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Ucraina e Palestina, storia del fallimento dell’Occidente

Nel greco antico indagare si esprime con historein, fare storia. Questa coincidenza ha un significato simbolico fondativo per la cultura dell’Occidente. La disciplina che indaga il passato nasce, nella geniale lingua dei Greci, come equivalente di esplorare, conoscere Se si vogliono decifrare i fatti e inquadrarli in un ordine esplicativo, occorre ricostruirli storicamente. E in questo lemma si racchiude un nostro archetipo culturale: ogni volta che il presente ci pone di fronte a un fenomeno nuovo e complesso noi ci rivolgiamo al passato, tentiamo di scorgere da dove esso si è originato, per esaminarlo nel suo svolgersi nel tempo e comprenderlo. Perché la storia, come ricordava uno storico del ‘900, Edward P. Thompson «è la scienza del contesto», il sapere che connette i frammenti dispersi dei fatti e li rende intellegibili.

Dovrebbe dunque essere per noi indiscutibile che la guerra in Ucraina non si possa oggi comprendere senza fare storia. Ma su questo drammatico evento (è del 14 dicembre la notizia dell’avvio dei negoziati per l’adesione di Kiev all’Unione europea ndr), che occupa da quasi due anni la scena del mondo, si fronteggiano due opposte interpretazioni. Una è quella che resta alla cronaca, schiacciata sugli episodi del presente: il 24 febbraio 2022 la Russia ha invaso l’Ucraina, un Paese sovrano, violando il diritto internazionale. Verità in sé ineccepibile e da condannare: la guerra è morte e distruzione. Ma questa interpretazione è manchevole di historein, di indagine, sulla catena di eventi disposti nel tempo con logiche di causalità che l’hanno provocata.
Tutto si spiega superficialmente e in maniera ingannevole con una motivazione che fa presa sull’immaginario collettivo: l’espansionismo della Russia comandata da un feroce dittatore. Le versioni più semplici sono il materiale privilegiato per la manipolazione totalitaria dell’opinione pubblica. Ma questa interpretazione, che si ferma alla cronaca, che non colloca gli eventi nella giusta disposizione temporale (quando comincia l’accerchiamento Nato e quando la Russia invade la Georgia e poi la Crimea, regione russa da sempre), che era dominante agli esordi, è cominciata a venir giù man mano che si è cominciato a fare storia, a gettare lo sguardo sul passato. Solo la ricerca storica, in questo caso, ad esempio, l’analisi di fonti archiviste americane desecretate, mostrano che nel 2001, tradendo gli impegni di non espansione nell’Europa orientale fatta ai sovietici, la Nato si era allargata di ben 1600 km verso i confini della Russia. Nel 2004 furono ammessi nell’Alleanza altri due stati, tra cui Romania e Estonia, quest’ultima confinante con la Russia. Ma nel 2008, con il “Memorandum di Bucarest” fu inclusa la seguente dichiarazione: «abbiamo concordato oggi che questi paesi /Ucraina e Georgia/ diventeranno membri della Nato» (B. Abelow, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, Fazi 2023, pp.17-18) Quindi i tanti orecchianti che vedono nelle annessioni di Mosca, fermi alle cronache manipolate dei giornali occidentali, la prova dell’espansionismo imperialistico russo, sbagliano clamorosamente e commettono un’ingiustizia di valutazione morale e politica. La Russia, ingannata da tante promesse americane tradite, intimorita dalla ritirata unilaterale degli Usa dai tanti trattati sui missili balistici atomici, hanno cercato di reagire a quel che era diventato un palese accerchiamento, una minaccia alla propria esistenza.

La storia più nota e più recente, ha poi mostrato come alla base dell’invasione russa ci fosse anche la guerra civile, la persecuzione e i massacri della popolazione nelle province russofone, da parte di Kiev. Si è dunque soprattutto scoperto che il supporto difensivo degli Usa all’esercito di Kiev era il camuffamento di una strategia di guerra predisposta da tempo.

Ora il copione si ripete con l’attacco di Hamas ad Israele, del 7 ottobre: un atto di guerra, ma insieme un pogrom contro la popolazione civile. Sulla condanna di quell’azione non è possibile alcuna discussione. Ma l’episodio sanguinoso, su cui naturalmente si concentra l’orrore e la condanna generale, finisce con l’esaurire l’intera storia dei rapporti tra Israele e la Palestina. Non soltanto vengono cancellati 75 anni di guerre, la dispersione del popolo palestinese dopo il 1848 e dopo il conflitto del 1967, ma soprattutto la creazione di un lager di nuovo conio, una novità clamorosa nella storia contemporanea: la detenzione di un intero popolo nell’angusta striscia di Gaza. Ebbene chi si azzarda a ricordare che cosa può spiegare, come si possa fare historein dell’attacco di Hamas, viene processato sul posto per connivenza col nemico. L’accusa di antisemitismo, diventato da anni un dispositivo retorico per impedire ogni ragionamento storico, rendere legittimo ogni sopruso che lo Stato d’Israele compie contro i Palestinesi, viene riusato per giustificare la Strage degli innocenti che si consuma a Gaza. In Italia è da tempo all’opera uno squadrismo giornalistico che tenta di far tacere chiunque vada oltre la condanna moralistica e le retoriche di contorno e si avventura nel compito di comprendere. Di fare storia. E in questo momento lo squadrismo è ancora più intollerabile, perché Israele con i bombardamenti su Gaza, sta trasformando l’asservimento silente degli ultimi 20 anni in un massacro definitivo.

Ora si dice che la storia la scrivono i vincitori. Verità indiscutibile. Ma non nel senso che tra i vinti non possa sorgere qualche storico che, sine ira ac studio, racconti come sono andate realmente le cose. In Iraq potrebbe esser nato uno storico che scriverà con quale proditorio arbitrio gli Usa hanno bombardato e invaso il suo Paese, provocando circa 150 mila morti, senza che dal suo popolo sia mai venuto alcun danno od offesa agli Americani. Ma resterebbe un libro senza eco. La storia degli sconfitti si scrive con il silenzio. Infatti, quell’aggressione è da tempo dimenticata, obliate sono le responsabilità degli Usa, non diversamente che per la Libia, e l’Afghanistan. Infatti non è tanto la storia scritta che conta, ma la memoria collettiva che alla fine s’impone.

