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Ci sei arrivata viva, Michela

Questo non è un coccodrillo per Michela Murgia, che i coccodrilli vanno scritti sapendolo fare e non invidio coloro che oggi per mestiere dovranno comprimere in un pezzo così tante vite. Dieci ne conta lei. Non è il racconto di un episodio condiviso, con una foto ripescata.

È il lamento per l’ipocrisia, da cui Michela Murgia rifuggiva ben prima della malattia. Diceva che il cancro rende liberi, ci ha invitato a essere liberi anche senza cancro ma lei libera lo è stata sempre.

L’ipocrisia di quelli che “Michela Murgia si fa scrivere i libri, ho un amico che conosce il suo autore fantasma in Einaudi”. L’ipocrisia di quelli che “Michela Murgia non è più una scrittrice, ha scelto di fare l’influencer”. Quelli che “Michela Murgia vede fascismo dappertutto per vendere più libri”. Quelli che “eccola che infine si candida per sistemarsi su una poltrona”. Quelli che “Michela Murgia crede di potersi inventare famiglie che non esistono per legge e per natura”. Quelli che “Michela Murgia non ha nemmeno l’eleganza di essere malata con un po’ di riservatezza”.

L’ipocrisia di quelli che “io posso essere anche d’accordo con lei ma sbaglia i modi”. Quelli che “la politica non andrebbe fatta dagli scrittori”, quelli che “Michela Murgia vuole morire da screanzata”, quelli che “è illeggibile”, quelli che “è inascoltabile”, quelli che “è inguardabile”, quelli che “io non capisco perché dobbiamo leggere sempre quello che pensa  questa”, quelli che “non si capisce chi sta con chi e chi è figlio di chi”, quelli che “la letteratura è un’altra cosa”, “la politica è un’altra cosa”, “l’antifascismo è un’altra cosa”.

Quelli oggi stanno sfogliando i sinonimi e i contrari per redigere un comunicato luttuoso. E scopriranno di non avere il vocabolario. Ci sei arrivata viva, Michela.

Buon venerdì.

Locarno Film festival, Ken Loach contro ogni razzismo

Al Locarno Film festival, in una Piazza Grande gremita all’inverosimile da 8mila spettatori una standing ovation ha accolto l’8 agosto il regista Ken Loach. L’applauso corale gli viene tributato prima della proiezione del suo ultimo film, The old oak (La vecchia quercia) che in Italia uscirà il 25 ottobre. È dunque un tributo alla carriera, alla costante attività di lotta politica a favore dei più deboli che Loach porta avanti con i suoi film da sei decadi. Malgrado circa dieci anni fa avesse deciso di ritirarsi, la terribile realtà sociale provocata dai governi Tory succedutisi lo ha spinto a continuare, in stretta collaborazione con Paul Laverty, da anni lo scrittore dei copioni dei suoi film. Una coppia capace di fondere il dialogo con le immagini, con un’alternanza magnetica di forza e poesia. Dal cambio di decisione sono scaturiti Io, Daniel Blake, palma d’oro a Cannes nel 2016, e Sorry, we missed you del 2019.

«Con Io, Daniel Blake e Sorry we missed you – ha detto Ken Loach durante l’incontro con i giornalisti – abbiamo lavorato prima sulla realtà di uno Stato che nega a chi è in difficoltà il sussidio necessario per vivere e non fare la fame. E poi su chi, come il protagonista di  Sorry we missed you, è costretto a lavorare oltre 12 ore al giorno senza uscire dal suo stato di povertà. Attraverso la vicenda dei profughi siriani insieme a Paul (Laverty) volevamo mettere in luce come in quella situazione così devastata socialmente anche la solidarietà che un tempo c’era ed era forte si è perduta. Del resto basta vedere cosa accade in Gran Bretagna con un premier nato da genitori indiani come Rishi Sunak che ci aspetteremmo più sensibile nei confronti dei migranti, e invece manifesta un atteggiamento razzista che ha ulteriormente aggravato la situazione. Purtroppo questa classe dirigente si preoccupa solo di difendere il mercato»

Ed ora questo film, a chiudere una trilogia tutta ambientata nella contea di Durham, nordest dell’Inghilterra – per il futuro, ha detto, pensa «a qualcosa di più piccolo, un documentario». «Abbiamo deciso di tornare nella contea di Durham – ha raccontato Loach durante la conferenza stampa – dove avevano già lavorato proprio perché è abbandonata dalle istituzioni e dalla politica, e dopo la chiusura delle attività industriali è stata dimenticata da tutti, conservatori e laburisti. Dai primi nessuno si aspetta nulla, dai secondi si sentono traditi. Molte famiglie sono emigrate altrove, i negozi, le scuole, le biblioteche hanno chiuso. In questo contesto l’estrema destra ha trovato un terreno su cui prosperare».

The old oak, ambientato nel 2016, prende nome dall’unico pub rimasto aperto in un ex villaggio di minatori, impoverito dalla chiusura delle miniere nel 1980. Alcune foto nel film mostrano la dura lotta dei minatori per tenerle aperte. La sconfitta ha portato grande miseria. Molti di loro sono emigrati. Quei pochi rimasti sono per la maggior parte pieni di rancore verso tutto e tutti. Anche perché i negozi hanno chiuso i battenti, il governo non considera i problemi della comunità, e nemmeno la chiesa dà una mano. Abbandonati da tutti. Anzi, si sono ricordati del villaggio per spedirvi un gruppo di rifugiati siriani, mandati lì perché vi erano molte case economiche da affittare. E forniscono loro gli aiuti sotto forma di cibo, giochi, vestiti, un ulteriore oltraggio alla povertà locale, per la quale non organizzano rimedi. Oltre al danno la beffa. Prima ancora che i siriani arrivino, la rabbia e l’odio si tagliano col coltello. E chi ne fa le spese è uno dei protagonisti principali del film, TJ (Dave Turner) che, essendo il barman del pub, ascolta per ore i disoccupati rancorosi a bere birra e lamentarsi. TJ tiene aperto a stento il pub come omaggio al passato, quando era un importante centro di incontro dei lavoratori e delle loro famiglie. Ma non condivide il razzismo senza appello degli avventori. All’inizio del film c’è l’arrivo di un pullman pieno di questi profughi, da cui scende l’altra protagonista, Yara (Ebla Mari), fotografa. Uno degli abitanti le strappa di mano la macchina fotografica, unico tesoro che è riuscita a portare con sé. La macchina cade a terra e si rompe. Per porvi rimedio lei si rivolge a TJ, e lui si lascia coinvolgere. Fra lui e Yara si instaura una amicizia basata sulla solidarietà, che porterà ad un superamento delle incomprensioni e degli odi che alcuni degli abitanti del villaggio spargono contro i nuovi arrivati.

Yara si fa portavoce, lungo tutto il film, delle idee del Maestro, mostrando quanto lo scambio fra culture diverse sia un arricchimento per tutto il nucleo sociale in cui gli stranieri si sono spostati. In particolare la frase «Se smetto di sperare, il mio cuore smette di battere», che lei dice a TJ, sottolinea uno degli aspetti della lotta politica del regista. Per Ken, alla denuncia e alla lotta deve sempre accompagnarsi la speranza in un futuro migliore. Merita di essere citata anche un’altra battuta del film: «La solidarietà non è carità», a proposito della quale il regista ha commentato: «Bill Gates e Jeff Bezos parlano di quanto spendono in beneficenza. Sarebbe meglio pagassero le tasse dovute».

