Home Blog Pagina 197

Pino Modica, la luce del reale

Pino Modica esordisce nei primi anni Ottanta del Novecento, lavorando con Salvatore Falci e Stefano Fontana all’interno del Gruppo 5, meglio noto come Gruppo di Piombino, dove il 5 sta a indicare i tre artisti iniziali + un ambiente + il pubblico operante in quell’ambiente (successivamente si uniranno Domenico Nardone in qualità di critico militante e Cesare Pietroiusti). La poetica del collettivo s’incentra su una ricerca di carattere sperimentale, vòlta a rilevare e verificare sul campo l’ipotesi utopistica propria delle avanguardie
artistiche, secondo cui la creatività è caratteristica intrinsecamente umana e non una prerogativa di chi si definisce artista, poiché ogni persona (mentalmente) libera modella la propria esistenza e il mondo in cui vive. “Ogni uomo è un artista in quanto inventa e crea la storia della propria vita”, diceva Joseph Beuys, l’artista sciamano con il quale si prepara una nuova era dell’arte dopo il ready-made di Marcel Duchamp.
Sin dall’inizio la ricerca di Modica è interessata ad agire nello spazio sociale e a confrontarsi con il pubblico indifferenziato della strada attraverso l’ideazione di opere camuffate da oggetti d’uso, atte a stimolare l’azione da parte della gente, inconsapevole di partecipare in prima persona alla definizione formale di un’opera d’arte con il proprio libero comportamento. Il Rilevatore estetico è un’opera in tal senso significativa. Nel 1985 l’artista colloca in piazza dei Miracoli a Pisa, per una giornata, uno strumento da lui
espressamente realizzato: un finto misuratore della pendenza della Torre di Pisa al cui interno è nascosta una cinepresa, che riprende l’inquadratura decisa dalle singole persone, come mostra il cortometraggio ricavato da questo esperimento, utile a documentare un comportamento comune, a prima vista privo di importanza, banale e forse ripetitivo, che l’artista intende invece indagare in tutta la sua involontaria bellezza. Il carattere estetico intrinseco alle quotidiane attività dell’uomo è evidente ancora di più nelle Prove di resistenza materiali, esposte nella sezione Aperto 90 alla XLIV Biennale di Venezia (1990), e nei successivi Piani di lavoro, dove Modica ribadisce un’idea di arte come creatività ampia. Si tratta di lastre di plexiglas poste sui piani di lavoro di vari artigiani per periodi di due settimane, successivamente prelevate, incorniciate e illuminate a luce radente, rivelando incredibilmente immagini di rotte astrali e movimenti cosmici.
Modica parte dall’osservazione della realtà in cui è immerso: una realtà che rileva, preleva e mantiene virtualmente in essere attraverso la registrazione delle sue tracce. Come un investigatore che interviene sulla scena del crimine, usa tecniche scientifiche di indagine per la raccolta e l’analisi degli elementi reperiti, come avviene per le impronte lasciate sulla tazzina di Dulcis in fundo, che l’artista poi ingrandisce e stampa a colori e retro-illumina; oppure per il bancone del Bar Giuliani, presentato nella mostra Storie, che si tiene
nel 1991 a Roma alla galleria Alice e Il Campo, rispettivamente, di Domenico Nardone e Marco Rossi Lecce. Tanto che Renato Barilli interpreta il suo lavoro come metafora dell’indagine poliziesca. A parte questa procedura operativa da CSI, due sono a mio parere le cose da sottolineare per aggiornare l’interpretazione critica della ricerca di Pino Modica. Uno: le sue opere-dispositivo sembrano dei ready-made, invece sono ideate e costruite dall’artista e acquistano significato e valore solo quando si caricano dello spazio della vita, quando si saturano di esperienza. Insomma, sono opere che si pongono decisamente al di là dell’oggetto defunzionalizzato e assurto a opera d’arte di Marcel Duchamp. Due: attraverso l’inserimento della luce la rilevazione sul campo si trasforma in rivelazione.
Nelle opere di Modica la luce sembra in qualche modo funzionare come “immagine di attivazione della mente”, non solo perché rende evidente il reale, altrimenti invisibile, delle quotidiane attività degli uomini, ma anche perché ridona loro l’“aura”, ossia ne mostra l’inconsapevole o irrazionale bellezza. Non a caso, l’artista ha intitolato La luce del reale la sua mostra presso la Pinacoteca Civica di Follonica (fino al 17 settembre 2023). Il titolo contiene un programma di poetica, che propone un’arte non ripiegata su sé stessa ma estroflessa all’esterno. Un’arte eteronoma, per definirla con le parole di Luciano Anceschi. La luce, infatti, è la primissima realtà assolutamente esterna ed estranea, con cui
entriamo in contatto quando nasciamo. Di un bambino che nasce, si dice che “viene alla luce”. Ecco, allora, la bellezza nascosta nelle opere di Pino Modica, che parlano della realtà più misteriosa dell’uomo.

 

In foto: Un’opera di Modica fotografata da Di Fremo82 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56853063

 

La misdirection è il segreto centrale

Come spiega bene Wikipedia nell’illusionismo la misdirection (lett. “depistaggio”) è una forma di inganno in cui l’esecutore attira l’attenzione del pubblico su una cosa per distrarla da un’altra. Gestire l’attenzione del pubblico è il requisito principale di tutti gli spettacoli di magia. La misdirection è il segreto centrale.

La misdirection di questi giorni attira l’attenzione di un generale dalle idee aberranti mal scritte in un risibile libro. Nel frattempo senza soccorsi e senza accoglienza gli arrivi dal Mediterraneo hanno portato sulle coste italiane oltre 100mila migranti in un sistema al collasso. Come ha notato Pagella Politica la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha scritto soli 2 tweet sul tema, mentre in tutto il 2019 ne aveva scritti più di 200, quando il numero degli sbarchi è stato il più basso degli ultimi 10 anni. Matteo Salvini nel 2023 ha fatto solo 6 tweet sul tema degli sbarchi, mentre nel 2020 parole come “clandestini” e “immigrati” sono comparse in oltre 800 tweet.

Nel frattempo la stampa italiana ha dato il peggio di sé raccontando in modo sensazionalistico (e pericoloso per le vittima) uno stupro di gruppo, come se fosse un romanzetto erotico. Migliaia di italiani cercano online il video dello stupro per masturbarsi illudendosi di non incorrere in reato. Salvini definisce l’omosessualità “un dibattito superato”. Nelle città i poveri si mettono in fila per ritirare la Carta Acquisti Spesa, in una processione sconcia. Su Rosa e Marmolada si registrano record di caldo e ghiacciai in ritirata. La benzina raggiunge prezzi da economia di guerra.

La misdirection è il segreto centrale.

Buon mercoledì.

Lungo il Danubio, un passo dopo l’altro verso una nuova Europa

foto di Vince Cammarata e Gloria Toma

Negli ultimi anni i cammini lungo le vie storiche sono diventati pratica diffusa, potenzialmente in grado di proporre un viaggio diverso dal turismo di massa che tormenta tanti dei nostri territori. Ma anche il viaggio a piedi può essere declinato in molti modi.
Può capitare di costeggiare il Danubio, risalendo dalla foce, e ritrovarsi a Ghindărești, piccolo villaggio di un migliaio di abitanti nella regione storica della Dobrugia in Romania.
Qui incontrare gli abitanti, un’antica comunità russa, i Lipoveni, stabilitasi nella regione nel XVII secolo dopo aver abbandonato per motivi religiosi la Russia di Pietro il Grande, e con loro parlare italiano o spagnolo imparati lavorando all’estero in cerca di fortuna. E sempre in quel piccolo angolo di Danubio, tra pescatori e camionisti, essere ospitati inaspettatamente in una splendente palestra appena rinnovata, forse con fondi europei, accolti da una cena cucinata dalle donne del paese e accompagnata da canti tradizionali russi. Oppure, camminando in Montana, una delle regioni più povere di Bulgaria e d’Europa, ci si può ritrovare a bere, mangiare e scattare foto a casa di una famiglia che ha vissuto e lavorato nel foggiano, nel giorno in cui stanno per rientrare in Germania, ancora innamorati di una Italia “che era meglio prima”, anche se si possono solo immaginare le condizioni lavorative della loro esperienza di migranti.