Ora è evidente che un diverso andamento della guerra in Ucraina, con la vittoria della Nato, lo smembramento della Federazione russa coi suoi 26 stati e 160 gruppi etnici, destinati probabilmente a deflagrare, come in Jugoslavia, in una sanguinosa guerra civile, avrebbe dato all’Occidente la possibilità di un racconto del conflitto che già conosciamo. La vittoria della democrazia e dei valori occidentali su un’autocrazia asiatica, la sconfitta di un tiranno, la liberazione dei popoli. E’ almeno dalle crociate medievali che la storia, intesa come memoria dei popoli, l’Occidente la scrive così. Ma questa volta appare estremamente difficile ripetere il vecchio copione. La Russia non ha perso la guerra, non è crollata economicamente, Putin non solo appare saldo al potere, non solo non è riducibile a un tiranno pazzo, ma mostra di avere attorno un gruppo dirigente capace di visione strategica, di governare un Paese non diviso, in grado di grandi sacrifici, proprio perché ingiustamente minacciato. E non pretendo che i commentatori occidentali comprendano quanto dell’autoritarismo che governa la società russa di oggi sia anche frutto della permanente minaccia alla sua sicurezza, che inizia nel lontano 1918, con il tentativo dell’Armata Bianca, sostenuta da corpi di spedizione europei e americani, di soffocare la Rivoluzione d’Ottobre.

Anche il popolo palestinese, sconfitto nel 1948 e nel 1967, è stato privato della sua storia. L’umiliazione e la disperazione di milioni di persone sono scomparse per anni dalla coscienza del mondo. Ma oggi, con il massacro di Gaza, comunque si concluda il conflitto, si chiude una pagina di storia mondiale. La Russia non ha perso la guerra e la questione palestinese, dominata dall’appoggio Usa a Israele, è ancora tragicamente aperta. Le esortazioni alla moderazione del presidente Usa Biden, rivolte al governo di Israele in queste settimane, costituiscono un’espressione di suprema ipocrisia, una finzione crudele. Utili per mascherare responsabilità dirette, per non macchiare di altro sangue le mani dei governanti americani. Gli Usa hanno sostenuto per 75 anni tutte le scelte di quello Stato, anche le operazioni meno difendibili, delegittimando irrimediabilmente la potestà delle Nazioni Unite. E oggi supportano con armi ed equipaggiamento l’esercito d’Israele che devasta e uccide a Gaza. Hanno inviato due delle loro grandi portaerei nel Mediterraneo Orientale a far da guardia, perché nessuno osi disturbare Israele mentre compie i suoi quotidiani massacri.

Oggi dunque si chiude una pagina sanguinaria e per l’Occidente si pone un problema impossibile da aggirare: come raccontare la storia di un fallimento seriale. La guerra in Iraq non ha portato la democrazia, ma il terrorismo endemico, la Libia è stata ricacciata ai suoi originari conflitti tribali, l’Afghanistan è ritornato ai Talebani, l’Ucraina è semidistrutta, Gaza muore e Israele è oggi ancora più insicura. Il discredito sarà incancellabile e getterà la sua ombra sui decenni a venire. Questa volta la storia degli sconfitti non si potrà scrivere col silenzio. Centinaia di migliaia di ucraini sono morti per niente, per l’ennesimo calcolo sbagliato degli Usa e dei suoi alleati, per il delirio di onnipotenza del gruppo dirigente di un impero che tenta di frenare il suo declino con la violenza delle armi. L’insicurezza di Israele e le sue vittime, e migliaia di palestinesi uccisi, appaiono ormai solarmente quale esito della strategia americana. Ora potrà apparire cinico dirlo, ma questo tragico scacco, questa disfatta senza appello delle politiche americane e Nato, è una condizione perché l’Ue ritrovi le ragioni ideali per cui era nata. E si apre per noi, per i democratici radicali e per i pacifisti di tutto il mondo, la possibilità di un nuovo racconto, che chiami in causa le responsabilità delle élites Usa ed europee, e le costringa a rispondere dei loro errori e delitti ai propri popoli e a quelli degli sconfitti.

Nella foto: Gaza city, 2009 (wikimedia)

Guai a criticare la misoginia cattolica. Il caso dell’assessore Tesei a Jesi

Lorenzo Lotto, Annunciazione, Pala di Recanati

Ci risiamo. Se ricopri un incarico politico e ti azzardi a parlare in maniera critica del cattolicesimo vengono sguainate le spade dell’identitarismo cristiano e immancabili arrivano le richieste di dimissioni a mezzo stampa per presunte offese. Stavolta è toccato ad Alessandro Tesei, assessore all’ambiente e al turismo nel Comune di Jesi (e rubrichista di Left ndr). La sua colpa avere espresso un’opinione sui social: «Per combattere il patriarcato dovremmo seriamente mettere in discussione e sotto accusa l‘ideologia e la mentalità cattolica. Sennó si guarderebbe il dito e non la luna».

Come tutte le opinioni si può condividere o meno. Come tutte le critiche alle idee rimane tale e non si trasmette affatto alle persone che quelle idee abbracciano, alla faccia del tentativo passivo-aggressivo di chi chiede la testa dell’assessore in quanto seminatore di «odio e discriminazione nei confronti del mondo cattolico». Come se poi il mondo cattolico non avesse mille modi di pensare il tema sollevato da Tesei: quasi mezzo secolo fa arrivò una emblematica dimostrazione al riguardo su argomenti come divorzio e aborto, con l’esito misurato molto concretamente nelle urne. Infondato, quanto noioso, è poi il richiamo alle radici. Anche senza entrare nel merito, perché mai se «la cultura cattolica fa parte di un pezzo importante della cultura» della città di Jesi allora dovrebbe essere protetta da valutazioni critiche?