In Piazza Grande il regista ha introdotto il film con un’accorata analisi della deriva destrorsa e populista che funesta oggi molte nazioni. Dopo una rapida sintesi storica degli anni precedenti, ha detto, con una frase lapidaria: «E poi arrivò la Thatcher», vista come l’origine dei neoliberismi malati del mondo attuale. Oltre alla denuncia c’è però – importantissimo  per lui – l’invito a mantenere la speranza. E in conferenza stampa ha detto: «Noi esseri umani sappiamo ancora essere buoni vicini con chi è in difficoltà. Non siamo di natura ostili verso l’altro, e il senso di solidarietà nell’accogliere un’altra comunità può ancora prevalere. Tutto questo andrebbe messo insieme perché è più forte dell’estrema destra. Possiamo sconfiggere la loro propaganda, non dobbiamo cedere a quella di Le Pen o del capo del governo in Italia, Meloni».

Nella foto: Ken Loach a Cannes 2019, foto Georges Biard (Wikipedia)

 

 

Marco Aime racconta il grande “gioco” del Sahel. Dalle antiche carovane ai Boeing di coca

Molti stereotipi gravano sull’Africa a cominciare dall’idea che sia un continente immobile, senza storia. Niente di più falso. Come si evince anche leggendo il bel libro di Marco Aime e Andrea de Giorgio Il grande gioco del Sahel (Bollati Boringhieri) che racconta il vivacissimo passato di quella striscia che attraversa 12 Stati – dal Gambia all’Eritrea – e che oggi purtroppo, è diventata una cicatrice sul mondo: zona di tratta di esseri umani, di traffico di cocaina e di incursioni di jihadisti.

Per molti secoli invece il Sahel significava «la fine del viaggio, la fine della sete, il riposo, la sicurezza, la ricchezza, l’altra faccia del deserto», racconta Marco Aime, antropologo culturale dell’Università di Genova, raccontando città dalla storia millenaria come Timbuctù.
Nell’immaginario collettivo l’antica città maliana ha sempre rappresentato un affascinante altrove, ma poco si conosce la sua storia di città di cultura che vantava prestigiose università.

