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La società messa a nudo dallo sguardo corrosivo di Isa Genzken

Chi si trovasse a Berlino, non si dovrebbe perdere la mostra che la Neue Nationalgalerie, riaperta nel 2021 dopo cinque anni di lavori di rimodernamento, ha dedicato a Isa Genzken, una delle artiste più influenti nel panorama dell’arte contemporanea. Si intitola 75/75 e raccoglie una selezione di settantacinque opere in occasione del settantacinquesimo compleanno dell’artista tedesca. La mostra, aperta fino al 27 novembre, offre un’opportunità unica per conoscere da vicino l’intero percorso di Isa Genzken, nata a Bad Odesloe (una cittadina nella regione nord-orientale di quella che fu la Germania Ovest) nel 1948. Dal 1969 al 1971 studiò pittura all’Accademia di belle arti di Amburgo sotto il magistero di Almir Mavigner, un artista di origini brasiliane (nato a Rio de Janeiro nel 1925), ma dal 1953 in Germania, dove dal 1956 si avvicinò all’Op art, corrente dell’astrattismo che in quegli anni sperimentava composizioni basate su illusioni ottiche, nelle quali l’accento era posto sull’effetto ottico e, successivamente, nel 1958, fu tra i fondatori, a Dusseldorf, del gruppo ZERO, una compagine di artisti che, ispirandosi principalmente a Lucio Fontana, propugnava una rifondazione dell’arte attraverso una riduzione di tutto ciò che è figurativo a una “concentrazione purista del segno” nella quale il confine tra pittura e scultura veniva abolito.
Queste premesse sono utili per comprendere la parabola della Genzken. Le sue prime opere infatti appaiono in linea con il percorso del suo maestro brasiliano. Le prime creazioni, tra il 1973 e il 1977, con cui si fece conoscere, sono gli “elissoidi” e gli “iperboloidi”, forme allungate e strette, della lunghezza di circa 12 metri, che nascono da un’operazione di astrazione di carattere matematico (nessuna relazione con forme naturali) ma che produce un artefatto originale. La realizzazione di queste sculture richiese l’uso di un computer (cosa che all’epoca non era affatto cosa scontata né semplice). Il peso specifico della riflessione intellettuale è preponderante in questa prima fase della sua creazione artistica (in questi anni la Genzken, affianca agli studi di arti visuali quelli di storia dell’arte e filosofia), ma anche se la sua creazione artistica successivamente ha sperimentato ed esplorato diversi territori, una tratto che unisce tutta la sua parabola artistica è la fiducia nell’artefatto, nella materialità e nella tangibilità dell’opera d’arte.
Dopo questa prima fase sotto il segno del minimalismo e dell’arte concettuale, la Genzken, a partire dal ciclo World Receiver, del 1982, nella quale l’artista assemblava piccoli blocchi di cemento con una antenna della radio, quasi a simulare la forma e il concetto di una radio, dimostrava di avere compiuto un piccolo ma significativo scarto dalle prime forme puramente astratte a creazioni che chiamavano in causa in modo ironico oggetti di largo consumo. Sarà questa la strada che la porterà verso l’elaborazione di un suo linguaggio artistico personale e originale e che, nel decennio successivo, la renderà una delle artiste più originali e apprezzate in tutto il mondo. Questa svolta coincise col matrimonio, proprio nel 1982, col pittore Gerhard Richter, a cui la Neue Nationalgalerie ha dedicato una mostra proprio in coincidenza con quella della Genzken (nel piano di sotto). Il matrimonio durò undici anni, ma dal punto di vista artistico ognuno dei due coniugi artisti seguì un suo percorso distinto. Negli anni Ottanta la Genzken si allontanò ulteriormente dall’astratta purezza dei suoi esordi: nelle sue opere in questi anni infatti cominciò a sperimentare l’assemblaggio e la combinazione di diversi materiali. Con la mostra di Chicago Everyone needs at least one windows del 1992, nella quale erano esposte forme rettangolari di cemento che alludevano a finestre, la Genzken cominciò a farsi conoscere anche all’estero. La separazione dal marito le causò una forte depressione, che la portò al ricovero in una clinica psichiatrica. Ciò malgrado, le sue opere cominciavano ad essere al centro dell’interesse della critica di tutto il mondo e le mostre a lei dedicate si succedevano con crescente frequenza. Tra il 1994 e il 2003 realizza le Columns, costituite da parallelepipedi di resina epossidica sovrapposti fino a realizzare colonne nelle quali l’artista assembla diversi elementi provenienti dalla cultura di massa, configurando una sorta di totem della società dei consumi. Nel 2005 realizza il ciclo Airplane windows usando pezzi della cabina di un aereo ricoperti di vernice che assumono la sembianza di gigantesche maschere. Questi riferimenti grotteschi e distorti alla società contemporanea costituisce la cifra stilistica dell’arte di Isa Genzken, che ha ottenuto in questi anni numerosi e meritati riconoscimenti. Nel 2007 fu chiamata a rappresentare la Germania nel padiglione della Biennale di Venezia e nel 2009 la Whitechapel Art Gallery di Londra le ha dedicato la retrospettiva Apriti, Sesamo. Al 2008 risale la scultura Hospital realizzata per la mostra Ground Zero, nella quale l’artista pone su un carrello un enorme parallelepipedo, che ricorda la forma di un grattacielo, sovrastato da un vaso di fiori di vetro, mentre al 1993 risale la prima versione di Rose, una scultura che consiste in rosa ingigantita. In entrambi i casi sono le alterate dimensioni degli oggetti rispetto a quelli reali a creare un voluto effetto di “straniamento”. L’allestimento nel piano “a vista” della Neue Nationalgalerie (l’edificio creato da Ludwig Mies van der Rohe nel 1968 – un capolavoro che vale la visita – si sviluppa su un piano a livello stradale e un piano interrato nel quale è custodita la collezione del museo) amplifica questo senso di “straniamento” e crea un cornice perfetta per le opere di questa artista, la quale offre al visitatore una visione paradossale e grottesca della società contemporanea che è fonte di continuo stupore. Quello della Genzken è un linguaggio artistico riconoscibile e, al tempo stesso, perfettamente comprensibile anche chi non conosce l’arte contemporanea e per questo posso serenamente consigliare a tutti la visita a questa mostra.