Solidarietà dunque ad Alessandro Tesei, per gli attacchi e le pressioni ricevuti da chi chiede di dimettersi o di pentirsi e ritrattare. Non bisogna cedere a chi vuole limitare il fondamentale diritto alla libertà di espressione e continuare a considerare intoccabili le idee quando c’è di mezzo la religione. Anzi, è il momento di rilanciare, di uscire dalla cagnara dei social e pensare invece all’amministrazione laica della cosa pubblica. Perché ci sono aspetti molto concreti che mostrano che a essere discriminati sono i non credenti e a essere privilegiate sono organizzazioni religiose fondate sulla disparità di genere.

Ad esempio il Comune di Jesi garantisce una sala dignitosa di proprietà pubblica per i funerali in forma laica? È un obbligo di legge, ma il condizionamento sociale – e chi vuole pensi che c’entri qualcosa anche la cultura cattolica – porta a pensare che se ci sono le chiese allora siamo a posto. Il Comune di Jesi versa una quota degli oneri di urbanizzazione secondaria alla Curia o alle parrocchie? Con una delibera del consiglio comunale sarebbe ora che venisse azzerata e che le risorse pubbliche siano destinate alla proprietà pubblica; non c’è che l’imbarazzo della scelta visto che tra le destinazioni previste per gli oneri di urbanizzazione secondaria vi sono anche l’edilizia scolastica, gli asili nido e le aree verdi. Infine, a Jesi nell’anno scolastico 2020/21 il 17% degli studenti non frequentava l’insegnamento della religione cattolica (Irc). Il Comune ha pagato la cedola libraria anche agli scolari dell’ora alternativa della primaria o solo il libro di testo per le lezioni religiose? Perché con l’Irc siamo in uno di quegli ambiti in cui il patriarcato si esprime nettamente. Spetta infatti all’ordinario diocesano – ossia il vescovo, ossia rigorosamente un uomo per la dogmatica connotazione basata sulla disparità di genere della Chiesa cattolica – scegliere a suo insindacabile giudizio chi può accedere al posto statale di insegnante di religione con relativo stipendio pagato dai contribuenti. La più grande forma di clientelismo in Italia, clericale e maschilista.

Alessandro Tesei, assessore al Comune di Jesi

Roberto Grendene è segretario Uaar

In apertura Lorenzo Lotto, Annunciazione, Pala di Recanati 1534

La Madonna spaventata davanti all’imperioso annuncio dell’Arcangelo che prefigura un futuro di dolore per volere divino

Giulia, «mia»

manifestazione del 25 novembre 2023, Roma. Foto di Renato Ferrantini

«Non accettavo che lei non fosse più mia». Altro che i biscotti, altro che il padre in tivù per lamentarsi che suo figlio venga diffamato perché indicato come assassino reo confesso com’è, altro che le lacrime, altro che gli articoli per sapere che libri vorrebbe in cella, altro che i rabdomanti di sangue sui marciapiedi, altro che la piscomagia del raptus: se c’è una frase su cui dibattere dell’interrogatorio di Filippo Turetta che ha ammazzato Giulia Cecchettin è questa: «non accettavo che lei non fosse più mia»

«Mia» come lo sono le cose che teniamo nel cassetto porta oggetti dell’auto. «Mia» perché possesso. «Mia» perché l’autonomia delle donne è un tradimento all’atavico patto che le donne debbano stare al loro posto, che spesso non è loro ma di qualche uomo che glielo concede. 

Quali siano gli strascichi giudiziari del processo sul femminicidio di Giulia Cecchettin, a quanto ammonterà la condanna e che forma avrà la strategia difensiva è una piega della vicenda che ha poco a che vedere con quello che dovrebbe interessarci sui femminicidi come danni collaterali del patriarcato legittimato.

La discussione politica (già sopita come accade agli emendamenti di una legge di Bilancio) e la discussione culturale (egemonia di maschi impauriti) dovrebbe convergere su quel «mia» esalato dalla bocca di quasi tutti i femminicidi. Ma è una riflessione che non accadrà perché smentisce le radici delle scemenze ascoltate in queste settimane. Ogni femminicidio è premeditato perché sedimentato da una cultura che opprime e sopprime anche quando non uccide. Altro che biscotti. 

Buon lunedì. 

L’adolescenza su tre ruote raccontata da Api il documentario

Lo scoppio delle marmitte, le portiere che a stento si tengono, le casse che montano musica. Api, il nuovo documentario di Luca Ciriello, rompe il silenzio delle montagne. Tra i paesaggi meravigliosi e fermi della Val d’Aosta la telecamera punta dritto su una storia inedita, per uno sguardo sui giovanissimi che in questi ultimi anni vengono raccontati come ossessionati unicamente dagli schermi. C’è invece un mondo che sembra rimasto ad antichi riti di gruppo. Crescere attorno ad un mezzo per emanciparsi, per fasri notare, primeggiare, ma anche condividere. Ciriello dopo Quaranta Cavalli, documentario che raccontava i giovanissimi sui barchini della laguna veneta, torna ad osservare dei giovanissimi, questa volta a Pollein, in provincia di Aosta. Gli apecar 50 truccati, per andare più forte e per provare virtuosismi su un un solo lato, sono il centro di gravità permanente per un gruppo di giovanissimi. Sullo sfondo, come se non esistessero, le valli, la vita degli adulti, le preoccupazioni e le ansie. C’è tanto allenamento, ricerca su cosa possa far sgasare meglio e dove mettere le mani sul motore. I protagonisti del film alle feste vanno in apecar, la pizza la mangiano sul retro del mezzo di trasporto che nell’immaginario di tutti è da lavoro, per trasportare ferro, frutta, Invece in Api è vita quotidiana tra amici. Il documentario vive lungo la spensieratezza di un’estate che mostra le sfide di un’adolescenza poco conosciuta. C’è la trap che salta fuori da casse collegate sugli ape car, grazie ad ingegneria fatta in casa da Saba, Gallo, Fede e Jill. La regia è sui volti dei quindicenni, non indugia sul contrasto con l’ambiente, tutto è delicato, nonostante i rombi dei motori, le impennate e i beat della discoteca. Api fa viaggiare su tre ruote senza mai sbandare, stando in curva con i ragazzi e tra le nuvole sulle panoramiche che la macchina da presa concede. L’opera si concede un’unica trasgressione: Albano e Romina cantati a squarciagola dai protagonisti. Non pompano solo i motori, ma anche le voci dei quindicenni, che con le loro Api dichiarano di esistere.
Luca Ciriello, già regista di Arme Rougé, ha realizzato Api grazie al contributo del Fondo per il sostegno alla produzione audiovisiva della Fondazione Film Commission Vallée d’Aoste e alle produzioni Lunia Film e L’Eubage Srl.
IL documentario è stato presentato in anteprima il 25 novembre al Filmmaker Festival 2023, nel Concorso Prospettive al Cinema Arcobaleno di Milano.