Professor Aime come è avvenuto che il Sahel da oasi di cultura e del traffico dell’oro sia diventato il luogo del traffico di droga e dei nuovi schiavi?
Timbuctù è un nome che è entrato nella fantasia. Molta gente non sa dov’è, ma sa che è lontana. Nel 1300 aveva due università, esattamente quando nella nostra penisola cominciavano le repubbliche più antiche. In quelle università africane insegnavano intellettuali che venivano da tutto quel vasto mondo che andava dall’Andalusia all’India. Avicenna per esempio insegnava lì e vi lasciò trattati di astronomia.
Facciamo un passo indietro per poi arrivare all’oggi. Come era il Sahara nei secoli passati?
Il Sahara non è mai stato troppo deserto, è sempre stato abbastanza trafficato, fin dall’antichità. Spesso si è sentito dire che il deserto avesse isolato l’Africa, ma non è così. Sahel vuol dire sponda. Dal Mali arrivavano grandi quantità di oro. Il mito di Timbuctù entrò nell’immaginario occidentale anche grazie a un geografo catalano che la raccontò come l’Eldorado africano. Intorno all’anno mille era arrivata nel Sahel la scrittura insieme all’Islam. Timbuctù non nacque come villaggio, ma come città, ricca, letterata e colta. Ancora oggi i suoi abitanti sono un po’ come i fiorentini: “meglio di loro non c’è nessuno”, sono un po’ snob, aristocratici, memori dei fasti del passato. Tanto che quando lascia la città dicono che vai in campagna. Oggi la realtà è cambiata ma resta quel pensiero.
L’idea che Africa fosse isolata, dunque, non dice il vero?
L’Africa era perfettamente inserita nel mercato che collegava tutto il Mediterraneo e tutta l’Europa. Non comunicava solo con il Medio Oriente e con l’Asia. Lo scambio riguardava le merci ma anche le culture. Timbuctù è famosa anche per i manoscritti che conserva. Quanti siano nessuno lo sa. Si parla di decine di migliaia. Parliamo di una città letterata in cui si usava la scrittura comunemente e l’arabo come lingua ufficiale. Il commercio transahariano ha una caratteristica: filtra l’inutile. Attraversare il deserto è pericoloso. Ha senso sfidare il rischio solo per trasportare cose di alto valore. Il Sahara nel medioevo era presidiato dai Tuareg che controllavano un territorio. Per ogni tratto dovevi pagare loro un pedaggio. La protezione costava. E siccome la fatica era tanta, viaggiavano solo stoffe pregiate, oro, avorio, schiavi soprattutto. Ma anche rame e sale.
I Tuareg di fatto controllavano il deserto?
Esattamente. Noi li vediamo in modo romantico come gli uomini blu. Nella realtà locale sono percepiti come gente che taglieggiava nello scortare il trasporto delle merci. Il mito dei Tuareg nasce con il mito dell’oro e del sale. In questa area Timbuctù si giova di una posizione speciale. Il fiume nasce a 200 km dall’oceano Atlantico, ma invece di andare a ovest va a est e incontra un altopiano e fa un’ansa per poi scendere. La città sorge nel punto più a nord. È una sorta di hub, di piattaforma intermodale. Divenne uno snodo commerciale. Come tutte le città carovaniere cominciò a decadere nel 1600, quando il cammello perse la battaglia con la caravella, e tutto l’asse si spostò sull’Atlantico.
Oggi i trafficanti di coca, tabacco e nuovi schiavi seguono le mappe medievali?
Il traffico di coca arriva dalla Colombia con gli air cocaine, scaricati nel Sahel. La droga viene poi caricata sui camion. Sono gli stessi che a pagamento ospitano migranti.
Chi controlla questi traffici?
I gruppi jihadisti. Il Sahel sarà il nuovo Afghanistan. Tutti oggi parlano di Sahehilstan. Tutto è iniziato nel 2011 quando Gheddafi fu ucciso dai francesi. Nel sud della Libia c’era la sua guardia speciale di Tuareg, armati dai russi, i quali d’un tratto si trovarono senza avere un referente. Voltarono la testa verso sud e andarono in Mali occupando tre quarti del Paese. Poi arrivarono i francesi, anche perché nel deserto c’è l’uranio. Solo di recente Macron ha lasciato il Paese. «Ci costa troppo», ha detto «e non riusciamo a risolvere niente». Al posto dei francesi sono entrati i russi, i mercenari del gruppo Wagner. Nel Sahel si sono creati gruppi filo jihadisti. Non sono omogenei. Alcuni sono filo Al-Qā’ida, altri filo Isis . Dopo la crisi dello Stato islamico molti di loro si sono spostati nel deserto del Sahara per i traffici della coca. Proprio il traffico di droga in Europa li sta alimentando. Ed è paradossale che i percorsi che fanno oggi la droga e i migranti seguano le stesse tracce percorse nel medioevo.
Il Sahael è diventato anche un grande cimitero a cielo aperto…
Le notizie drammatiche che ci arrivano dal Mediterraneo sono una infima parte di quel che accade. Il Sahara è un vero cimitero e non sapremo mai quanti sono morti di fame e di stenti nel deserto. Non ci sarà mai una anagrafe. Spesso i trafficanti non intercettati da alcuna pattuglia scaricano i migranti nel deserto e scappano, lasciandoli morire. Il grande gioco del Sahel oggi vede al centro i jihadisti. Ma vi hanno messo le mani prima la Francia, e oggi la Russia e la Cina che ha un grosso peso in Africa e ed esercita un controllo sui giacimenti di uranio. Il Sahel è attraversato dal grande fenomeno migratorio che vede persone in arrivo dal Sudan, dall’Etiopia perché quelli sono i corridoi. Le tracce di un tempo oggi sono peggiori di allora, più crudeli.
Dal Mali e da altre zone arrivano notizie di una pervasiva penetrazione dei contractor della Wagner. Tanto che si diffondono magliette con la scritta “Je suis Wagner”. Cosa sta succedendo?
Da un certo punto di vista sono stati molto abili. Ma non dimentichiamo il crescente sentimento anti francese seguito all’uccisione di Gheddafi. Va anche ricordato che 14 Paesi, ex colonie africane, sono legati dalla moneta unica, il franco francese, il cui valore viene determinato da Parigi. È colonialismo economico. Nel febbraio 1992 ero in Benin e d’un tratto fu comunicato che il franco veniva dimezzato di valore. Immaginate milioni di famiglie che si sono trovate così metà dei soldi, perché Parigi ha deciso così. Gheddafi stava proponendo un nuovo modello di moneta panafricana. Non a caso i francesi attaccarono la Libia in quel momento. L’odio verso i francesi è alimentato da due parti in Mali: dai religiosi islamici e dai militari. Per cui il paradosso è che i russi appaiono come il nuovo, pur di non essere francesi…
Così si spiega perché tanti Paesi africani si sono espressi in sede Onu e altrove contro le sanzioni alla Russia che ha invaso l’Ucraina?
Esattamente. La Cina da molti anni ha una massiccia presenza in Africa. Da un po’ c’è anche la Russia
E anche la Turchia?
Evidentemente. Il gioco è complesso.
L’Africa fa gola a molti?
Ha molte risorse e il Pil è in crescita. Il vero problema dell’Africa non è la ricchezza ma la distribuzione. Ci sono tante persone povere in Paesi ricchissimi. Il problema sono le grosse disuguaglianze legate a una scarsa rappresentatività sociale e alla scarsa alfabetizzazione. Anche se tutto sta migliorando. Sottolineo però che noi stiamo chiedendo all’Africa di fare quel passaggio che noi abbiamo fatto in secoli.
La scarsa rappresentatività sociale che favorisce le dittature cambierà con la crescita delle nuove generazioni?
È in atto un grande processo di cambiamento. Ora ci sono molte “democrature” o, per dirla con il premio Nobel nigeriano Soynka, ci sono tante «democrazie voodoo», ovvero finte democrazie in cui il leader coopta quattro cugini e si arrocca al potere. Questo è il limite. Ma non dimentichiamo che sono solo 60 anni che l’Africa è indipendente. Ormai il boom urbano è un fatto assodato. Sono sempre di più gli africani che vivono in città e sono soprattutto giovani. Hanno una visone diversa. Sono perfettamente globalizzati come i nostri giovani. Tutto ciò porterà a un cambiamento politico-economico dell’Africa. Però dobbiamo dare loro tempo. Non possiamo pensare che accada in pochi decenni. Dobbiamo tener presente anche che spesso gli Stati africani sono nati in maniera artificiale, non per un processo endogeno, ma per i comodi dei colonialisti.
Troppo spesso la cooperazione internazionale ha avuto un ruolo fallimentare? Basterebbe aiutare l’istruzione?
Secondo me basterebbe non sfruttarli. Teniamo conto che oggi nel nord del Congo ci sono i più grandi giacimenti di cobalto e servono per le batterie. L’ottanta per cento di quel cobalto è in mano ai cinesi. Alle multinazionali conviene un dittatore. Ripeto, smettere di sfruttarli farebbe molto di più delle finte cooperazioni.
Tra i settori in crescita c’è anche quello della moda?
Sicuramente c’è molta attenzione per l’abbigliamento, per lo stile. C’era nella tradizione e c’è nella vita urbana. Il settore della moda sta crescendo. L’Europa pare cominci a guardare agli stilisti africani e a importare qualche idea.
La moda si intreccia con la musica nel movimento della Sape di cui Papa Wemba è stato un grande interprete. Può dirci di più di questo fenomeno di cui parla African power dressing, (Genova University press), il libro di Giovanna Parodi da Passano che lei ha presentato?
La Sape è la moda dei giovani di Brazzaville che si vestono in modo elegante e vengono chiamati a matrimoni e feste per le loro scarpe lucidissime. Indossano giacche di colori sgargianti che su di noi farebbero effetto pagliaccio, ma sulla pelle scura risultano ben altrimenti. Hanno il culto della eleganza sfrenata, sono un po’ una élite.
Coltivano un’idea di eleganza che si lega a una visione pacifista?
Sì, c’è un gusto della bellezza molto dandy a Kinshasa e in altre città. Fonde stile occidentale ed elementi locali. Ma c’è anche un grande movimento di stilisti africani che propongono innovazioni molto interessanti.
La globalizzazione in questo caso non annulla le differenze. Rileggono la moda francese facendola propria, risemantizzandola. Che gioco c’è fra locale e globale?
La musica tradizionale africana è partita con gli schiavi. È passata attraverso i Caraibi, il Brasile le Americhe, ed è tornata da là. È stata rielaborata quando sono arrivati gli strumenti come la chitarra elettrica. Un amico congolese mi raccontava che negli anni Sessanta mentre in Italia ci si divideva tra fan dei Beatles e dei Rolling Stones, loro si dividevano tra fan di James Brown e Otis Redding, i due maghi del soul. La musica africana oggi è già passata attraverso tutte queste esperienze. La musica è una bella metafora della cultura africana, continuamente dà vita a generi diversi. C’è sempre stato questo rimescolamento, questa metabolizzazione da cui nasce sempre qualcosa di nuovo. A questo proposito consiglio di leggere il bel libro di Steven Feld Jazz cosmopolita ad Accra (Il Saggiatore) che racconta questo movimento eccezionale di reinvenzione del jazz nella metropoli. Non c’è frontiera che tenga. La nostra musica – dal blues all’hip hop – arriva tutta da lì.
Fin dal Cinquecento quando arrivarono nelle corti musicisti neri e cambiarono la storia della musica…
La scala pentatonica nacque nell’ansa del Niger. E poi con gli schiavi africani arrivò Oltreoceano diventando blues, bossanova e tutti gli altri ritmi caraibici. Tutto si è basato su quella scala.

