Home Blog Pagina 176

«Per Giulia, per tutte: contrastare la violenza sulle donne significa fare politica»

«Non è facile articolare un pensiero. La notizia dell’uccisione di Giulia è arrivata mentre ero al corso per operatrici antiviolenza di Befree. Ho pianto, stretta alla mia compagna più cara, perché questa storia ha infranto il pensiero che le giovani e i giovani potessero essere salve e salvi dal dominio e dall’orrore patriarcale», dice Federica Scrollini, responsabile dei progetti di formazione e prevenzione di Befree–Cooperativa sociale contro tratta, violenze e discriminazioni. «Invece – continua – questa storia di violenza, ci mette di fronte una realtà e una radicalità della violenza per cui, ancora, nessuna e nessuno può dirsi immune. Ed è qui che si chiede un’azione trasformativa. È il momento che il maschile si attivi per contribuire alla fine del patriarcato: ogni uomo deve fare la sua parte. Noi continueremo a fare la nostra, ma è ora che tutti e tutte stiano in questa volontà trasformativa senza distrazioni, in ogni luogo, per Giulia, per tutte, per la libertà e per l’amore».
Nel nostro Paese il susseguirsi di atti violenti nei confronti delle donne, delle ragazze e delle bambine, oltre che nei confronti di giovani e giovanissimi, ci obbliga a interrogarci sugli interventi necessari e non più procrastinabili per modificare radicalmente la situazione.
E la condizione delle donne in tutto il mondo è segnata da svantaggio sociale, economico, politico. Una donna su tre nel mondo ha subito almeno una volta nella vita violenza fisica o sessuale e il rischio di subire violenza non si è certo ridotto, anzi appare aumentato, considerando quello che sta succedendo in Iran, in Afghanistan e nei teatri delle molteplici guerre oggi presenti.
Abbiamo incontrato Federica Scrollini a Roma, alla borgata Ottavia, dove c’è un centro gestito dalla cooperativa, per avere un riscontro da parte di chi “opera sul campo” circa il fenomeno della violenza contro le donne e sulle azioni per attuare un reale cambiamento.

In questi ultimi tempi ci siamo trovate di fronte a particolari efferatezze nei fatti di cronaca di violenza contro le donne: femminicidi preceduti da avvelenamento cronico, stupri di gruppo di adolescenti anche minorenni nei confronti di altre adolescenti o bambine… Tu che hai anche una lunga esperienza come operatrice antiviolenza vedi un cambiamento nelle forme che il fenomeno sta assumendo?
Il cambiamento c’è, nel senso che c’è un peggioramento dell’orrore: la violenza diventa sempre più “alta” profonda. Questo sta succedendo negli ultimi anni: l’avvelenamento, lo stupro di gruppo premeditato… c’è la recrudescenza dell’atto violento. Questo, è sia legato al fenomeno specifico del femminicidio, però è anche generale, di una società che purtroppo diventa sempre più violenta. Negli ultimi 5-6 anni in particolare, a partire dal linguaggio istituzionale, si usa sempre di più un linguaggio violento, un linguaggio discriminatorio; il linguaggio racconta, ma anche “forma” la realtà e sta succedendo questo, sta formando la realtà. D’altra parte Adorno ce lo aveva detto: a forza di essere esposto alla violenza l’essere umano si abituerà alla violenza.

Quindi, dici, c’è una abitudine alla violenza.
Sì, quando per esempio la cronaca riporta i fatti nei particolari più… profondi, nei dettagli, non è necessario! Per condannare un atto, come la violenza sessuale di gruppo o un femminicidio, io non ho bisogno di sapere i particolari. Io lo condanno; la società tutta lo dovrebbe condannare, e basta. Non è che una donna strangolata vale di meno di una donna seviziata. È gravissimo quello che viene fatto. Come viene fatto è di interesse giuridico, del tribunale, ecc. , ma per tutta la società civile, per l’opinione pubblica dovrebbe essere il fatto in sé che basta alla condanna generale.

La particolare attenzione che c’è stata per esempio per la uccisione della ragazza incinta, Giulia Tramontano, e anche per l’altra, uccisa dal suo vicino di casa, come la interpreti?
Lì c’è stata secondo me, un’altra operazione: il tentativo di una parte dei media di mettere in piedi una classifica delle vittime e un certo vojeurismo che indugia sempre un po’ di più quando le vite barbaramente interrotte sono di donne con alcune caratteristiche che fanno da sponda alla retorica familistica dell’attuale governo. Lì la cronaca si ferma oltre il dovuto e fuori dalla condanna di quell’atto che è un atto orribile, comunque e contro chiunque.

Hai detto del peggioramento del linguaggio usato; troppo spesso c’è la colpevolizzazione della donna o ragazza che ha subito violenza, come se l’avesse provocata lei…
Purtroppo da questo ancora non ne usciamo. Gli stessi giornalisti e giornaliste a volte parlano come se stessero con gli amici al bar, invece si rivolgono a una platea molto ampia. Anche se la televisione negli anni ha perso audience, quello che viene detto o succede in certi programmi viene riportato nei social e rimbalza su tutti i media. Così si viene a conoscenza, ad esempio, delle affermazioni del giornalista compagno della premier.

Ti riferisci a quelle frasi circa le donne che se bevono si espongono al rischio di subire violenza…
Sì, è il concetto che se abbassi la guardia qualcuno si approfitterà di te. Questo ha una doppia valenza: da una parte, ricevi la testimonianza che siamo “fermi” e che i giornalisti e alcuni stakeholders non sono andati avanti, non sono stati nemmeno formati né avvisati sul fatto che ormai certe frasi sono irricevibili. Dall’altra, comunque vada, anche quello che dovrebbe essere irricevibile riceve una visibilità altissima e questa è una cosa che non comprendo. Certe “robe” non andrebbero così diffuse. Quello che lui ha detto in quel contesto di Rete 4 alle nove di sera, a un pubblico che risponde a un target ben preciso, non dovrebbe ricevere tutta questa pubblicità. Invece poi ha provocato questa dinamica ‘familistica’ con la domanda a Giorgia Meloni che, in una conferenza stampa del governo, non parla come capo del governo ma come compagna di un giornalista. E ribadisce quello che ha detto il compagno. Insomma, si dà un megafono enorme a questi messaggi che alla fine convincono qualcuno.

Qual è alla fine, il messaggio?
Dovete stare attente, state a casa, state nell’ambito domestico… anche se noi sappiamo che la casa spesso non è un luogo sicuro.

Infatti le maggiori e diffuse violenze sono nell’ambito domestico e relazionale…
Loro dicono: fuori il mondo è brutto e cattivo verso voi donne… quindi dovete stare attente. “Occhi aperti” dice la premier, ma perché se io vado a farmi una passeggiata o voglio farmi una serata con le amiche, o da sola, devo vivere questo stato di allerta, perché devo avere paura e mi devo sentire in pericolo? E correre dalla macchina al portone di casa?
E di chi è la responsabilità della costruzione di un mondo brutto e cattivo?

E insieme a questo  – “devi stare attenta perché dall’altra parte ci sono i lupi!” – c’è il discorso di Salvini che invoca la castrazione chimica come punizione per i perpetratori di violenza sessuale, come se si trattasse di un fatto di ormoni e se l’essere maschio volesse dire essere violento… che ne pensi?
…e non governare certi impulsi, che poi non sono impulsi… Castrazione chimica significa rendere impotente un uomo, quindi stiamo già dicendo che queste cose le fanno i maschi e che metà della popolazione deve stare attenta perché l’altra metà è cattiva. Hanno istinti che non governano! Ma non è vero, perché noi sappiamo che la violenza sessuale è un’azione legata alla sottomissione e quindi all’uso di un potere e non ha niente a che vedere con il desiderio. Quindi anche se elimino l’erezione sicuramente non elimino le aggressioni sessuali. E poi l’altro limite è che arrivo sempre dopo e intervengo punendo nella sua “virilità” – in quello che nell’immaginario condiviso è la virilità – un soggetto maschile.

Appunto, come se la virilità fosse collegata alla violenza; questo fa parte comunque della “cultura” patriarcale…
Sì, e non sganciare la narrazione del sesso e del desiderio dalla violenza è pericolosissimo, perché il desiderio e il sesso esercitati nel consenso e nel rispetto reciproco sono due tra le cose più belle della vita.

Siamo d’accordo! e in questo è importante la formazione, l’educazione, la cultura…
Esatto! La prevenzione, l’educazione alla affettività, l’educazione sessuale che comprende la conoscenza dei nostri corpi, di come funzionano e di quello che possono o non possono fare.

A questo punto stiamo parlando della necessità di fare prevenzione, formazione. Ci parli di come vi muovete in questo ambito e come si può agire?
Befree è una cooperativa sociale che si occupa di tratta, violenza e discriminazioni e lo fa su base nazionale. E quindi l’azione, sia il lavoro delle operatrici nei centri antiviolenza che il lavoro politico, è su base nazionale. Noi crediamo tantissimo nella prevenzione. Crediamo che ormai la prevenzione sia la chiave rivoluzionaria da oggi in avanti. Nei centri accogliamo le donne quando ormai hanno fatto esperienza della violenza, ma noi che cosa vorremmo? Che nessuna più facesse esperienza della violenza, e quindi occorre un lavoro di prevenzione. Questo viene fatto con le ragazze, con i ragazzi, con le bambine, con i bambini.

Quindi particolarmente nella scuola?
In realtà l’attività coinvolge tutta la popolazione. Diversamente dai centri dove ci sono donne che accolgono le donne, nel lavoro di prevenzione siamo operatrici antiviolenza che parlano a tutte e a tutti, alla cittadinanza. E vediamo quanto le dinamiche dell’educazione siano patriarcali dall’inizio.

In che senso?
Nel senso che è vero che le nuove generazioni si muovono e vanno in direzioni per fortuna diverse da quella che può essere stata la mia, che è quella degli anni 80, ma tantissimi ragazzi e ragazze sono fermi in una educazione patriarcale piena di stereotipi, piena di giudizi, piena di concetti del tipo “questo sarà il mio posto e quello sarà il tuo posto”, perché questo gli è stato detto. Quindi abbiamo tantissimo lavoro da fare nella scuola ma anche fuori dalla scuola. Comunque questa narrazione della scuola come spazio risolutivo di tutti i conflitti, di tutti i malanni di questa società… non è possibile.

Cioè? C’è il rischio che buttando tutto l’onere sul mondo della scuola alla fine non si faccia questo lavoro di prevenzione?
Sì, perché con tutte le problematiche di mancanza di risorse e di strutture che ci sono, pensare che la scuola da sola si possa fare carico di tutte le trasformazioni di cui la società ha bisogno, non è possibile. Quindi noi abbiamo bisogno di un intervento che diventi strutturale su queste tematiche e che, nell’essere strutturale, sia affidato a professioniste del contrasto alla violenza di genere. Mi spiego meglio: è chiaro che la Asl e il consultorio possono e devono dare il loro contributo per la salute e il benessere psicologico, e lo fanno, ma non in un’ottica di genere. Io da operatrice antiviolenza posso raccontare delle cose che l’ostetrica, ad esempio non sa o non rientra nel suo compito sapere, come io d’altra parte non possiedo il sapere delle ostetriche. Quindi va pensata una cooperazione… uno scambio di saperi… Se continuiamo solo a parlare di apparato riproduttivo e di come si rimane incinte o ci si protegge dalle malattie sessualmente trasmesse e non parliamo di relazione… non facciamo prevenzione della violenza. E per parlare di relazione dobbiamo fare un lavoro politico!