Cordelia, la partigiana di Molfetta che mise ko il fascismo

Molti di noi ricorderanno il libro Noi partigiani, Memoriale della Resistenza italiana a cura di Gad Lerner e Laura Gnocchi redatto per conto dell’Anpi e pubblicato da Feltrinelli nel 2022. In quell’occasione, studenti, docenti, ex partigiani costruirono insieme un romanzo collettivo della Resistenza con oltre 400 interviste filmate per dare voce ai partigiani che tra l’8 settembre 1943 e la Liberazione erano adolescenti o addirittura bambini. Ci fu chi prese la strada delle montagne o dell’attività clandestina, chi continuò, nella vita quotidiana, ad opporsi al fascismo e a loro dobbiamo la libertà e il senso della democrazia oggi spesso messa in pericolo. A quel lavoro di ricostruzione collettiva, come si fa per un grande tappeto tessuto insieme, presero parte ex partigiani, politici, giornalisti e docenti. Tra questi una insegnante, Antonia Abbattista Finocchiaro, che fu così colpita dalla vicenda umana e politica di una donna, come lei pugliese di Molfetta , che ne volle fare un libro a parte, mettendosi a cercare testimonianze e incontrando personalmente alcuni suoi parenti Ne è nato un libro  Cordelia controvento, campionessa pugliese, partigiana a Roma, uscito recentemente per i tipi di Moretti e Vitali. La donna di cui parliamo è infatti Cordelia La Sorsa, partigiana, insegnante, campionessa di atletica, che ora rivive nelle pagine del libro. A metà tra romanzo e saggio storico, il testo presenta al pubblico l’immagine di una donna vitalissima e ribelle, orgogliosa delle sue radici, con un senso indomabile della libertà, a cominciare dalla propria. Studia, diventa campionessa nazionale di atletica, avrà una figlia ,che farà laureare, mantenendola con il suo lavoro, senza mai sposarsi..
Donna modernissima dunque, tanto da conquistare completamente l’attenzione di Antonia Finocchiaro, che già in passato si era cimentata a descrivere figure femminili fuori dal coro ad esempio Penelope non fu minor d’Ulisse, sulle donne nel sedicesimo secolo e in prossima uscita, Rinascimento femminile, la vita di tre donne vissute all’inizio del Settecento tra Milano, Bergamo e Roma. Per Cordelia l’autrice dichiara di provare un legame speciale. L’abbiamo intervistata.
Professoressa Finocchiaro in un Paese civile, come ha scritto lo storico Massimo Novelli, le avrebbero dedicato saggi e racconti, film e fiction, invece se lei non l’avesse “ripescata” tra le mille figure di italiani e italiane che combatterono i nazifascisti sarebbe sprofondato in uno dei molti buchi della Storia.
Cordelia è una donna speciale. Questo è ciò che mi ha attirato in lei, e anche nelle altre che ho “scoperto”, anche se sono vissute in secoli lontani. Tutte sono donne capaci di uscire dalle regole imposte dal mondo prevalentemente maschile, dalle consuetudini che le avrebbero volute subordinate a tradizioni e abitudini, che di solito fanno comodo agli uomini. Cordelia, nel suo tempo come le altre nel loro, ha ignorato i limiti, ha seguito il suo istinto e i suoi bisogni, scegliendo sempre di rispettare la propria dignità e di tutelare la propria libertà e la propria indipendenza. Pagando di persona il solito prezzo di una certa solitudine, ma cercando e trovando sostegno nelle amicizie e nella famiglia di origine.
Cordelia discende da una famiglia antifascista “doc”: suo padre Angelo al quale era legatissima e a cui deve il nome Cordelia, la figlia preferita di Re Lear, l’unica che lo accoglie e gli resta vicino, era ,maestro, conferenziere, sindacalista fondatore del primo sindacato agricoltori. Il fratello del padre è Saverio La Sorsa,storico , antropologo, amico di Gaetano Salvemini: questo ha contato nella sua formazione e nel carattere…
La Puglia oggi è un paradiso delle vacanze, situazione giustificata dalla bellezza della sua terra e della sua storia, ma questa regione non è solo questo: ha una solida e affascinante storia culturale, i pugliesi hanno un forte attaccamento alle radici e insieme una capacità di innovazione che in poche altre zone d’Italia si trova. Cordelia ne è stata – a suo tempo – il frutto: un antifascismo che io definisco “quotidiano”, una resilienza ad obbedire a imposizioni assurde e antiliberali, in nome della lezione di Gaetano Salvemini, di Saverio La Sorsa, ma anche di Pantaleo Carabellese, sullo sfondo del luminoso esempio di Tommaso Fiore. Tutto questo è stato fondamentale per la sua formazione, che si è innestata certamente in un carattere bizzarro e ribelle lasciato libero dalla educazione paterna.