Questa intervista è stata pubblicata su Left, novembre 2022

La libertà o niente. Il coraggio di Emma Goldman

Hayemarket Square, Chicago. È il primo maggio del 1886. Migliaia di lavoratori – attivisti anarchici e operai – scioperano per ottenere una giornata lavorativa di otto ore. In alcuni tafferugli un manifestante viene ucciso e altri feriti. Si convoca un’adunanza e il culmine viene raggiunto il 3 maggio. La polizia sorveglia anche se la protesta è assolutamente pacifica. All’improvviso esplode una bomba tra le forze dell’ordine e immediatamente partono colpi di arma da fuoco in ambedue gli schieramenti. Il bilancio finale tra polizia e lavoratori è gravissimo. Otto tra lavoratori e anarchici sono ingiustamente arrestati perché ritenuti colpevoli di aver scagliato la bomba, e cinque di loro verranno impiccati l’11 novembre 1887 dopo un processo sommario e in mancanza di vere prove a loro carico.
Emma Goldman ha 18 anni. Era giunta un anno prima, insieme alla sorella Helena, dalla Lituania, dove era nata. Segue con estrema attenzione il processo che si rivela una montatura; rimane sconvolta dalle procedure e dal suo esito tragico che la spingono irreversibilmente verso la scelta di campo dell’anarchismo, affascinata dalle idee, dal coraggio, dalla dignità e dalla coerenza dei condannati.

A vent’anni, quella che diventerà per la stampa americana e per tutti «Emma la rossa», spicca il volo con un’intensa attività militante che durerà tutta la vita. La vediamo arringare alla folla nei comizi, a sostenere la causa dei lavoratori oppressi, a difendere migranti, prostitute e donne di qualsiasi estrazione sociale. Viaggia in lungo e largo per gli Stati Uniti, svolge conferenze, pubblica articoli. Conosce la prigione, quella dura, ma non si ferma mai nella lotta contro lo sfruttamento, i pregiudizi, l’ipocrisia nei rapporti sociali, il giogo violento della religione e dello Stato.

Molta della sua vita sprizza, felicemente intensa, dalla raccolta di articoli del volume appena pubblicato da Elèuthera dal titolo Libertà o niente, a cura di Francis Dupuis-Dèri.
Qualcuno potrebbe chiedersi perché oggi dovremmo provare interesse per una donna vissuta così lontana nel tempo. E allora basterebbe, forse, cominciare a scorrere le pagine con i titoli trattati, per capire che il mondo attuale non è andato molto più in là dei primi del Novecento in tema di libertà di pensiero, di amore, sessualità, contraccezione, rapporto uomo-donna, laicità, diritti, immigrazione. Sono pagine fresche e sanguigne quelle di Emma. Un inno alla vita e alla ribellione contro la proprietà, che significa «esercitare il proprio dominio sulle cose e negarne l’uso agli altri»; contro lo Stato che protegge e preserva proprietà e monopolio; contro la Chiesa e la religione creata dalla «fantasia distorta degli uomini che non avevano conseguito il pieno sviluppo e il pieno possesso delle loro facoltà» come scriveva l’ateo Bakunin. Una professione di radicale ateismo contro tutto ciò che «soffoca i bisogni dell’uomo» e rende «schiavo il suo spirito».

Antimilitarista e antinazionalista convinta, condivide profondamente il pensiero anarchico perché unica filosofia di pace, «l’unica teoria dei rapporti sociali che consideri la vita umana più preziosa di qualsiasi altra cosa».
L’anarchismo, nonostante le ombre di atti violenti a cui cerca di dare risposte, è ciò che, per lei, si propone di recuperare dignità e indipendenza contro ogni costrizione e intromissione da parte dell’autorità. Solo l’anarchismo «enfatizza l’importanza dell’individuo, le sue potenzialità ed esigenze in una società libera». È vita e armonia sociale, pensiero che si batte contro ogni istituzione che contribuisca a «deviare l’energia umana nei canali sbagliati».

Emma Goldman anticipa in modo sorprendente le battaglie progressiste contro la pena di morte, il sistema carcerario, la leva obbligatoria, la criminalizzazione dell’omosessualità. Nemica irriducibile del puritanesimo, ne denuncia la violenta ipocrisia, ostile a ogni «impulso sano e spontaneo», e la ferocia nel contrapporsi a ogni espressione naturale di sessualità, libertà e bellezza, giudicate peccaminose. Ma la sua migliore e più incisiva espressione umana e politica la troviamo nelle battaglie per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione femminile.
È consapevole che i diritti civili, pur necessari, non bastano a liberare la donna dalle catene dei pregiudizi e delle convenzioni sociali. Si batte per l’autodeterminazione e per la contraccezione. Combatte il forzato binomio donna/maternità e il matrimonio come la prima delle mistificazioni sociali che rendono la donna schiava, oltraggiata, «priva di anima» e di diritti. Denuncia la «criminale ignoranza» riguardo alla sessualità a cui era soggetta la donna che la priva «dell’esperienza profonda e magnifica del sesso» fino al matrimonio. L’amore – denuncia – rimane uno sconosciuto ma è l’amore che crea il vero legame sentimentale, la vera unione. È l’amore, l’amore libero, l’istinto naturale e salutare della sessualità, il vero potenziale che lega uomini e donne e che può contribuire a fondare una nuova società. Per un attimo, sembra di ascoltare la voce di Aleksandra Kollontaj che legge a voce alta Largo all’eros alato!.

Emma Goldman sente necessaria una nuova rivoluzione culturale, una liberazione mentale dai vincoli religiosi e dai pregiudizi culturali e morali. È consapevole che, nella storia del progresso umano, ogni «idea nuova che annuncia un mondo migliore», è costretta a una lotta ostinata e tenace contro un vecchio ordine che utilizza qualsiasi modo o mezzo, anche crudele, per fermare il nuovo che avanza. Come Aleksandra Kollontaj e tutte le donne esposte in prima fila in questo scontro culturale e umano di identità non riconosciute, vive sulla sua pelle la denigrazione, la calunnia e l’esclusione. Ma senza mai arretrare. Entra in conflitto con gli stessi anarchici che non riconoscono il concetto profondo e rivoluzionario di emancipazione femminile. L’idea del possesso, lo svilire le rivendicazioni è sempre dietro l’angolo, anche con loro.

«La mia vita è valsa la pena?», si domanda Emma nel titolo dell’ultimo articolo del libro. Lo lasciamo scoprire ai lettori. Possiamo senz’altro affermare, però, che la sua vita e il suo pensiero sono tra i punti di riferimento imprenscindibili che hanno contrassegnato l’affermazione di diritti e di libertà di cui oggi, nonostante tutto, godiamo. Nonostante tutto perché siamo purtroppo ancora distanti, molto distanti, da quell’utopia umana che Emma Goldman e le sue compagne ribelli sognavano. Riscopriamole e rileggiamole perché la guerra, la violenza contro le donne, contro i bambini, contro i migranti, la politica assente, il neoliberismo sfrenato e reazionario, in cui il diritto del capitale annulla e distrugge i diritti degli esseri umani, la confusione culturale e politica, soprattutto a sinistra, che alimenta incertezze, poca chiarezza o assenza di risposte nella società, non hanno trovato ancora un argine sicuro e certo e aggrediscono continuamente quella libertà e quella eguaglianza per cui donne e uomini hanno lottato e continuano a lottare, anche a rischio della loro vita.
Riscopriamo e rileggiamo Emma Goldman perché ci racconta che gli esseri umani non vogliono la guerra, non vogliono lo sfruttamento, non sono violenti per natura. Ciò che li rende tali è l’estremo impoverimento, gli abusi, i vantaggi illeciti, il disattendere non solo i bisogni ma le esigenze di altro, oltre il riposo e il lavoro. A monte, c’è l’oppressione di una cultura virulenta e repressiva di politiche reazionarie impastate di religione.
Allora è urgente un’opposizione culturale e politica che promuova un salto di qualità, profondo, radicale. Comprendere cosa è umano e cosa non lo è, può essere la chiave per ritrovare una speranza, la ribellione, ideali umani forti per una prassi concreta rinnovata.
Oggi un pensiero nuovo ci dice che «la libertà è un movimento ed un processo dell’essere che ricerca la verità di sé stesso». Emma Goldman probabilmente lo avrebbe ascoltato.