Passati e presenti di FuoriVia
Sono solo alcuni intrecci che il gruppo di viaggiatori e attivisti dell’associazione FuoriVia ha incontrato col progetto DanubeS. Many peoples, one thread cominciato nell’agosto del 2022 e che si concluderà nel 2026 a Vienna. Fondata nel 2016 per promuovere la pratica del camminare e del viaggio lento in tutte le sue forme, FuoriVia è una associazione culturale nata sulla scia di un progetto didattico che il professor Virginio Bettini (tra i fondatori della scuola di urbanistica e pianificazione all’Università Iuav di Venezia) proponeva fin dalla fine degli anni 90 attraverso walkshops, seminari di ecologia del paesaggio. Camminando lungo le direttrici della storia come il Cammino di Santiago e la via Francigena, gli studenti apprendevano sul campo la pratica – profondamente umana – del camminare come “strumento di lavoro e di ricerca” per la comprensione dello spazio, delle persone che lo abitano e dei grandi processi avvenuti nel tempo sul territorio.

Camminare e comprendere, dunque conoscere, sono azioni distinte ma di uguale velocità: così come a piedi percepiamo in modo differente il paesaggio, anche la conoscenza, in un contesto di “lentezza”, diviene più profonda e specifica del luogo che si attraversa.
In continuità con questi seminari, nel 2019 l’associazione ha concluso un cammino di cinque anni lungo la Via Egnatia, via romana che collegava Durazzo a Istanbul, scivolata nell’oblio con la dominazione Ottomana. Gli esiti positivi di questa esperienza hanno accresciuto il portato culturale di FuoriVia, affrancata dai vincoli universitari, arricchendo la comunità di esperti, curiosi e viaggiatori. L’associazione osserva lo spazio attraverso nuove “lenti”, per una lettura del territorio che dialoga con la storia, con le dinamiche evolutive del presente e le prospettive future; alle geografie materiali affianca la cultura, le storie delle comunità, i valori e significati del territorio, il paesaggio come moto di persone e cose in connessione tra loro. FuoriVia ha consolidato nel tempo una prassi di rapporto e dialogo con comunità locali, amministrazioni e attori impegnati nel pubblico o nel privato, per definire l’itinerario da percorrere, i luoghi da conoscere, i temi da approfondire, gli spazi di incontro e convivenza. Ed è proprio attraverso questa attività che negli anni l’esperienza del cammino è andata arricchendosi, tra certezze e imprevisti. Anche sbagliare una strada alla ricerca di un guado o conversare con le persone tardando l’orario di arrivo sono ingredienti fondamentali dell’esperienza di FuoriVia.

DanubeS. Many peoples, one thread
In questa ricerca che va avanti ormai da anni, con continue evoluzioni e trasformazioni, l’associazione ha individuato un nuovo orizzonte nel contesto geografico, politico e sociale danubiano. Pensato per svilupparsi in 5 anni, dalla Romania all’Austria, passando per 7 Stati, il progetto DanubeS. Many peoples, one thread ha portato e porterà ogni anno 40
camminatori, per circa 500km in due settimane, nei paesaggi attraversati dal Danubio, per immergersi nelle pluralità di un fiume che ha segnato ed è stato segnato dalla storia europea (ma anche luogo di incontro tra oriente e occidente). In questi due anni FuoriVia ha camminato in Romania e Bulgaria, esplorando la convivenza tra le genti di quei territori “ai confini dell’impero” in cui il Danubio è ponte, barriera, confine, tracciato storico, via di comunicazione e commercio, limes e limen. Partendo dal porto di Sulina, in Romania, in passato cuore mercantile tra Danubio e Mar Nero, il gruppo ha percorso il fiume al confine con l’Ucraina, per poi andare a sud e attraversare la pianura della Dobrugia fino al confine con la Bulgaria. Attraversato il confine a bordo di un ferry boat, il primo anno si è concluso a Ruse, detta piccola Vienna per le sue architetture ottocentesche, crocevia di comunicazioni e patria del Risorgimento Bulgaro. Il viaggio del 2023, come d’abitudine, è ripartito da dove si era rimasti, a Ruse, per addentrarsi in una Bulgaria diversa e per certi versi difficile, poco abitata se non per alcuni centri di maggiore importanza come Shistov, Lom o Vidin, città – quest’ultima – collegata alla Romania da un ponte che il gruppo ha attraversato per proseguire il proprio viaggio fino a Orsova, nelle Porte di Ferro, snodo tra Balcani e Carpazi e, con tutta probabilità, partenza per il prossimo capitolo del viaggio.

DanubeS 2024, in Serbia, verso il cuore dell’Europa.
Il viaggio a piedi ha talvolta lasciato spazio al treno, o più spesso alla navigazione, su barche di pescatori o imbarcazioni più grandi, ma sempre lentamente, in cerca di dialogo e confronto, osservando i cambiamenti dei paesaggi umani. Cosa ti porti a casa? DanubeS, palinsesto di storie e significati. In Romania e Bulgaria il fiume talvolta divide, altre unisce, intrecciando storie di donne e uomini e intere comunità. I molti incontri hanno permesso varie letture di questi territori, molto meno marginali di quanto si possa pensare. C’è la presenza della storia; quella più remota dei Romani che osservavano dalle alture della riva sud i movimenti di genti nelle grandi pianure del nord, nella memoria di quell’unico ponte che Traiano fece costruire a Drobeta-Turnu Severin Drobeta Severin Turin. O la storia più recente dell’indipendenza bulgara dal dominio ottomano, di cui ogni città a partire da Ruse fa motivo di vanto, salvo poi mantenere una continuità con il passato turco nella tradizione culinaria. Il passato sovietico è più difficile e tormentato, pur se ben visibile nei grandi complessi residenziali delle città. In Romania spesso nascosto nelle conversazioni, in Bulgaria ancora vive nelle riflessioni quotidiane: è capitato di ascoltare, in coda al panificio, una signora raccontare come si è passati dal lavoro senza libertà alla libertà senza lavoro, scuotendo la testa di fronte a tutti quei negozi privati…Anche il presente è prorompente: le file di camion in attesa alla dogana di Isaccea, tra Romania e Ucraina, accanto alle postazioni delle associazioni di volontari che nei mesi precedenti avevano accolto tanti rifugiati; gli effetti del cambiamento climatico nel livello insolitamente basso del fiume che cambia gli equilibri produttivi e agricoli dei territori. Camminando si trova modo anche di riflettere sulle politiche europee, alternando paesaggi naturalistici, territori e città segnate da cantieri pubblici con la bandiera europea e da numerosi siti di produzione energetica, e centrali nucleari, che al fiume si appoggiano per il loro funzionamento, eredità del passato sovietico e ora in cerca di ricollocazione nelle politiche energetiche dell’Unione.

Quanto accennato racconta solo un piccolo frammento del ruolo del Danubio per questi territori. Lambire le rive di questo fiume, a piedi, prendendosi il proprio tempo, è occasione autentica per comprendere il portato di segni fisici, valori identitari, storie, drammi e sogni che sono oggi ancora custoditi nella contaminazione culturale dei territori.
«Camminare significa aprirsi al mondo», insegna l’antropologo e sociologo David Le Breton (in libri come La vita a piedi edito da Raffaello Cortina) e con questo spirito il progetto di FuoriVia affronta quel grande insieme di storie di genti e popoli, talvolta in conflitto, talvolta in convivenza, addentrandosi sempre più nel cuore di una Europa ancora da comprendere e raccontare.