 

foto di apertura di Jens Ziehe/Photographie, courtesy by Neue Nationalgalerie

foto nel testo  by Christoph Müller, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5804125

Nel nome di Mahsa Amini il mondo dell’arte si mobilita per le donne iraniane

Il 16 settembre si avvicina. Manca meno di una manciata di settimane all’anniversario della morte di Mahsa Amini la giovane curda iraniana uccisa a bastonate della polizia morale a Tehran perché un ciuffo di capelli era fuoriuscito dal suo hijab. Anche di questo ci parla una mostra che si tiene a Roma. Il mondo dell’arte sta facendo la sua parte per sostenere la battaglia di giustizia dei giovani iraniani. É aperta fino al 20 agosto nella Galleria dei Miracoli un’interessante mostra di opere dell’artista Amir Amin Sharifi. Con il titolo “La nostra luna” riprende il nome di Mahsa che in persiano significa Luna.

Sharifi è un noto artista iraniano con due importanti gallerie a Tehran e Esfhan che entrambe sono state confiscate dopo l’inizio delle proteste dello scorso anno. Così come la sua casa e altri beni personali.
Sharifi ha lasciato l’Iran da qualche mese e sta cercando di raccontare attraverso le sue opere il dolore e le sofferenze del suo popolo. La maggior parte dei lavori esposti a Roma mostrano donne con i capelli al vento, molte di loro sono senza gli occhi perché le autorità iraniane hanno colpito proprio agli occhi delle donne durante le proteste e per questo molte di loro hanno perso la vista. Alcuni ritratti invece mostrano i volti di ragazzi e ragazze uccise dal regime, altre riportano lo slogan delle proteste Donna Vita Libertà. Il ricavato delle vendite delle opere artistiche sarà devoluto ai manifestanti che protestano contro il regime iraniano e alle loro famiglie.

“La mia arte – dice Sharifi – è ciò che la mia mente comprende di ciò che mi circonda e del mio mondo. Per questo cerco di disegnare nella mia mente. La mia missione e il mio obiettivo sono aiutare a far conoscere le capacità e il talento degli artisti iraniani che si affidano a me”.
Sharifi è inoltre direttore della rivista Parsforte International Magazine la prima e unica rivista non iraniana che introduce e mostra le opere di artisti persiani sotto forma di libri stampati, oltre a presentare artisti in siti Web, musei, gallerie e spazi internazionali.
“Ci stiamo avvicinando all’anniversario della rivolta del popolo iraniano contro la repressione – prosegue Sharifi – Una pianta è stata annaffiata con molto sangue. Uomini, donne e bambini hanno sacrificato le loro vite per la libertà del Paese. Penso a coloro che sono morti per la libertà. Vinceremo. Mahsa è la nostra luna e la nostra parola in codice. La mia arte è la mia arma”.Sono trascorsi quasi 12 mesi dall’orrendo assassinio della giovane curda iraniana Masha Amini. In questo anno abbiamo assistito alle proteste dei giovani iraniani che non solo richiedevano la liberazione dall’hijab ma per mesi hanno chiesto a gran voce di essere un popolo libero. Richieste pacifiche che sono state represse con la più brutale delle violenze da parte delle forze di sicurezza. Abbiamo assistito all’arresto di migliaia di manifestanti, molti di loro uccisi durante le proteste, altri impiccati perché ritenuti colpevoli di aver messo in pericolo la sicurezza dello Stato. Abbiamo saputo di donne e uomini torturati nelle carceri, stuprati e vittime delle peggiori nefandezze. Conosciamo le famiglie degli scomparsi, molte di loro sono perseguitate dalle autorità solo per aver raccontato come sono stati ammazzati i loro figli. Attendiamo le sorti delle giornaliste arrestate che solo per aver rivelato al mondo quello che accade in quel Paese rischiano anni e anni di carcere. Alcuni manifestanti, una volta rilasciati dalla prigione si sono addirittura suicidati, poiché non hanno retto al dolore e alle sevizie subite, altri si dice che prima di uscire siano stati spinti al suicidio anche con la somministrazione di sostanze che incidono sulla salute mentale e alimentano tendenze suicidarie.
Un anno di proteste anche nel resto del mondo, un mondo che forse per la prima volta ha scoperto quel che drammaticamente accade nella Repubblica Islamica dell’Iran e il molto che non va.

In realtà non va dal 1979 anno della rivoluzione islamica in cui dopo l’esilio di Mohammad Reza Pahlavi l’ultimo shah di Persia, questo meraviglioso Paese ricco di fascino storia e cultura, è caduto nelle mani di impietosi religiosi che hanno strumentalizzato l’Islam a proprio piacimento imponendo leggi ferree, millantando principi coranici inesistenti.
Un grande bluff con la complicità occidentale, per tenere 80 milioni di persone sotto controllo, un intero popolo in ostaggio. Mahsa Amini seppur nella sua grande tragedia ha avuto la capacità di risvegliare gli animi assopiti del popolo iraniano. E non solo.
Oggi, finalmente, dopo decenni dalla rivoluzione islamica khomeinista il mondo ha potuto vedere in che stato vive la gente dell’Iran. Dove ogni contestazione e rivendicazione dei propri diritti basilari viene repressa nel sangue e nella violenza.

Le donne sono state le grandi protagoniste di questa ‘rivolta’. Ancora oggi nonostante tantissime giovani coraggiose abbiano rimosso l’hijab senza paura di essere arrestate e girano per le grandi città iraniane senza coprire il capo, il governo iraniano continua ad intimidirle imponendo una serie di forti restrizioni. Sono aumentate le pattuglie della ‘polizia morale’ che hanno il compito di ‘scovare’ le donne senza velo e ultimamente si è anche arrivati all’utilizzo di telecamere per individuare chi non rispetta le regole. Una delle ultime notizie riguarda la volontà di voler imporre “cure psicologiche” a quelle donne che si rifiutano di osservare la legge sul velo obbligatorio. Decisione che ha visto nello stesso Iran numerose associazioni psichiatriche rivendicare la propria professionalità tentando di far comprendere al capo della magistratura Gholam-Hossein Mohseni Ejei, che “La diagnosi dei disturbi mentali è responsabilità di uno psichiatra, non di un giudice”.