 

per proseguire la ricerca: Il libro di left Partigiane dei diritti contiene un approfondimento su Emma Goldam di Stefano Berardi qui per acquistare il libro:https://left.it/libri/ 

Nella foto: un murale che ritrae Kanno Sugako, Frida Kahlo e Emma Goldman

Giorgia Meloni: 27 minuti e la sua vera natura

Per l’ennesima volta, Rai News 24 ha mandato in onda gli appunti di Giorgia: 27 minuti “senza alcuna intermediazione giornalistica“. Una scelta che il comitato di redazione di Rai News 24  ritiene “inopportuna in quanto sminuisce il ruolo di verifica e di mediazione giornalistica che deve svolgere una redazione giornalistica”. Conclude il cdr di Rai News 24: “Questa volta non si dica che da sempre gli interventi del Presidente del Consiglio si mandano per intero. In questo caso, non si è trattato di una diretta ma di un intervento registrato e premontato” conclude la nota.

In quei 27 minuti la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pensato bene di minare l’incontro con l’opposizione fissato per domani. «Perchè se il salario minimo legale è la soluzione, non lo hanno introdotto? Probabilmente perchè si è consapevoli che non è una soluzione efficace», dice Meloni.

Riccardo Magi di +Europa si chiede a questo punto a cosa serva incontrarsi: «Se c’è la volontà di aprire alla nostra proposta bene, altrimenti non regaleremo a questo governo una passerella per poter dire “guarda quanto siamo bravi”», dice. Sulla stessa linea il leader del M5s Conte che dice: «A questo punto si comprende come l’incontro si preannunci in salita. Il governo non sembra volersi smuovere dai suoi pregiudizi. Vorrà dire che nel corso dell’incontro proverò a spiegare come stanno le cose con dei grafici». Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni: «Cosa ci ha convocato a fare?», sottolineando come quel video «sembra una provocazione». Come dimostrano i dati, il salario minimo spinge ad una crescita generalizzata dei salari». Arturo Scotto, Pd: «Il salario minimo va fatto per legge, nessuno deve lavorare sotto i 9 euro l’ora e la contrattazione collettiva va rafforzata. Questo c’è scritto nel testo e questo le ribadiremo con forza a Palazzo Chigi». Calenda chiede di tenere i toni «bassi».

Le è impossibile nascondere la sua vera natura.

Buon giovedì.

Nella foto: frame del video di Giorgia Meloni, 9 agosto 2023

Non abbandoniamo gli anziani nelle Rsa

Alla cerimonia funebre nel Duomo di Milano per le sei vittime dell’incendio scoppiato nella “Casa di riposo dei coniugi” il 21 luglio di questa rovente estate, c’era poca gente. Eppure l’amministrazione comunale aveva proclamato il lutto cittadino. Al clamore e alla commozione suscitati dalle dirette televisive che raccontavano l’intervento dei vigili del fuoco, l’apprensione dei familiari dei 173 ospiti della struttura, la concitazione degli operatori impegnati a salvare persone e cose, è subentrato il silenzio, il repentino abbandono della notizia, il disinteresse generale. Certo, la magistratura continua ad indagare per accertare le responsabilità di chi, in due lunghi anni, non ha trovato il tempo di rimettere in funzione i sensori anti-fumo, gli impianti anti-incendio, i sistemi di allarme andati in tilt, ma questo “incidente”, ultimo di una lunga serie, dimostra quanto sia precaria e vulnerabile la condizione degli ospiti delle strutture cosiddette protette. Dopo ogni incidente, versate le consuete lacrime di coccodrillo, sembra che ci sia fretta di dimenticare, di cambiare discorso. Invece è più che mai importante approfondire la discussione sulle residenze sanitarie assistite (Rsa) e sugli oltre 300 mila anziani/e che attualmente vi soggiornano.

Perché l’ultimo miglio della nostra vita deve essere appaltato a privati che lucrano sulla vecchiaia? Perché molti anziani devono andare in un “mortuaire” (obitorio), come con triste e appropriata ironia, gli anziani e le anziane francesi chiamano la casa di riposo? Che cos’è la residenza per anziani se non la riproposizione in chiave moderna dell’ospizio? Chi scrive abitava da bambino a Catanzaro in una via dove c’era l’ospizio e ricorda i lamenti e le urla strazianti delle persone rinchiuse in quelle mura. In seguito ho appreso che l’ospizio era una delle “istituzioni totali” – al pari del manicomio, dell’orfanatrofio, del carcere, del riformatorio -, luoghi di segregazione finalizzati a tutelare la comunità da individui ritenuti pericolosi o “incapaci” di badare a sé stessi (anziani, pazzi, orfani, ladri, ecc.). La reclusione in uno di questi istituti, che hanno avuto il loro periodo d’oro nel XIX e XX secolo, voleva dire perdere ogni rapporto col mondo esterno, essere cancellati dalla vita civile, diventare invisibili. Nella seconda metà del novecento, grazie alle grandi battaglie sui diritti, le cose sono senza dubbio cambiate, ma per una sorta di riflesso condizionato tendono continuamente a riprodursi. Forse che, ancora oggi, nelle Rsa non è violata sistematicamente la dignità e la libertà di persone deboli e indifese? Non è forse calpestato il diritto alla vita privata e, in alcuni casi, lo stesso habeas corpus?

Sono ormai innumerevoli le relazioni dei carabinieri del Nas e i procedimenti giudiziari che documentano un quadro di degrado di centinaia Rsa, nelle quali sono stati trovati cibi e farmaci scaduti, rilevate carenze igienico-sanitarie, anche nella preparazione dei pasti, riscontrati casi di maltrattamento, di omissione di soccorso, di abuso nella somministrazione dei farmaci. Una realtà che contraddice il contenuto delle invitanti brochure in cui viene pubblicizzata un’assistenza di qualità in posti dotati di comfort di ogni genere e, magari, immersi nel verde. A Milano, la notte dell’incendio, c’erano solo cinque infermieri (su 173 ospiti) e nessun medico. L’assistenza quotidiana degli anziani è prevalentemente affidata a pochi operatori, scarsamente qualificati e sottopagati. Sempre più spesso sono lavoratori stranieri (migranti latino-americani e dell’est europeo), reclutati tramite apposite agenzie. Una forma di reclutamento che dalle Rsa si sta propagando all’intero sistema sanitario, per la strutturale carenza di personale. Inoltre, il sistema di accreditamento di questi istituti è del tutto inadeguato e inefficiente, anche per una colpevole disattenzione delle amministrazioni regionali, competenti in materia. Mancano i controlli, numerose strutture (circa 700, secondo alcune stime) operano senza autorizzazione e al di fuori di qualsiasi convenzione con gli enti locali. Non si conosce nemmeno il numero esatto delle Rsa, comunque denominate.