Per maggiori info: www.fuorivia.org

Crosetto “vede fascisti dappertutto”

Il ministro della Difesa Guido Crosetto – quando era un arrembante dirigente di partito che si occupava di Difesa e prometteva di non diventare ministro per evitare il conflitto di interessi che poi è magicamente svanito – si distingueva per la sua ironia su chi vedeva “fascisti dappertutto” lamentando una drammatizzazione della ferocia sparsa in giro da parte dei “comunisti”. Per Crosetto ovviamente sono comunisti tutti quelli che non hanno in casa un busto di Mussolini.

Qualche giorno fa senza pensarci troppo ha detto quello che pensano in molti sul vomitevole libro (omofobo e razzista) del generale Roberto Vannacci: “farneticazioni” che “screditano l’Esercito, la Difesa e la Costituzione”, disse Crosetto, prima di fare partire un’azione disciplinare. Il problema è che i suoi elettori e i suoi alleati sono fatti della stessa pasta del generale Vannacci e quindi hanno cominciato ad azzannare il ministro, manca poco che gli diano del “comunista”. Crosetto è stato attaccato dal suo collega di partito Galeazzo Bignami (quello che con molta meno fatica ha indossato una divisa nazista senza sprecare tempo a scrivere libri), il responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli e ieri anche dal suo collega ministro Matteo Salvini, che per erodere voti a Giorgia Meloni è disposto a tutto.

Dicono che Crosetto si sia ritirato in un religioso silenzio ripetendo “io non sono come loro”. Può anche essere vero. Il problema è che li ha ammaestrati anche lui quegli alleati e quegli elettori. Il domatore mangiato dalle belve è un classico nella storia.

Buon martedì.

Nella foto: il ministro Crosetto in visita al contingente militare italiano, Riga, 10 luglio 2023 (governo.it)

Sánchez, passo avanti per il governo dopo la vittoria della socialista Armengol al Congresso

Francina Armengol, socialista, donna di partito, una femminista, una donna dalle convinzioni ferme e forti, un’idealista, come la descrivono i suoi compagni e le sue compagne, è stata eletta presidente del Congresso dei Deputati spagnolo per la XV legislatura, è la terza autorità dello Stato. Ex presidente delle Isole Baleari, l’arcipelago autonomo di fronte alla regione catalana, è riuscita a superare la maggioranza assoluta della Camera bassa con 178 voti direttamente al primo scrutinio. Un colpo di scena fortemente voluto dal Psoe di Pedro Sánchez e da Sumar di Yolanda Díaz, ma reso possibile solo grazie al voto delle forze nazionaliste o dichiaratamente indipendentiste, dai catalani ai baschi, passando per l’unico deputato galiziano.

Il quotidiano El País ha titolato: “Un inizio migliore del previsto”, “La maggioranza progressista mostra la sua forza all’inizio della legislatura”. Per la destra è stata una vera sconfitta. La candidata del Partito popolare, Cuca Gamarra, ha ottenuto solo 139 voti e non ha ricevuto l’appoggio di Vox. I 33 deputati del partito di Santiago Abascal hanno votato per un proprio candidato dopo che il Pp ha confermato che Vox non avrebbe avuto rappresentanza nell’Ufficio di presidenza.
Il Partito popolare è rimasto solo, pur essendo il partito più votato nelle elezioni non è stato in grado di di raggiungere gli accordi di cui si vantava. Il voto per la presidenza del Congresso non esprime certo la vittoria elettorale rivendicata da Alberto Feijóo, segretario del Pp, ma uno scenario dove l’unica maggioranza possibile è quella della coalizione progressista in accordo con i nazionalisti e i sostenitori dell’indipendenza. O questa maggioranza si consolida per l’investitura di Sánchez o si andrà a nuove elezioni.

Francina Armengol è l’espressione di questi accordi. Ha sempre difeso l’idea che un maggiore federalismo dovrebbe essere la via per risolvere i conflitti territoriali della Spagna, e proprio questa posizione l’ha portata a esprimersi pubblicamente contro l’applicazione dell’articolo 155 in Catalogna. Se c’è una cosa a cui Armengol è abituata, è stringere patti. Non ha mai potuto governare da sola, ma ha dovuto farlo con forze diverse come Podemos, un partito che nelle Baleari è sempre stato improntato a dinamiche stataliste, e i sovranisti di Més per Mallorca, che hanno costantemente chiesto un maggiore impegno nei confronti della lingua catalana e del territorio, e le hanno talvolta rimproverato la mancanza di forza su temi come la tutela dell’ambiente e il problema del sovraffollamento turistico.

La presidente Francina Armengol delinea una nuova legislatura improntata a rendere la Spagna più consapevole della sua pluralità di pensiero e identità. «Si tratta di aggiungere. Si tratta di praticare il dialogo. De hablar, falar, hitz egin, de parlar. E farlo per andare avanti. Perché la Spagna avanza sempre quando riconosce la sua pluralità e diversità. Perché la ricchezza di questo Paese sta nella sua pluralità. Perché la coesistenza di lingue e tradizioni diverse ci rende migliori. Questa è la vera Spagna, ed è migliore» ha dichiarato nel suo discorso di insediamento. Difendere la Spagna significa proteggere la sua diversità culturale, ha detto “parlare” non solo in castigliano, ma in galiziano, in basco e in catalano perché sono lingue spagnole tanto quanto il castigliano e da subito potranno essere usate nei dibattiti parlamentari. Un discorso impeccabile dalla pluralità più assoluta.
Certo l’investitura di Sánchez è ancora lontana e mantenere la Moncloa sarà complicato, ma non sembrano esserci altre opzioni. Feijóo non può governare, può contare solo su una seconda possibilità sotto forma di nuove elezioni. Si tratterebbe però di una scelta politica disperata che provocherebbe una ulteriore spaccatura del Paese, significherebbe che Sánchez è subalterno a chi vuole generare aspre tensioni sociali, con tutta la destra spagnola appiattita sulla linea di Vox, costretta a praticare una politica della paura e del ricatto.

Intanto gli indipendentisti iniziano a delineare le loro richieste in vista di una trattativa per votare Pedro Sánchez come presidente del governo.
“L’elezione di Francina Armengol a presidente del Congresso non garantisce in alcun modo l’investitura di Pedro Sánchez a presidente del governo spagnolo”. È questa l’idea più ripetuta nelle ultime ore dai leader catalani pro-indipendenza. Sia dalle parti di Junts che da quelle di Esquerra.
Erc pone la legge di amnistia, per le persone coinvolte nel caso del referendum sull’autodeterminazione dell’1 ottobre 2017, come “linea rossa” per l’investitura e Puigdemont, in fuga dalla giustizia in Belgio, si è espresso via Twitter. Ha assicurato che nessuno può dare per scontati i voti di Junts, perché sarebbe un errore pensare che il partito “sia tornato all’ovile”.

Se le cose si bloccano lì, il rischio di ripetere le elezioni è molto alto. Ma la possibilità di cercare il modo di trovare una possibile soluzione sembra esserci.
A destra Feijóo insiste a candidarsi per l’investitura, se riceverà l’incarico dal Re, ripete che le sue opzioni sono “intatte” nonostante i 178 voti che la sinistra ha ottenuto per Armengol, mentre Vox fa marcia indietro e offre la sua “mano tesa” al leader popolare. Ma alcuni dirigenti critici nei confronti della strategia e del discorso di Feijóo dicono “Stiamo vivendo una finzione”, secondo questa corrente interna non ha senso continuare a difendere la possibilità di ottenere un’investitura di successo perché i numeri non ci sono.
Dalla Zarzuela, la residenza privata del re di Spagna, arriva la notizia che la regina Letizia e la infanta Sofía andranno in Australia al Sydney football stadium per tifare la squadra spagnola di calcio femminile classificata nella finale del mondiale contro l’Inghilterra, mentre re Felipe VI resta nel Palazzo e prepara il giro di consultazioni per decidere a chi dare l’investitura (iniziate oggi ndr).