Ed è così che nell’anniversario della morte di Mahsa Amini in tutto il mondo sarà un giorno di commemorazione, di riflessione ma sarà anche un ulteriore grido di aiuto da parte di quel popolo che ci chiede di non spegnere i riflettori su una ‘rivoluzione’ silente che nonostante sia stata oscurata dai media è più viva che mai.
Nella giornata di sabato 16 settembre 2023 sono previste manifestazioni in tutto il mondo a Roma una manifestazione è stata organizzata dall’Associazione DVL Italia con un corteo che partirà da Piazza dell’Esquilino fino a Piazza Madonna di Loreto. (Nella sede di Left si terrà un seminario dalle 16 alle 20, a cui partecipano molti attivisti ndr). Personaggi del mondo della politica, della cultura, dello spettacolo uniti a tante associazioni hanno già aderito e confermato la loro presenza per sfilare gli uni accanto agli altri nel nome di Mahsa e della libertà per il popolo iraniano.

L’autrice: Tiziana Ciavardini è antropologa culturale, scrittrice, giornalista, attivista per i diritti umani

Nel testo immagini della mostra di Amir Amin Sharifi. In apertura foto di Riccardo Giorgi

Per approfondimenti, Left, luglio 2023 NON CHIUDEREMO I NOSTRI OCCHI

Il 16 settembre a Roma

Chi ha paura dell’identità delle donne

I femminicidi non accennano a diminuire in Italia: 8 donne uccise in ambito familiare ogni mese nel 2023 secondo il Viminale. E questo mentre gli omicidi e altri crimini sono in costante diminuzione. Una strage di donne avviene silenziosamente nonostante leggi severe, nonostante la crescente attenzione alla formazione del personale di polizia e dei magistrati.
Colpisce anche che a uccidere le proprie compagne siano, non di rado, giovanissimi uomini fra il 18 e i 35 anni. Come leggere questi “dati”? Lo chiediamo agli psichiatri e psicoterapeuti Irene Calesini e Massimo Ponti che, con Viviana Censi, hanno scritto Violenza contro le donne (l’Asino d’oro).
«La situazione è tornata di nuovo allarmante, c’era stata una leggera flessione di femminicidi nel post pandemia, ma adesso siamo tornati di nuovo a cifre purtroppo sconfortanti», osservano i due psicoterapeuti. Da gennaio a maggio 2023 sono stati registrati 129 omicidi, le vittime donne sono 45, e 39 sono femminicidi, 22 per mano del partner. La media è di circa 8 donne uccise al mese, tante quante nel maggio del 2020 in piena pandemia quando molte donne stavano rinchiuse in casa con i loro “aguzzini”. «Per dare calore a questi freddi dati – approfondiscono Calesini e Ponti – e senza peccare di troppa esemplificazione possiamo pensare: quanto più la donna vive la sua libertà tanto più cresce l’angoscia in certi uomini e la paura di perderla. Le istituzioni, gli specialisti, noi tutti siamo chiamati a lavorare sulla prevenzione per dare alle nuove generazioni il vero senso del termine “persona”, annullato da una società basata sulla mercificazione dove tutto si compra, e così anche i valori umani nelle relazioni come espressione di autenticità e rispetto diventano all’insegna del consumo veloce e rapido. Soprattutto nei giovani non riscontriamo il senso dell’attesa, conta visualizzare, più che vivere direttamente.
Anche la premier Meloni ora dice che occorre un cambiamento culturale portando nelle scuole la testimonianza delle donne che hanno subito violenza. Ma come promuovere un vero cambiamento di mentalità che permetta finalmente di superare gli stereotipi e una piena accettazione dell’identità della donna, «uguale e diversa»?
Sappiamo quanto la cultura di destra – sempre che possiamo parlare di una destra portatrice di cultura – con i suoi capisaldi e stereotipi di “Dio, Patria e Famiglia”, cerchi di proporsi come cambiamento. La destra nella storia ha sempre rubato alla sinistra i contenuti culturali più evolutivi e li ha poi svuotati di contenuto. Una certa destra voleva revisionare i libri di storia a proposito del ventennio fascista e far passare Mussolini come un grande statista che aveva soltanto fatto scelte sbagliate a proposito di alleanze. Pensiamo anche al santo padre che a proposito di uguaglianze disse che i bambini non battezzati non sono uguali a quelli battezzati. Detto questo ben vengano iniziative dove si parli di questo drammatico problema e auspicabilmente di diversi rapporti tra donne e uomini, soprattutto nelle scuole.
Il codice rosso e il braccialetto elettronico non sarebbero stati utili e sufficienti per salvare Giulia Tramontano: il compagno della ventinovenne, Alessandro Impagniatello, non aveva compiuto azioni palesemente violente nei riguardi di lei prima di quella terribile sera in cui l’ha uccisa. Quanto è importante imparare a cogliere certi segnali e sviluppare una formazione personale, umana, che permetta di vedere la violenza invisibile, prima che diventi manifesta?
In materia di disciplina penale e processuale la legge n. 69 del 19 luglio del 2019 a riguardo della violenza domestica e di genere è stata importante per le donne, ma il problema è che per gli uomini violenti la legge non costituisce nessun deterrente e continuano nelle loro azioni di sopraffazione e maltrattamenti. Purtroppo questo grave fenomeno non lo fermi soltanto con la legge. A dimostrazione di quanto detto, prendiamo ad esempio la recente uccisione dell’agente di polizia Pier Paola Romano nella periferia romana: lì non possiamo dire che il collega, poi suicidatosi, non conoscesse il codice rosso. Il grosso lavoro da svolgere è sulla prevenzione; è importante lavorare per fare emergere e crescere una nuova mentalità e una nuova cultura, in campo sociale e anche psichiatrico. È questo il nodo, ribadiamo, sviluppare una nuova cultura. Ma come arrivarci concretamente?
Il cimento è assai arduo, come nel delitto di Giulia Tramontano, dove non sembravano esserci segni manifesti di una così grave malattia nell’omicida, un “normale” ragazzo come tanti. Possiamo pensare, con le dovute cautele, a una diagnosi di personalità psicopatica, difficile da individuare. Questo avvalora ancor di più la necessità di una formazione in psichiatria che non si affidi soltanto a un’analisi del comportamento, ma vada ad indagare quel terreno complesso che è il pensiero non cosciente dell’individuo. Noi lo diciamo chiaramente nel nostro libro che dietro ogni violenza fisica c’è una violenza psichica ed è necessario cogliere nella anaffettività, quella violenza invisibile che rende l’altro niente, non esistente, trasformato in cosa, per cui si perde totalmente quel senso di “persona” a cui accennavamo sopra. Bisogna fare anche un discorso sulle vittime, quanto e come si fanno accecare da questa seduzione fascinosa dall’uomo apparentemente sicuro di sé ed efficiente nelle cose materiali ma estremamente malato negli affetti e nelle relazioni umane, e in questa cecità rischiano anche la morte. Ma questo è un argomento che merita certamente una ulteriore attenzione ed una sensibilità che non colpevolizzi ancora una volta le donne.
Se c’è amore non c’è violenza. La violenza è sempre patologia. Parrebbe un discorso ovvio. Eppure molte femministe dicono che gli uomini che uccidono le proprie compagne, fidanzate, mogli, amanti sono “normali” portatori di una cultura patriarcale. Non accettano che si possa dire che sono malati di mente, come se questo significasse scagionarli. Come rispondere?
