rivendicano anche dal carcere a vita, è disumana. Filippo Turetta, Vincenzo Paduano che ha ucciso Sara Di Pietrantonio, 22 anni anche lei, confondono e trascinano nel senso di colpa perché non sono mostri, sono “bravi ragazzi” la cui normalità nasconde un mondo interno distrutto dall’anaffettività che questa società vuole ancora considerare sana.
Torniamo più numerosi che mai a lottare per un nuovo ordine d’amore, con la forza di un pensiero nuovo.

L’autrice: Barbara Pelletti è psichiatra e psicoterapeuta. E’ presidente dell’associazione Cassandra onlus

La parola è no

L’orrore… i numeri 105 le donne uccise dall’inizio dell’anno, ma un nome Giulia, Giulia Cecchettin diventa simbolo, bandiera, coagula movimenti, 2000 studenti di ingegneria che a Padova si raccolgono per “fare rumore”, gli studenti che, anziché rispettare il minuto di silenzio in memoria chiesto dal ministro, urlano e si fanno sentire, un nome, una vicenda che genera prese di posizione numerose e diverse, che agita, purtroppo anche il fango sui social e non solo.

Forse anche perché Giulia ha una sorella, Elena, che non accetta la sua morte come inevitabile, che dato l’accaduto si ribella all’esistente. E allora occorre lasciar posto alle domande che da più parti vengono poste, ascoltare le ragazze, i ragazzi le loro paure, il loro coraggio.

Occorre proporre un pensiero che può conoscere il perché di un pensiero violento e quindi malato che può portare ad uccidere, ma che non individua una caratteristica della specie, vale a dire non è insito nella natura umana l’assassinio, se accade, qualcosa si è ammalato. Occorre puntare il riflettore su alcuni pensieri/concetti dominanti che possono rappresentare un vulnus per rapporti “brutti”, prevaricanti, possessivi… violenti perché in questi rapporti sparisce l’umano, la donna diventa cosa, oggetto da possedere che non si può perdere. Occorre affermare che chi uccide, e a volte si uccide, è un malato, perché ha perso un’immagine di sé stesso che gli permetterebbe di essere libero nel rapporto con gli altri, di comprendere e amare il diverso da sé. Sono persone, uomini, che si rendono specchi che riflettono l’immagine altrui, per cui se l’altra va via, si allontana dallo sguardo, sparisce anche l’immagine di sé, come a Filippo che diceva a Giulia che “l’unica luce che vede nelle sue giornate sono le uscite con Lei o i momenti in cui lei gli scrive”.

Occorre chiarire che il femminicidio è la tappa finale di un percorso di violenza, dominato da miasmi invisibili, da quella anaffettività, dinamica patologica, causata dalla perdita di affetti, cioè di quel movimento spontaneo verso l’altro da sé che ci rende curiosi, interessati, affascinati da un altro essere umano, tanto più se diverso. L’anaffettività invece è contraddistinta da un vuoto interiore, è la perdita della fantasia, della vitalità, è la perdita di quell’immagine di sé stessi che permette l’accesso al mondo delle sensazioni, delle immagini senza parole, dell’invisibile oltre il comportamento visibile, che diventa negazione e annullamento dell’altro che dilaga appunto in comportamenti omicidi: l’altro deve smettere di esistere.

È malattia della cultura dicono, allora occorre mettere a fuoco alcuni punti.
L’identità della donna. Possiamo andare a cercare nella storia e molti lo hanno già fatto, la costruzione di un’idea per cui la donna sarebbe meno dell’uomo ma alla luce dell’oggi ciò in
cosa si traduce? Nella difficoltà a dire no, a fare dei rifiuti perché si intuisce, si sa che qualcosa non va “vorrei sparire dalla sua vita ma non so come farlo perché mi sento in colpa, ho paura di fargli troppo male” diceva Giulia alle amiche, dire No è assimilato spesso all’essere cattive. Si teme di sbagliare, di mancare. Ed anche quando il rifiuto esce, viene espresso, può venire ignorato, equivocato, deriso, pensiamo alla battaglia culturale sul consenso, sui limiti, su ciò che può essere inteso come consenso nell’ambito di uno stupro o di una violenza in generale.

Non si riesce a dire no perché si ha timore di essere sbagliate, si teme di essere abbandonate, il rifiuto invece è parola gentile e forte che può cambiare le menti.