Nella foto Francina Armengol (Wikipedia) e Pedro Sánchez (Arne Müseler)

Chiara Volpato: Indagine sulle radici del sessismo

Chiara Volpato perché questa nuova edizione di Psicosociologia del maschilismo (Laterza), dopo la prima pubblicazione nel 2013?
Avevo finito di scrivere il libro nel 2012, esattamente dieci anni fa; nel frattempo è uscita nuova letteratura scientifica sull’argomento. In più, mi sembrava importante che il libro avesse una nuova vita perché in questo momento c’è una riflessione vivace su questi temi, che sta cambiando le cose. Ho aggiunto un capitolo intero sulle forme estreme del dominio. Nell’edizione precedente si parlava di oggettivazione e di violenza, ma la letteratura è cresciuta, la riflessione ugualmente, quindi ho pensato di dedicare più spazio a questi temi.

Lei apre il libro con un capitolo sulla “questione maschile” ricordando che gli studi sugli uomini inizialmente erano pochi rispetto alle ricerche sulle donne. La cito: «Essendo considerato prototipo dell’umano il genere maschile, allora le ricerche sono state più sui gruppi discriminati ma non sui maschi».
C’è stato un cambiamento a partire dagli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, che ha portato a riflessioni di cui si sono occupati studiosi uomini e donne.

Questo pensiero del maschile come “prototipo dell’umano” con cui tutte le altre categorie si devono confrontare, è una specificità della cultura occidentale?
Non sono un’antropologa, ma so che ci sono state delle culture nelle quali non c’era questa caratterizzazione. Però sono veramente minoritarie. Penso che, nella grandissima maggioranza delle culture umane, la definizione del maschile come prototipo dell’umano esista e sia potente.

Ci sono delle ipotesi sul perché?
Dagli studi emerge l’ipotesi che nella Preistoria, nelle culture di cacciatori e raccoglitori, non ci fosse subalternità femminile. Pare che i ruoli fossero distribuiti non tanto per genere quanto per età. Si ipotizza che i giovani partecipassero in maniera più o meno paritaria a procacciare il cibo, mentre le generazioni più anziane si dedicavano al lavoro di cura. La differenziazione che penalizza il femminile inizia probabilmente con lo sviluppo dell’agricoltura, quindi con il Neolitico. Lì viene introdotta la proprietà privata, vengono create le classi sociali, appaiono i ricchi e i poveri. E si crea anche la differenziazione tra maschile e femminile. La forza fisica maschile probabilmente ha fatto sì che gli uomini si occupassero della gestione militare e politica e le donne venissero relegate al lavoro di cura.

Lei descrive magnificamente l’iter del concetto di “vero uomo” nella cultura occidentale.
Ritengo che i ruoli sociali e quindi anche i ruoli di genere siano delle costruzioni storiche, cambino quindi a seconda delle epoche. Dall’Ottocento in poi, assistiamo a vari mutamenti, a momenti di ripensamento, di “crisi del maschile”, ma secondo un andamento non lineare. Nel corso del Novecento – soprattutto in concomitanza con le Guerre mondiali – si sono verificati anche dei momenti di recupero della visione maschile tradizionale. Poi, i movimenti degli anni Sessanta, soprattutto quello femminista, hanno cominciato a creare delle incrinature. Penso che ci troviamo tuttora all’interno di questa prospettiva, anche se, negli ultimi anni, assistiamo a preoccupanti recuperi del modello maschile tradizionale. Ci sono movimenti di contrattacco e ritorsione nei confronti della nuova autonomia femminile e figure politiche che li hanno incarnati, come Donald Trump negli Stati Uniti e Bolsonaro in Brasile.

Prima di Donald Trump c’era Barak Obama, che per certi versi proponeva un’altra immagine di uomo, sempre legato al potere ma con un atteggiamento più empatico, almeno a livello personale. Personaggi come Trump sono la reazione a quest’altro tipo di mascolinità?
Penso che Trump incarni una reazione sia ai nuovi modelli del maschile, sia a tutta una serie di cambiamenti sociali in atto. Interpreta una parte della società che, a mio avviso, guarda indietro invece che avanti.

Apprendiamo dal suo libro che in psicologia sociale si adopera costantemente il concetto dei Big Two, due caratteristiche che notiamo subito negli altri, distinguendo cioè tra il fattore della communality, attribuito alle donne, e la agency che sarebbe un po’ il compito e il nucleo dell’identità maschile.
Questa però non rispecchia la realtà oggettiva delle cose. È l’interpretazione stereotipica: il nucleo di credenze stereotipiche fa sì che alla donna vengano attribuiti i tratti collegati con la capacità di entrare in empatia con gli altri, di relazione, di calore. E all’uomo, invece, i tratti legati all’agency, al muoversi nel mondo, alla forza, alla conquista, al potere. Le cose oggi stanno cambiando, perché l’immagine femminile non è più quella tradizionale. È un’immagine più variegata, più complessa, caratterizzata anche da una serie di ambivalenze. Questa nuova immagine femminile suscita i contrattacchi e le ritorsioni della “mascolinità risentita”.

Nel libro ci sono pagine molto efficaci sulla difficoltà degli uomini di corrispondere allo stereotipo del “vero uomo”. La loro socializzazione in questa direzione appare quasi più difficile della socializzazione femminile e passa, così lei scrive, attraverso i legami tra uomini, il male bonding.
Questi legami profondi tra uomini sono molto importanti nella socializzazione maschile. Credo che contribuiscano anche a un certo maschilismo, perché l’uomo deve diventare tale di fronte agli altri uomini. Non può perdere la faccia, non può comportarsi “da femminuccia”. Pensiamo, per esempio, a tutto il discorso militare, come è stato e come è tuttora, perché le guerre esistono ancora ed esiste tuttora una certa mentalità militare da macho. Il “vero uomo” non deve avere tratti femminili e deve reprimere tutto ciò che può far interpretare il suo comportamento come incline all’omosessualità. La costruzione dello stereotipo tiene sempre presente l’allontanamento da questi due aspetti: dal femminile e da tutto ciò che non è eterosessuale.

Allora, una donna è tale perché viene considerata “femminile”, desiderabile e valida dagli uomini. Mentre gli uomini non devono essere confermati nella loro identità dalle donne, ma dagli altri uomini?
Certo, nella visione tradizionale sono gli uomini a decidere cosa è valido sia per se stessi sia per le donne. Si tratta di una costruzione per opposizione, per divaricazione tra i tratti tipici femminili e i tratti tipici maschili.

Lei riporta una serie di studi secondo cui la supremazia maschile non è indolore nemmeno per i diretti interessati.
La supremazia maschile comporta un prezzo molto alto che per tanto tempo è stato sottovalutato. Se si costruisce il militare come paradigma del “vero uomo”, non si può lasciare spazio all’emotività, alla tenerezza, alla confidenza. Le amicizie maschili sono soprattutto amicizie del fare, mentre quelle femminili sono amicizie basate sulla confidenza, caratterizzate dal disvelamento. Gli uomini pagano il non potersi aprire all’altro in termini di salute psicologica e fisica. Vi sono molte malattie, o difficoltà a far fronte alla malattia, che colpiscono più gli uomini che le donne. Su questi piani gli uomini hanno meno risorse. La costruzione di un’identità forte, tutta d’un pezzo, corrazzata li rende più deboli di fronte ad alcune difficoltà esistenziali.