Che amore e violenza non possano andare insieme perché sono due “condizioni dell’animo” agli antipodi, temo sia una acquisizione certa per alcuni, ma ancora troppo “forte” per molti. (E soprattutto è ancora una idea controcorrente rispetto alle continue riproposizioni di narrazioni, film, opere letterarie in cui amore e morte sembrano indissolubilmente legati.) È un discorso che merita calma e approfondimento. Molte delle storie che esitano in violenza fino al caso del femminicidio sono iniziate come normali, usuali storie di amore, innamoramento, con progetti in comune, ecc. Questo dicono le donne che da anni si occupano di contrastare la violenza e lavorano nelle case rifugio, nei centri antiviolenza, nella scuola, nei progetti di prevenzione. Ed è vero; bisognerebbe andare al di là di contrapposizioni femministe-non femministe, per tentare di comprendere quello che succede. In alcune normali storie di amore, relazioni che iniziano con un innamoramento, si verifica a un certo punto una violenza agita dall’uomo, in varie forme, psicologica, sessuale, fisica, economica. Si imposta più o meno da subito o si rende più o meno evidente in certi momenti come particolari passaggi della vita di coppia o del percorso personale della donna (gravidanza, ricerca di indipendenza economica e maggiore autonomia, realizzazioni personali, rifiuto di situazioni prima accettate o tollerate o subite).
Cosa c’è alla base?
Sicuramente una invisibile violenza che è insita nel sistema patriarcale, che è il pensiero, strutturato da molti secoli, ma iniziato millenni fa, che le donne siano da controllare, da educare, da tenere a bada perché carenti o assenti di razionalità, cioè irrazionali, imprevedibili, pericolose perché seducono e distraggono gli uomini dai loro doveri; perché l’irrazionale è stato sempre associato al Male, in qualunque modo sia stato chiamato dalla filosofia, dalla religione, dalla politica. Inoltre sono legate al mondo misterioso della nascita, della vita e della morte. Questo pensiero è anche presente, e più o meno consapevole o strutturato nell’uomo che agisce quella violenza. E allora qui si inserisce la individuale, personale, dimensione cosciente e non cosciente dell’uomo in questione: la sua incapacità di relazionarsi all’altra nella sua interezza di persona, appunto, come altra individualità. A volerla vedere troviamo allora una psicopatologia più o meno evidente, spesso senza alcuna diagnosi psichiatrica pregressa. Si possono leggere certi comportamenti, certe ossessioni, certe gelosie patologiche, certo bisogno di controllo continuo come segnali di una condizione psichica non sana. Su questo dovremmo fare tutti uno sforzo di approfondimento perché qui si intrecciano questioni sociali, giuridiche, medico legali non facili da dirimere. Per cui capisco chi teme che dando la patente di malato psichiatrico ad un uomo che uccide una donna “perché è una donna”, (vedi la definizione femminicidio), questi venga deresponsabilizzato circa il suo atto e soprattutto si riduca il fatto ad un evento privato, ad un episodio, di per sé occasionale. E si dia un giudizio implicito sulla donna: o è stata sfortunata o è stata proprio stupida a non rendersi conto del pericolo… Mentre è ormai chiaro che questi non sono “fatti privati” ma costituiscono un fenomeno sociale di grandi dimensioni, con alcune caratteristiche che si ripetono ed altre che evolvono nel tempo, e ci interrogano sul loro significato e necessitano di risposte precise in ambito preventivo e culturale, oltre che di protezione e aiuto alle vittime, e perseguimento dei colpevoli.
È un fenomeno non solo privato ma sociale?
Dovremmo fare uno sforzo per uscire da schemi mentali semplici da ripetere come: “cultura patriarcale onnipotente” da una parte e malattia mentale – del maschio – dall’altra, come cause contrapposte ed uniche della violenza contro le donne. Non vogliamo con questo svicolare, come spesso si fa in medicina quando non si è certi delle cause di malattia, su un generico discorso di “multifattorialità” o dire semplicemente che l’una e l’altra causa lavorano insieme. Dobbiamo pensare all’insieme come un fenomeno dinamico, in cui la società ancora per molti aspetti patriarcale e post patriarcale – nonostante i diritti acquisiti- agisce con messaggi veicolati dai mezzi di informazione, dalla pubblicità, ancora dai testi scolastici, sui bambini e sulle bambine, sugli adolescenti, sulla loro formazione personale, distorcendo la percezione dell’altro, con una impostazione culturale che non aiuta a crescere rapportandosi a chi è diverso da sé, ma uguale nel suo essere umano e nel suo valore di essere umano. Questa società non è in grado di garantire il benessere psichico dei suoi componenti, di uomini e donne che diventeranno eventualmente genitori, docenti, persone attive nella cultura, nella ricerca, persone che svolgono le professioni di aiuto, persone che avranno a che fare direttamente o indirettamente con i più piccoli. E sappiamo per la nostra impostazione teorica quanto i primi anni di vita siano cruciali nel fisiologico sviluppo psico-fisico e per la sanità mentale dell’individuo. (con le relazioni umane che si hanno dopo la nascita, che è originariamente fisiologica ed integra nella naturale fusione corpo mente per ognuno). Insomma c’è una interazione tra società, cultura ed individui; la patologia mentale non si può escludere nei casi di femminicidio, ma non è la unica causa di essi; per prevenirli occorre vedere in ogni caso quale essa sia-
Quali sono i segnali da cogliere?
Per prima cosa bisogna ascoltare cosa dice la donna, dare la opportunità a chi si rende conto che qualcosa non va nella persona che ha accanto o nella relazione, di parlarne, di trovare alleati. Anche chi, uomo o ragazzo, trovasse il coraggio di chiedere aiuto per affrontare una situazione di difficoltà o incapacità di rapporto con una donna, deve trovare risposte adeguate. Qui interviene il discorso dei servizi sociali e sanitari accessibili a tutti, che facciano prevenzione a più livelli, diagnosi e cura con personale formato. Un enorme impegno culturale, sociale e sanitario per rispondere ad un fenomeno sociale trasversale, sistemico, strutturale.
La conquista di una maggiore consapevolezza e autonomia delle donne scatena reazioni violente in regimi e società ancorate a pregiudizi misogini. Penso a quel che accade in Medio Oriente e alla rivoluzione culturale che le giovani donne iraniane stanno portando avanti a costo della vita. Che ne pensate? Anche da noi, in maniera sotterranea, accadono reazioni simili anche se non viviamo in un regime teocratico?
Siamo assolutamente d’accordo con te. Mentre sembra abbastanza semplice pensarlo per i regimi e gli Stati teocratici piuttosto lontani da noi, è più difficile pensare che una dinamica del genere, in forme diverse, ci sia anche qui. Basta pensare alla costante lotta che dobbiamo fare per difendere i diritti acquisiti, per contrastare i messaggi falsi e confondenti sulla realtà umana, sulla sessualità, sulla libertà. Con tutte le contraddizioni possibili in Italia c’è una consapevolezza delle donne di sé stesse, delle proprie esigenze, del proprio valore e questo può essere un problema per chi vuole imporre un modo di vivere e pensare funzionale, diciamo, alla società capitalista e neoliberista. Il coraggio delle donne in tante occasioni, nel mondo e anche nella vita del nostro Paese ha innescato e determinato cambiamenti enormi nella società e nelle leggi (Pensiamo a Rosa Parks, a Franca Viola solo per accennare alcuni nomi, ma anche alle innumerevoli e anonime donne che si sono battute, nei secoli, per i diritti di tutte e tutti); questo non va dimenticato ed è ancora indispensabile. Vanno aiutate le giovani generazioni, le ragazze e i ragazzi a comprendere da dove veniamo, per orientarsi in una cultura che ancora nega molte “cose” (le donne, la malattia mentale, la nascita umana…) Le coraggiose donne iraniane, curde, afgane ci ricordano ancora che il potere e le religioni non amano le donne, né i bambini, né chi dice No.