Occorre costruire una rete, un maggior collegamento tra sanità e operatrici antiviolenza? E rispetto alla formazione in questo campo dei professionisti e degli operatori della sanità, che cosa fate e proponete?
Il lavoro di prevenzione va nella direzione della trasformazione delle relazioni, quindi ti rivolgi alle giovani generazioni; poi c’è bisogno di formazione delle docenti e dei docenti, del personale socio-sanitario, degli operatori di sportello dei Municipi e dell’anagrafe… Abbiamo fatto una esperienza a Cuneo, abbiamo formato tutto il personale del Comune contro le discriminazioni; è super importante anche semplicemente mettere la locandina “Se ti succede questo chiama questo numero”, perché nello spazio pubblico ancora dobbiamo affermare l’esistenza del problema. Quindi chi legge il cartello può pensare: Se c’è questo cartello nell’ufficio dell’anagrafe, allora io non sono una malcapitata, una pazza… non ho incontrato un lupo, esiste il problema, non è solo mio… Allora se non è solo mio ci sarà un posto dove affrontarlo collettivamente. Per i medici inserire per esempio nelle domande dell’anamnesi “Lei ha mai subito violenza?” significa non tanto cercare la verità, quanto dare un segnale. La donna può pensare “Se fa questa domanda a tutte, allora questo problema esiste, non è un fatto che capita solo a me”; la fa entrare quindi in una dinamica politica e non in una sciagura personale. Il problema esiste e si può affrontare. E allora non devo raccogliere tutto il mio coraggio per tirare fuori questa cosa… posso dire di sì.

Oppure la donna può anche rispondere no, per tutti i motivi che sappiamo, vergogna, senso di colpa, non consapevolezza, ma quella domanda rimane e magari lavora nel tempo…
Sì, quello resta e questo è anche quello che succede al S. Camillo. Se nell’ospedale più grande di Roma con il pronto soccorso più grande d’Italia c’è lo sportello per il contrasto alla violenza di genere, il problema esiste! Il personale formato del triage chiama l’operatrice antiviolenza quando accedono donne con segni sospetti di violenza. La signora viene avvicinata da una professionista antiviolenza che sta in un posto istituzionale e magari quel giorno non racconta niente, ma un dopo mese, dopo un anno telefona. Noi abbiamo detto alla signora “la strada per uscirne c’è, esiste”

Quindi offrire da parte di un ente pubblico con gli enti del terzo settore che ci lavorano, il modo per uscire dall’isolamento, che è uno degli esiti peggiori e più pericolosi della condizione di violenza.
Sì, questo è importante per le donne.

Rimanendo nel campo della prevenzione…
Se noi pensiamo al turismo sessuale, a quello che succede alle bambine in India, in Brasile, in Estremo Oriente, che dobbiamo fare? Dobbiamo educare una parte della popolazione e dire che le donne non sono oggetti… e che siccome qui ti dico di no e certe cose qui sono illegali non è che le vai a fare all’estero! Devi diventare un essere umano che si relaziona ad altri esseri umani. Nella relazione c’è sì, c’è no, c’è forse; c’è sì oggi e domani no, ecc. e bisogna fare una azione di prevenzione che passa non solo per forme strutturate, ma anche attraverso l’adozione di un linguaggio rispettoso e non violento dei media, dei rappresentanti politici, un certo linguaggio negli ospedali. La prevenzione è un mondo che si fa carico di un problema.

È da porsi quindi anche il problema degli uomini che, cresciuti in questa cultura violenta, con certi messaggi, inibiti nella espressione di alcune loro emotività ecc., si devono adattare a un modello a cui fortunatamente non tutti si adattano; ma non è facile anche per loro opporsi e formare una loro propria identità, non violenta, cioè per me sana.
La sfida oggi è identitaria e occorre anche ridefinire il privilegio, decostruirlo… Ma soprattutto rispetto alla condizione in cui ci troviamo oggi dobbiamo stare insieme, partire da noi e trovare dei punti in cui siamo alleate per impegnarci nel cambiamento. E non arretrare più, non perderci in infinite categorie definitorie sulle varie identità.

Mi porti quindi a qualcosa che avevo sentito dire da te: lavorare al contrasto alla violenza di genere, e in particolare nella formazione, è fare politica e perché?
Sì, questo è fare politica su tanti fronti; intanto è avere un intento trasformativo. Io non sto trasmettendo niente, io sto cercando insieme di trasformare. Quando entro in classe con ragazze e ragazzi di 12-13-14 anni io non vado a raccontargli una cosa: io ho bisogno di loro per cambiare la storia. È una postura diversa, non sto trasmettendo ma dobbiamo trasformare e questo lo dobbiamo fare insieme. E questo è politico! E lo dobbiamo fare insieme partendo dalle esperienze e dalle storie anche lontane. Inoltre c’è un altro aspetto politico: è il riconoscimento del lavoro che svolgiamo. Noi vogliamo essere riconosciute come esperte, come lavoratrici e in quanto tali essere retribuite. E non essere sempre le volontarie… in questa società, capitalistica, il riconoscimento passa anche da un valore economico. Questa mancanza di dare valore economico al lavoro delle donne è una forma di oppressione.

Ecco, il fattore economico in quale condizione in particolare impatta negativamente?
Le donne che lavorano o hanno lavorato in casa non hanno mai ricevuto un riconoscimento economico per tutta la loro vita considerata produttiva e non riceveranno mai una pensione e questo fa sì che se hai una relazione con un uomo violento non te ne andrai mai via. La violenza nella età molto adulta, anziana, è una cosa orribile perché non hai alcuna risorsa. L’unica speranza è la vedovanza per la reversibilità…

Negli anni 60-70 c’era la proposta di retribuire il lavoro delle casalinghe, pensi sia giusto?
Si. Perché se la società tutta è basata sul denaro, non possiamo non retribuire anche quel lavoro. È una forma di infantilizzazione.

Una delle maggiori obiezioni da sinistra era però proprio che questo avrebbe definitivamente cristallizzato il ruolo della donna come donna di casa, mentre la meta doveva essere quella di favorire il lavoro fuori delle donne e la loro autonomia… E questo è ancora attuale, per cui sì, lottiamo perché ci sia la pensione per quelle che non hanno avuto la possibilità di lavorare, ma lottiamo perché ci sia la possibilità di maggiore lavoro femminile.
Sì, quella è la base, il lavoro ben retribuito. La chiave è “Lavorare tutte, lavorate tutti, lavorare meno!”. Il grande tema è quello di armonizzare il vissuto tra lavoro e vita dentro casa, di passare a una divisione del lavoro che deve essere diversa, a un orario di lavoro che deve essere diverso, a un compenso adeguato. Rispetto al salario alle casalinghe penso che non retribuire una parte – tutta femminile- di popolazione è stato anche uno stratagemma di infantilizzazione, perché gli unici soggetti non ricevono un compenso per quello che fanno sono i bambini e le bambine, e le donne.

L’autrice: Irene Calesini è psichiatra e psicoterapeuta, coautrice con Viviana Censi e Massimo Ponti di La violenza contro le donne (L’Asino d’oro)

Nella foto: una immagine di una campagna di BeFree (da fb)

Per approfondire leggi il libro di Left di novembre “Libere dalla paura e dall’oppressione” (illustrazione di Fabio Magnasciutti)

 

Le donne, le violenze e quei telefoni che squillano a vuoto

Non sono ancora del tutto esplorati gli agghiaccianti particolari della morte di Giulia Cecchettin, ennesimo femminicidio che ha scosso l’opinione pubblica costringendo un Paese intero a occuparsi dei femminicidi che solitamente scivolano scritti (male) negli angoli delle pagine di cronaca nera. C’è altro, oltre alle descrizioni minuziose dei luoghi e dei colpi, addirittura fatte a fumetto in attesa che arrivi magari il solito plastico. Nell’assassinio di Giulia per mano del suo ex fidanzato Filippo Turetta i magistrati vogliono vederci chiaro sulla telefonata di un testimone che alle 23.18 chiamò il 112 raccontando di avere assistito alla prima aggressione di Filippo nei confronti di Giulia. Quella chiamata non convinse i carabinieri di Vigonovo che ritennero non urgente l’intervento. Ma secondo un’indiscrezione dell’agenzia Lapresse la procura di Venezia starebbe verificando l’esistenza di una seconda chiamata al 112 rimasta senza seguito. Ad effettuarla, un’ora dopo quella del testimone, sarebbe stato un addetto alla vigilanza dello stabilimento di Fossà davanti al quale è iniziata l’aggressione. Non urgente.

Forse sarebbe il caso che anche le forze dell’ordine aprano un’ampia riflessione sulla sensibilità con cui approcciano e hanno approcciato i casi di donne a rischio in questo Paese. A certificarlo, solo in questi ultimi giorni,  c’è quell’orrendo verbale proprio dei carabinieri di Vigonovo che ipotizzava nella prima denuncia un “allontanamento volontario”di Giulia e ci sono le centinaia di testimonianze di donne che hanno commentato un post su Instagram della Polizia di Stato elencando le innumerevoli volte in cui non sono state ascoltate. I commenti erano stati cancellati e disabilitati. Sono stati ripristinati e riaperti dopo le proteste di molti. Appunto.

Così tanto per cominciare, per metterci in discussione tutti, proprio tutti.

Buon venerdì. 

Nella foto: Giulia Cecchettin, frame di un video di un programma Rai

Il capitalismo della frammentazione che alimenta le derive autoritarie

il presidente argentino Milei e il leader di Vox Santiago Abascal

La casa editrice Einaudi ha recentemente tradotto e messo a disposizione del lettore italiano il corposo lavoro dello storico Quinn Slobodian Il capitalismo della frammentazione. Gli integralisti del mercato ed il sogno di un mondo senza democrazia, che costituisce una gemmazione degli studi svolti precedentemente e pubblicati nel 2021 per Meltemi col titolo di Globalist. La fine dell’impero e la nascita del neoliberalismo, dove per imperi si fa riferimento al passaggio di primo Novecento che vede – assieme alla Prima guerra mondiale – il dissolversi di quello Austroungarico, Ottomano e Zarista, l’affermazione definitiva degli Stati Nazione e la nascita del neoliberalismo. Inserito nella collana Passaggi, avviata nel 2009 per suggerire letture che colgano le tendenze di fondo della contemporaneità, ha l’ambizione di indicare la direzione del capitalismo contemporaneo (individuata in maniera netta nella prima di coperta e non ripresa nel frontespizio vero e proprio) nella categoria della frammentazione, in un mondo non costituito da pochi Stati-nazione ma dove sorgerebbero tanti piccoli territori senza tassazione progressiva, senza welfare, senza regole e soprattutto senza democrazia.

In realtà il lavoro è molto più complesso, financo contraddittorio in alcuni tratti. Solo per restare alla linea di lettura proposta al lettore italiano dall’editore, i piccoli territori ai quali si fa riferimento sono di duplice natura: la distruzione spesso per via militare di realtà statuali molto più ampie e la “perforazione” degli Stati attraverso le zone (nella sua forma primaria ed elementare definita come un’enclave ricavata all’interno di una Nazione ed esentata dalle normali forme di regolamentazione) siano esse porti franchi, zone economiche speciali, città stato, paradisi fiscali, bantustan veri e propri o sopravvivenze medioevali nella stessa Londra capitale della finanza (dopo la scelta di dismettere la vocazione manifatturiera per assestare un colpo mortale ed una delle culle del socialismo del lavoro per mano della Thatcher).

