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Il metodo Bandecchi

Cosa abbia fatto da sindaco e quali siano le sue qualità politiche non è dato saperlo. Stefano Bandecchi negli ultimi due mesi è riuscito a sfondare nelle pagine della cronaca nazionale solo per le sue intemperanze. In tempi sciocchi il più violentemente sciocco suscita clamore poiché in lui si identificano gli sciocchi che ne ammirano il coraggio di esserlo in pubblico. Nel sindaco di Terni Bandecchi si identificano invece i violenti. È questo è estremamente più pericoloso

In tre mesi il sindaco di Terni eletto a capo di una coalizione civica ha promesso di “perseguitare” (testualmente) un signore che si era pulito una scarpa in una fontana, ha cercato di mettere le mani addosso (nonché definito “coglione”) a un giornalista e infine ieri ha cercato il contatto fisico (e promesso di “far saltare i denti”) con un consigliere comunale dell’opposizione.

A febbraio Bandecchi, che è anche presidente della Ternana, squadra di calcio cittadina, aveva litigato con un gruppo di (suoi!) tifosi, sputandogli addosso, come si compete a una persona incapace di controllare un confronto senza sfociare nella violenza.

Stefano Bandecchi è solo l’ultimo caso di persona diventata personaggio pubblico per le sue intemperanze. Al pari di musicisti che da anni non fanno dischi o di critici d’arte che spopolano per le loro ingiurie Stefano Bandecchi è un prodotto della spettacolarizzazione della volgarità e della violenza. Ne abbiamo visti tanti, da Calderoli a Borghezio. In politica più di ciò che si fa conta quanto ci si fa notare. Ora è il tempo delle scazzottate che pagano. Sempre a proposito della violenza come matrice.  

Buon martedì.

Non sono in crisi le cose, soffrono le persone

Leggendo i titoli dei giornali in queste ultime settimane sembra che un’epidemia abbia stretto la gola all’Italia: “in sofferenza l’hotspot di Lampedusa”, “in crisi i comuni”, “tende di fortuna”, “Prefetture in affanno”, “porti sotto stress”. È un trucco semplice, piuttosto infame: se a essere in crisi sono le “cose” ci si può permettere di non parlare delle persone.

Suonerebbe estremamente diverso raccontare che uomini donne e bambini (molti minori non accompagnati) soffrono gli spazi volutamente non organizzati dal governo e mancano di servizi e diritti volutamente negati. Sarebbe diverso scrivere che non sono “i comuni” a essere in crisi ma sono sindaci – quindi persone – che si ritrovano a governare qualcosa che gli cade addosso perché lo Stato latita, anche loro senza mezzi e senza soluzioni. Reificare un problema per alleggerirne le responsabilità è una disumanizzazione vigliacca, pensateci.

La “crisi” è voluta. A inizio anno il Tavolo Asilo e Immigrazione ha chiesto all’attuale governo di programmare gli interventi di accoglienza, come previsto dalla normativa. Li hanno ascoltati per la prima volta il 4 agosto. Anche le responsabilità non sono dei “fenomeni” o delle “cose”. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni per settimane ha celebrato “i successi internazionali per fermare l’immigrazione”. Oggi sui giornali membri del governo accusano l’Ue di “essere stati lasciati soli”.

Basta un po’ di coraggio, parliamo delle persone.

Buon lunedì.

Nella foto: frame di un video sull’hotspot di Lampedusa, Skytg24

La nazionale di calcio femminile spagnola è entrata nella storia. Ma a Rubiales non è andata giù