Questa intervista è stata pubblicata sulla rivista Left di Luglio 2023 Non chiuderemo i nostri occhi

Normale non lo è. Generale, se ne faccia una ragione

La storia immagino la sappiate. C’è questo generale, tal Roberto Vannacci, che dopo essersi dedicato a comandare i soldati in Afghanistan e in Iraq ora guida l’Istituto geografico militare a Firenze. Lì probabilmente è stato folgorato dalla carta e dalla cultura e ha deciso di autoprodursi un libro dall’originalissimo titolo Il mondo al contrario in cui ci fa sapere cosa pensa del mondo.

Gli omosessuali: “Normali non lo siete, fatevene una ragione”. La convivenza civile: “Le discutibili regole di inclusione e tolleranza imposte dalle minoranze”. I disoccupati: ” I dibattiti non parlano che di diritti, soprattutto delle minoranze: di chi asserisce di non trovare lavoro, e deve essere mantenuto dalla moltitudine che il lavoro si è data da fare per trovarlo”. Paola Egonu: “Italiana di cittadinanza, ma è evidente che i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità“.

Niente di nuovo sotto il sole. Vannacci si è preso la briga di sprecare carta per condensare in un sol luogo ciò che gli elettori di questo governo spargono a piene mani tutti i giorni sui social. Un lavoro filologico, più che creativo. Solo che in questo caso il giornalista di Repubblica Matteo Pucciarelli ha reso pubblico la chiara matrice dell’estro del generale Vannacci e quindi l’esercito e il ministro hanno deciso di prendere le distanze. Lui, il generale, rivendica il diritto di avere idee cretine senza capire che nessuno glielo impedisce: semplicemente uno con quelle idee non deve ricoprire un incarico pubblico. Questo è il punto. Per il resto potrà scendere tutte le sere al pub e giocare alla parte del nazista.

Alcune domande rimangono. Come ha fatto un tizio come Vannacci a diventare così alto in grado nell’esercito? Non sarà mica che ha trovato terreno fertile per le sue idee? Perché di questi deliri se n’è accorto solo il giornalista Pucciarelli? E soprattutto, il ministro Crosetto giudica (giustamente) “farneticazioni” le parole di Vannacci. Quindi giudica “farneticanti” una bella fetta dei suoi elettori? E in ultimo: che ne facciamo degli altri Vannacci in giro per eserciti, Parlamenti e pubbliche amministrazioni? E ci sarebbe anche una curiosità dolorosa: come ha operato il generale in territori di guerra, con idee del genere?

Buon venerdì.

Foto del Generale Vannacci tratta da Wikipedia

Chiese sempre più vuote. La pratica religiosa al minimo storico in Italia

Solo il 19 per cento della popolazione in Italia è praticante e va a messa o ad altre funzioni. E’ quanto risulta dall’Indagine multiscopo dell’Istat, svolta su un campione ampio e rappresentativo di popolazione italiana sul 2022. Intanto il 31 per cento della popolazione dichiara di non aver mai messo piede in un luogo di culto l’anno scorso. All’indagine hanno risposto direttamente persone maggiori di 14 anni, mentre per i minori dal 6 ai 13 anni la risposta è stata data dai genitori.

Il primo dato che balza agli occhi è che la frequentazione della Chiesa è la più bassa che sia mai registrata nella storia del nostro Paese. Negli ultimi 20 anni (dal 2001 al 2022), il numero dei cosiddetti praticanti regolari si è quasi dimezzato (passando dal 36 al 19 per cento), mentre il numero di persone che non vanno in Chiesa è raddoppiato (si è passati dal 16 al 31 per cento).

Questo trend in discesa prosegue da anni come abbiamo documentato negli anni su Left anche a partire dai vari rapporti sulla secolarizzazione di Critica Liberale con la Cgil nuovi diritti e, in particolare a gennaio 2023 con Left Chiesa cattolica s.p.a  (vedi La fine dei religiosi e Non c’è più religione di Raffaele Carcano della Uaar, autore del libro Le scelte di vita di chi pensa di averne una sola).

Ma torniamo alla nuova indagine Istat: una piccola inversione di tendenza, secondo i dati rielaborati da Settimana News avrebbe coinciso con l’esplosione del Covid-19 ma certamente è stata temporanea. Tra il 2019 al 2020 c’è stato un calo del 4 per cento delle persone che andavano in Chiesa. Durante la pandemia da Covid-19 le chiese rimasero aperte mentre cinema e teatri furono chiusi! (Leggi Teatri chiusi, chiese aperte)  Nonostante questo la gente è stata più saggia e si è tenuta alla larga e alla fine della pandemia la situazione non è più tornata ai livelli precedenti.