Descrivendo invece gli stereotipi di genere relativi alle donne, lei annota che non esiste soltanto il noto stereotipo del disprezzo, basato su una presunta inferiorità femminile, ma anche altri stereotipi.
Esiste una specie di tassonomia degli stereotipi che ne prevede quattro tipi tra cui quelli di ammirazione e di disprezzo. Il disprezzo nei confronti delle donne era molto presente nell’antichità, ma lo troviamo anche oggi. Lo stereotipo di ammirazione nei loro confronti è invece molto raro, perché di solito il pregiudizio di ammirazione si prova nei confronti dei gruppi sociali favoriti, e le donne, per definizione, non lo sono. Però, verso le donne si trova il cosiddetto women wonderful effect, che le definisce meravigliose. Si tratta di una maniera di lodare il loro essere stupende nelle relazioni e nella cura – con l’obiettivo però di mantenerle al posto loro assegnato. Quindi, anche questo non può essere interpretato come uno stereotipo di ammirazione.

Un filo rosso che attraversa tutti i suoi libri è l’indagine sui motivi che fanno sì che le categorie oppresse siano d’accordo con la loro discriminazione. Che si considerino, in qualche modo, giustamente non considerate alla pari.
C’è spesso un’accettazione del ruolo subalterno perché può essere comodo. È difficile essere sempre all’erta, in uno stato di ribellione. Allora si accetta il sessismo benevolo, quell’atteggiamento che dice “sei una persona meravigliosa, che però ha bisogno della protezione maschile”. C’è l’accettazione della complementarietà dei ruoli, sia nelle relazioni private che nel lavoro in cui spesso le donne accettano di stare un passo indietro. Anche per motivi oggettivi, perché hanno bisogno di spazio per l’affettività, il lavoro di cura, la maternità. A volte c’è lucidità nell’attuare questa collusione; a volte invece le donne la attuano in modo inconsapevole, magari prendendone coscienza solo anni dopo. L’ho visto succedere ad alcune studentesse. Gli anni dell’università sono anni importanti per le scelte che richiedono, che sono spesso scelte di vita sul piano affettivo e su quello del lavoro. Spesso però non c’è molta consapevolezza o lucidità nel fare tali scelte.

Lei menziona anche limitazioni imposte dall’esterno, invisibili ma efficaci.
Ci sono degli indici oggettivi che ci dicono, sulla base dei numeri, che in effetti esiste il “soffitto di vetro” e il fenomeno della “conduttura che perde”. Le ragazze spesso sono le più brave all’università, ma poi incontrano difficoltà specifiche e rischiano di perdersi per strada. Qualche anno dopo la laurea, i posti migliori o più remunerati vanno ai loro compagni. Il mondo del lavoro è tuttora un mondo difficile per le donne.

Mi ha colpito quando lei parla della paura del successo da parte delle donne, di questa sensazione per cui si pensa “non devo emergere troppo, non sta bene”.
Ho trovato interessante uno studio secondo cui che le donne che hanno più successo del partner tendono a nasconderlo o a farsi perdonare cercando di essere iperfemminili nella gestione della casa e delle relazioni.

Tuttavia, ci sono stati cambiamenti enormi, come forse mai prima nella storia. Essi riguardano sia le donne che gli uomini?
Le ricerche hanno constatato che lo stereotipo femminile si è molto diversificato negli ultimi trent’anni. Non ha perso i tratti tipici femminili, ma ha acquisito anche tratti maschili, diventando più complesso. Questo è successo molto meno con lo stereotipo maschile. Teniamo però presente che stiamo parlando di stereotipi! Nella realtà, anche il maschile sta cambiando. Un’esperienza personale: ad agosto ho fatto un viaggio nella parte orientale della Turchia. Anche lì ho visto uomini che portano in giro i bambini in carrozzina. Ho notato cioè una certa vicinanza al figlio o alla figlia, che non penso tradizionalmente fosse così esibita e accettata socialmente. E anche lì si vedono molte donne che lavorano, che hanno cambiato il loro ruolo nella società.

Lei sottolinea più volte nel libro che arrivare a un superamento degli stereotipi di genere non favorisce solo le donne, ma è anche nell’interesse maschile.
Sì, perché va a beneficio di entrambi. Se queste visioni e questi ruoli cambiassero, non ne beneficerebbero solo uomini e donne, ma la società tutta, come provato da molte ricerche anche di tipo economico: le società in cui le donne hanno una partecipazione attiva alla vita economica e politica del Paese sono società che stanno meglio delle altre, decisamente meglio delle società in cui la partecipazione femminile è ridotta.

Un anno fa è finita l’era Merkel, in Italia abbiamo la prima presidente del Consiglio: sto parlando delle donne al potere. Anche lei pensa, come molti, che una volta al potere una donna si comporta esattamente come gli uomini?
Penso che sia difficile generalizzare. Alcune donne – l’emblema è Margaret Thatcher – sono andate al potere con delle strategie tipicamente maschili e con una visione tradizionale della società. In altri Paesi invece le donne arrivate al potere hanno cercato di portare una visione un po’ diversa basata sulla loro esperienza storica, che implica una maggior attenzione alla cura, alle relazioni, all’ambiente. Se ci pensiamo, anche l’attenzione all’ambiente ha a che fare con le relazioni di cura. È una cura per ciò che ci sta intorno… Però le donne al potere con questa visione sono poche, le troviamo soprattutto in alcune situazioni particolarmente favorevoli come nei Paesi del Nord Europa, Paesi ricchi e con una popolazione poco numerosa. Penso che le donne, per poter portare un cambiamento in politica, non devono essere sole. Possono innescare un cambiamento quando sono almeno in un piccolo gruppo, che permette di darsi forza e sostegno reciproco.

Storicamente parlando, quindi, piuttosto che la singola Thatcher o Merkel, è più significativo che nei Parlamenti – in alcuni Paesi – sono presenti sempre più donne?
Quando le donne sono un certo numero possono indirizzare la politica del Paese verso certi temi rispetto ad altri. L’attuale però non è un buon momento da questo punto di vista, perché con l’aggressione russa all’Ucraina, si è tornati a una visione più militarista della società.

Se in Russia e in Ucraina ci fossero più donne nel governo, la guerra non sarebbe scoppiata o sarebbe già finita?
Probabilmente sì. La guerra mi dà l’impressione di un ritorno al Medioevo. Ha innescato una contrapposizione militare e maschilista, che speravo non avremmo rivisto.

L’Italia come si colloca rispetto al superamento degli stereotipi di genere?
L’Italia continua a coltivarne molti. Nelle ricerche sul sessismo non si colloca bene, siamo tra gli ultimi tra i Paesi europei sia dal punto di vista degli stereotipi, sia da quello dei posti di lavoro. L’Italia non fa una politica per le donne. Non aiuta né promuove la maternità, non aiuta né promuove il lavoro delle donne. Pensiamo, ad esempio, alla carenza di asili nido.

