La risposta efficace contro la violenza di genere non è la repressione, ma la prevenzione, che va implementata con più risorse e in modo sistematico. Mentre tutto il Paese si interroga sulle cause dell'uccisione di Giulia Cecchettin, ecco un contributo della psichiatra e psicoterapeuta Irene Calesini

Mentre tutto il Paese si interroga sulle cause che hanno portato all’uccisione di Giulia Cecchettin da parte del suo ex fidanzato e nuovi provvedimenti sono in arrivo, vogliamo approfondire il tema della prevenzione dei femminicidi con il contributo della psichiatra e psicoterapeuta Irene Calesini pubblicato sul numero di Left di settembre 2023.

Anna Scala è stata accoltellata alla schiena e trovata morta nel bagagliaio della sua auto. Aveva denunciato per ben due volte il suo ex partner. Il suo drammatico caso, insieme agli stupri di gruppo a Palermo e a Caivano di cui sono state vittime una ragazza e due bambine hanno fatto parlare della necessità di leggi più incisive (restrittive, repressive). Io continuo a pensare che non servano ulteriori leggi chissà come risolutive, ma occorra che quelle già esistenti vengano applicate e che si seguano le direttive internazionali che puntano sul sostegno e la protezione reale delle vittime, con strumenti finanziati e personale formato (centri anti-violenza, case rifugio, percorsi personalizzati di fuoriuscita dalla violenza), nonché sulla prevenzione della violenza maschile contro le donne. La domanda ritorna: abbiamo veramente bisogno di maggiori strumenti legislativi? È solo la coercizione e la repressione la risposta efficace per combattere questo fenomeno che non accenna a scomparire, anzi rimane costante nel tempo nonostante da anni, in Italia, si registri un calo costante degli omicidi totali? A me sembra che nei fatti la prevenzione venga del tutto trascurata. Parliamoci chiaro: quando i bandi regionali per l’affidamento dei servizi a sostegno delle donne e bambine/i che subiscono o hanno subito violenza hanno una cadenza di 12 o 18 mesi e costringono le associazioni a utilizzare periodicamente le loro risorse di tempo ed energie per parteciparvi e sperare di vedere rinnovato l’impegno, si favorisce il lavoro di contrasto? Quando i progetti rivolti alla prevenzione sono episodici e non strutturali, quando nelle scuole ancora non è curriculare e sistematico affrontare temi come la sessualità, il rapporto tra i sessi, le radici di ineguaglianze e discriminazioni che formazione offriamo alle nuove generazioni?

Come medico e psichiatra vorrei proporre qualche riflessione su cosa possa essere la prevenzione in questo campo, questione che si intreccia con un altro tema assente o misconosciuto nei discorsi ufficiali: la salute mentale. Per prevenzione di una malattia, di un danno, di una lesione, si intende tutto l’insieme dei comportamenti, degli accorgimenti ed ausili tecnici che servono per far sì che la malattia o il danno non si verifichi o, se non è del tutto evitabile, se ne riduca la portata e si impedisca per quanto possibile la cronicizzazione, riducendone gli esiti, fino a quello estremo. Per essere efficace la prevenzione va articolata su più livelli (primaria, secondaria, terziaria) e con risorse adeguate. È ovvio che maggiori e più complete sono le conoscenze delle cause (etiologia) della malattia, del fenomeno nel nostro caso, e della sua epidemiologia (cioè su come insorge, si trasmette e si distribuisce nella popolazione e con quale frequenza, quali fattori la facilitino o la contrastino) maggiori sono le possibilità di prevenirla. Facciamo un esempio concreto: nel caso delle malattie infettive a trasmissione oro-fecale la disponibilità di acqua potabile, di un sistema dinamico di fognatura, l’igiene delle mani, la conservazione e la cottura degli alimenti, il lavaggio di frutta e verdura, ecc., hanno fatto sì che nel nostro e nei Paesi più sviluppati colera, tifo, epatite A non costituiscano attualmente un problema emergente di sanità pubblica. In altri casi, con il ricorso a mezzi di profilassi (prevenzione) come il vaccino, si sono eradicate malattie temibili, quali il vaiolo, o si evitano malattie ancora mortali quali il tetano. I modelli di prevenzione hanno la loro formidabile efficacia, come ormai si sa, anche nelle malattie non infettive e spesso sono l’unica misura efficace.

Nel nostro specifico è possibile attuare una prevenzione primaria? Sì se si cerca di agire sulle cause del fenomeno, fondamentalmente in ambito culturale, andando a smontare pezzo per pezzo tutti quegli stereotipi, quelle convinzioni circa le differenze tra i sessi, tra le persone basate sull’idea di inferiorità/superiorità. In parole povere lavorando sulle disuguaglianze. L’art. 14 della Convenzione di Istanbul, ratificata anche dall’Italia, parla di educazione. In questa dizione si comprende la corretta informazione e la formazione. I luoghi sono le scuole di ogni ordine e grado, i luoghi dove si fa sport, dove ci si ritrova. Deve essere rivolta a bambine e bambini ed adolescenti, ma questo richiede la formazione dei docenti e di tutto il personale scolastico, sportivo, ecc. Questo tipo di informazione dovrebbe essere estesa a tutta la popolazione perché passi il messaggio che la violenza non è “normale” o ineluttabile. Dunque, formazione dei giornalisti, degli operatori sanitari, sociali, delle forze dell’ordine, dei magistrati e uomini di legge. L’obiettivo è aumentare la sensibilità al problema, la capacità di parlarne e la capacità di ascolto di persone che potrebbero essere a rischio: questo riveste un ruolo cruciale a tutti i livelli di prevenzione. Fondamentale a mio avviso è implementare le risorse personali ed i servizi per attuare la importantissima prevenzione secondaria (in medicina diagnosi precoce per una cura tempestiva); questa serve a riconoscere il danno all’inizio e ad evitarne la progressione.