Il secondo dato che colpisce, e forse anche più importante, è che il calo ha riguardato in modo particolare i giovani dai 18 ai 24 anni e gli adolescenti (14-17 anni). Negli ultimi 20 anni la pratica religiosa ha registrato un calo di oltre due terzi per quanto riguarda i giovani e gli adolescenti, a fronte di una riduzione del 50 per cento dei praticanti tra adulti e del 30-40 per cento tra la popolazione anziana.
C’è di che sperare dunque: Piccoli atei crescono, per dirla con il celebre titolo del libro di Franco Garelli uscito per il Mulino nel 2016. Ma alcuni osservatori fanno notare che in Italia non siamo ancora allineati a quel che accade nella maggior parte dei Paesi del Nord Europa dove la partecipazione al culto coinvolge dal 3 al 7-8 per cento dei cittadini. Peggio di noi fanno Portogallo e Polonia, dove tuttavia si è avviato dal 2021 un certo processo di secolarizzazione dei giovani cresciuti politicamente nell’alveo delle proteste contro le feroci politiche antiabortiste adottate dal governo conservatore polacco sodale del governo Meloni.

Cronaca di un fallimento annunciato

Hanno passato l’intera campagna elettorale urlando “chiudere i porti!” quando anche un bambino sa che i porti non si possono chiudere, i mari non si possono fortificare e soprattutto il diritto internazionale non concede il lusso di poter agevolare l’annegamento o il congelamento dei disperati.

Vinte le elezioni con quel motto cretino hanno pensato di replicare il “modello Libia” regalato da quella sedicente sinistra capeggiata dall’ex ministro Minniti con la Tunisia. Baci, abbracci, sorrisi, fotografie e soldi. Come sia andata lo racconta il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa: «Nelle quattro settimane precedenti il memorandum Ue-Tunisia, gli sbarchi dalla Tunisia in Italia erano stati 16.507. Nelle quattro settimane successive 17.592».

A questo punto il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ci ha spiegato che il “record di sbarchi” è dovuto alle difficili condizioni della Tunisia. Il sottotesto è semplice: Saied vuole più soldi per fare di più il cattivo. Ma gli sbarchi aumentano anche dalla Libia: nei primi sette mesi del 2022 dalla Libia erano arrivate 22.787 persone. Nello stesso periodo dell’anno in corso 30.075. L’aumento è del 32%. E quindi? Quindi come racconta il giornalista di Radio Radicale Sergio Scandura l’Italia ha spedito due motovedette nuove di zecca ai libici per accalappiare più disperati in mezzo al mare.

Nel frattempo Piantedosi su mandato del governo ha provato in tutti i modi a ostacolare le navi delle Ong. Risultato? La Guardia costiera italiana ora è costretta a chiedere aiuto alle Ong per le operazioni di salvataggio. Un capolavoro di inettitudine che può essere superato dalla cretineria di un’opposizione che accusi il governo sullo stesso bestiale piano, ovvero sui “troppi arrivi”. Per non farci mancare niente abbiamo avuto anche questo.

Buon giovedì.

Nella foto: incontro di Giorgia Meloni con il presidente Saied, Tunisi, 11 giugno 2023 (governo.it)

«Maestà, il popolo ha fame». «Dategli le vacanze»

Ieri la ministra al Turismo Daniela Santanchè ha assestato un colpo alla propaganda di governo producendo un video che la ritrae in Versilia, lì dove ha cofondato lo stabilimento Twiga da 600 euro al giorno e di cui ha venduto le quote al compagno per non avere “conflitto di interessi”. «Oggi», ha detto, «mi auguro che tutti possiate passare una giornata serena e di spensieratezza. Vi faccio veramente tanti auguri e vi dico che il governo sta lavorando per avere tutte le offerte turistiche, perché tutti devono poter fare le vacanze», ha detto in un video, in cui alle sue spalle si vedono decine di persone in piscina. E poi: «Auguro buon Ferragosto anche a coloro che magari quest’anno le vacanze non le hanno fatte. Li voglio rassicurare, perché il governo sta lavorando perché le vacanze devono essere accessibili a tutti e perché bisogna lavorare sulla destagionalizzazione».

Il video (finito al telegiornale della televisione pubblica, come notizia) conferma alcuni aspetti di questo governo. Il primo, più evidente, è che i ministri intendono il proprio ruolo come influencer del proprio settore. Più del “fare” ritengono indispensabile “dire” e “fare parlare”, come se il ministero di cui si occupano sia semplicemente il momentaneo cliente da soddisfare. Ne esce un’accozzaglia in cui uno dice che «l’agricoltura salverà l’economia italiana», questa dice che «l’industria del turismo deve essere la prima della nazione», quell’altro che «solo le infrastrutture potranno fare ripartire il Paese». Piazzisti in contraddizione tra loro.

L’egoismo con cui esercitano il proprio ruolo produce in loro la preoccupazione che i (pochi) soldi a disposizione degli italiani finiscano nelle casse del proprio settore. Il coro della squadra completa che indichi come rendere dignitosa la vita degli italiani è un aspetto secondario. Quindi “le vacanze sono un diritto”, “i prodotti italiani sulle tavole degli italiani a Ferragosto” è un diritto, “attraversare il ponte di Messina è un diritto”, “non avere come vicini di casa una coppia gay con figli è un diritto”, “negare i neri che potresti ritrovare per strada è un diritto”, “che gli attivisti ambientali protestino con le buone maniere è un diritto” e così via. Il salario minimo e la sussistenza dei poveri no.

Buon mercoledì.

Tre indizi per fare una prova

Il vice presidente del Senato e senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri l’altro ieri se l’è presa prima con il sindacato di giornalisti Usigrai scrivendo: “Da buoni stalinisti voi di @USIGRai non tollerate le critiche di @ElPluralismoRai e mi insultate mentre scappate come coniglietti dalle mie domande. Fate minaccette ridicole per difendere @vditrapani e chi ha fatto operazioni vietate. Noi sappiamo tutto.Anche di più. Fate ridere”.

Poi se l’è presa con il presidente dell Federazione nazionale della Stampa italiana Vittorio Di Trapani scrivendo: “Allora era #ditrapani! Infatti tale @vditrapani invece di rispondere delle vicende che lo riguardano la butta in confusione. Il polverone patetico evoca tragedie estranee alle furbate sulle quali non gli daremo tregua. Si rassegni. Più scappa più lo inseguiremo”.