Se per l’Urss siamo di fronte ad una implosione e sconfitta degli Stati nati dalla rivoluzione d’ottobre, la Yugoslavia, l’Irak, l’Afghanistan e la Libia, solo per citarne alcuni, sono stati smembrati con la forza delle armi dalla potenza mondiale in declino degli Usa e, a geometria variabile, dalle varie ex potenze coloniali europee. Ed è proprio la lettura globale dei processi geopolitici che non è sempre convincente, soprattutto nella valutazione dell’esperienza cinese e del suo ruolo di area periferica (e sottoposta all’umiliazione coloniale con perdita di pezzi significativi di territorio) capace di porsi come attore decisivo in un mondo già multipolare e in grado di riscattare dalla fame – e ridurre l’indice di diseguaglianza mondiale – grazie al miglioramento delle condizioni materiali di centinaia di milioni di cittadini cinesi.

Le stesse zone si addensano, fa notare l’autore, in Asia, America Latina ed Africa, mentre Europa e Nordamerica insieme ne contano meno del 10%: appare evidente da questo semplice dato quantitativo di come esse siano uno strumento utilizzato dalle aree forti del sistema mondo per mantenere e perpetuare una asimmetria di potere rispetto alle periferie. Le zone piacciono soprattutto all’Occidente ed ai suoi propagandisti: la perforazione ed indebolimento dello Stato delle periferie appare dunque come una mossa preventiva rispetto alla possibile utilizzazione dello strumento statuale per tentare di invertire traiettorie di marginalità, che è quello che a noi appare il segno più significativo dell’esperienza cinese e delle scelte del partito comunista che la governa. In Occidente le zone servono a portare all’estinzione i resti dello stato sociale grazie alla minaccia ed il ricatto della fuga di capitali (ove non si creassero le condizioni “attrattive” necessarie) ed a sperimentare la separazione tra capitalismo e democrazia rappresentativa di stampo liberale.

Molti fili compongono dunque il robusto ed avvincente lavoro, dalla trasformazione dell’ex impero coloniale britannico alle varie realtà politico-istituzionali prese come riferimento dai vari esponenti di quello che a noi sembra una delle parti meglio riuscite del libro, la ricostruzione nel tempo e nello spazio dei vari settori nei quali si è articolato e si articola il movimento neoliberista, con un particolare ed utilissimo riferimento alla realtà post fine del mondo diviso in due blocchi ed all’irradiazione ed articolazione che promana dagli Usa piuttosto che dalla vecchia Europa. Intendiamoci, il terreno era pur sempre fertilizzato e sostenuto dalle riunioni e convegni internazionali della Mont Pelerin Society, fondata dall’economista anglo-austriaco Friedrich August von Hayk nel 1947 come difesa contro la minaccia del socialismo e del welfare state.

Libertariani ed anarcocapitalisti – quel filone che privatizza ed affida al mercato le stesse funzioni del monopolio della forza che caratterizzano anche gli Stati minimi dei neoliberisti – vengono definiti e seguiti nelle loro scorribande teorico-culturali e politico-economiche, facendoci scoprire una realtà niente affatto marginale, capace di egemonizzare persino parte della sinistra antistatalista e globalista (basti il riferimento alle parole d’ordine contro vaccini e green pass durante la pandemia, ben altra cosa rispetto alla giusta critica rispetto allo strapotere delle multinazionali del farmaco) e definendo i tratti della destra conservatrice più coerentemente mercatista e autoritaria.

Nomi di singoli e di intere generazioni, come quella di Milton Friedman, economista, esponente principale della scuola di Chicago, fondatore del pensiero monetarista e Premio Nobel per l’economia nel 1976 e dei suo degni e radicalizzati figlio e nipote e di fondazioni, dall’Heritage Foundation al Cato Institute. Da Peter Andreas Thiel, fondatore di PayPal ed una delle persone più ricche del mondo a Alvin Robushka, sostenitore fin dagli anni Ottanta della flat tax al 15%, che assieme all’inserimento nelle costituzioni della clausale del pareggio di bilancio (che serve a prevenire la possibilità di una spesa dalle caratteristiche ed imporre rigide limitazioni agli investimenti statali) andavano a costituire con l’esaltazione della libertà economica senza la libertà politica il credo dei moderni apostoli del capitale vittorioso.

Un autoritarismo liberale le cui virtù sarebbero state messe in ombra dall’enfasi della democrazia nella definizione del Mondo Libero durante la Guerra fredda.
Tutti profeti del capitalismo senza democrazia, dove la proprietà privata ed il mercato attraverso gli agenti del capitale possano realizzare l’esercizio del potere nudo e crudo.
Quell’eccesso di democrazia segnalato dal Rapporto della commissione trilaterale degli anni Settanta che rappresenta il manifesto politico della controffensiva del capitalismo a livello globale, quando l’avanzata delle forze legate al movimento operaio in Occidente ed i processi di decolonizzazione avevano fatto sperare (o temere) il superamento del capitalismo stesso.

Quella democrazia sociale e sostanziale, che si realizzava nello stato sociale e nella democrazia dei partiti di massa, è stato efficacemente sterilizzato e la democrazia liberale depurata dagli elementi pluriclasse è stata utilizzata nella critica alle realtà dei paesi oltrecortina e della stessa Unione Sovietica. Adesso, sconfitta sul campo la possibile (o comunque vissuta come tale) alternativa il capitalismo può dismettere e non far più riferimento alle libere elezioni come sinonimo di civiltà e progresso. Il libro è anche un lungo viaggi nei – e dei – reami nei quali il capitalismo trionfante possa vivere nella sua purezza creatrice di una nuova umanità, non più rammollita dalle lusinghe dei divani e della non competitività ferina permessa dai sistemi di protezione sociale: ed ecco squadernarsi davanti a noi Hong Kong, le Dockland di Londra, la città-stato di Singapore, il Sudafrica degli ultimi anni dell’apartheid, il Corno d’Africa e gli Emirati fino alle frontiere rappresentate dalla realtà virtuale e dalla colonizzazione dello spazio e dei pianeti.

Un libro da leggere, alla luce anche della recentissima vittoria del candidato anarcocapitalista Milei alle elezioni presidenziali argentine e come strumento di comprensione delle esperienze niente affatto sconfitte rappresentate dalla presidenza di Bolsonaro in Brasile ed a quella di Trump negli Usa.

Un libro da meditare, in quando ci ricorda di come il disaccoppiamento tra capitalismo e democrazia sia basato e funzionale al tentativo di annullare la capacità di resistenza e trasformazione progressiva rappresentata dal lavoro vivo, dai lavoratori e lavoratrici in carne ed ossa. Sono proprio loro a costituire il nemico della variegata galassia analizzata: lavoratori che non sono cittadini nei paesi nei quali lavorano, ai quali viene sottratto il diritto di voto assieme alla possibilità di associarsi e costituirsi in liberi sindacati.
Una realtà che vediamo potentemente operare anche nel nostro paese, con il conflitto sociale associato ad una patologia e le organizzazioni sindacali fatte oggetto di attacco e dileggio.

 

L’autore: Maurizio Brotini, Ufficio di programma Cgil Toscana e Assemblea nazionale Cgil

Uomini che uccidono le donne. Una intervista allo psichiatra Massimo Fagioli del 2010

Ritratto di Massimo Fagioli di David Lanzilao, tratta da Left del 2010

«Nella quasi totalità sono uomini che uccidono le donne. Per prima cosa, bisogna andare a fondo, non si tratta di amore passionale. È un rapporto che sembra di amore ma in realtà è un’attrazione intrisa di odio e confusione, specificatamente tra un uomo e una donna», diceva lo psichiatra Massimo Fagioli. Vi proponiamo questa intervista uscita su Left del 16 luglio 2010. Ecco il testo integrale: 

«Via lei, via il dolore», «morta lei, starai bene», «ti ho picchiata, lo meritavi». In questo mese non c’è giorno in cui i media non raccontino di un “delitto passionale”, descrivendolo come una dose eccessiva di insana passione, adoperando spesso il termine di raptus quando l’omicidio appare totalmente illogico. “Un impulso irresistibile”. Chiara, Cristina, Debora, Eleonora, Katerina, Maria, Michelina, Roberta, Simona, Sonia… questi i nomi di donne uccise, in meno di un mese e mezzo, da mariti, ex fidanzati o semplici corteggiatori rifiutati in quest’inizio estate di follia. Il movente? La conclusione di relazioni amorose, il rifiuto. I commenti? Sempre gli stessi, l’incredulità nella gente anche, la normalità descritta agghiacciante, la cultura dominante spaventosa. Quella che porta a parlare di eccesso di amore e a distinguere per esempio l’emozione dalla passione sostenendo che quest’ultima è «stato affettivo violento che predomina l’attività psichica sì da comportare alterazioni della condotta che può diventare del tutto irrazionale per difetto di controllo»(Ferracuti). Ma questa è storia veramente vecchia. Pathos viene dal greco πάσχειν, letteralmente “sofferenza” o “emozione” (ma anche affetto o esperienza) e indicava una delle due forze che regolano l’animo umano secondo il pensiero greco. Il pathos si oppone al logos, che è la parte razionale, e corrisponde alla parte irrazionale dell’animo. Dunque già per gli antichi greci questa “forza emotiva” indicava tutti gli istinti irrazionali che legano l’uomo alla sua natura animale e gli impediscono di innalzarsi al livello divino. Concezione che ha portato all’assurdo culturale che in fondo non si tratterebbe di malattia mentale ma semplicemente di una normale e accidentale emersione di dimensioni assassine proprie di tutti noi, tenute a bada per una vita grazie alla ragione. Pensate all’assurda storia del “delitto d’onore” legittimato dal nostro Codice penale fino al 1981. Se un uomo uccideva la propria moglie adultera al fine di salvaguardare l’onore veniva sanzionato con pene attenuate rispetto all’analogo delitto di diverso movente. L’onore era considerato un “buon” movente. Inevitabile allora, volendo analizzare fino in fondo questo fenomeno che si presenta come un aumento progressivo della violenza maschile nei confronti delle donne, rivolgersi a esperti per chiarire da dove nasce tanta violenza omicida.

Professore, 14 donne uccise negli ultimi quattro mesi, 9 in meno di un mese. Siamo in presenza del vecchio delitto passionale, quello “d’onore” del codice Rocco, o c’è un equivoco di fondo e si tratta di altro?

A mio parere, a monte c’è un’idea precisa e cioè che il delitto, l’assassinio non è di per sé malattia mentale, anzi fa parte della natura umana. C’è la vecchia idea non vecchia, ancora attuale, che l’uomo è per natura violento, assassino e distruttore. Idea che nasce da questa mostruosa fusione tra il dogma del peccato originale per cui l’uomo nasce cattivo perché siamo tutti figli di Caino e l’idea greca che sotto la ragione, cioè il pensiero della veglia e della coscienza, c’è l’animale, la bestia. Bestia che durante l’Illuminismo è diventata pazzia, mentre prima era solo animalità, mancata realizzazione umana.

Dietro ognuno di questi delitti c’è più o meno la stessa scena: te ne vai? E io ti ammazzo. Perché meglio morta che con un altro. L’assassino è quasi sempre il marito, il fidanzato, il convivente, l’amante. Qual è la natura della debolezza maschile?

Nella quasi totalità sono uomini che uccidono le donne. Per prima cosa, bisogna andare a fondo, non si tratta di amore passionale. È un rapporto che sembra di amore ma in realtà è un’attrazione intrisa di odio e confusione, specificatamente tra un uomo e una donna. Alcuni miei colleghi dicono che non è malattia mentale. Io non sono d’accordo, è malattia mentale. Si può dire che non è malattia mentale fino a quando per malattia mentale si intende il disturbo della coscienza e del linguaggio articolato. Sono cinquant’anni che lavoro per portare la psichiatria a occuparsi di quello che non è coscienza e linguaggio articolato, di tutto quel mondo detto inconscio di cui la psicoanalisi ha tentato di occuparsi per non occuparsene, per dire che tutto è inconoscibile. La cosa che abbiamo scoperto invece è che la visione dell’essere umano diverso, in questo caso la donna, fa riecheggiare, fa muovere dentro memorie confuse, indefinite riconducibili al primo anno di vita, quando ognuno di noi era diverso da quello che è adesso. Non parlava, non camminava, non aveva coscienza e linguaggio articolato… era tutto un mondo e un pensiero di immagini in cui si svolge il primo rapporto, assolutamente vitale, con una donna, in genere la madre. Poi tutto questo si perde, si dimentica e così quando si fa questo innamoramento per il diverso da sé e poi avviene quella realtà precisa, possiamo dire triste ma anche molto realistica dal momento che la vita è lunga, della separazione, del lutto nella persona “sana” questo dovrebbe produrre al più tanta tristezza, magari la chiamata in soccorso degli amici che ci consolano e poi l’elaborazione della separazione.