Nel libro si afferma che la Resistenza pugliese è stata molto importante nella lotta di Liberazione dal nazifascismo e nella costruzione dell’Italia repubblicana . Il presidente della sezione Anpi del capoluogo pugliese, Nicola Signorile, intitola la sua postfazione al libro “La Resistenza a Bari: una storia precoce di periferia”, a indicare una opposizione contro il nemico che ha preceduto addirittura quella del Nord. Ragazzi della città vecchia e portuali che il 9 settembre del’43, combattono strenuamente a fianco dell’esercito italiano, lotte di cui non si è parlato come accaduto per le cinque giornate di Napoli, celebrate anche dal film di Nanni Loy. Cosa rimane secondo lei, nei giovani, di quel nobile sentimento?
La risposta a questa domanda è molto difficile, anche perché non riguarda – penso – solo i giovani pugliesi ma intere generazioni italiane che per alcuni decenni si sono allontanate dagli ideali fondativi dell’Italia moderna. La storia dell’antifascismo pugliese è solo ancora un po’ nascosta, ed è bene che se ne sappia. Oggi esiste un importante filone di ricerca storica che ha rintracciato l’efficace contributo di tutto il Sud alla Resistenza. Ecco: studiare, conoscere e diventare consapevoli, costruire la propria identità sulla storia, tutte queste cose costruiscono, a mio avviso, l’unico vero fronte di opposizione al pericoloso conformismo della rete in cui giovani e non solo si lasciano irretire, alla stupida “educazione del web” cui stiamo assistendo.

A soli 24 anni Cordelia decide di affrontare i nazifascisti con le armi. Dopo l’8 settembre 1943 aderì al gruppo romano di Bandiera Rossa, comunisti alla sinistra del Pci, una “opzione netta”, come lei scrive per un coinvolgimento che valica i confini di una generica adesione ideologica”….
Si impegnava in prima persona a rischio della propria vita. Abbiamo da imparare dalla sua grinta di donna, dal suo impegno sociale, dal suo sprezzo del pericolo, e perché no, anche dalla sua solitudine. Possiamo anche capire le ragioni dei suoi silenzi, come racconta la sorella, immaginare le lacrime versate di nascosto dal mondo, da condividere il suo essere donna e madre contro ogni ostacolo e pregiudizio.

Dotata di una vitalità fuori dal comune Cordelia era anche una grande sportiva: tra il 1936 e il 39 pratica atletica leggera sotto la guida di Giosuè Poli, figura prestigiosa e significativa dello sport nel XX secolo, campione di decathlon, ma anche di altre specialità. Molto dotata, vince nei i 50 metri piani, nella staffetta 4×100, il salto in lungo in cui ha raggiunto i 4 metri e 66. Una diavola. La disciplina necessariamente imposta dallo sport ha affinato le doti della persona, forse ne ha esaltato il senso di libertà…..
Una diavola, vero! La disciplina sportiva, l’esempio di un grande uomo che è stato il dimenticato, Giosuè Poli, hanno letteralmente plasmato un carattere che altrimenti l’avrebbe portata forse allo sbando. La sua esperienza mi ha consentito di riprendere un tema purtroppo ancora relegato nell’ambito dello studio specialistico, e cioè il ruolo esercitato dallo sport nel settore femminile durante il fascismo. È stato paradossalmente una sorta di autogol per il regime: mentre proponeva un modello femminile morbido e accondiscendente, nello sport si forgiavano donne resistenti e autonome, consapevoli del proprio corpo e della propria indipendenza.
Il libro di avvale della autobiografia di Cordelia, testi registrati nel tempo, ricordi personali inediti, ma anche delle testimonianze della figlia Anna Maria e della sorella. Lei ha incontrato la figlia? C’è una cosa che l’ha colpita nelle parole che ha detto su sua madre?
Questo è l’aspetto più delicato nella scrittura di biografie: toccare e percorrere i rapporti d’affetto. Ho conosciuto la figlia di Cordelia, che ha ancora un amore viscerale per la madre, con cui ha vissuto una sorta di simbiosi fatta di odio e amore, di abbracci e battute, un rapporto ancora irrisolto e non sciolto dalla scomparsa. Non le parole ma gli occhi di questa donna giovanile e socievole, anche se ormai ottantenne, mi hanno colpito: ogni volta che si parla di sua madre ardono di orgoglio. E se non è amore questo….

Il sogno dei bambini siriani rifugiati in Giordania: andare a scuola

Con l’avvicinarsi dell’inverno l’emergenza freddo torna a colpire tutti gli sfollati siriani che vivono nei campi. L’Onu ha annunciato che circa 2.7 milioni di persone in Siria hanno bisogno urgente di aiuto. Quello del gelo però è solo uno dei tanti problemi che i profughi siriani si trovano ad affrontare tutti i giorni. Una questione ampiamente sottovalutata invece è quella dell’educazione, che rischia di ampliare ulteriormente la distanza tra i ricchi e i poveri del mondo.

Sono circa 675mila i profughi siriani legalmente registrati in Giordania; a questi vanno aggiunti tutti quelli non registrati. Per un Paese che conta 10 milioni di abitanti, si può capire quanto pesi un numero così elevato di stranieri, per la stragrande maggioranza arrivati tra il 2011 e il 2013 in seguito allo scoppio della guerra civile. Per quanto siano trascorsi più di dieci anni e in questo tempo si sia instaurata una forma di convivenza civile tra le due popolazioni, i problemi rimangono molti e quello dell’istruzione dei rifugiati è uno dei principali. Emarginazione, povertà e abbandono scolastico sono solo alcune delle difficoltà che la comunità siriana incontra tutti i giorni, mentre gli aiuti umanitari sono sempre più scarsi in quella che rischia di diventare a tutti gli effetti una crisi dimenticata.

Foto Noiva

Se già in Italia quando le classi superano le 20 unità l’atmosfera comincia a essere claustrofobica, come ogni docente sa benissimo, allora si può solo immaginare come debba essere in Giordania dove arrivano a contare fino a 60 alunni contemporaneamente. Di norma le classi sono composte da un numero compreso tra i 30 e i 60 allievi, con buona parte degli studenti che rimane seduta per terra, non essendoci abbastanza spazio per le sedie o seggiole a sufficienza per tutti. In un contesto che già di suo può essere definito una sfida per ogni insegnante con un minimo di amor proprio, il fatto che i docenti poi siano chiamati ai doppi turni senza alcun beneficio economico risulta una vera e propria provocazione per l’intero mondo scolastico.