La violenza, in particolare quella familiare, è diffusa e sfugge ad ogni rilevazione certa, ma i suoi segni sono riconoscibili, a saperli leggere. Non solo nel fisico o nella condizione psichica di molte donne o ragazze/i che si rivolgono ai servizi sanitari o ai professionisti per diversi sintomi, ma anche per le condizioni di disagio economico, scolastico, lavorativo che ne possono conseguire o l’accompagnano. E qui, torno a dire, cruciale è la formazione degli operatori sanitari, sociali, insegnanti, ecc. I medici di famiglia e i pediatri di libera scelta potrebbero avere un ruolo fondamentale per la prossimità che hanno con gli assistiti, sempre che questa risorsa sanitaria si voglia rafforzare, in controtendenza a quello che sta succedendo da anni. Decisivo è informare la donna riguardo ai servizi disponibili sul territorio e in ospedale (in alcuni ospedali è attivo un percorso ad hoc in caso di sospettata violenza di genere) e, senza spaventarla, farla riflettere sul fatto che sta subendo violenza. E, con il suo consenso, attivare la rete antiviolenza.

La prevenzione terziaria, invece, si attua quando la condizione patologica è già conclamata; nel caso che la violenza subìta venga all’attenzione dei servizi sociali o sanitari o della autorità giudiziaria. Qui è urgente che la violenza venga bloccata, che l’escalation in tutte le sue fasi e forme, sia interrotta. Qui si parla di prevenzione che può salvare la vita in molti casi. Ci sono indicatori precisi che rivelano situazioni ad alto rischio (ad esempio minacce di morte, aver messo una volta le mani al collo, aver puntato una arma). Per la condizione psichica di chi subisce ripetutamente atti violenti (non soltanto fisici), questi atti possono essere sottovalutati dalle donne, ma non devono esserlo da parte di chi è medico, psicologo, assistente sociale, pubblico ufficiale… Qui ritorna l’indispensabile formazione di tutti gli operatori, non solo di quelli dedicati a progetti contro la violenza di genere. (Ogni professionista che esercita la professione sanitaria ed ogni incaricato di pubblico servizio ha l’obbligo di referto quando è in presenza di un reato e la violenza contro le donne). Prevenzione secondaria e terziaria come si vede nel caso della violenza contro le donne sono contigue, il senso è che prima si interviene a più livelli e meglio è. Ogni caso peraltro ha la sua storia e le sue peculiarità con diverse priorità. Per questo vanno sostenute le associazioni e le cooperative che tengono funzionanti i centri che forniscono aiuto logistico, legale, psicologico, sociale alle donne e ai loro figli. Vanno potenziate le strutture e le risorse ad esse dedicate.

Parlare di prevenzione della violenza significa a mio modesto parere tenere presenti questi tre livelli con il potenziamento delle strutture e delle risorse necessarie. Di pari passo deve esserci il reale sostegno alle donne e ai figli perché abbiano condizioni di vita dignitose e possibilità di lavoro; occorre far cessare la vergogna di non considerare femminicidi quelli che portano a morte la donna per le lesioni subite dopo qualche tempo dall’aggressione. La vergogna di non avere misure efficaci e pronte nei confronti delle orfane ed orfani di femminicidio che vengono affidati ai nonni o a parenti stretti, che non vengono poi supportati adeguatamente o prontamente.

L’altro aspetto che brevemente vorrei affrontare e che meriterebbe ulteriori riflessioni a più voci, è quello sulla salute mentale: sulle ricadute su chi subisce direttamente o indirettamente violenza; di questo in genere le donne e i loro figli non vengono né risarcite, né concretamente aiutate. Ormai sono noti i danni sulla condizione psichica sia della violenza verbale e psicologica, che di quella fisica, sessuale, economica. Ansia, depressione nelle varie forme, disturbo post traumatico da stress, disturbi psicosomatici i più comuni, ma anche disturbi psicotici, ricorso all’alcool o a sostanze. Queste sono condizioni che richiedono anni di lavoro psicoterapeutico e spesso anche trattamenti farmacologici coadiuvanti per essere curate.

Ma la salute mentale, o meglio la sua carenza nelle molteplici forme che assume, è anche il tema che si affaccia in molte storie di violenza con esito letale, nel protagonista maschile. Schizoidia? Psicopatia? Depressione grave? E questa, in genere, non è una conseguenza della relazione attuale vissuta, a differenza di quello che avviene in genere per la donna ed i figli. Anche questo dovrebbe far pensare. Da dove viene? Come si è sviluppata? Quasi sempre non è malattia mentale manifesta, eclatante, anche se a volte le manifestazioni di gelosia sono francamente patologiche. Ma quel bisogno costante di controllo, di affermazione di sé a scapito dell’altra, di sopraffazione, è sanità?
Occorre allora di nuovo porre l’attenzione sulla salute mentale, sulla prevenzione della malattia mentale e magari fare un approfondimento sulla condizione degli uomini e su quanto questa stessa società patriarcale e violenta, facendo ammalare e “morire” il bambino, sia causa di malattia mentale grave, anche se lungamente non riconosciuta. Invisibile.

Irene Calesini, psichiatra e psicoterapeuta, è una delle autrici del libro di novembre di Left “Libere dalla paura e dall’oppressione. Contro la violenza sulle donne”.

Il 25 novembre parteciperà con la relazione dal titolo “Riconoscere la violenza e quella invisibile per prevenire gli esiti: il ruolo del medico” al convegno “Adesso basta. Mettiamoci in campo per il no alla violenza sulle donne” in programma a Roma

 

 

Per leggere il libro di novembre di Left qui