L’istituzione Rsa, dunque, non risponde ai bisogni degli anziani perché promuove quello che dovrebbe essere evitato: la dipendenza, l’abbandono e l’isolamento, le malattie, i contagi (ricordiamoci della pandemia). Rappresenta una risposta culturalmente e socialmente arretrata, e ciononostante gode di buona salute, forte di un fatturato di 15mila miliardi a livello europeo. Il mondo delle Rsa è in mano a società multinazionali e ad altri attori privati che costituiscono una lobby potente. La sua ragion d’essere deriva dalla carenza drammatica di assistenza domiciliare, di centri riabilitativi e, più in generale, di servizi socio-sanitari sul territorio. La sua forza attrattiva sta negli indici demografici. L’Italia passerà dagli attuali 7 milioni di over 75 agli 8,2 milioni del 1930 (dati Istat) e la multinazionale Korian, azienda leader delle case di riposo, si prepara a investire per soddisfare una domanda in forte espansione (gli ottantenni sono già 4 milioni). L’ad di Korian Italia, Federico Guidoni, ha recentemente annunciato lo sviluppo della rete di Rsa, nonché la realizzazione di una “filiera della cura” fatta di assisted livings (appartamenti protetti), di poliambulatori e servizi vari sul territorio. Nel giro di pochi anni gli imprenditori della silver economy, facendo affidamento sui generosi sussidi pubblici, prevedono di diversificare e raddoppiare l’offerta riguardante la terza e quarta età.

A sostegno delle Rsa agisce inoltre una forte motivazione culturale. Oggi la vecchiaia è rifiutata, negata, nascosta. Viviamo nel culto della bellezza, della forma fisica, della cura estetica, spinte fino all’esasperazione. L’apparenza fa premio sull’essere. Nella società dello spettacolo, in cui l’ego viene nutrito e coccolato in tutti i modi, in cui domina il mito del successo e della corsa al denaro, i vetuli (i vecchietti) non godono certamente della stessa considerazione in cui erano tenuti nell’antica Roma. Per loro sono tempi duri, sono schiacciati e messi fuori gioco dalla competizione quotidiana che coinvolge tutti, additati come “matusa”, esempio negativo di lentezza in tempi che pretendono velocità. E sociologi, economisti, psicologi, giornalisti non perdono occasione di presentare come insanabile la contrapposizione tra giovani (penalizzati) e anziani (privilegiati). Una narrazione falsa, smentita clamorosamente dalla pandemia, che ci ha consegnato una generazione di anziani falcidiata dal Covid-19, e una generazione di ragazzi segnata dal disagio, privata del diritto di vivere la loro età.

Il capitalismo, nella sua fase più avanzata e caratterizzata da straordinarie innovazioni tecnologiche, ci consegna una società smarrita e sofferente, frammentata in tanti particolarismi e interessi corporativi, ai quali la sinistra finora non è stata in grado di dare una risposta unificante. Divisioni e chiusure egoistiche hanno invece trovato la loro sponda politica in una destra conservatrice e reazionaria. Aiutata, è bene aggiungere, da un’informazione manipolata e a senso unico, impegnata subdolamente a distogliere l’attenzione dai problemi veri – la pace, la contraddizione tra ambiente e sviluppo, quella tra ricchi e poveri, il dramma dei migranti – e a creare diversivi che alimentano, spesso artatamente, contrapposizioni di ogni tipo (intergenerazionali, razziali e di genere), usando la vecchia tecnica del divide et impera.

Con il furore ideologico che li caratterizza, gli apologeti del sistema capitalistico considerano un peso di cui sbarazzarsi tutti quelli che «non sono utili allo sforzo produttivo del Paese» (copyright di Giovanni Toti, governatore della Liguria). In questo schema, i primi a essere messi da parte e sacrificati sono gli anziani, i più deboli e i più fragili. Anche in questo caso, fa scuola il modello americano, fortemente orientato all’istituzionalizzazione: quando la salute e l’autosufficienza vengono meno, diventa “naturale” risolvere il problema in una casa di riposo. I vecchi entrano così in luoghi che si trasformano in trappole per la loro salute e per la loro vita. Se l’obiettivo della gerontologia è l’invecchiamento in buone condizioni fisiche e psichiche, la “limitazione “funzionale”, che spesso è la causa che porta a varcare la soglia di una Rsa, innesca un processo che porta a ulteriori limitazioni. La Rsa, insomma, diventa un’incubatrice di nuove malattie e, comunque, di perdita di autonomia. La resistenza al cambiamento è forte anche perché l’istituzionalizzazione, con tutti i suoi limiti, appare tuttora l’unica risposta credibile e realistica all’invecchiamento della popolazione. Ma è proprio così o si possono immaginare soluzioni più moderne e avanzate delle Rsa?

Quello che è successo alla signora Bice, 81 anni, pensionata delle Poste, “rinchiusa” in una residenza di Faenza, a seguito di una caduta, è emblematico. Rimessasi in sesto, ha espresso la volontà di tornare a casa sua, scontrandosi, però, con la contrarietà della figlia. Allora è fuggita dalla struttura che l’ospitava e, quando è stata rintracciata, ad una giornalista di Rai uno (“La vita in diretta” del 14 aprile 2023) ha dichiarato: «Voglio vivere e morire dove mi pare. Voglio tornare a casa. Ho nostalgia del mio appartamento. Lì mi sento libera, posso passeggiare quando mi pare, incontrare la mia amica, pranzare, uscire quando ne ho voglia. Mi manca la libertà. Che mi venga restituito tutto quanto mi è stato tolto e venduto». Ho ricordato questo episodio per dire che essere in parte o in tutto non autosufficienti non significa avere come destinazione obbligata una Rsa. Niente di più sbagliato. Con un adeguato supporto, molti vecchi potrebbero prolungare la permanenza nel proprio alloggio e nel proprio quartiere, continuando ad abitare in un contesto urbano e familiare dove ci sono i ricordi, il passato, gli affetti e le amicizie. Ma nelle parole della signora Bice, ex direttrice delle Poste, è possibile leggere in filigrana una sottile polemica con i familiari. Si tratta di un caso, non so quanto raro, di perdita di autonomia economica prima ancora che psico-fisica.

La mia simpatia e vicinanza sono tutte per la signora Bice, per il suo rifiuto di vivere in uno stato di emarginazione sociale e civile. Non è l’unica a ribellarsi, a chiedere di tornare a casa. Durante il Covid, molti “ospiti” delle Case di riposo hanno tentato la fuga, hanno scritto lettere strazianti ai familiari, raccontando l’isolamento e il senso di abbandono. In un recente sondaggio su anziani giapponesi over 75 – dal quale la regista Chie Hayakawa ha tratto spunto per il lungometraggio Plan 75 – gli intervistati, a larghissima maggioranza, si sono espressi in modo favorevole all’eutanasia. Pure in Giappone ci sono confortevoli case di riposo, ma la voglia di vivere di tanti anziani si spegne inesorabilmente. Si sa che il distacco dalle proprie cose, la mancanza di attenzioni e la perdita delle consuetudini quotidiane si riflettono sullo stato d’animo, accentuando il senso di avvilimento e di tristezza. È un problema che a diversi gradi coinvolge tutti i senior reclusi, al di là del reddito, del patrimonio, della qualità dell’assistenza. La Rsa comporta la morte civile, prima che naturale.