A concludere il suo libro sono delle pagine veramente belle che non vorrei anticipare perché ognuno deve leggerle da sé. Ripeto solo la domanda che lei si pone lì: “Che cosa si può fare per migliorare la situazione”?
Oltre alla lotta politica, quello che le singole persone possono fare è avere maggiore attenzione. Resto sempre colpita dal fatto che spesso passiamo vicino alle cose senza vederle. Spesso non mettiamo in discussione i rapporti di collusione di cui parlavamo prima, un certo sessismo quotidiano, non particolarmente aggressivo, ma molto radicato, perché non lo vediamo. Secondo me, il primo lavoro da fare è imparare a vedere e a prendere in mano le cose, una volta che le abbiamo viste. Non vuol dire combattere 24 ore al giorno, ma tenere presente che un certo modo di vivere non è scontato e impossibile da affrontare. Lo diventa se lasciamo che sia così. Questo è il primo lavoro: vedere ed essere critici. E poi bisogna fare un lavoro di rivalutazione. A me pare che la cura – il Covid dovrebbe avercelo insegnato – che noi esseri umani possiamo prenderci l’uno dell’altro sia una delle cose più importanti e preziose della vita. Però è sempre stata sottovalutata, proprio perché attribuita al femminile. Non diamo abbastanza importanza né alla cura delle relazioni, né alla cura della persona sofferente, né alla cura dell’ambiente, aspetti molto vicini tra di loro. La cura delle relazioni e dell’ambiente nel quale viviamo è un valore fondamentale, il primo a cui una società dovrebbe porre attenzione. Il fatto che non lo sia costituisce un motivo di allarme: rischiamo di precipitare in una situazione molto pericolosa.

L’autrice: Annelore Homberg è psichiatra e psicoterapeuta, presidente del Network europeo per la psichiatria psicodinamica Netforpp Europa

L’intervista è stata pubblicata su Left, gennaio 2023

Bambini per strada

Sindaci leghisti. Marcello Bano, sindaco di Noventa padovana, a proposito dei migranti, soprattutto minori scaricati sui comuni: «Ma cosa siamo, il front-office? Se tu me li scarichi di fronte al municipio io li carico su un autobus e te li riporto davanti alla prefettura. Si deve arrangiare il governo. Punto. È gravissimo quello che sta succedendo». Michele Poli, sindaco di Gambellara: «Mi è stato detto: ‘alle due di notte ti arriveranno 3 persone. Non si sapeva se uomini donne o bambini. Ce le hanno scaricate come fossero pacchi davanti al municipio».

Gian Paolo Lovato (Lega), sindaco di Montagnana, in provincia di Padova: «Noi siamo favorevoli all’integrazione ma se ci vengono inviati extracomunitari o profughi, e lo Stato non ci aiuta, le nostre casse comunali non possono resistere. Ad esempio, stiamo iniziando con i pasti a domicilio, ma abbiamo dovuto raschiare il fondo del barile, come si suol dire. È evidente che c’è un grosso problema e dal governo non abbiamo risposte». Il segretario regionale della Lega in Veneto: «caricare richiedenti asilo come ‘pacchi postali’ davanti ai Municipi, così come accaduto nei comuni del Vicentino, è un atto ostile che non fa parte della leale collaborazione che si deve instaurare tra prefetture e Comuni».  Il sindaco forzista di Ancona, Daniele Silvetti: «Siamo ai limiti delle nostre possibilità». Vito Bardi, Forza Italia, presidente in Basilicata: «Non possiamo reggere numeri importanti».

Il piano di distribuzione firmato dal ministro Matteo Piantedosi sta facendo infuriare gli amministratori locali, di destra e sinistra. Gli hub e le strutture utilizzate per l’accoglienza sono sature e offrono condizioni al limite della vivibilità. L’integrazione con le cittadinanze locali, nonostante gli sforzi e i buoni propositi, restano difficili. A Giorgia Meloni non rimane che gettare la maschera e chiedere senza retorica da “piano Mattei” alla Tunisia di “fermare le partenze”, il suo unico vero obiettivo. L’Italia è appesa alle voglie dell’ennesimo autocrate. Intanto la Corte di Cassazione ha sancito che la propaganda di questa becera destra è falsa, certificando che non sono “clandestini” quelli a cui si rivolgono Giorgia e Matteo.

Fallimento annunciato. Buon lunedì.

Il maestro Leone Magiera, una vita per la lirica che aiuta i giovani talenti

Leone Magiera è uno di quei fulgidi esempi di musicista che ha saputo coniugare la professionalità alla passione del pianismo. La sua è stata una vita spesa per far brillare alto il belcanto italiano. Non è un caso che ha lavorato a lungo con due voci importantissime come Luciano Pavarotti e Mirella Freni.
Modenese anch’egli, Magiera ha il dono di essere diventato un pianista popolare, di aver fatto apprezzare al mondo non esperto l’importanza del cosiddetto pianista accompagnatore. Dopo il successo del libro di ricordi e aneddoti su Herbert von Karajan, uno dei più grandi direttori d’orchestra della storia della musica, dall’alto dei suoi quasi 90 anni ha prestato la penna alla narrazione di una vita in un volume Cantanti all’opera (Curci Editore) dove non solo svela i segreti di tanti rapporti ma è ancora più attento a far comprendere l’importanza di essere pianista e musicista assieme.

Maestro Magiera quando è iniziata la sua professione di pianista?
Ho iniziato a 18 anni, dopo il diploma a Parma, 10 e lode e menzione speciale anche se le prime esibizioni pubbliche sono state precocissime.
Cosa ricorda del suo periodo di studio?
Sono stati anni intensi, uno studio” matto e disperato”, anche se alternato ad una attività di pianista per la Scuola di Canto di mio zio Gigino Bertazzoni
Mi parla di Carlo Vidusso?
Carlo Vidusso, pianista eccelso, memoria incredibile. Era per noi un mito e la sua presenza al mio esame di diploma in pianoforte mi metteva soggezione. Fui stupito quando si complimentò con me per l’esecuzione di un Improvviso di Schubert. Con Carlo Zecchi, i più grandi pianisti italiani di quegli anni
E di Alberto Mozzati?
Il grande non vedente, eccellente in Listz e Chopin, anch’esso presente al mio esame di diploma, m’invitò per un concerto a Milano e rifiutai per turbe nervose, cioè paura di non essere ancora pronto
Il suo amore per la lirica da dove nasce?
Dal primo concerto in parrocchia a Modena, in coppia con Mirella Freni, lei 12 anni io 13.
Ricorda la sua prima opera a cui ha assistito?
Tosca, al Comunale di Modena con sara Scuderi Tosca, Arrigo Pola tenore e Vincenzo Guicciardi baritono. Il cappello da fata Turchina con cui si presentò in scena il soprano, aveva colpito la mia fantasia infantile e non l’ho mai dimenticato.
Due personalità molto diverse ma contigue: Mirella Freni e Luciano Pavarotti
Più scrupolosa lei, più fantasioso e più “cavallo pazzo”, lui. Ma entrambi forti personalità artistiche a cui ho dato rigore musicale e ricerca della perfezione.
Con Pavarotti oltre ad essere stato il pianista di tanti concerti era soprattutto amico, da dove nasceva questo rapporto?
Da un parere che mi richiese a 18 anni. Gli consigliai di studiare canto seriamente. E da allora ha studiato con me.
Cosa significa per lei insegnare?
Mi piace trasmettere quello che ho imparato, coltivare i talenti con delicatezza e apertura al nuovo. Ma anche io ho imparato dai miei allievi migliori.
Della musica nella scuola italiana cosa pensa?
Tutto il male possibile, con qualche rara eccezione.
Come vive il traguardo degli 89 anni?                                                              Privilegio il lavoro di scrittura ma continuo a studiare, a fare musica, ad insegnare e ad aiutare i giovani artisti ad affinare i talenti.