Poi ha risposto a un giornalista di RaiNews scrivendo: “Li so i particolari. Non li illustro a suo beneficio. Attento a dove parcheggia. È circondato da invidiosi. Che volevano il suo posto auto”.

Gasparri per ora è protetto dall’immunità parlamentare che tra i suoi aspetti negativi ha quello di dover sopportare linguaggi di persone che non risponderanno dei loro atteggiamenti. Ma, pensateci bene, che nome ha questo atteggiamento?

Buon martedì.

Sì o no? Cnel

Il salario minimo, da qualsiasi parte lo si guardi, che si sia d’accordo o meno, sarebbe una riforma impattante e immediata sulla vita di milioni di persone. Di colpo ricevere offerte lavorative che promettono stipendi orari irrisori non sarebbe più gavetta, non sarebbe più un “proviamo e poi vediamo”, non sarebbe più la giustificazione di “un momento difficile”: sarebbe illegale. È vero, siamo un Paese che spesso cammina placidamente nei sentieri dell’illegalità ma con l’istituzione di un salario minimo si spezzerebbe – questo è sicuro – la sensazione di inadeguatezza di un’intera generazione.

La decisione politica di non decidere – in questo caso passando le carte al Cnel di Brunetta usandolo come refugium peccatorum – è l’ennesimo caso di una vigliaccheria politica che è la seconda evidente matrice di questo governo. Non regge la giustificazione dell’approfondimento poiché senza nessuna remora questa stesso governo ha preso decisioni catastrofiche che hanno reso orfani bambini per decreto o che hanno scaricato sulla strada poveri accusati perché poveri.

Sono gli stessi inizi di vigliaccheria che con l’insediamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi hanno via via abolito le conferenze stampa della presidente del Consiglio, sostituendo le abituali domande dei giornalisti con video preconfezionati e unilaterali o letterine di Meloni ai giornali che le riservano una rubrica personale di fianco alla posta del cuore. Per questo risulta ancora più farlocco questo continuo appellarsi al “mandato popolare” ricevuto da parte della maggioranza: è vero, hanno vinto le elezioni, ma dopo un anno c’è da capire ancora “per fare cosa”.

Buon lunedì.