In questi casi non avviene, la separazione scatena una violenza omicida.

Questi assassini, magari coscientemente uguali agli altri, e dunque per i giudici capaci di intendere e di volere, sono gravemente ammalati nell’inconscio e di fronte a questa separazione, alla perdita di questo primo anno di vita, impazziscono perché quella donna, per esempio nel caso di Eleonora Noventa, la ragazza di 16 anni, gli rappresenta il bello del primo anno, dell’infanzia. La perde? Diventa totalmente pazzo perché la sua realtà non ha fantasia, non ha immagini.

E la donna da uccidere a quel punto cosa diventa?

Diventa la cattiva, la madre persecutrice. Quella che effettivamente può essere stata quando era bambino, magari una madre anaffettiva. Mi piace sempre ricordare Family life, quel film inglese del 1971 diretto da Ken Loach nel quale si vede perfettamente come sia la madre che determina la schizofrenia della figlia con il suo comportamento dissociato, con quel dire e non dire insieme. E quindi uccide, perché la causa della sua pazzia diventa questa donna, anche se in verità non c’entra niente, perché in origine è stata la madre a farlo impazzire. Quando invece una persona è sana, di fronte alla separazione rielabora e si mette a fare una realizzazione narcisistica dell’io con intelligenza e fantasia, come fece per esempio Henrik Ibsen con Emily.

Secondo lei, le donne possono cogliere dei segnali prima? È quindi possibile una qualche forma di prevenzione?

Sì, certamente. Le donne devono ritrovare quella sensibilità che fa vedere quello che c’è oltre un buon comportamento, come anche oltre a delle parole d’amore. Bisogna andare oltre quel discorso falso e ipocrita che per esempio ti fa dire “io amo tanto le donne” quando non è vero per niente. Così in una dichiarazione d’amore e in un comportamento apparentemente di corteggiamento a volte c’è la violenza. C’è anche una legge, per l’appunto, quella sullo stalking. Sembra che un uomo corteggi ma in realtà si prepara a uccidere la donna, e le donne dovrebbero capirlo. C’è questo mondo nascosto a fronte di un comportamento sociale magari ineccepibile che va compreso, non si può pensare che siamo tutti buoni. Bisogna imparare che sotto c’è un inconscio, una realtà opposta al comportamento.

Professore, il problema è anche culturale? La donna è sempre stata considerata un essere inferiore, difettivo.

Questa è la grande tragedia storica, alle donne non è stato mai permesso di essere, non è stato mai permesso di essere esseri umani, non è stato mai permesso di realizzare l’intelligenza, salvo nell’ultimo mezzo secolo nel quale si è comunque accettata al massimo un’intelligenza produttiva. Ma la fantasia, indispensabile per orientarsi nei rapporti interumani, non gli è stata mai permessa. La fantasia e l’arte non è stata mai della donna. Questa famosa identità come ragione, questa storia del peccato originale ha escluso la donna dalla categoria degli esseri umani; ha conquistato dei diritti civili ma di fatto la donna non esiste.

 

In apertura un ritratto di Massimo Fagioli scattato da David Lanzilao, screenshot da Left del 6 luglio 2010

L’avvocato dell’assassino di Giulia Cecchettin con la passione per i maschicidi

Ma davvero esistono professionisti con il coraggio di urlare all’allarma “maschicidi” per svilire e depotenziare la portata dei femminicidi in Italia? Esistono, eccome. Stanno nascosti anche nei banchi della maggioranza che in questi giorni sta cercando di appropriarsi del tema troppo popolare per lasciarselo sfuggire. 

Il 25 novembre di tre anni fa, era il 2020, Il Giornale – come quasi sempre quando si parla di femminicidi – pubblicava un articolo dal titolo esemplare: “Allarme maschicidi. Gli uomini vittime quando le donne ma nessuno ne parla”. Un titolo feroce ma soprattutto ignorante poiché anche in queste ore convulse appare evidente che moltissimi non sappiano che il “femminicidio” non si riferisce banalmente all’uccisione di una donna ma fa riferimento a qualsiasi forma di violenza esercitata in maniera sistematica sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione di genere e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico della donna in quanto tale, fino alla schiavitù o alla morte. 

Tre anni fa quell’articolo de Il Giornale nel giorno contro la violenza sulle donne veniva condiviso sul proprio profilo Facebook dall’avvocato Emanuele Compagno che negli ultimi giorni è entrato nelle nostre case – dai giornali, dalla radio e dalla televisione – perché è il difensore d’ufficio di Filippo Turetta, il femminicida di Giulia Cecchettin. «Nella giornata contro la violenza alle donne è giusto ricordare che le vittime sono da entrambe le parti. È giusto ricordare tutti di fronte alla violenza», scrisse in quell’occasione. A recuperare quell’orrendo post è stata la giornalista Charlotte Matteini che su X riporta anche una dichiarazione dell’avvocato nell’anno successivo: “Ho assistito ieri ad una scandalosa puntata di “Carta Bianca” con Bianca Berlinguer in tema di violenza alle donne. – scriveva l’avvocato Compagno il 5 maggio 2021 – La donna veniva trattata come una menomata, come un’incapace. Se ubriaca è scusata. L’alcol è una scusante per la donna, mentre non lo è per l’uomo. Una totale deresponsabilizzazione della donna, come fosse un oggetto incapace di auto-determinarsi. Il tutto coniato, poi, a Tg3 linea notte con la storia di Biancaneve. Queste esagerazioni servono solo a delegittimare la donna trasformando in farsa un problema serio. Portano all’assurdo un problema vero”. 

Per avere un’idea dell’impianto culturale si potrebbe ripescare ciò che scriveva ad esempio il 31 ottobre 2015 sulla notte di Halloween: “Non capisco cosa ci facciano delle ragazzine vestite da puttane in giro per il paese. E nemmeno perché i genitori accompagnino i figli a disturbare per le famiglie suonando campanelli. Vergognatevi”. Non male, eh?

Ma davvero esistono professionisti con il coraggio di urlare all’allarme “maschicidi” per svilire e depotenziare la portata dei femminicidi in Italia? Esistono, eccome.

Buon giovedì. 

Intelligenza artificiale. In che cosa il pensiero umano differisce dalle capacità di calcolo delle macchine?

Le tecnologie dell’informazione stanno ampliando a dismisura i settori dove la disponibilità e l’elaborazione dei dati riveste un ruolo centrale. Accanto a questo fenomeno ormai ben noto, la crisi finanziaria esplosa nel 2008, l’emergenza sanitaria e il riaccendersi delle tensioni internazionali hanno imposto un ritorno dell’intervento governativo nell’economia. Questi sviluppi hanno condotto ad una centralizzazione dei luoghi del potere, sia perché la guida di questi imponenti sviluppi tecnologici è nelle mani di un pugno di colossi informatici, sia per il ruolo che i grandi attori globali stanno svolgendo nello scontro per il controllo delle catene globali del valore, delle tecnologie e delle materie prime per esse necessarie. (in proposito rimando qui al mio articolo L’invasione dell’Ucraina e la crisi del neoliberismo sono due facce della stessa medaglia).

Un potere sempre più concentrato dispone di mezzi innovativi per il controllo sociale e il rafforzamento del potere stesso. Certo, la tendenza qui delineata non è univoca. Le democrazie occidentali sono scosse da una crisi profonda, mentre si aprono anche grandi opportunità per uno sviluppo umano basato sulla diffusione della conoscenza.

Sembra oggi riproporsi su basi nuove quel contrasto dell’inizio dell’Ottocento che vedeva da un lato la crescita della potenza produttiva e della concentrazione della ricchezza, dall’altro quella miseria crescente della classe operaia che ha ispirato le analisi di Marx e di Engels.

Nei suoi comparti più avanzati, la società industriale di oggi non è quella di allora. Essa sfrutta non tanto la forza lavoro, ma l’ingegno umano. Il valore delle imprese tecnologiche, infatti, risiede in una serie di elementi immateriali quali brevetti, avviamento, marchi, banche dati, programmi. Il loro capitale dunque non è più costituito in prevalenza da macchinari prodotti in precedenza dal lavoro manuale (nella terminologia di Marx «lavoro morto» che impiega lavoro vivo); esso invece cerca di catturare la conoscenza di ingegneri e programmatori, come anche i dati degli utenti che forniscono informazioni su di loro e sul mondo circostante. Certo, anche in precedenza tecnologia e scienza avevano un peso decisivo, ma oggi, in una formula, i comparti più avanzati di questo nuovo capitalismo non producono merci a mezzo di lavoro e merci, ma di informazioni a mezzo di informazioni.
Queste tecnologie sostituiscono e potenziano dunque non il lavoro fisico, ma alcune funzioni mentali specificatamente umane. Fino a che punto possono assorbire conoscenze e pensiero? Quali sono i rischi del loro impiego ormai così diffuso? E infine, possiamo lasciare a società private un potere così esteso? La letteratura in materia è sterminata.

Al di là delle potenzialità, dei limiti e dei rischi che ogni analisi attenta può rilevare sull’uso dell’Intelligenza artificiale (IA) in specifici settori, la crescita delle sue applicazioni suscita entusiasmi, deliri e profonde angosce. Alcuni non vedono confini alle funzioni che le macchine potranno svolgere, prefigurando un futuro nel quale gli esseri umani saranno superflui. Kurzweil, capo del settore ingegneristico di Google, prevede anche che sarà possibile caricare la propria coscienza in rete, sconfiggendo così la morte, e spera di non morire prima di poter usufruire di questo servizio della sua azienda.

Elon Musk, il 2 novembre scorso, al vertice mondiale sull’AI ha affermato che presto disporremo di qualcosa che, per la prima volta, sarà più intelligente del più intelligente degli esseri umani: dunque, forse, meglio esser governati da questo qualcosa che da noi. Talvolta invece compaiono previsioni nefaste per l’esistenza stessa della nostra specie. Non è chiaro quanto tutto questo faccia parte di un battage pubblicitario finalizzato ad accrescere il giro d’affari, e quanto invece sia frutto di genuine speranze e paure.

A ciò si contrappone una visione, anch’essa diffusa seppur minoritaria, che invece sottolinea l’impossibilità di riprodurre artificialmente il pensiero umano. Ora, per superare affermazioni di principio sulla possibilità o sulla impossibilità di detta riproduzione, è necessario definire esattamente in che cosa le macchine siano diverse da noi. Sciogliere questo nodo è rilevante non solo sul piano intellettuale, ma anche per ogni discussione su come l’IA possa essere impiegata in modo proficuo, e quando invece costituisca un rischio, oppure una fonte di arbitrio, dominio e sfruttamento.
La prima considerazione in proposito è piuttosto ovvia. Il pensiero è inscindibile dalla vita, mentre le macchine vita non ne hanno. Forse per affrontare la questione è necessario essere atei, cioè rifiutare quella scissione tra corpo e pensiero traducibile in termini di hardware e software. Detto questo, in che modo il corpo è legato al pensiero? Il legame tra pensiero e corpo va individuato nella formazione delle immagini. Abbiamo qui un nodo filosofico di notevole rilievo.