Occorre rifiutare l’idea, sia dalle donne che dagli uomini, che se il ragazzo è geloso, possessivo, se ti controlla è perché ci tiene a te “il mio malessere” lo chiamano questo tipo di “amore” e nasconde l’idea che se l’uomo non fa così è meno uomo o comunque non è abbastanza coinvolto nel rapporto. E questa narrazione impedisce anche agli uomini la possibilità di sentirsi vulnerabili di chiedere aiuto, di riconoscere il proprio stare male.
C’è a Torino uno spazio speciale, il cerchio degli uomini, che Paola Sangiovanni ci ha raccontato con un interessante documentario; un gruppo in cui gli uomini maltrattanti si confrontano e cercano forse una cura, ripartono da un poter dire di sé e riconoscere le proprie dimensioni malate.” Era lì in piedi mi guardava, io le ho sferrato un calcio, mi sentivo inferiore rispetto a lei, era una donna decisa, intelligente molto bella… mi dominava e io non la sopportavo, non la reggevo, era più forte lei…io venivo fuori con la rabbia, con la voce, con la forza” ci racconta uno dei protagonisti. Svela cioè un rapporto in cui non esiste l’accettazione della diversità, la donna “decisa, intelligente, bella” realizzata non deve esistere.

Si avverte l’esigenza, non sempre consapevole, di ridare un’identità alla donna, che non si fermi ai diritti civili, all’identità sociale, professionale, alla parità salariale o alle opportunità di carriera, ma che si basi su una ritrovata sensibilità, sulla possibilità di fidarsi delle proprie intuizioni che si muovono in quel mondo nascosto, inconscio, che poi va compreso. Proporre e sviluppare un’identità che non si appiattisca solo sul comportamento e sul piano della coscienza ma che, fusa al sentire del corpo, comprenda quel patrimonio di movimenti, sensazioni ed immagini che è il non cosciente. Difficile accorgersi della patologia, malattia invisibile, che non si esprime necessariamente
nel comportamento, nel pensiero della coscienza ed è difficile fidarsi di ciò che si sente se l’altro è il tuo ragazzo, o l’amico del cuore, a cui vuoi bene ” Ti ci intossichi ma non capisci, non vedi” come mi ha detto una ragazza. Gli strumenti che si danno alle ragazze, alle donne sono ahimè la paura e una falsa idea di amore.
Ma l’amore è, e cito Massimo Fagioli, in un’intervista su Left del 2016 “ rapporto con l’identità dell’altro, rapporto che è rispetto, fascino, interesse, se c’è amore si fa di tutto per sviluppare e favorire la realizzazione dell’identità altrui”. (contenuta anche nel libro di Left, con la violenza sulle donne). Un amore appassionato che non dipende e non chiede soddisfazione, ci dice nella stessa intervista. Per questo amore serve identità e libertà sia per le donne che per gli uomini, poiché è nell’ identità sana che risiede la libertà di essere e permettere all’altro di essere.

Le azioni politiche che vengono proposte riguardano la repressione, o meglio una
necessaria applicazione delle leggi a tutela della donna, e iniziative, peraltro da più parti
osteggiate, di educazione sessuale nelle scuole, previste d’altronde dall’art. 14 della
convenzione di Istanbul. Educazione e repressione sono strumenti funzionali ad una società della performance, rimangono alla superficie, al comportamento visibile, forse necessari ma non risolutivi, contengono l’immagine di un essere umano da modellare e controllare.
Occorre quindi segnalare i limiti di un intervento esclusivamente educativo.
Il focus di un cambiamento culturale, di un cambiamento sul pensiero e sull’immagine dei
rapporti umani, potremmo pensare debba implementare dei valori condivisi e promuovere fin dalle prime fasi dello sviluppo una ricerca e comprensione degli affetti. Ambiti raggiungibili solo parzialmente e superficialmente dall’educazione. È necessario dunque continuare a cercare, a studiare, a proporre.

Ipotizzare una formazione che permetta e favorisca il modularsi di un pensiero personale che si dia la possibilità di costruire un futuro diverso, quel futuro che ognuno assapora o dovrebbe assaporare nell’amore dell’adolescenza

Mariapia Albrizio è psicologa clinica e psicoterapeuta

Immagine in apertura, dalla pagina Facebook di Coalizione civica Reggio Emilia

Naturalmente incazzati

Manifestazione di Non una di meno a Bologna, foto di Giovanna Dell'Acqua

Lo so…il titolo è forte, ma volutamente forte, provocatorio. Riguarda la reazione sana umana a certi fatti di cronaca che non si possono assolutamente accettare e che non possono solo provocarci emozioni di sgomento e tristezza.

Si deve reagire! Reagire bene, senza farsi sopraffare dalla rabbia che acceca. E questa volta, dopo la morte ingiusta e violenta di Giulia (l’ennesima purtroppo) per opera di un uomo, il suo ex ragazzo, siamo tutti molto tristi, amareggiati ma anche molto incazzati!

Ma l’incazzatura è per quello che sentiamo ogni giorno in televisione e leggiamo sui giornali. I media non fanno altro che ingarbugliare una matassa di nozioni non chiare sulla realtà umana e sicuramente molto confondenti; informazioni date senza alcun fondamento scientifico, molto pericolose perché fanno aumentare nelle persone una angoscia profonda, come se in tutti noi ci potesse essere il pericolo di diventare degli assassini.