Nel 2022 è nata l‘Associazione Leone Magiera

Nella foto: Leone Magiera frame della video intervista di Danilo Boaretto, OperaClick

 

 

 

 

Metti una sera a tutto Jazz fra luna, calanchi e poesia

La luna e calanchi foto di Franco Arminio

Firma storica di Left, Filippo La Porta è molto noto come critico letterario e saggista ma forse non tutti sanno che ha anche un’anima musicale. La sua grande passione è il jazz. Lo suona dal vivo ed ora è anche al centro del suo nuovo libro Improvvisazioni – Voci per un dizionario di Jazz e letteratura edito da Saint Louis Doc, «un libello», come lo definisce lui, «un po’ più di un libretto di sala, però anche meno di un vero e proprio saggio». Un lavoro originale e un po’ eccentrico, che suggerisce delle possibili connessioni tra il jazz e la letteratura, attraverso l’analisi di 23 parole scelte con un criterio molto soggettivo, come lui stesso tiene a sottolineare.
La Porta fa un gesto d’amore mettendo insieme per la prima volta le sue due più grandi passioni di sempre, la letteratura e la musica jazz. A partire dagli anni 80, lo scrittore e saggista ha suonato in varie formazioni di musica latina e jazz in locali, festival e rassegne («Il top musicale – racconta – fu accompagnare, al bongo, Jon Faddis al festival jazz di Villa Celimontana nel 2008») e continua a farlo fra un libro e l’altro, fra un ciclo di lezioni all’altro in istituti di cultura e università dove è invitato a tenere corsi come quello che ha svolto alla New York University.
Filippo La Porta, quando nasce il tuo amore per il jazz?
A dieci anni ho ascoltato una canzone di Elvis Presley grazie a mio cugino più grande di me ed ho pensato “ecco la mia musica”. A quindici ho ascoltato Jimi Hendrix dal vivo, in un concerto pomeridiano al Teatro Brancaccio a Roma, e ho pensato “ecco la mia musica”. Sentivo che la vera rivoluzione si diffondeva attraverso questa musica più che nelle assemblee delle scuole occupate. Poi negli anni 70 cominciai ad ascoltare il jazz e pensai “finalmente, ma è questa la mia musica!”. Il jazz più che il rock mi sembrava la musica del nostro tempo, in un senso più profondo.
Poi ti sei dedicato alla pratica musicale, con le percussioni, suonando musica latina, afrocubana?
Fin da piccolo cercavo di far suonare ogni oggetto che mi capitava a tiro, e miei genitori erano così esasperati che mia madre mi regalò dei “bonghetti”. In seguito, comprai le congas e iniziai a suonarle in pubblico, a vent’anni c’erano molte occasioni per suonare canzoni politiche. Ho studiato col percussionista statunitense Karl Potter e, dalla fine degli anni 70, fondando diversi gruppi musicali. In quegli anni lo chiamavamo afro-jazz. E poi ho suonato tantissima salsa.
Hai mantenuto il rapporto con il jazz anche con ascolti e frequentazioni?
È stata come una folgorazione per me. Cominciai a seguirlo anche dal vivo, “da vicino”, frequentando le jam session organizzate da Nicoletta Costantino. Lì ho conosciuto Marcello Rosa, Carlo Loffredo, Renzo Arbore e tanti altri.
Il jazz e la letteratura: qual è al fondo l’elemento comune?
Sia il jazz che la letteratura sono legati da un tratto comune, l’elemento di rischio. Nel jazz ovviamente è con l’improvvisazione che ci si espone al rischio. Nella letteratura è meno ovvio ma come diceva Roberto Bolaño quello dello scrittore è un mestiere pericoloso. Scrivere un romanzo non è un gioco, significa mettere a nudo la propria identità, può essere un atto drammatico, anche se oggi sembra che molti si cimentino in questa attività con superficialità, consumando letteratura alla stregua degli altri prodotti.
Ti sei inventato anche concerti atipici in cui brani musicali sono intervallati da brevi letture, pensieri sparsi, racconti veri e a volte fantastici, nel gruppo con il trombonista e compositore Marcello Rosa. Come è nata la vostra collaborazione?
Risale a più di dieci anni fa, ho trovato in lui un interlocutore particolarmente sensibile. L’abbinamento jazz e letteratura ci ha consentito di esibirci sia in festival letterari che in sale da concerto e jazz club.
Quale è stato il tuo rapporto con l’improvvisazione?
All’inizio non la capivo. Prendevo un disco di jazz e ne ascoltavo rapito il tema principale, apprezzando le diverse interpretazioni di uno stesso brano da parte di grandi musicisti, ma arrivati all’improvvisazione non riuscivo più a seguire. Allora ho cominciato ad ascoltare solo le improvvisazioni, fino alla nausea. La duecentesima volta sono cadute le barriere, ne è valsa la pena.
Perché?
Il jazz ha caratteristiche uniche. È l’utopia in tempo reale, parla dei sentimenti ma in un modo non sentimentale, non è mai sdolcinato; è giocoso senza mai essere goliardico; è una musica metropolitana ma senza la durezza della grande città moderna; è triste ma senza l’aspetto depressivo che può accompagnare la tristezza; è comunitario, in quanto tu senti di partecipare ad un rito con gli altri, ma con la possibilità di startene da solo; il jazz è onirico ma per farti stare di più dentro la realtà; è molto sensuale anche se all’inizio può sembrare un po’ cerebrale.
Dici che il jazz continua ad essere attuale, ma i tempi sono cambiati ed è indubbio che il pubblico si stia assottigliando e invecchiando.
Mio figlio è un rapper, non ascolta il jazz ma ne è incuriosito. Perché non lo pratica? Forse perché richiede un impegno per il quale non è motivato. Per lui non vale la pena. Oggi tutto deve essere immediato, veloce, facile e il jazz non è facile da realizzare.

Non pensi che lo stesso termine “jazz” possa esse re inadeguato ad esprimere le evoluzioni e le trasformazioni che questa musica sta subendo col passare degli anni?

Bella domanda. Se il jazz è contaminazione ma a forza di ibridarsi poi diventa un’altra cosa, qual è il confine? Non c’è una risposta… è un genere un po’ meticcio, si arricchisce delle differenze ed è come se il confine si spostasse sempre un po’ più in là e questo ne fa un oggetto un po’ inafferrabile, ma è anche il suo fascino.
E del mercato del jazz cosa ne pensi?
C’è un problema che riguarda anche la letteratura, da una parte c’è un miglioramento qualitativo, più studenti di jazz nelle scuole di musica e nei conservatori e più bravi musicisti, ma dall’altra c’è più omologazione. Molti romanzi nascono dall’editing delle case editrici, sono creature perfette ma asettiche. Io sono sempre alla ricerca dell’imperfezione, del piccolo errore, di quel piccolo scarto, quasi un dissenso dalla norma.
Racconti che Marcello Rosa ti ha insegnato che il jazz è legato alla dimensione del piacere. A che tipo di “piacere” fai riferimento?
Sono un ammiratore di Adorno tranne quando parla di jazz. Parla di meccanico, dissonanza, disagio, non conciliazione. Ma la rivolta dovrebbe avere in sé anche una visione positiva, un piacere nell’atto di comunicare la ribellione a questo mondo, con un nuovo pensiero, con una nuova improvvisazione, una nuova provocazione. Per questo parlo di esperienza di piacere, proprio perché nel jazz c’è la cattiva mitologia degli artisti maledetti, il luogo comune del genio e sregolatezza, che proprio non condivido.
Applichi questo concetto anche alla letteratura, all’arte in generale?
Anche nel romanzo questo aspetto è importante, tranne rare eccezioni il romanzo è un genere che tende a connettere la società, i vari pubblici e lo scrittore non dovrebbe mai dimenticarlo, anche se sta portando avanti la sua ricerca solitaria. L’arte può essere “sovversiva” proprio perché risveglia il piacere, ci fa ricordare la felicità possibile e ci regala la dimensione del rifiuto verso la società che nega questo benessere. Troppo spesso la cultura dominante è segretamente impregnata di morte, Heidegger chiama “mortali” gli esseri umani, come già accadeva nell’antica Grecia, e Hannah Arendt gli fa l’obiezione: perché non “natali”, visto che gli esseri umani nascono oltre che morire? Ma allora, dico io, se per la Arendt l’agire umano è far nascere qualcosa di nuovo, allora il jazz è un’arte della nascita!