Con Cartesio il razionalismo ha negato l’importanza delle immagini. L’immaginazione, nota Cartesio, è ciò che nella mente è più vicino al corpo, dunque allontana la ragione dalle sue certezze. Egli riteneva che la principale fonte di errori nel modo di ragionare fosse costituita proprio dal fatto che da bambini siamo portati a sentire e immaginare. Con l’illuminismo si è avuto una parziale rivalutazione della sensibilità, ma nello studio della mente non è mai stato riconosciuta la funzione decisiva delle immagini nel pensiero. Così, trascurando le immagini, il pensiero può essere ridotto a manipolazioni di funzioni numeriche e di simboli privi di contenuto, cioè alle funzioni svolte dalle macchine.

La ricerca sulle immagini è particolarmente complessa. Massimo Fagioli fa coincidere la prima immagine con la prima forma di consapevolezza di sé derivata dalla memoria del contatto della pelle con il liquido amniotico della condizione intrauterina. Essa non è una figura ripresa dal mondo circostante, ma appunto una memoria che forma un’immagine interiore. Successivamente, con il coinvolgimento di tutti i sensi, nella mente del neonato si formano delle immagini indefinite del suo vissuto cariche di senso e di contenuto. Senso e contenuto dipendono dall’elaborazione, da parte del neonato, degli affetti presenti nei rapporti con chi lo accudisce. Infine, in una fase più evoluta, questa «capacità di immaginare» fornisce una consapevolezza di sé e del mondo sempre più precisa, che precede il linguaggio verbale. Un bimbo distingue un cane da un gatto, e un albero da un fiore, non perché sia stato istruito in proposito, come avviene per il programma di un computer, né a seguito di una serie innumerevole di tentativi ed errori, come avviene per i sistemi che utilizzano le reti neurali, ma perché, dopo aver visto, dimenticato e forse sognato alcuni cani, gatti, alberi e fiori, si è formata nella sua mente l’immagine dell’oggetto. La mia piccola figlia, quando articolava ancora solo poche parole, ha indicato con il ditino, in un fumetto, un cane alla cassa di un supermercato con un fiocchetto in testa che aiutava una commessa a servire i clienti, pronunciando la parola cane. Non possiedo un canile e lei avrà visto pochi cani per strada, eppure non ha avuto dubbi che quello, sebbene in un contesto insolito per un animale, fosse proprio un cane. Anche se non sappiamo esattamente cosa succeda sul piano neurologico nel nostro cervello (ricordiamo che la retina che registra le figure è materia cerebrale), il passaggio tra l’oggetto e la parola va rintracciato nella formazione dell’immagine. L’immagine non è la figura dell’oggetto, né una collezione di fotografie, ma è pensiero, è un’invenzione. Non esiste nella realtà il cane, esistono invece diversi tipi di cani, da cui il pensiero estrae i tratti essenziali che caratterizzano il cane. Nessuna fotografia e nessuna funzione matematica – dunque nessun computer – può rappresentare al contempo un pechinese e un alano, mentre l’immagine può dar conto della loro uguaglianza e della loro diversità. L’immagine è anche carica di contenuti affettivi: l’immagine che abbiamo di una persona non è legata ai suoi tratti somatici, ma alle qualità di quella persona; essa può essere ad esempio affettiva, intelligente, generosa o all’opposto stupida, priva di affetti, violenta. È l’immagine inoltre che ci fa “vedere” che non è la stessa cosa sostituire una macchina perché si è rotta e sostituire un partner perché si è ammalato o ha perso il lavoro. Ma la capacità di immaginare ci consente anche di immaginare dei mondi e degli oggetti del tutto diversi da quelli che esistono nella realtà. Di qui la produzione artistica e la scoperta scientifica, ma anche le spinte ideali e l’evoluzione sociale, che non dipendono certo dalla realtà oggettiva delle cose. Nella scienza un programma informatico può evidenziare nessi inaspettati tra variabili analizzando una mole immensa di dati, ma non interpreta il significato di quei nessi, né propone una diversa visione delle cose. U

Un computer potrà essere istruito a disegnare alla maniera di Van Gogh, di Picasso, o anche a comporre poesie imitando questo o quel poeta: questo avviene perché è stato nutrito di immagini e di testi dei quali riproduce determinate caratteristiche. Un computer caricato con tutti i quadri della pittura universale fino all’Ottocento non potrà però produrre un quadro cubista, perché il cubismo è frutto di un salto creativo e non è un’elaborazione di stili precedenti.
Vi è un passo ulteriore da compiere. La spinta a comprendere e modificare la realtà circostante, come quella a compiere gli atti creativi dell’artista e dello scienziato, è legata ad un’intenzione, spesso non cosciente, che ci muove nel rapporto col mondo.

Nell’essere umano, in breve, non vi è neutralità: ci rapportiamo al mondo sempre con un’intenzione, che può essere orientata a procurare il benessere altrui, a perseguire il nostro, e talvolta anche a distruggere. L’intenzione è legata alla sorte di quell’immagine interna della nascita che nei rapporti può svilupparsi, ma talvolta può andare incontro a distruzione rendendo l’individuo violento. Non è questa la questione che affronteremo qui, che è di pertinenza della psichiatria. Il punto è che questa assenza di neutralità ci deve indurre a prestare molta attenzione alle scelte che si compiono quando si hanno ripercussioni sui nostri simili perché l’uso di queste tecnologie, in molti ambiti, può consolidare pregiudizi e discriminazioni, come anche ledere diritti fondamentali dell’individuo (Vedi:Intelligenza artificiale, l’etica come specchietto delle allodole).

Tornando al nostro tema, la finalità del capitalismo è la massimizzazione del profitto, finalità che prescinde dall’uso di una persona, una materia prima o una scoperta scientifica. Pericolose pertanto non sono le tecniche, ma questo annullamento della differenza tra persone e cose spesso coperto da obiettivi quali l’aumento della produzione e l’efficienza, o dall’idea che le macchina farebbero delle scelte migliori delle nostre. Ma essere “neutrali” tra l’uso di una persona e di una cosa è il presupposto di ogni violenza, proprio perché questa neutralità è dovuta all’assenza di quell’immagine interna che ci fa star male se esercitiamo soprusi nei confronti di un essere che riconosciamo simile a noi.
Il capitalismo si è sviluppato assorbendo e sfruttando il lavoro, e la rivendicazione della dignità del lavoro ha segnato tutto l’Ottocento e il Novecento.

Oggi, in più del lavoro, la sfida riguarda il pensiero e la creatività. La società non è una macchina orientata alla produzione e al profitto il cui funzionamento potrà essere affidata a dispositivi sempre più sofisticati e “intelligenti”. L’errore di ritenere che gli uomini possano essere sostituiti dalle macchine non è un errore sugli aspetti tecnici dell’IA stessa, ma è un errore su cosa siamo noi in quanto esseri umani. L’errore ha radici antiche, e il suo superamento è preliminare per qualsiasi uso della tecnica che costituisca un fattore di progresso e non un pericolo per il nostro futuro.

 

Andrea Ventura ha curato il volume Il pensiero umano e l’intelligenza artificiale (L’Asino d’oro edizioni) che sarà presentato il 24 novembre negli spazi della Fondazione Basso, a Roma

Violenza contro le donne. La parola chiave è prevenzione

Mentre tutto il Paese si interroga sulle cause che hanno portato all’uccisione di Giulia Cecchettin da parte del suo ex fidanzato e nuovi provvedimenti sono in arrivo, vogliamo approfondire il tema della prevenzione dei femminicidi con il contributo della psichiatra e psicoterapeuta Irene Calesini pubblicato sul numero di Left di settembre 2023.

Anna Scala è stata accoltellata alla schiena e trovata morta nel bagagliaio della sua auto. Aveva denunciato per ben due volte il suo ex partner. Il suo drammatico caso, insieme agli stupri di gruppo a Palermo e a Caivano di cui sono state vittime una ragazza e due bambine hanno fatto parlare della necessità di leggi più incisive (restrittive, repressive). Io continuo a pensare che non servano ulteriori leggi chissà come risolutive, ma occorra che quelle già esistenti vengano applicate e che si seguano le direttive internazionali che puntano sul sostegno e la protezione reale delle vittime, con strumenti finanziati e personale formato (centri anti-violenza, case rifugio, percorsi personalizzati di fuoriuscita dalla violenza), nonché sulla prevenzione della violenza maschile contro le donne. La domanda ritorna: abbiamo veramente bisogno di maggiori strumenti legislativi? È solo la coercizione e la repressione la risposta efficace per combattere questo fenomeno che non accenna a scomparire, anzi rimane costante nel tempo nonostante da anni, in Italia, si registri un calo costante degli omicidi totali? A me sembra che nei fatti la prevenzione venga del tutto trascurata. Parliamoci chiaro: quando i bandi regionali per l’affidamento dei servizi a sostegno delle donne e bambine/i che subiscono o hanno subito violenza hanno una cadenza di 12 o 18 mesi e costringono le associazioni a utilizzare periodicamente le loro risorse di tempo ed energie per parteciparvi e sperare di vedere rinnovato l’impegno, si favorisce il lavoro di contrasto? Quando i progetti rivolti alla prevenzione sono episodici e non strutturali, quando nelle scuole ancora non è curriculare e sistematico affrontare temi come la sessualità, il rapporto tra i sessi, le radici di ineguaglianze e discriminazioni che formazione offriamo alle nuove generazioni?

Come medico e psichiatra vorrei proporre qualche riflessione su cosa possa essere la prevenzione in questo campo, questione che si intreccia con un altro tema assente o misconosciuto nei discorsi ufficiali: la salute mentale. Per prevenzione di una malattia, di un danno, di una lesione, si intende tutto l’insieme dei comportamenti, degli accorgimenti ed ausili tecnici che servono per far sì che la malattia o il danno non si verifichi o, se non è del tutto evitabile, se ne riduca la portata e si impedisca per quanto possibile la cronicizzazione, riducendone gli esiti, fino a quello estremo. Per essere efficace la prevenzione va articolata su più livelli (primaria, secondaria, terziaria) e con risorse adeguate. È ovvio che maggiori e più complete sono le conoscenze delle cause (etiologia) della malattia, del fenomeno nel nostro caso, e della sua epidemiologia (cioè su come insorge, si trasmette e si distribuisce nella popolazione e con quale frequenza, quali fattori la facilitino o la contrastino) maggiori sono le possibilità di prevenirla. Facciamo un esempio concreto: nel caso delle malattie infettive a trasmissione oro-fecale la disponibilità di acqua potabile, di un sistema dinamico di fognatura, l’igiene delle mani, la conservazione e la cottura degli alimenti, il lavaggio di frutta e verdura, ecc., hanno fatto sì che nel nostro e nei Paesi più sviluppati colera, tifo, epatite A non costituiscano attualmente un problema emergente di sanità pubblica. In altri casi, con il ricorso a mezzi di profilassi (prevenzione) come il vaccino, si sono eradicate malattie temibili, quali il vaiolo, o si evitano malattie ancora mortali quali il tetano. I modelli di prevenzione hanno la loro formidabile efficacia, come ormai si sa, anche nelle malattie non infettive e spesso sono l’unica misura efficace.