Funziona infatti così il sistema educativo in Giordania: i bambini giordani e quelli siriani non vanno a scuola insieme. Essendoci un numero molto elevato di stranieri, l’orario è stato diviso in due turni: la mattina i giordani, il pomeriggio i siriani. Per quanto possa essere comprensibile la separazione degli studenti in due gruppi distinti, non tanto per ragioni sociali quanto per questioni pragmatiche (il livello dei siriani infatti non è quasi mai lo stesso dei giordani, spesso perché hanno perso degli anni a causa della guerra), ciò che risulta davvero impossibile da comprendere è l’organizzazione generale della didattica. I docenti del pomeriggio infatti sono gli stessi della mattina, sono obbligati da anni a fare i doppi turni e a svolgere lo stesso identico programma due volte al giorno, senza ricevere alcun compenso per le ore aggiuntive.

Foto Noiva

«Si capisce che degli insegnanti che lavorano in questo modo siano scarsamenti motivati. È inevitabile, non ne traggono alcun beneficio. Le energie poi vanno tutte al mattino, il pomeriggio si limitano a far copiare agli studenti ciò che dettano o scrivono alla lavagna; non c’è alcuna sperimentazione didattica. In questo modo i bambini siriani, che già partono svantaggiati, escono dalla scuola primaria con delle lacune enormi e il rischio è che si ritrovino a 14 anni senza saper leggere o scrivere. Noi interveniamo per evitare che questo succeda», ha dichiarato a Left Anna Winkler, coordinatrice di Noiva in Giordania, una ong svizzera che si occupa prevalentemente di educazione. «Questo non significa che tutte le scuole siano così. Alcune sono molto buone ma in generale la qualità dell’istruzione per i siriani è molto bassa».

Le attività di Noiva si svolgono principalmente a Mafraq, la città con il secondo numero più alto di profughi siriani in Giordania, dopo la capitale Amman. Il progetto consiste nel formare i genitori volontari – soprattutto mamme – per poter insegnare l’arabo e la matematica di base ai bambini della comunità siriana. Le lezioni si svolgono a casa loro, sono organizzate in gruppi di una decina di studenti, e si tengono tre o quattro volte alla settimana. «Diamo anche un piccolo compenso economico ai docenti-volontari, che in questo modo non sono più disoccupati. Certo, i genitori non sono degli insegnanti e non possono sostituirsi ad essi, ma trattandosi dei loro bambini e della loro comunità sono altamente motivati nel fare ciò: così vengono compensate le carenze del sistema scolastico».

Che la riforma costituzionale fa schifo lo dice perfino Gianni Letta

Gianni Letta con il presidente Ciampi

La retorica e la propaganda intorno alla desiderata riforma costituzionale per il premierato gli deve essere risultata insopportabile e così ieri anche Gianni Letta, storico sottosegretario di Silvio Berlusconi e anima del centrodestra italiano per qualche decennio, ha sbottato. Letta, parlando a un’iniziativa dell’associazione Progetto Città di Firenze, spiega che il rischio di riduzione del capo dello Stato – in caso di approvazione delle riforme volute dalla premier Giorgia Meloni – sarebbe dovuto al fatto “che la forza che ti deriva dalla investitura popolare è certamente maggiore di quella che deriva dal Parlamento: non sta scritto, ma è ovvio che poi nella dialettica chi è investito ha più forza”.

“Secondo me – ha detto Letta intervenendo a un’iniziativa dell’associazione Progetto Città di Firenze – la figura del presidente della Repubblica così com’è disegnata, e l’interpretazione così come è stata data dai singoli presidenti nel rispetto della Costituzione, come tutti i costituzionalisti oggi riconoscono, sta bene così: non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate”.

A poco servono gli infervorati comunicati stampa del coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani. La riforma su cui questa maggioranza rischia di schiantarsi svilisce il Presidente della Repubblica a una mera figura cerimoniale utile per tagliare nastri e servire prosecco e pasticcini. Non c’è nulla di nuovo: governanti che vogliono più spazi per governare perché sono incapaci di farlo. 

Buon venerdì 

 

foto da Quirinale.it, Attribution, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4732658

Shane MacGowan, i Pogues e l’anima poetica dell’Irlanda

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

Quando nel 1964, qualche giorno dopo la festa di San Patrizio, morì il grande scrittore irlandese Brendan Behan, il suo amico e collega Flann O’Brien scrisse: «le strade di Dublino sono stranamente silenziose, stasera. È morto il proprietario del cuore più grande che abbia battuto in Irlanda negli ultimi cinquant’anni».

Sono parole che si adattano bene anche a Shane MacGowan, il frontman dei Pogues, cantautore eretico e anima poetica dell’Irlanda degli ultimi decenni, scomparso oggi dopo una lunga malattia.

Nato in Inghilterra, nel Kent, il giorno di Natale del 1957, si trasferì presto dai nonni nella terra delle origini, a Tipperary, nell’Irlanda rurale. «Il più grande parco giochi al mondo», la definì nella sua autobiografia.

Shane ha vissuto la sua esistenza artistica proprio nel solco di Brendan Behan, a cui ha dedicato una canzone dal titolo “Streams of whiskey”. In questa, lo scrittore gli appare in sogno, e le parole che gli rivolge «sono la più saggia di tutte le filosofie: / non c’è niente da guadagnare / da quelle robe umide chiamate lacrime»,

Poco più giù, nella stessa ballata, MacGowan scrive: «Quando il mondo si fa troppo buio / e non vedo alcuna luce dentro di me / entro in un pub / e mi faccio quindici pinte di birra».

Poeta maledetto e mai disperato, è autore di una delle più drammatiche e belle canzoni natalizie di sempre, “Fairytale of New York”. Racconta la storia di un uomo e della sua innamorata, venuta con lui nella Grande Mela sulla scorta di grandi promesse destinate a infrangersi contro miseria e avversità: «Potevo diventare qualcuno / – Tutti possiamo / – Mi hai rubato i sogni / la prima volta che ti ho visto / – Li ho tenuti con me, piccola / li ho messi insieme ai miei / non possiamo viverli da soli i sogni / i miei li ho costruiti attorno a te».