“Non esiste la guerra giusta”, la lezione di Gino Strada è più viva che mai

Gino Strada

«Essere definito un “utopista” per me è una benemerenza, non certo un’accusa. Ma in questo caso penso di essere un “realista”. Perché non c’è niente di più “realista” che battersi per abolire la guerra. E trovo davvero incredibile che l’assemblea generale delle Nazioni Unite in tutta la sua storia non abbia mai posto questo tema all’ordine del giorno», diceva Gino Strada, il fondatore di Emergency su Left nel 2016, dopo aver ricevuto dal Parlamento svedese il “Right Livelihood Award” (Premio al corretto sostentamento), il Premio Nobel alternativo. La motivazione del premio racchiude in sé il senso di un impegno che ha saputo unire nel tempo, valorizzando al massimo la “cultura del fare”, idealità e concretezza. Gino Strada fu premiato «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire cure mediche e chirurgiche di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra». Ed è quello che il fondatore di Emergency fece anche nell’intervista esclusiva concessa a Left. Idealità, passione e concretezza. È il fecondo “impasto” che Gino Strada rivolse alla comunità internazionale, parlando davanti ai parlamentari svedesi in occasione della consegna del premio: «Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10 per cento erano presumibilmente militari. Il 90 per cento delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo il “nemico”?». «Chi paga il prezzo della guerra?».
Abolire la guerra. Per averlo affermato, anche in occasione del Nobel alternativo, è stato tacciato di essere un “utopista”.
Per me è un complimento, non un insulto. “Utopia” era abolire la schiavitù duecento anni fa, eppure è stata abolita. L’accusa di “utopia” è un’assoluta sciocchezza. L’utopia è qualcosa che non si è ancora verificata ma non è detto che non debba o possa realizzarsi. È il sale della vita, dà un senso all’impegno quotidiano, crea movimento, dà una ragione forte per passare dall’“io” al “noi”. Qualsiasi conquista che ha segnato il cammino dell’umanità, in ogni campo, a partire da quello scientifico era un’illusione, un’intuizione, fino al giorno prima di diventare realtà. Oggi non siamo ancora riusciti a debellare il cancro, ma questo non ci porta a sostenere l’inutilità della ricerca, degli investimenti in questo campo. E nessuno liquida la lotta contro il cancro come una “utopia” da abbandonare. Questo, per me, vale anche per la guerra, che è il cancro dell’umanità. La guerra, come il cancro, continua ancora a esistere, e dovrebbe essere un impegno condiviso, a tutti i livelli. Ognuno, per quel che può, deve cercare la soluzione, l’“antidoto” per debellarla. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, ma uccide il paziente. «Siamo l’unica specie animale che fa la guerra»: non è un’affermazione dei giorni nostri, a dirlo fu Erasmo da Rotterdam, che già 500 anni fa smontò il concetto di guerra “giusta”. In un mondo come quello di oggi, dove i conflitti si moltiplicano in continuazione e si espandono, dove le armi disponibili potrebbero distruggere il pianeta, è ragionevole o no porsi il problema di come se ne esce? Io credo che sia la cosa più ragionevole. Abolire la guerra è una prospettiva molto più ragionevole che continuare a far finta di niente e continuare con questa pratica devastante. Il fatto che bombe e armi abbiano segnato, marchiato a sangue, il nostro passato, non vuol dire che debbano essere parte obbligata del nostro futuro. La guerra non è iscritta nel destino dell’umanità!
Stabilito che non esistono guerre “giuste” nell’orizzonte concettuale di Gino Strada, esistono guerre “necessarie”? Combattere Hitler, il nazifascismo, è stata una guerra “necessaria”…
Vorrei essere io a porre una domanda: è finito Hitler, è finito Mussolini, sono finiti tanti altri dittatori, ma non lo spirito del nazismo, del fascismo. Emergency, nel suo piccolo, è testimone sul campo di guerre che erano spacciate come “giuste” o “necessarie”, e che hanno solo finito per accrescere l’oppressione, moltiplicare il dolore di popolazioni intere, depredare quei Paesi teatro di guerre delle loro ricchezze. Perché non va mai dimenticato che è la povera gente, il popolo, la grande vittima delle guerre. E allora, torno a chiedere: tutto questo, l’oppressione, la crudeltà, è sparito con Hitler e Mussolini? No, non è sparito. La Prima guerra mondiale, la “Grande guerra”, sarebbe dovuta essere la guerra per far finire tutte le guerre, come affermò il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson. Ma le cose non sono andate così. Dopo la Grande guerra, nella maggior parte dei Paesi europei si insediarono dittature feroci. Poi, si è arrivati alla Seconda guerra mondiale, che è costata almeno 50 milioni di morti e che ha lasciato un’Europa in macerie, semi-distrutta. E dopo quella guerra, che tutti continuano a ritenere non solo necessaria ma indispensabile, cosa è successo? Si è aperta un’epoca di pace, di stabilità? No. In tutto il mondo ci sono stati oltre 170 conflitti, molti dei quali sono ancora in corso; conflitti che hanno provocato più di 25 milioni di morti. A cambiare sono state solo le definizioni di guerra, quelle sì. Tra questi neologismi c’è la guerra “umanitaria”: la bestemmia più grande che abbia mai sentito. Nella guerra non c’è nulla di “umanitario” ma tanto, tutto, “contro” l’umanità. Quanto ancora dobbiamo aspettare, quanti altri conflitti e morti dovremo contare, per capire che è quella cosa lì, la guerra, il vero mostro? Questa domanda è stata posta, sessant’anni fa, da alcuni dei più grandi cervelli che l’umanità abbia mai conosciuto. Mi riferisco a Bertrand Russell e ad Albert Einstein, e al loro Manifesto firmato dai più grandi scienziati al mondo. Da Percy Bridgman, Joseph Rotblat, Frédéric Joliot- Curie, Max Born, solo per citarne alcuni. Quel Manifesto poneva una domanda molto semplice: dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l’umanità deve rinunciare alla guerra? Quella domanda, sessant’anni dopo, attende ancora una risposta. E una risposta credibile non può non partire dalla constatazione che la situazione è diventata più critica e pericolosa ovunque. Gli stessi cittadini europei si sentono oggi più insicuri di quanto lo fossero anni fa. L’unica soluzione è discutere a livello internazionale di questo tema. Ripeto: devono discutere di questo alle Nazioni Unite. Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù, e dobbiamo capire seriamente come liberarcene. Senza l’abolizione della pratica delle guerre questo pianeta non ha futuro.
E i “buoni propositi” professati dai sostenitori delle guerre “giuste”, “necessarie” “umanitarie”?
Le guerre, quelle degli Stati, come dei gruppi terroristi, si combattono con le armi, tra cui le mine anti uomo, prodotte anche da imprese italiane. L’80-90 per cento delle armi in circolazione sono prodotte e vendute dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli stessi (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) che dovrebbero vigilare sulla pace e la sicurezza del mondo. Gli armaioli sono i pacificatori! Ciò spiega molto dei buoni propositi e del per- ché l’abolizione della guerra non ha trovato mai spazio di discussione all’Onu. Ma questo non deve far venir meno l’impegno di quanti, e siamo in tanti, credono che la guerra sia peggiore di tutti i mali che pretende di risolvere. L’alternativa è la rassegnazione, la resa, la complicità persino.
Ci sono oggi capi di Stato o di governo, soprattutto quelli che hanno maggiori responsabilità, i cosiddetti “Grandi della Terra”, all’altezza di questa sfida?
Non è questione di quale sia il livello dei leader. Mettiamoci dalla parte dei cittadini del pianeta. I capi di Stato o di governo vanno e vengono, sono le popolazioni che restano. Non possiamo pensare che a risolvere i problemi siano le stesse persone, i governi, i leader, che le guerre l’hanno volute. La prima cosa è capire, studiare, dibattere, creare movimento, su come espellere la violenza dalla storia dell’umanità. È una cosa difficile? Non lo so. Molte volte abbiamo sbagliato le previsioni, e quello che sembrava impossibile si è invece realizzato e viceversa. Certamente, se non si pone il problema non se ne uscirà mai. La guerra non significa altro che l’uccisione di civili, morte e distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. Esserne consapevoli ci dà la spinta, l’energia, le motivazioni, gli argomenti per provare a realizzare questa “utopia”. Perché la guerra non si può “umanizzare”, si può solo abolire. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolirla è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Se saremo in tanti a pensarlo questa “utopia” può essere realizzata.
Oggi c’è lo Stato islamico, è “giusta” e “necessaria” la guerra contro i terroristi?
La Storia si ripete, cambiano soltanto i nomi, non la logica che sottende al richiamo alla guerra “giusta” o “necessaria”. E tutti quelli che provano a eccepire sono dei pavidi, irresponsabili, se non fiancheggiatori dei mostri. Così è stato quindici anni fa, in Afghanistan, quando il “mostro” da combattere erano i talebani. Più di trenta Paesi hanno combattuto questa guerra “giusta” e “necessaria”, che ha ridotto a «danni collaterali» le migliaia di civili uccisi o feriti nel conflitto. Ora, però, che i talebani si stanno scontrando con le milizie dello Stato islamico, cosa diciamo? Quale storia raccontiamo alla popolazione afgana vittima di quindici anni di guerra “giusta” e “necessaria”? Scusateci, abbiamo sbagliato, i mostri di ieri sono gli alleati di oggi… La verità è che per essere perpetrata, la guerra ha bisogno di nuovi “mostri” da abbattere. Oggi è il turno dello Stato islamico, domani cambieranno nome e obiettivo. L’importante è proseguire su questa strada, con ogni mezzo e ad ogni prezzo. Tanto a pagarlo sono i più deboli e indifesi. Carne da cannone. Perché una cosa è incontestabile, l’ho verificata di persona, con Emergency, in tutti i teatri di guerra in cui siamo e continueremo a essere impegnati: alla fine a pagare il prezzo della guerra sono i civili. Le guerre sono sempre state dichiarate dai ricchi, dai potenti, e in molti hanno accresciuto il loro potere, ingrossato i loro conti in banca, grazie alle guerre. Sono le popolazioni civili a subirne le conseguenze. A combattere e a morire sono sempre i figli dei poveri. Quanti figli di primi ministri, di capi di Stato, di Ad delle grandi industrie degli armamenti sono andati e morti in guerra? La guerra è anche questo: la cosa più classista che l’uomo abbia prodotto. Anche per questo va debellata.

(Tratta da Left n.48, 12 dicembre 2015)

Gino Strada, foto di Matteo Masolini – Gino Strada #3, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=13499350