Nel nostro specifico è possibile attuare una prevenzione primaria? Sì se si cerca di agire sulle cause del fenomeno, fondamentalmente in ambito culturale, andando a smontare pezzo per pezzo tutti quegli stereotipi, quelle convinzioni circa le differenze tra i sessi, tra le persone basate sull’idea di inferiorità/superiorità. In parole povere lavorando sulle disuguaglianze. L’art. 14 della Convenzione di Istanbul, ratificata anche dall’Italia, parla di educazione. In questa dizione si comprende la corretta informazione e la formazione. I luoghi sono le scuole di ogni ordine e grado, i luoghi dove si fa sport, dove ci si ritrova. Deve essere rivolta a bambine e bambini ed adolescenti, ma questo richiede la formazione dei docenti e di tutto il personale scolastico, sportivo, ecc. Questo tipo di informazione dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione perché passi il messaggio che la violenza non è “normale” o ineluttabile. Dunque, formazione dei giornalisti, degli operatori sanitari, sociali, delle forze dell’ordine, dei magistrati e uomini di legge. L’obiettivo è aumentare la sensibilità al problema, la capacità di parlarne e la capacità di ascolto di persone che potrebbero essere a rischio: questo riveste un ruolo cruciale a tutti i livelli di prevenzione. Fondamentale a mio avviso è implementare le risorse personali ed i servizi per attuare la importantissima prevenzione secondaria (in medicina diagnosi precoce per una cura tempestiva); questa serve a riconoscere il danno all’inizio e ad evitarne la progressione.

La violenza, in particolare quella familiare, è diffusa e sfugge ad ogni rilevazione certa, ma i suoi segni sono riconoscibili, a saperli leggere. Non solo nel fisico o nella condizione psichica di molte donne o ragazze/i che si rivolgono ai servizi sanitari o ai professionisti per diversi sintomi, ma anche per le condizioni di disagio economico, scolastico, lavorativo che ne possono conseguire o l’accompagnano. E qui, torno a dire, cruciale è la formazione degli operatori sanitari, sociali, insegnanti, ecc. I medici di famiglia e i pediatri di libera scelta potrebbero avere un ruolo fondamentale per la prossimità che hanno con gli assistiti, sempre che questa risorsa sanitaria si voglia rafforzare, in controtendenza a quello che sta succedendo da anni. Decisivo è informare la donna riguardo ai servizi disponibili sul territorio e in ospedale (in alcuni ospedali è attivo un percorso ad hoc in caso di sospettata violenza di genere) e, senza spaventarla, farla riflettere sul fatto che sta subendo violenza. E, con il suo consenso, attivare la rete antiviolenza.

La prevenzione terziaria, invece, si attua quando la condizione patologica è già conclamata; nel caso che la violenza subìta venga all’attenzione dei servizi sociali o sanitari o della autorità giudiziaria. Qui è urgente che la violenza venga bloccata, che l’escalation in tutte le sue fasi e forme, sia interrotta. Qui si parla di prevenzione che può salvare la vita in molti casi. Ci sono indicatori precisi che rivelano situazioni ad alto rischio (ad esempio minacce di morte, aver messo una volta le mani al collo, aver puntato una arma). Per la condizione psichica di chi subisce ripetutamente atti violenti (non soltanto fisici), questi atti possono essere sottovalutati dalle donne, ma non devono esserlo da parte di chi è medico, psicologo, assistente sociale, pubblico ufficiale… Qui ritorna l’indispensabile formazione di tutti gli operatori, non solo di quelli dedicati a progetti contro la violenza di genere. (Ogni professionista che esercita la professione sanitaria ed ogni incaricato di pubblico servizio ha l’obbligo di referto quando è in presenza di un reato e la violenza contro le donne). Prevenzione secondaria e terziaria come si vede nel caso della violenza contro le donne sono contigue, il senso è che prima si interviene a più livelli e meglio è. Ogni caso peraltro ha la sua storia e le sue peculiarità con diverse priorità. Per questo vanno sostenute le associazioni e le cooperative che tengono funzionanti i centri che forniscono aiuto logistico, legale, psicologico, sociale alle donne e ai loro figli. Vanno potenziate le strutture e le risorse ad esse dedicate.

Parlare di prevenzione della violenza significa a mio modesto parere tenere presenti questi tre livelli con il potenziamento delle strutture e delle risorse necessarie. Di pari passo deve esserci il reale sostegno alle donne e ai figli perché abbiano condizioni di vita dignitose e possibilità di lavoro; occorre far cessare la vergogna di non considerare femminicidi quelli che portano a morte la donna per le lesioni subite dopo qualche tempo dall’aggressione. La vergogna di non avere misure efficaci e pronte nei confronti delle orfane ed orfani di femminicidio che vengono affidati ai nonni o a parenti stretti, che non vengono poi supportati adeguatamente o prontamente.

L’altro aspetto che brevemente vorrei affrontare e che meriterebbe ulteriori riflessioni a più voci, è quello sulla salute mentale: sulle ricadute su chi subisce direttamente o indirettamente violenza; di questo in genere le donne e i loro figli non vengono né risarcite, né concretamente aiutate. Ormai sono noti i danni sulla condizione psichica sia della violenza verbale e psicologica, che di quella fisica, sessuale, economica. Ansia, depressione nelle varie forme, disturbo post traumatico da stress, disturbi psicosomatici i più comuni, ma anche disturbi psicotici, ricorso all’alcool o a sostanze. Queste sono condizioni che richiedono anni di lavoro psicoterapeutico e spesso anche trattamenti farmacologici coadiuvanti per essere curate.

Ma la salute mentale, o meglio la sua carenza nelle molteplici forme che assume, è anche il tema che si affaccia in molte storie di violenza con esito letale, nel protagonista maschile. Schizoidia? Psicopatia? Depressione grave? E questa, in genere, non è una conseguenza della relazione attuale vissuta, a differenza di quello che avviene in genere per la donna ed i figli. Anche questo dovrebbe far pensare. Da dove viene? Come si è sviluppata? Quasi sempre non è malattia mentale manifesta, eclatante, anche se a volte le manifestazioni di gelosia sono francamente patologiche. Ma quel bisogno costante di controllo, di affermazione di sé a scapito dell’altra, di sopraffazione, è sanità?
Occorre allora di nuovo porre l’attenzione sulla salute mentale, sulla prevenzione della malattia mentale e magari fare un approfondimento sulla condizione degli uomini e su quanto questa stessa società patriarcale e violenta, facendo ammalare e “morire” il bambino, sia causa di malattia mentale grave, anche se lungamente non riconosciuta. Invisibile.

Irene Calesini, psichiatra e psicoterapeuta, è una delle autrici del libro di novembre di Left “Libere dalla paura e dall’oppressione. Contro la violenza sulle donne”.

Il 25 novembre parteciperà con la relazione dal titolo “Riconoscere la violenza e quella invisibile per prevenire gli esiti: il ruolo del medico” al convegno “Adesso basta. Mettiamoci in campo per il no alla violenza sulle donne” in programma a Roma

 

 

Per leggere il libro di novembre di Left qui

 

Come rane bollite

L’altro ieri 43 persone sono state recuperate sugli scogli di Capo Ponente, dalle motovedette della Capitaneria di porto e due giovani dai due pescatori lampedusani sulla costa di Muro Vecchio. I telegiornali ormai melonizzati fino al midollo hanno dato la notizia centrando il focus sul “salvataggio” ma dimenticandosi di dare risalto agli otto dispersi rimasti in fondo al mare. Tra di loro ci sarebbero stati due – forse tre – bambini. Non hanno potuto esimersi dal raccontare della morte di una bambina di un anno e otto mesi perché è spirata durante il trasbordo, complicando i piani della comunicazione liscia e ardimentosa. 

Ieri un barchino è colato a picco a circa 28 miglia dalla costa durante la fase di trasbordo. Una donna di 26 anni, originaria della Costa d’Avorio, è morta. Quarantasei i migranti superstiti che sono stati recuperati dai militari della Guardia di finanza.

Spaventosa è la cura con cui ci si impegna a normalizzare l’orrore perché non attecchisca nella coscienza collettiva. Confidare nell’abitudine alla morte è da sempre il segreto della politica e dei poteri. Passano così in secondo piano le guerre (citofonare al presidente Zelensky che lo ripete da settimane), si depotenziano i decessi ciclici di poveri o di neri o di donne e ogni giorno la tolleranza al ribrezzo sposta l’etica qualche metro più in là. È uno scivolamento lento che ci rende ogni giorno peggiori senza averne consapevolezza, ingannati dalla sindrome della rana bollita. Finché non capita un ammazzamento o un naufragio sentito come troppo vicino per liberarsene in fretta. E poi si ricomincia di nuovo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: frame del video del salvataggio a Capo Ponente

Fermare le bombe su Gaza. E affrontare il nodo cruciale della convivenza Israele-Palestina

Viene qui espresso un punto di vista esterno, dal momento che chi scrive non vive in Israele anche se per anni vi ha condotto ricerche nelle scuole arabo israeliane, oltre che sui Drusi del Carmelo e del Golan e ha tenuto a Gaza corsi di formazione rivolti alle infermiere e agli infermieri psichiatrici, alle insegnanti e agli insegnanti. Un punto di vista che può essere utile in quanto dall’esterno si può vedere ciò che chi è all’interno non vede o vede in modo diverso; come si evidenzia quando dall’esterno appunto si interviene in istituzioni come le scuole o gli ospedali.
Il conflitto arabo israeliano, che persiste dal 1948, aggravandosi e degenerando, emerge a tratti con drammaticità tale da conquistare i primi posti nell’agenda dei mass media occidentali, venendo poi dimenticato quando lo “spettacolo”, ad esempio dei bombardamenti su Gaza e dei missili lanciati da Gaza, finisce. Dimenticato, anche se ci coinvolge per le sue possibili conseguenze e, prima, per le sue cause che affondano le loro radici nella vecchia Europa; e sopra tutto in quanto l’opinione pubblica diffusa nei Paesi democratici può influenzare le scelte politiche dei governi.
Opinione pubblica, o sentire comune, sul conflitto arabo israeliano che, come sta drammaticamente emergendo in questi giorni, può veicolare il mostro antico e mai scomparso dell’antisemitismo; mascherandosi talora con un sentire, indiscriminatamente negativo verso lo Stato di Israele, che vorrebbe essere di Sinistra, pur contradicendo i principi e i valori più autentici della Sinistra, a partire dalla comprensione storica dei fatti e dall’opposizione a discriminazioni che possono portare a esiti inaccettabili, come è già successo.

Gli scenari di questo conflitto sono diversi anche se tra loro interdipendenti. Lo scenario più ampio, globale, coinvolge i rapporti tra Israele, con il suo protettore statunitense, e i Paesi islamici. A livello regionale vi è la tensione tra Israele e i Territori palestinesi della Cisgiordania e di Gaza – Territori, lo stesso termine usato per le riserve indiane nel Nord America. Infine, il più complicato conflitto interno – anch’esso continuo, latente, con momenti di emergenza o “spettacolari” – con i cittadini considerati di secondo ordine e trattati come tali dallo Stato israeliano: gli “arabo israeliani”, come devono essere chiamati i palestinesi che vivono nei confini dello Stato per negare la loro identità e separarli, con le parole che possono essere più divisive dei muri, dagli altri palestinesi che vivono nei Territori. Conflitto interno con un “gruppo minoritario o svantaggiato”, secondo la definizione di Kurt Lewin ( “I gruppi minoritari o svantaggiati” in La teoria, la ricerca, l’intervento, Bologna, il Mulino, 2005), “subordinato” come lo avrebbe definito Gramsci. Un gruppo non omogeneo di cittadini di secondo, terzo ordine o quasi inesistenti: ne fanno parte, oltre che gli “arabo israeliani” islamici e (anche se sempre meno) cristiani; i beduini, in grande maggioranza chiusi in un orgoglioso isolazionismo, cacciati dal deserto del Neghev dall’avanzata di coltivazioni esogene, costretti a una residenzialità coatta e degradata, e, oltre a questi, gruppi etnici minori deportati in Palestina dall’Africa e dal Caucaso ai tempi dell’Impero Ottomano; e non vanno dimenticati i Drusi del Golan che dal 1967, quando le loro colline furono occupate dall’esercito israeliano, vivono in un indefinito limbo identitario e istituzionale: arabi ma non islamici, non palestinesi, non siriani anche se molti tra loro si sentono tali, non cittadini dello Stato che li ha inglobati, minacciati, come i palestinesi della Cisgiordania anche se ignorati dai mass media, da un numero programmaticamente crescente di insediamenti di coloni israeliani; separati non solo geograficamente dai Drusi del Monte Carmelo che al contrario si sono integrati nello Stato israeliano facendo, unici tra gli arabi, il servizio militare e diversi tra loro la carriera militare.