La vicenda della signora Bice ci ricorda che, malgrado le tendenze demografiche ci raccontino di una presenza e di un peso crescenti della popolazione anziana, lo “spazio vitale” degli over 65 oggettivamente si restringe. La signora Bice fa parte della generazione cresciuta nei “trenta gloriosi”, che ha vissuto da ragazza il miracolo economico, è stata partecipe delle grandi lotte operaie e delle grandi conquiste sociali: le case popolari, la scuola dell’obbligo, il servizio sanitario nazionale, lo statuto dei lavoratori. Una donna che ha studiato, lavorato e lottato, non disponibile a subire in silenzio. La sua generazione precede di qualche anno quella dei baby boomer, settantenni ancora (relativamente) in buona salute. I baby boomer – a cui appartiene anche chi scrive – sono i prossimi candidati a occupare la stanza di una Rsa. È la ruota della vita, si dice. Ma la signora Bice indica una strada alternativa alle case di riposo. Chi lo dice che la ruota debba girare sempre in un’unica direzione?

“Meglio nella propria casa”, questa è l’alternativa. Se dentro e fuori le mura domestiche si creano condizioni favorevoli, può allontanarsi nel tempo lo spettro del ricovero in una struttura residenziale protetta. Il problema diventa quello di intervenire sulle abitazioni degli anziani per trasformarle e renderle adatte alle esigenze dell’invecchiamento, utilizzando appropriati dispositivi di sicurezza, la domotica e altre dotazioni tecnologiche (apparecchiature di telesoccorso e di telecontrollo), creando un ambiente sicuro e confortevole. Diventa anche importante l’eliminazione di barriere architettoniche, dentro e fuori l’appartamento. La casa può diventare il primo luogo di cura, è lo è già oggi per un milione di persone anziane che ricorrono ad un/a badante, una variante senza dubbio positiva (per chi se lo può permettere) rispetto al ricovero in una Rsa. È fondamentale, però, ripensare la tipologia e le caratteristiche dei servizi per gli anziani, reinterpretandoli in modo più dinamico e flessibile, e relazionandoli con le altre risorse territoriali. Servono sia servizi di assistenza domiciliare oggi del tutto carenti sia servizi di supporto e completamento, quali la mensa o i pasti a domicilio, la lavanderia, il taxi, il telesoccorso, ma anche l’aiuto per fare la spesa, le piccole manutenzioni in casa. Bisogna agire, insomma, per potenziare i servizi socio-sanitari sul territorio, con particolare riguardo all’assistenza continuativa (long-term care), garantendo all’occorrenza che personale qualificato si rechi presso il domicilio degli anziani. L’insieme dei servizi elencati rappresenta una forma innovativa e moderna di residenzialità protetta che rispetta la dignità e i diritti degli anziani, senza allontanarli dalla propria casa. Una nuova modalità dell’abitare che potrebbe finanziarsi con lo spostamento graduale e programmato delle risorse oggi impegnate nelle Rsa (circa sette miliardi di euro) verso i servizi sociali e sanitari alla domiciliarità.

Sono linee d’intervento contenute nella legge delega per l’assistenza agli anziani, frutto del lavoro di una commissione che ha lavorato quando ministro della salute era Roberto Speranza. A gennaio dovrebbero essere approvati i primi decreti legge, ma le misure previste rischiano di essere stravolte e contraddette dalla rimodulazione del Pnrr. Oltre al taglio degli investimenti sul rischio idrogeologico e sulla rigenerazione urbana, sono stati cancellati centinaia di milioni di euro destinati al rafforzamento della medicina territoriale, tramite una rete di case di comunità e di servizi di assistenza primaria e prevenzione, indispensabili per le persone fragili e per gli anziani. Se saltano gli investimenti per i presidi socio-sanitari sul territorio si fa un favore a chi vuole continuare ad aprire Rsa, facendo profitti sulla pelle degli anziani.

Povere banche

C’è un mondo in subbuglio tra destrorsi e liberali italiani per la decisione del governo di tassare gli extraprofitti delle banche e aiutare gli italiani in difficoltà. La scena d’inizio agosto è un regalo che smaschera un “mondo di mezzo” che da mesi difendeva uno dei peggiori governi repubblicani convinti che “val bene un po’ di fascismo se vengono comunque difesi gli interessi giusti”.

Ripetono in ogni dove che Giorgia Meloni e Matteo Salvini siano la reincarnazione del comunismo più becero. Scrivono dappertutto, senza un minimo di vergogna, che le povere banche ora si ritrovano nella difficile situazione di essere diventate all’improvviso vittime del “pizzo di Stato”. Se vi capita di leggerli potete scorgere la sicumera con cui condannano gli sprovveduti che “hanno scelto il tasso variabile”, fingendo di non sapere che sia l’unica condizione di mutuo che viene concessa a chi non ha beni ereditati dalla nonna o da chi ha uno dei contratti farlocche che quello stesso mondo ha salutato con grande fervore.

In queste stesse ore risorge anche un altro mito: la competitività. Dicono le banche che non esiste competitività nel loro settore a causa della tassa improvvisa voluta dallo Stato. Strano che lo stesso lamento non si sia levato quando lo Stato sia intervenuto al contrario, per salvarle. Qui esce l’ipocrisia: certo mondo liberale italiano è composto da imprenditori che vogliono lo Stato quando si tratta di ripianare i debiti o quando si tratta di pagare i giornali che altrimenti non starebbero sul mercato. Sono liberali così: si dividono le perdite ma non si possono toccare i profitti.

Sono loro i veri sovranisti, ancor peggio di Meloni e Salvini. Solo che la loro patria è il cortile della loro fabbrichetta che va lasciata in pace. Osservarli mentre impazziscono perché vedono socialismo dappertutto è una scena che ci meritavamo, in questo agosto.

Buon mercoledì.

La nave dei folli

Hieronymus Bosch, 1494

Hieronymus Bosch nel 1494 circa dipinse il quadro La nave dei folli. Il dipinto racconta il pellegrinaggio di un gruppo di folli che viaggiano per mare senza alcuna meta. Su quella nave vengono caricati i matti, i diseredati di cui ci si deve liberare. Coloro che non rientrano negli schemi della ragione collettiva devono restare in balia del mare. Sono destinati a una vita errante, senza patria, senza terra ferma. Fatta di niente se non di un interminabile vagare.

Nel 2023 nel Regno Unito il governo Sunak, incapace di gestire gli arrivi ha pensato a una soluzione simile, cominciando a stipare gli immigrati in attesa di verdetto sulla richiesta d’asilo su un’enorme chiatta lunga quasi cento metri che potrà ospitare fino a 500 persone, tutti maschi adulti. Dice Suniak che non saranno detenuti, perché saranno liberi di andare e venire. Dove si possa andare e dove si possa venie in una nave in mezzo al mare è un segreto che il governo britannico non s’è preso la briga di raccontare.