 

L’intervista originale è stata pubblicata su left il 4 aprile 2023

Lungomare nostalgia. Fra affetti e pagine di storia

Il libro ha un titolo che seduce: “Lungomare nostalgia”. Immaginiamo una lunga passeggiata che si stende tra sole e mare, i racconti, le emozioni, la folla di voci e suoni. Si narra una storia semplice – proprio come una passeggiata – delicata ma al contempo intensa, struggente, come può essere la storia di un legame profond tra nonno e nipote, tra Natale, il protagonista e l’autore, voce narrante.

Pubblicato da Spartaco, “Lungomare nostalgia” è il nuovo lavoro di Andrea Malabaila, scrittore di romanzi e novelle, nato a Torino classe 1977, insegnante di scrittura creativa e fondatore della casa editrice Las Vegas, nata nel 2007.

Il racconto si snoda alternandosi tra presente e passato. Un presente doloroso che vede l’amato nonno, ormai più che novantenne, in fin di vita e Andrea che sta per perdere la storia, la sua storia, che voleva scrivere da anni. Comincia così una corsa contro il tempo per recuperare il passato, riannodare i fili di una vita di ricordi, vicende, aneddoti prima che scompaiano.
Una ricerca per ricostruire e conservare la storia di Natale Pennello, avventurosa e singolare agli occhi del nipote; per riappropriarsi della memoria e cercare gli spazi del cuore come il “lungomare” del titolo.
Un luogo familiare e amato sicuramente, chiediamo all’autore.
“Sì Il lungomare è quello di Finale ligure – risponde – dove passavo le estati con il nonno quando ero bambino. Anche se poi va detto che ognuno di noi, in fondo ha il suo lungomare nostalgia. Ci andavo da maggio a settembre, che era anche il momento in cui ci frequentavamo di più. Mio nonno era una persona impegnatissima ed era complicato incontrarci, ma nonostante questo, tra noi c’era un rapporto speciale come quelle amicizie intense che durano negli anni nonostante non ci si veda spesso. Come le amicizie del mare con cui ti ritrovi ogni volta che torni in vacanza, rapporti speciali che colleghi a quel momento. Rapporti in genere più sereni, che si sottraggono alla routine quotidiana che, in fondo, un po’ uccide.
La vita di Natale Pennello attraversa decenni della storia d’Italia: la nascita a Cuneo, nel 1924, la giovinezza e le bravate, l’incontro da adolescenti con Mariuccia sua futura moglie, l’addestramento per la guerra a Venezia, la fuga da disertore. Partito povero da Cuneo, approda a Torino diventa uno dei più grandi tipografi linotipisti alla Stamperia artistica Nazionale dove stampava Einaudi. E poi il boom economico con la macchina, la televisione, il frigorifero e la lavatrice, la vittoria a sorpresa della Lotteria, le vacanze a Finale Ligure. Un alternarsi di avventure, peripezie, storie nelle storie che tu hai riportato dopo un importante lavoro di documentazione.
“Fortunatamente alcuni avvenimenti me li ricordavo bene. Dopo la morte del nonno ho cominciato ad appuntarli subito perché avevo paura di perdere dei pezzi. –racconta – Quando però ho cominciato a scrivere, mi sono reso conto che una cosa era raccontare le storie a voce, una cosa è scriverle perché sono necessari tanti dettagli che diano autenticità alla narrazione. Molte cose sfuggono. Certo, se fosse stato vivo mio nonno, sarebbe bastato un attimo, mi avrebbe risposto immediatamente. E’ probabile che alcune cose potesse non ricordarle, ma comunque sarebbe stato tutto più semplice. Invece molti avvenimenti li ho dovuti ricostruire. Per esempio, nella primo capitolo che si apre con il ricordo di una scena di gelosia con Mariuccia, la canzone di Natalino Otto che lui ascolta e che mi raccontava, “Solo me ne vo per la città”, ce l’aveva in testa? la sentiva alla radio o dai grammofoni? C’era un’orchestrina che suonava? Non ho mai pensato di chiederglielo. E molti dettagli sfuggono anche e soprattutto se non riesci a ricostruire il periodo storico. In parte è stato facile scrivere questa storia, perché era vita familiare vissuta. Non dovevo inventare nulla. Ma paradossalmente è stato ancora più complicato perché era la prima volta che raccontavo un periodo storico che non avevo vissuto direttamente e di cui non sapevo nulla. Non è stato facile documentarmi, soprattutto sotto la pandemia. Molte notizie le ho potute recuperare su internet, ma tutto il resto della documentazione che mi serviva era inaccessibile.
Per esempio, per raccontare la storia del biglietto della lotteria vincente abbinato ai brani di Canzonissima, sentivo che non mi bastavano i racconti di mia madre che all’epoca era un ragazzina. Avevo bisogno di capire come funzionavano il concorso e gli abbinamenti. Su internet c’erano pochissimi dati e allora ho chiamato la Rai per visionare la puntata. Mi risposero che era possibile ma sotto la pandemia non potevo entrare . Mi hanno richiamato e sono stati gentilissimi. Ma nel frattempo erano passati due anni
Il libro è ricco di tenerezza, affetto, delicatezza e intensità che si sciolgono tra flashback, istantanee, ritratti. Allegria e dolore si mescolano senza accavallarsi, in modo piano, senza strappi. Tutto un mondo in cui compaiono all’improvviso, in fuggevoli citazioni, la casa dove viveva Mario Soldati , Cesare Pavese che striglia il nonno per un errore. Addirittura i partigiani Ninì Rosso e Giorgio Bocca in un momento piuttosto drammatico. Tutto punteggiato dai titoli di canzoni, come quella di Natalino Otto, che ricostruiscono abilmente gli anni che passano. Pensavi di perderti i ricordi e invece hai reso la storia di una vita di affetti e di ammirazione tesa e coerente.
Adesso sì. Ma la scrittura del libro è stata molto travagliata. All’inizio vivevo momenti di angoscia non solo per la perdita di mio nonno ma perché avevo paura di perdere tutto ciò che era fondamentale per farlo rivivere e raccontare la sua storia. Ero ossessionato dalla precisione e dal riportare anche nei minimi dettagli la sua vita. Poi, a un certo punto, sono venuto a patti con la storia. Nessuno sarebbe mai andato a verificare se mia nonna, per esempio, quel giorno aveva indossato un vestito di un colore diverso. I dettagli non erano indispensabili. A me interessava avvicinarmi il più possibile alla realtà dei fatti con cura e con passione. La primissima cosa che ho scritto la sera prima del funerale, a caldo, è stata una lettera che poi è nel libro. All’inizio ero bloccato, per noi torinesi esprimere i sentimenti, qualcosa di troppo personale, non è una cosa facile. Anche il nonno non esprimeva apertamente ciò che provava. Non dava molte soddisfazioni. Poi qualcosa si è sbloccato, mi sono detto che potevo farcela. Ho trovato anche una scatola con dentro foto di ogni genere di mio nonno, tutte catalogate, che mi hanno permesso di ricostruire, dopo la sua morte, una arte della sua vita di cui sapevo molto poco. Ed è stato un momento molto bello e profondo.
Una scatola di ricordi, di vissuti tra nostalgia e tenerezza, momenti di “vita imperfetta” come dice Andrea Malabaila, perché l’imperfezione “lascia sempre qualcosa da aggiungere continuamente ad una vita che in fondo perfetta non è perché a momenti di grande felicità si possono alternare momenti dolorosi e di sconforto in cui qualcosa si rompe, come è successo a mio nonno quando la nonna si è ammalata di Alzheimer.”
E allora, alla fine, anche Natale Pennello, il nonno Superman agli occhi di un bambino, divertente inventore di barzellette, lascia il posto a tutta la sua umana fragilità.

 

Foto: Finale Ligure di MovidaPhilosopher – Opera propria