Gaza City dopo i bombardamenti israeliani (foto ActionAid)

Per tentare di comprendere questo conflitto nel suo complesso bisognerebbe tener presente che la sua causa prima è di tipo economico, ovvero rinvia alla spartizione di risorse: all’inizio la terra e l’acqua, attualmente in primo luogo le riserve di gas e petrolio nel Mediterraneo, di fronte a Gaza e al confine con il Libano. Una conferma della teoria sul “conflitto realistico”, secondo C. Wood Sherif e M. Sherif: i conflitti tra i gruppi sociali di qualsiasi tipo e dimensione sono originati dalla spartizione di risorse, ovvero da motivi economici; partendo da questa base strutturale assumono aspetti etnici, culturali, religiosi che finiscono con l’apparire, e in parte effettivamente diventano, prevalenti. Infatti, il conflitto arabo israeliano viene rappresentato anche, se non prevalentemente, come uno scontro tra il Medio Oriente islamico e l’Occidente giudaico cristiano.

Nello stesso tempo, per comprendere le modalità del conflitto bisogna ricordare che i palestinesi e gli “arabo israeliani” sono vittime di altre vittime. La storia e la memoria collettiva sono di lunga durata e i comportamenti dello Stato di Israele e degli israeliani possono essere spiegati dalla storia del popolo ebraico e più immediatamente dalla Shoah. Se chiedete agli israeliani perché non si preoccupino degli effetti che possono avere all’estero sulla opinione pubblica, sui leader e sui governi occidentali le politiche discriminatorie e indiscriminatamente aggressive di Israele, a esempio i bombardamenti su Gaza con l’uccisione di persone, di bambini e bambine che nulla hanno a che fare con Hamas e che anzi sono esse stesse vittime di Hamas, in diversi vi risponderanno che non capiscono perché dovrebbero preoccuparsi di quello che pensano “gli altri all’estero” dal momento che “all’estero”, negli Stati Uniti e in Europa, ben si sapeva cosa succedeva in Germania e in Italia negli anni Trenta del secolo scorso, ben si sapeva dei campi di concentramento e di come funzionavano – le foto aeree esistevano anche allora – e nessuno fece nulla, né i civilissimi cittadini dell’Occidente, né il Papa, né Roosevelt, il presidente democratico degli Stati Uniti; i quali ultimi anzi impedirono l’arrivo di ebrei dall’Europa orientale. Aggressività bellica di Israele che può essere spiegata anche come una reazione alla accusa mossa agli ebrei anche da altri ebrei di aver subito le persecuzioni comportandosi da codardi. Infatti la codardia era un tratto tradizionale dello stereotipo dell’ebreo introiettato dagli stessi israeliti e valorizzato dai nazisti: una colpevolizzazione delle vittime paradossale quanto abituale oltre che generica e storicamente errata.
Più in generale si ripete in Israele un noto processo psichico: le vittime tendono a far subire agli altri quello che loro hanno subito. Chi è stato educato subendo punizioni corporali potrà essere portato a infliggere punizioni corporali a chi può appena può (v. Philippe Ariès, Padri e figli nell’Europa Medioevale e moderna, Laterza). Questo processo tendenziale anche se non deterministico può riguardare le collettività come i singoli individui. Di fatto Gaza è un ghetto, i campi profughi in Cisgiordania sono dei ghetti, i beduini, sono costretti a vivere in dei ghetti.

Tuttavia, nella situazione conflittuale interna allo Stato di Israele emergono delle contraddizioni sulle quali è opportuno riflettere. Contraddizioni che evidenziano la falsità di qualsiasi rappresentazione manichea che veda nello Stato di Israele solo il male.
Da una parte i cittadini di secondo e terzo ordine, i diversi gruppi “minoritari” in diversa misura “svantaggiati”, continuano a essere discriminati in un sistema in buona misura di apartheid e di capillare controllo poliziesco, con episodi di ribellione duramente repressi.
Dall’altra bisogna riconoscere alcuni fatti. In primo luogo che Israele in Medio Oriente è l’unica democrazia di tipo occidentale – ora minacciata dal governo Netanyahu – con tutti i limiti e i difetti di queste democrazie, a partire dall’essere tutt’altro che democratiche – rispettose dei diritti del demos, a iniziare dal diritto alla vita – non solo verso i nemici esterni ma verso quanti al loro interno vengono considerati esterni o estranei, “altri”: gli afroamericani negli Stati Uniti, gli “arabo israeliani”, i Drusi del Golan e gli altri gruppi “minoritari” in Israele. Nello stesso tempo va riconosciuto che nonostante i loro limiti le democrazie di tipo occidentale possono essere considerate la miglior forma di governo conosciuta; e non si tratta di uno stereotipo o di un luogo comune in quanto i regimi democratici hanno ricadute positive per tutti, anche per i cittadini di secondo ordine, nonostante il persistere di discriminazioni nei loro confronti. Questo è dimostrato in primo luogo dai sistemi giudiziari che nelle democrazie offrono comunque maggiori garanzie. Un arabo israeliano, per una causa penale o anche civile, preferirebbe un tribunale israeliano o egiziano, iraniano, saudita…? L’opposizione di una ampia maggioranza degli israeliani al governo Netanyahu in difesa dell’autonomia del loro sistema giudiziario segnala che la rilevanza di quest’ultimo è sentita e quindi che è radicato un sentire democratico, e la volontà di difendere la democrazia.
Inoltre, nel caso specifico di Israele, bisogna riconoscere l’eccellenza della sanità pubblica e degli ospedali; e di questa usufruiscono anche gli arabo israeliani. Negli ospedali, dai medici, prevalentemente i pazienti vengono tutti trattati come tali indipendentemente dalla etnia. Capita infatti che i familiari, i genitori se si tratta di bambini, si trovino a condividere il dolore e la speranza superando separazioni e conflittualità.

Popolazione di Gaza City dopo i bombardamenti (foto ActionAid)

Il sistema scolastico statale è particolarmente emblematico delle contraddizioni alle quali qui si fa riferimento. Le scuole arabo israeliane separate dalle scuole israeliane – separazione non solo accettata ma voluta dalla grande maggioranza degli arabo israeliani che intendono così difendere la loro cultura e opporsi alla assimilazione – sono sottoposte al controllo delle autorità ministeriali israeliane anche per quanto riguarda temi sensibili come i programmi di storia e letteratura. Nello stesso tempo, il rilevante investimento statale nell’istruzione (costantemente superiore a quello di Paesi come il Giappone, la Germania, il Regno Unito, gli Usa, come evidenziato dalle statistiche Ocse) ha portato, a partire già dal 1948, a uno sviluppo esponenziale della scolarizzazione della popolazione araba, dai primi livelli alle scuole superiori. Pur nel persistere di diseguaglianze nella distribuzione delle risorse economiche, e di elevati tassi di dispersione scolastica, molti arabo israeliani completano il ciclo scolastico; e questo permette a diversi di conseguire lauree in Medicina, Ingegneria, Psicologia…, anche se quasi sempre in Università europee o di Paesi arabi, essendo difficile per un arabo israeliano superare la selezione per essere ammesso a una Università israeliana. Quello che è più importante, la scolarizzazione femminile, assente durante la lunga dominazione ottomana e il successivo Mandato britannico (dal 1920 al 1948), ha raggiunto gli stessi livelli della scolarizzazione maschile: un progresso rilevante per l’intera società palestinese o “arabo israeliana” per l’inserimento lavorativo e sociale delle donne, e in quanto dalle madri dipende l’educazione delle figlie e dei figli negli anni decisivi della prima infanzia. La diffusione della scolarizzazione, più in generale e con maggiore rilevanza la socializzazione in un Paese di cultura occidentale e che offre modelli culturali occidentali, porta le adolescenti e gli adolescenti arabo israeliani ad ispirarsi e ad aspirare a tali modelli, a cominciare dall’utilizzo degli attuali mezzi e modalità di comunicazione. Questo può essere considerato un sintomo e un fattore potenzialmente positivi, ma emergono anche a tale riguardo degli aspetti problematici.

Insegnanti, presidi, testimoni privilegiati intervistati nel corso di una ricerca condotta dal 2009 al 2019 nelle scuole arabo israeliane (Colucci, Said e Dakduki) definiscono studenti e studentesse come “la generazione muta”, ovvero la generazione che non comunica – con loro, con gli adulti. Tale difficoltà di comunicazione intergenerazionale, ricorrente in tutte le società, assume nella società arabo israeliana una accentuata drammaticità e caratteri peculiari. La non comunicazione intergenerazionale che porta a questa definizione stereotipica di “generazione muta” è causata e comunque aggravata dal fatto che l’ampia maggioranza dei genitori e parte degli stessi insegnanti arabo israeliani non conoscono, non praticano e vivono con un misto di estraneità e diffidenza i nuovi mezzi di comunicazione, considerati espressione e veicolo di trasmissione della cultura occidentale.

La contradizione che qui emerge è evidenziata dal fatto che alcuni appartenenti a questa “generazione muta” sono stati e continuano a essere protagonisti di ribellioni più o meno violente contro lo Stato di Israele. È sensato spiegare questo come la manifestazione del noto rapporto causale tra frustrazione e aggressività che può portare i giovani arabo israeliani come quelli della Cisgiordania e di Gaza, come i giovani arabi, anche di seconda e di terza generazione, delle periferie europee frustrati dal fallimento delle loro aspirazioni occidentalizzanti a reagire con comportamenti aggressivi. L’assalto ai ragazzi del Bataclan ed ora la violenza esaltata ed esultante dei giovani gazawi di Hamas che hanno assaltato i loro coetanei e le loro coetanee che partecipavano al rave party o festa musicale al confine possono essere la tragica conferma dell’ipotesi qui avanzata. È cruciale allora cercare di capire da cosa può dipendere questo fallimento, ovvero la persistente mancata assimilazione o integrazione di tanti giovani arabi; cercare di capire per cercare di risolvere. Tale riflessione può essere utile e arrivare a un qualche risultato se si supera l’abituale manicheismo che attribuisce la responsabilità del fallimento solo, esclusivamente e genericamente agli occidentali o all’Occidente, in questo caso solo ed esclusivamente agli israeliani e allo Stato di Israele. Anche se quest’ultimo ha precise e gravi responsabilità: la sua politica di questi ultimi anni e di questi tempi favorevole agli integralisti o ortodossi più retrivi, come i coloni della Cisgiordania, la tendenza a trasformare Israele da Stato laico, come era nelle intenzioni dei suoi fondatori, in Stato confessionale non può che essere respingente in primo luogo verso i giovani ovvero, se si vuol usare questa espressione, verso la “generazione muta”.