I media continuano a definire i delitti contro le donne come “delitto passionale”, “raptus”. Tutti increduli sì, ma pronti a dire sempre le stesse cose orribili dell’uomo “naturalmente violento” che perde il controllo, che ha gli istinti irrazionali animali e che se non riesce più a controllarli con la ragione può diventare pericoloso.

Insomma una cultura dominante agghiacciante che non prende assolutamente in considerazione l’unica vera possibilità di comprensione di questi fatti, ovvero riconoscere la presenza di una grave malattia mentale. E attenzione perché ora si apre un altro problema, perché tanti non vogliono proprio sentire parlare di malattia mentale perché altrimenti è giustificare l’assassino. E no! Qui si deve parlare di malattia mentale , altrimenti non si capirà mai quale dinamica latente porta un ragazzo di 22 anni, apparentemente “normale”, solo un po’ taciturno, a rapire la sua ex ragazza, riempirla di calci e di coltellate e quindi, ad ucciderla.

Tutti gli esseri umani alla nascita sono sani mentalmente. E se riconosciamo una sanità di base alla nascita, possiamo parlare anche di malattia che può insorgere successivamente e che ha una sua causa (eziopatogenesi come nelle malattie del corpo). E allora possiamo anche pensare di curarla questa malattia mentale, magari anche poter fare prevenzione. Tutto questo lo troviamo nella “Teoria della nascita” dello psichiatra Massimo Fagioli che è prassi ormai da quasi 60 anni, e che ha scoperto e teorizzato la naturale fisiologia della nascita e dello sviluppo psichico dell’uomo, partendo dal concetto di “sanità”. Per decenni si è occupato di realtà non cosciente (inconscio) degli esseri umani, dove c’è quella irrazionalità che non è vista come animalità ma come verità dell’uomo, fatta di affettività, interesse per gli altri essere umani, creatività, intuizione e sensibilità.

Ed è sempre in questa realtà non cosciente che si devono ricercare i segni della malattia mentale che, quando presente determina, nel malato di mente, un annullamento/perdita della propria affettività e conseguentemente gli altri esseri umani diventano solo corpi che si muovono ed eventualmente percepiti come pericolosi e aggressivi. Disse Fagioli in un intervista su left nel luglio del 2010, dal titolo “Uomini che uccidono le donne”, la donna diventa la cattiva, la madre persecutrice. Quella che effettivamente può essere stata quando era bambino, magari una madre anaffettiva. E poi focalizza l’attenzione sulla possibilità di cogliere prima i segnali di qualcosa che non va nell’altro, ritrovando quella sensibilità che fa vedere oltre il buon comportamento.

In effetti, il comportamento e il linguaggio articolato non ci dicono nulla sulla realtà interna delle persone e, quindi, sulla presenza/assenza della sanità mentale, in quanto entrambi possono essere ineccepibili e normali. È in questa realtà non cosciente che va ricercato quel pensiero che eventualmente si è ammalato e che fa diventare le persone anaffettive, lucide, violente, malate.

La cultura dominante, anche in ambito psichiatrico, si interessa principalmente di definire il comportamento del paziente, di esplorare i suoi pensieri coscienti, al massimo può descrivere quale personale sensazione gli ha suscitato il paziente durante il colloquio. In contesti istituzionali allo psichiatra viene chiesto di esplorare ciò che emerge dall’osservazione del comportamento e del linguaggio articolato. Ma non sempre da questa valutazione emergono sintomi importanti; solo quando la malattia è ormai manifesta ci possono essere delle alterazioni importanti che si vedono anche nel comportamento o verbalizzate dal paziente. Ma per definizione, chi è affetto da una grave patologia psichiatrica, molto spesso non ne è consapevole e, quindi, è molto difficile che chieda aiuto.

E quindi, ecco, che i bravi ragazzi, la brava persona, il bravo vicino di casa si trasformano all’improvviso in un omicida violento. Ma non è così, e soprattutto non è all’improvviso. È solo all’improvviso che una malattia latente, nascosta, diventa manifesta.
E allora ecco le domande legittime che è giusto farsi: si può capire da qualche segnale che c’è una malattia così grave? Si possono prevenire queste tragedie? Ci si può curare? La risposta a tutte le domande intanto è: Sì.
Poi sicuramente la questione è molto più complessa e articolata, perché tante cose andrebbero cambiate, la prima fra tutte è proprio la cultura. E le tematiche non sono solo il “patriarcato”, “la violenza sulle donne”, ma soprattutto l’idea della malattia mentale come malattia organica e incurabile; o peggio ancora negare la presenza della malattia mentale stessa, facendola passare come un disturbo più o meno presente in tutti gli esseri umani.

l’autrice Donatella De Lisi è psichiatra e psicoterapeuta

In apertura Manifestazione di Non una di meno a Bologna, foto di
Giovanna Dell’Acqua. il 25 novembre le manifestazioni si tengono a Roma (dalle 14,30) e a Messina