Il passaggio della legge in Parlamento è stato accolto con parole durissime dalle Nazioni Unite, che l’hanno definita «una violazione della legalità internazionale». In un comunicato congiunto, il responsabile Onu per i diritti umani, Volker Turk, e quello per i rifugiati, Filippo Grandi, hanno lamentato che la nuova legge «avrà profonde conseguenze per le persone che necessitano di protezione internazionale». «Questa nuova legislazione erode in maniera significativa la cornice legale che ha protetto così tante persone ed espone i rifugiati a gravi rischi», hanno detto.

Quelli che non ci staranno sulla barca verranno smistati in siti militari. Un’altra ipotesi è di portare migliaia di persone (non illegali, ricordiamolo, ma in attesa di valutazione della richiesta d’asilo) su un’isola sperduta tra costa africana (1.600 chilometri) e costa sudamericana (2.300 chilometri), l’Isola dell’Ascensione, nell’amministrazione di Sant’Elena di napoleonica memoria.

Forse i naufraghi in questo tempo sono sulla terraferma.

Buon martedì.

In foto Bosch, la nave dei folli, 1495

La memoria negata degli emigrati di Marcinelle. E quella «catastrofe» del 1956

Agosto 1956 Charleroy Archivio Storico Nella foto: Incidenti Minerari Belgio Marcinelle, le famiglie e la folla dei minatori davanti ai cancelli del tragico pozzo

8 agosto 1956, un fumo si levò da Bois du Cazier, una miniera di carbone a Charleroi. Il fumo nero usciva dai pozzi. Come ogni mattina trecento lavoratori erano scesi sottoterra per cercare di guadagnarsi la giornata. Ne uscirono vivi solo 38. Molti di quegli uomini rimasti sotto erano italiani emigrati che avevano sperato in una vita migliore in Belgio e per questo si erano adattati a fare i minatori senza garanzie, vivendo in baracche una volta usate per i prigionieri di guerra. Le cause dell’incidente non sono mai state del tutto chiarite, i responsabili se la sono cavata con una condanna di sei mesi. Ma anche l’Italia ha “dimenticato” quelle vittime. Per lunghi anni è stato un buco nella nostra storia. Pochissime le pubblicazioni che abbiano cercato di far chiarezza. Fra questi un toccante libro di Paolo Di Stefano, La catastofa, uscito nel 2011 per i tipi di Sellerio. Lo scrittore e giornalista fece un lungo viaggio alla ricerca di testimonianze delle vedove, dei figli, e dei sopravvissuti. Dall’intreccio polifonico di voci  da quel libro emerge il quadro di una tragedia che ha a che fare con la povertà, con l’emigrazione, con la speranza di poter ricominciare altrove in una terra che si immagina più ricca e accogliente e che finisce in tragedia. Come accade oggi a tanti migranti che cercano di arrivare in Italia, a costo di enormi sacrifici e rischi, avendo attraversato il deserto della Libia, per poi annegare nel Mediterraneo. (seguendo questo filo Di Stefano ha scritto poi un libro dedicato proprio ai migranti dall’Africa e dai Paesi arabi, I pesci devono nuotare, Rizzoli).
Quando Piero Grasso, allora presidente del Senato andò a Marcinelle, per la commemorazione parlò della necessità di «Ripensare come eravamo e vivevamo», «rafforza la nostra determinazione ad accogliere con spirito di solidarietà chi oggi è costretto a migrare e ha diritto alla protezione internazionale». Per le migliaia di migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo non c’è giustizia, né memoria degna di questo nome. «No a marginalizzazioni», dice oggi il presidente della Repubblica Mattarella, ricordando anche l’urgenza di mantenere salda tutela dei lavoratori.

Lo dice anche un piccolo ma, a nostro avviso, significativo episodio accaduto quando la direzione della libreria di Le Bois du Cazier, sede della miniera in cui accadde la catastrofe si rifiutò  anni fa di presentare e di vendere La catastrofa. «Siamo spiacenti di informarLa che dobbiamo rifiutare la Sua proposta ma rispettiamo il lavoro di memoria realizzato da Lei» scriveva il direttore Jean-Louis Delaet in una lettera a Di Stefano. Per quanto «il parere di ognuno sull’argomento sia rispettabile», era scritto in quella missiva le testimonianze dei sopravvissuti e dei famigliari delle vittime, secondo il direttore della libreria annessa al museo, contenevano «fantasiose affermazioni». E questo nonostante tutte le fonti usate nel libro fossero documentate e molte venissero dalla voce viva di chi quel dramma lo aveva vissuto sulla propria pelle. La ricostruzione di quel che accadde l’8 agosto 1956, da parte belga, chiede ancora inacettabili censure ed epurazioni.

Come va il “piano Mattei”?

Come va il “piano Mattei”? Che cambia nei rapporti con la Tunisia?

Due naufragi sono avvenuti nelle ultime ore al largo di Lampedusa, con un bilancio provvisorio e ufficioso che parla di almeno una trentina di dispersi. Nella serata di sabato sull’isola erano sbarcati 57 migranti e due cadaveri, una donna ed un bambino ivoriani, ripescati dalle motovedette della Guardia costiera. Proprio ascoltando i racconti dei superstiti i mediatori dell’Oim hanno potuto ricostruire che le barche colate a picco sarebbero due: la prima carretta partita da Sfax, in Tunisia, aveva a bordo 48 migranti, 45 dei quali sono stati salvati. Stando ai loro racconti vi sarebbero 3 dispersi. Sul secondo natante, anch’esso partito da Sfax, c’erano invece 42 subsahariani, 14 dei quali recuperati: i dispersi dovrebbero essere dunque 28. Come riferisce l’Ansa, gli investigatori della Squadra Mobile della Questura di Agrigento cercheranno di sentire nuovamente i sopravvissuti, 47 uomini e 10 donne, tutti sotto choc, per cercare di ricostruire cosa sia accaduto.

Sono i danni collaterali della nuova amicizia dell’Italia e dell’Unione europea con il presidente tunisino Kaïs Saïed. Intanto sul sito dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere appare l’annuncio per “il reclutamento di agenti della guardia di frontiera e costiera dell’Ue”. L’agenzia prevede di ingaggiare circa 440 nuovi funzionari nel 2024 tra chi ha avuto esperienze nelle forze dell’ordine o nell’esercito dei diversi stati membri. Nuove assunzioni rese possibili grazie a un budget che non è mai stato così alto per Frontex. In questo 2023 Bruxelles ha messo a disposizione più di 845 milioni di euro, soldi che provengono dal bilancio dell’Ue e da altri contributi degli stati Schengen. Soldi che vengono spesi in gran parte per la gestione del personale e per l’acquisto di attrezzature (180 milioni) per rafforzare la sorveglianza delle frontiere. Sul totale del budget i soldi messi a bilancio per il rispetto dei diritti umani (ovvero per occuparsi di salvare vite) sono 2 milioni di euro.

Si impegnano a cambiare la narrazione ma la realtà mortifera rimane lì. Indifferente al tentativo di piegare la realtà.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video del salvataggio della Guardia costiera, 6 agosto 2023 (Youtube Avvenire)