Per comprendere la mancata integrazione, e la più generale e continua situazione conflittuale, bisogna inoltre tener conto delle persistenti differenze culturali senza per questo evocare, o invocare, guerre di civiltà. Una manifestazione, o sintomo, di tali differenze culturali, attualmente rilevante, rinvia al modo di percepire la violenza. Agli occhi occidentali lo sgozzamento con un tradizionale coltello fa molta più impressione di un bombardamento “chirurgico” e comunque tecnologico, specie se tale bombardamento colpisce l’altro. Gli arabi, i palestinesi vivono i bombardamenti che seppelliscono decine di vittime come ben più gravi e terrorizzanti dei singoli attentati per quanto feroci. Si alimenta così il circolo vizioso delle recriminazioni reciproche, in un urlarsi tra sordi.
Tornando a riflettere sul conflitto interno allo Stato di Israele e sulle sue contradizioni si deve osservare che le condizioni di vita degli arabo israeliani in buona misura migliori se confrontate a quelle, oltre che dei palestinesi dei Territori, degli arabi del Medio Oriente e del Maghreb, sono pagate da sofferenze passate e presenti, a partire dal doversi sentire stranieri indesiderati nella loro patria. Ma sono tutt’altro che liberi dalla sofferenza i cittadini di primo ordine o di serie A dello Stato di Israele che sentono di vivere in una condizione continua di tensione e di precarietà, sentendosi anche essi continuamente minacciati.
Arafat osservava che la popolazione ebraica che vive in Israele è costituita da gruppi etnici tra loro molto diversi; e si chiedeva cosa potesse esserci in comune, “a parte la religione”, ad esempio tra un ebreo venuto dal Nord Africa e uno venuto dalla Polonia, concludendo che “solo la paura può riunirli”. A tali diversi gruppi etnici si sono aggiunti i russi, prevalentemente di tradizione cristiano ortodossa, che hanno abbandonato l’ex Unione Sovietica. In Galilea le insegne dei negozi sono in ebraico e in cirillico.

Come sempre e da sempre per rendere coeso un gruppo di qualsiasi entità, da una famiglia a una nazione, il nemico se non c’è va creato. In particolare nel caso di Israele, per mantenere coesa una popolazione tanto differenziata sono necessari la paura del nemico e uno stato continuo di belligeranza; paura che non necessita di essere creata o ingigantita, come dimostrano gli eventi di questo ottobre 2023. Se, come riteneva Arafat, non si comprende cosa possa esserci in comune tra gli Israeliani “a parte la religione”, si deve ricordare che nel caso degli israeliti, e degli israeliani, la religione è un legame primario che si connette in modo paradigmatico al mito, alla cultura, alla tradizione, alla memoria collettiva e individuale, alle identità collettiva e individuale. Un legame che da due millenni pervade profondamente e lega un popolo disperso per il mondo, tutti, dai laici agli ortodossi, dagli aschenaziti polacchi ai sefarditi del Nord Africa. Nello stesso tempo tale religio, questo forte legame, aggrava e alimenta il conflitto, contrapponendosi alle altre due grandi religioni monoteistiche del Libro: l’islamica in primo luogo e, con modalità diverse, la cristiana: «Tantum religio potuit suadere malorum» (Lucrezio, De Rerum Natura).
Se non può durare indefinitamente un legame fondato sulla paura, con una tensione continua, questo conflitto arabo israeliano non può che abortire in un disastro – quale può essere l’implosione e la fine dello Stato di Israele – che coinvolgerebbe anche gli arabo israeliani e i palestinesi e colpirebbe più duramente, come sempre accade, i più deboli: i tanti israeliani di origine nord africana, yemenita, etiope; e oltre a questi, i gruppi marginali come i Drusi del Carmelo, una minoranza religiosa, considerata collaborazionista dalla maggioranza degli Arabi. Gli israeliani privilegiati, gli uomini d’affari, i tecnocrati e i professori universitari, prevalentemente appartenenti a famiglie di origine europea, molti con una doppia cittadinanza, non faticherebbero ad acquistare un biglietto aereo per gli Stati Uniti o per l’Europa.

Gli abitanti di Gaza dopo un bombardamento israeliano (foto ActionAid)

Solo una risoluzione del conflitto può evitare il disastro. Credere che questo sia possibile e agire a tal fine può aprire la prospettiva di un “futuro psicologico” rendendo la situazione presente sopportabile per tutti quelli che si trovano a viverla: come spiegava Lewin, solo la prospettiva di una patria futura in Palestina poteva rendere sopportabile la vita degli israeliti nella Germania nazista.
Risolvere il conflitto non significa, non può e non deve significare eliminare il conflitto. I conflitti sociali sono ineliminabili e anzi necessari in primo luogo perché servono a difendere i più deboli, o meglio a liberare i gruppi “subordinati” (Gramsci) o “minoritari” (Lewin) dalla loro condizione. Risolvere i conflitti significa cercare di ricondurli a quel polemos che è la natura stessa della politica, eliminando la loro distruttività e auto distruttività generata e alimentata dalla irrazionalità e dai suoi fantasmi. A tal fine bisogna cercare soluzioni politiche realistiche. A partire dal rifiuto dell’idea, che talora vorrebbe essere di Sinistra e che invece è solamente sinistra, che ritiene come unica soluzione possibile e auspicabile la fine dello Stato di Israele. Ci si deve inoltre chiedere se è realistica la soluzione dei due Stati o se questa non rischierebbe di perpetuare e aggravare quanto succede a Gaza e in Cisgiordania. Osservando quanto succede questi giorni ci si deve chiedere se è realistica e sensata la scelta deli Stati Uniti di puntare su Abu Mazel un non leader squalificato e disprezzato; e di non imporre invece all’altrettanto squalificato governo israeliano la liberazione di Marwan Barghuti, l’unico leader palestinese in grado di guidare l’opposizione all’egemonia di Hamas

Ancor prima, sempre osservando quanto sta succedendo, è urgente un cambiamento di paradigma della politica israeliana che non deve continuare a confondere i nemici (Hamas, Hezbolalh) con le vittime di questi stessi nemici: i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. I bombardamenti indiscriminati su Gaza, l’appoggio insensato ai coloni della Cisgiordania, un gruppo marginale ed emarginato, si rivolgono e si rivolgeranno contro Israele, che rischia di apparire in questi ultimi tempi e in questi giorni, non un “baluardo della democrazia”, ma uno Stato terrorista insensato e incapace. Incomprensibilmente incapace. Infatti, ci si può chiedere se uno Stato tecnologicamente all’avanguardia, in primo luogo per quanto riguarda la sicurezza e gli armamenti non possa usare altre tecniche per “stanare i terroristi”; che non siano bombardamenti a tappeto come nella guerra di Spagna (Guernica) e nella Seconda guerra mondiale.

Ma la precondizione fondamentale, dalla quale partire, per la risoluzione del conflitto richiede il superamento – tra le parti coinvolte nel conflitto e tra quanti lo osservano dall’esterno – di una rappresentazione manichea, che fa vedere tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra, e non fa vedere le differenze interne ai gruppi contrapposti. Sarebbe così un errore rappresentarsi tutti gli israeliani – se non tutti gli israeliti – come sostenitori e spettatori entusiasti dei bombardamenti su Gaza e del proliferare degli insediamenti in Cisgiordania; non vedendo che tra gli israeliani vi sono gruppi con visioni contrapposte e significative divisioni politiche (v. Left del 21 maggio 2021). Il fatto che quelli che credono in una convivenza costruttiva con i palestinesi possano essere una minoranza non diminuisce affatto la loro importanza dal momento che nella storia gli attori dei cambiamenti più radicali sono sempre state le “minoranze attive”, come sostiene Moscovici. Dall’altra parte i palestinesi e ancor più le palestinesi di Gaza non sono tutte/i integraliste/i, convinte/i sostenitori di Hamas; che se non ha applicato la Sharia come i suoi sostenitori e alleati iraniani – non potendolo fare in quanto il contesto nel quale opera e domina è diverso da quello dell’Iran – ha causato una regressione delle condizioni di vita in particolare delle donne a iniziare dagli obblighi relativi al vestire. In ogni caso, di fatto gran parte dei gazawi non sono e non possono essere sostenitori di Hamas, se non altro per motivi anagrafici avendo meno di 15 anni.

È essenziale invece comprendere che la cooperazione, come fanno intravedere le contraddizioni sopra evidenziate, è per tutti più conveniente del conflitto nel rapporto costi/benefici, vantaggi/svantaggi intesi non solo in senso economico: si pensi alle sofferenze fisiche e psicologiche. Essenziale ma non facile come dimostra la storia della nostra specie che ha come costante sin dai primordi la prevalenza del conflitto tra gruppi per l’accaparramento delle risorse; non facile ma possibile. Bisogna credere nella possibilità che la ragione, grazie all’evoluzione della nostra specie, finisca col prevalere sui fanatismi e sulla aggressività, che la consapevolezza del bene comune prevalga sugli egoismi di corto respiro
Come si è prima fatto intravedere, in Israele si trovano a convivere diversi gruppi etnici, un fazzoletto di terra paragonabile per tale molteplice diversità agli Stati Uniti d’America. Questo significa che Israele potrebbe diventare un modello pionieristico di convivenza multietnica: un unico Stato con cittadini diversi e di uguale dignità, con diritti e doveri uguali (v. Russo Spena, left.it del 30 ottobre 2023). Uno Stato in grado, grazie alla sua superiorità democratica, di esercitare con le sue istituzioni a partire dalla scuola una “egemonia culturale” che contrasti gli opposti estremismi; ad esempi l’estremismo dei coloni della Cisgiordania che non possono essere eleminati o deportati ma possono essere cambiati.

Si tratta comunque di non accettare la conflittualità distruttiva come un destino inevitabile; e di comprendere che quelle che sembrano utopie possono invece essere luoghi non ideali, con molteplici difetti e limiti, anche conflittuali, ma possibili.

L’autore: Francesco Paolo Colucci, già professore ordinario di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano Bicocca, Dipartimento di Psicologia, è autore, tra l’altro, insieme a M.Said e J.Dakduki di “Una esperienza di ricerca-azione volta a ridurre la dispersione scolastica nelle scuole arabo israeliane”, Psicologia di comunità, 1-2018

In apertura: Gaza City dopo i bombardamenti israeliani (foto ActionAid)

Elena Cecchettin ha stanato il lupo

Elena e Giulia Cecchettin

In un tempo di panpenalismo di propaganda che consiste nell’aumentare tutti i reati che non potrebbero mai essere commessi dal proprio elettorato il governo di Giorgia Meloni ha dimenticato di considerare il reato più grave e culturalmente devastante: la violenza di Stato.

Avrebbe così potuto osservare con occhi diversi gli accadimenti di queste ultime ore in cui famelici maschi si stanno buttando sul corpo di Elena Cecchettin, sorella di quella Giulia ammazzata da Filippo Turetta come è già accaduto altre 104 volte quest’anno in Italia e come accadrà ancora prima della fine dell’anno. Elena ha scelto di dismettere i panni della donna addolorata così rassicurante per le società patriarcali – zitta e buona – puntando il dito contro il mandante storico e culturale che c’è dietro ogni femminicidio: il possesso che sfocia nel controllo poi nella prevaricazione e infine nell’ammazzamento. 

Non accettando di stare al suo posto Elena Cecchettin ha rinunciato al ruolo assegnato al suo genere (rassicurare) e ha deciso di occupare spazio (in questo caso mediatico) che taluni maschi vivono come uno scippo. Il consigliere regionale leghista che in Veneto dice di vedere negli occhi, negli abiti e nelle felpe di Elena Cecchetin addirittura il diavolo semplicemente non si è trattenuto dal dire quello che molti pensano. In giro sui social i maschi arruolati nell’esercito della fallocrazia strepitano contro Elena Cecchettin rivendicando che “non tutti i maschi sono così” adottando le stesse logiche violente dei maschi così: Elena Cecchettin ha stanato il lupo. Ben fatto. 

Buon martedì.