Alla fine di una delle sue ballate più toccanti, “A Rainy Night in Soho”, incisa anche da Nick Cave e Damien Dempsey, MacGowan evoca così il senso segreto della sua arte: «Ora la canzone sta per finire / Forse non lo sapremo mai cosa significhi / Ma ho comunque una luce davanti a me / Sei la cifra dei miei sogni, la cifra dei miei sogni».

Negli anni passati a Londra, dopo la parentesi dell’infanzia irlandese, MacGowan si distingue nella scena punk dando vita a diverse band, una tra tutte i “Nipple Erectors” (“Quelli che fanno drizzare i capezzoli”). Questo prima di fondare i Pogues (abbreviazione di “Pogue Mahone”, “Baciami il culo”). Ma dietro l’aggressività di facciata si nasconde la voce del poeta, riconosciuta ufficialmente dal Presidente irlandese Higgins, anch’egli poeta, durante una grande cerimonia nazionale in suo onore a Dublino, in occasione dei sessant’anni.

Ma la parabola poetico-musicale di Shane MacGowan, idolo di tante generazioni, è anche segnata dall’impegno politico. In una canzone dedicata all’omicidio fascista di Garcia Lorca, vede il corpo del poeta svanire, e donne in una cappella pregare: «madre di tutte le gioie / madre di tutti i dolori / intercedi presso di Lui stasera / per tutti i nostri domani».

Pensando poi ai prigionieri politici irlandesi e ai tanti innocenti incastrati dalla polizia britannica e detenuti per lunghi anni nelle carceri inglesi, scrive: «contate gli anni, prima cinque, poi dieci / invecchiando in un inferno gelato / attorno al cortile e nella cella schifosa / da parete a parete, avanti e indietro».

Negli ultimi anni di vita, dopo la parentesi di collaborazione con una nuova band, The Popes (“I Papi”) aveva ritrovato i vecchi compagni di strada riformando i Pogues. Ma dopo un tragico incidente che gli ha causato la frattura delle ossa pelviche, è stato costretto a vivere su una sedia a rotelle. È l’immagine che cattura di lui l’ultimo documentario sulla sua arte, prodotto dall’amico di una vita, l’attore Johnny Depp. In questo, gran parte dei commenti di Shane rivelano proprio l’attaccamento alla causa del repubblicanesimo irlandese. Non a caso, nel video fa la sua comparsa anche lo storico leader di Sinn Féin, Gerry Adams, il quale l’anno scorso ha presenziato anche alla fortunata mostra di quadri e disegni visionari di MacGowan, allestita in una galleria di Dublino.

Le strade d’Irlanda saranno molto silenziose stanotte. Ma nei tanti pub risuoneranno come sempre le sue parole profonde e leggere, una ninnananna dell’anima, una voce fragile e coraggiosa: «possano i fantasmi che urlano attorno a casa di notte / mai svegliarti dal tuo sonno; / possano dormire profondamente tutti / giù all’inferno stanotte / o in qualunque posto staranno».

 

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

Delmastro e le bugie in fila per sei

Il sottosegretario alla Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro è stato rinviato a giudizio dal gup di Roma, Maddalena Cipriani, nell’ambito del procedimento che lo vede accusato di rivelazione di segreto d’ufficio in relazione alla vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico detenuto al 41-bis e protagonista nei mesi scorsi di un lungo sciopero della fame. Delmastro, che in via Arenula ha la delega alle carceri, aveva rivelato al compagno di partito Giovanni Donzelli il contenuto di una relazione della polizia penitenziaria sui dialoghi di Cospito con alcuni boss mafiosi suoi compagni di reparto nel penitenziario di Sassari. E il 31 gennaio, durante una seduta della Camera, Donzelli aveva usato quelle informazioni per attaccare quattro parlamentari del Pd, Debora Serracchiani, Walter Verini, Andrea Orlando e Silvio Lai accusandoli di essere “vicini alla mafia” per avere visitato tra gli altri detenuti anche lo stesso Cospito. 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro alla Giustizia Carlo Nordio avevano ripetuto in più occasioni che quel documento non fosse segreto. Al di là della conclusione giudiziaria di questa storia Meloni e Nordio hanno ripetuto un’ignorante bugia. L’imputato Delmastro dopo avere negato le sue responsabilità ora si dice “straordinariamente fiero” di quello che ha fatto. Nel suo mondo dei sogni vede come una battaglia antimafia avere rivolto un segreto d’ufficio al suo compagno di partito. Ecco qui la carota che Nordio sventolava contro la magistratura. 

Buon giovedì. 

Torna in scena il poetico Elogio della vita a rovescio di Deflorian

Daria Deflorian in scena

La forza e, al contempo, la complessità del teatro di Daria Deflorian sta nella capacità di porre in primo piano il rapporto tra arte e vita, tra attore e personaggio, e nella conseguente condivisione delle suggestioni e delle scoperte di cui si nutre costantemente il percorso creativo. Stare dentro le cose e raccontarle dall’interno attraverso un prolungamento dello sguardo necessario per raccontare di sé, di quell’invisibile verso cui tendere, a partire dalla ricerca profonda che l’artista persegue tenacemente anche tra le parole e le immagini evocate da qualcun altro, per condurre la propria personalissima indagine. Nel 2005, in Cinque pezzi facili ovvero cinque riflessioni sul corpo del lavoro – contenuto all’interno del volume curato da Paolo Ruffini, Ipercorpo. Spaesamenti nella creazione contemporanea – Deflorian scrive: «I pensieri che diventeranno una forma mi arrivano dalle pagine, dai pensieri di qualcun altro, di qualcun’altra, pagine che come uno specchio magico diventano un pozzo nel quale sprofondo… Ho detto un pozzo nel quale sprofondo, ma la sensazione è anche opposta: sono pensieri che diventano interruttori per vedere il mondo».
Nascono così, per citare soltanto qualche esempio, la performance Sonnenlichtstadt (nata nel 1992 all’interno di un progetto del Teatro Potlach e ispirata a una poesia di Ingeborg Bachmann), Memoria di ragazza. Una lettura e qualche canzone del 2017 (dal romanzo omonimo di Annie Ernaux) e, tra gli altri spettacoli realizzati insieme ad Antonio Tagliarini, Rewind. Omaggio a Café Müller di Pina Bausch (2008), Quando non so cosa fare cosa faccio? (2015), Scavi e Quasi niente (2018) liberamente ispirati, rispettivamente, ai film Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli e a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni.

Dopo una tappa a Lugano, dal 29 novembre al 3 dicembre torna in scena alla Triennale di Milano  Elogio della vita a rovescio / Tre storie di Daria Deflorian – con la collaborazione alla drammaturgia di Andrea Pizzalis – una prima produzione intorno a La vegetariana (Adelphi, 2007), romanzo con il quale Han Kang vinse, nel 2016, il Man Booker International Prize.
Abbiamo avuto il piacere di vederlo al Teatro Basilica a Roma in prima assoluta nell’ambito della 18esima edizione di Short Theatre. Elogio della vita a rovescio è un’indagine intensa e penetrante che, accogliendo le innumerevoli suggestioni dell’opera della scrittrice coreana, rievoca immagini e affetti, privatissimi, per restituirli alle memorie altrui. Implicando un’attenzione, un’immediatezza all’ascolto che costringe lo spettatore, fin dal suo ingresso in sala, a interrogare anche il tempo dell’attesa – una sorta di vibrante sospensione – quale primo elemento drammaturgico di cui tener conto.
È innanzitutto la questione del vedere ad affiorare tra le pieghe del testo, in un gioco di rimandi tra realtà e finzione che coinvolge, intimamente, racconto, dispositivo scenico e spettatore. Attraverso una dialettica con il pubblico – dalla quale l’artista non può prescindere – che rimanda ad una autentica condivisione del proprio rapporto col testo, che si prefigura come una ricerca su quanto, in quel rapporto, può ancora accadere.
Suddiviso in tre capitoli, che la performer Giulia Scotti preannuncia ogni qual volta si appresta ad addentrarsi in un testo specifico di Han Kang, lo spettacolo si concentra sul rapporto tra due sorelle, immergendo fin da subito lo spettatore in uno spazio, un altrove non del tutto riconoscibile ma che, a poco a poco, assume le sembianze del già vissuto. Come se si potessero riconoscere, nelle storie evocate e raccontate, profonde risonanze con il proprio autentico sentire. Come se quelle parole, quei gesti, parlassero dei «nostri sentimenti con più precisione di quanta ne possiamo mettere in campo noi».
Sin dalla Prima storia – La vegetariana – emerge con forza una coraggiosa dichiarazione di poetica che rimanda all’intero percorso artistico di Daria Deflorian, dove la ricerca sul linguaggio e sul movimento – soprattutto interno – confluiscono in una più profonda riflessione sulla possibilità di dire in un modo nuovo, mediante un processo di scavo continuo. «Io sono da un’altra parte, io scrivo»: la nostra protagonista, al di qua della linea, non è né dentro né fuori, consapevole che è in quel ‘dentro’ che si sta celebrando la festa ma che, allo stesso tempo, è in quell’incontro, in quell’equilibrio delicatissimo – tra il dentro e il fuori appunto -, che si compie la creazione artistica.
Ed è nella precisione della messa a fuoco di una riga, di un gesto – come quello di sollevare una serranda – finanche di un pensiero, che è possibile rintracciare quell’interesse profondo per l’essere umano, per la sua storia, quale elemento precipuo del processo creativo dell’artista. Racconta Deflorian in un’intervista: «L’amore per gli altri, per qualcuno che non rientra in una mitologia, qualcuno che magari incroci nell’autobus e se ne sta andando al lavoro, per l’essere umano che non fa grandi apparizioni sul palcoscenico della vita ma ha una sua luce che devi saper riconoscere, è un sentimento struggente che fonda tutti i nostri lavori», come leggiamo nell’appassionante e puntuale volume di Rossella Menna, Qualcosa di sé. Daria Deflorian e il suo teatro (luca sossella editore, 2023).
La Seconda e Terza storia traggono ispirazione dalle successive opere di Han Kang, The White Book (2016) e Atti umani (2014). The White Book è un libro sulle cose bianche, colore rievocato in scena da una sostanza polverosa, candida e purissima, che l’attrice sparpaglia a terra con gesti precisi e rigorosi, raccogliendone parte con le mani, per poi lanciarla in aria, e infine posandovi sopra il proprio corpo disteso. Alludendo, probabilmente, alla possibilità di poter ri-scrivere continuamente la propria storia, saggiandone gli incontri e i percorsi, ridisegnandone le traiettorie. È in Atti umani che il racconto più intimo e privato si fonde con la Storia, più precisamente con il massacro di Gwangju, in Corea del Sud, del maggio 1980, quando i militari aprirono il fuoco su un corteo di protesta, in maggioranza studenti.
La scena, racchiusa all’interno di una geometria dell’immagine, è scardinata di volta in volta dai movimenti – netti e al contempo leggeri – di Giulia Scotti e dai microfoni che pendono dall’alto, dalla forza evocativa delle stesse parole, accuratamente scelte. Un intreccio di voci e memorie che rivendicano la poeticità dell’immagine e la ricerca del senso ad essa sotteso.

«Era come una finestra che si allargava, si allargava, e improvvisamente era tutto finestra e sentivi una estrema libertà di osservare degli aspetti che ti attiravano di un testo, che non erano per forza nella trama o nel personaggio. Io andavo sempre a cercare me stessa tra le righe, e quindi ero delusa quando non mi ci potevo ritrovare perché magari non c’era una consonanza anagrafica o biografica, ma l’analisi del testo serve proprio a questo: non è che devi ricondurre quel testo a te, sei tu che devi allargare i confini del tuo io attraverso quel testo», dice Daria Deflorian, in Qualcosa di sé

Daria Deflorian