La nazionale di calcio femminile spagnola è entrata nella storia battendo l’Inghilterra nella finale della Coppa del Mondo in Australia lo scorso 20 agosto. È stata una partita immensa e il gol della capitana Olga Carmona ha regalato alla squadra l’eternità che merita. Nonostante anche in Spagna lo sport femminile abbia scarsa visibilità e le atlete abbiano mezzi limitati a disposizione rispetto ai colleghi, hanno dimostrato una grande qualità di gioco e sono state delle vere regine del calcio. Questa vittoria è l’unica notizia di cui bisognerebbe parlare. Il risultato della nazionale femminile va oltre l’aspetto strettamente sportivo: è un assalto al simbolo del calcio, simbolo culturale machista per eccellenza.
Dopo decenni di invisibilità, ostacoli e pregiudizi, il calcio femminile spagnolo raggiunge il suo massimo splendore con questo mondiale. È una rivoluzione, non è qualcosa successa per caso. Ci sono state pioniere che, nel corso degli anni, hanno continuato a giocare a uno sport in cui non erano ben accette, hanno continuato a chiedere rispetto e dignità, condizioni migliori e parità di trattamento con gli uomini. Perché dieci, quindici o venti anni fa quello che è successo era inimmaginabile. L’idea dominante era che solo gli uomini potessero giocare a calcio, era qualcosa in loro esclusivo possesso, le donne che volevano farlo venivano derise e maltrattate. Poi l’instancabile lotta delle donne per la parità di genere ha avuto la meglio, dalla politica ai campi di calcio, he sovvertito i ruoli, almeno in Spagna. Ma come spesso accade arriva un uomo che ruba la scena. Arriva il tuo capo, Luis Rubiales presidente della Reale Federazione Spagnola di Calcio, ti afferra la testa e ti bacia sulla bocca in mondovisione, anche se tu non vuoi. Ecco quanto sa essere sfacciato il patriarcato. E così, durante la cerimonia per la consegna della Coppa del Mondo, quel bacio senza consenso stampato sulla bocca di Jenni Hermoso, maglia rossa numero 11, diventa un’immagine virale di un atto di violenza che riguarda il potere e il dominio e non certo un gesto di amicizia e gratitudine, come poi ha cercato di giustificarsi Rubiales.
Puoi vincere la WORLDCUP2023, giocare una partita vista da 5,6 milioni di persone, ma questo non ti salverà dall’essere aggredita da un uomo. Ma non basta, il tuo allenatore Jeorge Vilda, viene ripreso sempre da quelle telecamere mentre festeggia il gol partita toccando il seno della collaboratrice Montserrat Tomé. Niente di nuovo, ben 15 giocatrici della squadra avevano affermato nell’autunno scorso di non voler più rispondere alle convocazioni in Nazionale poiché, secondo quanto riportato dalla stampa spagnola, il CT sarebbe stato per loro “psicologicamente abusivo” e fautore di un clima pesante in grado di destare momenti di crisi all’interno della squadra. Sempre Vilda, dopo la vittoria mondiale, nelle interviste che rilascia parla delle calciatrici definendole “campioni”, al maschile, perché tanto il maschile generico comprende tutti, ma rende invisibili 23 donne che hanno lavorato duramente per raggiungere quel risultato.
“Siamo donne che fanno bene il loro lavoro, perché il calcio femminile è un lavoro. Questa partita è per tutto il calcio femminile, per tutte le donne che hanno lottato e lavorato per molti anni per essere qui”. A dirlo è la calciatrice spagnola Vero Boquete, una delle principali commentatrici della Coppa del Mondo femminile, oggi centrocampista della Fiorentina. Stadi pieni, record di spettatori, successo mediatico ed enormi investimenti pubblicitari sono solo alcuni degli indicatori del successo dello calcio femminile.
Poi arriva un uomo, un’autorità nella Federazione, un uomo in una posizione di grande potere nei confronti delle giocatrici, che le bacia quando vuole, che ruba le luci della ribalta quando vuole e pretende così di sottolineare la sua superiorità.
L’avanzata femminista che la Spagna ha vissuto negli ultimi anni è stata definitiva in termini di sensibilizzazione della società, e ha messo alle corde l’onnipotente Rubiales. Ha anche messo a nudo una stampa sportiva sessista e quei media che hanno cercato di proteggerlo. Sono i femminismi ad aver insegnato a riconoscere la violenza e i rapporti di potere, decenni di movimenti femministi hanno trasformato la percezione di ciò che è accettabile e ciò che non lo è. A quante donne è successo di imbattersi in un Rubiales? “A tutti i ragazzi che sono stupefatti dalla reazione contro Rubiales: è perché è successo a tutte noi. Con il nostro capo, con il nostro cliente, con il nostro insegnante, con il nostro amico, con uno sconosciuto, con voi…”, ha scritto su Twitter la giornalista Irantzu Varela.
La star del calcio Megan Rapinoe ha parlato di “sessismo e misoginia”. “Quello che è successo ai Mondiali è solo una sintesi di ciò che è accaduto nel calcio femminile negli ultimi anni”, ha dichiarato Gaëlle Thalmann, portiere della nazionale svizzera. “Azioni inaccettabili sono state permesse da un’organizzazione sessista e patriarcale. Il comportamento di chi crede di essere invincibile non deve essere tollerato”, ha aggiunto l’intera squadra inglese in un comunicato. Sara Gama capitana della nazionale italiana: “La mia massima solidarietà a Jenni Hermoso, neocampionessa del mondo. Quello che sta succedendo lascia sconcertati. E molto tristi perché un momento speciale di calcio, l’unica cosa di cui sarebbe stato naturale parlare, è stato rovinato”. Anche il mondo del calcio maschile ha reagito indignato.
La Fifa, massimo organismo internazionale del calcio, ha sospeso il sessista Luis Rubiales per i prossimi 90 giorni da “tutte le attività calcistiche a livello nazionale e internazionale”. L’associazione Feminismos Madrid he indetto una manifestazione a sostegno della nazionale di calcio femminile con l’obiettivo di “rivendicare uno sport libero dalla violenza sessista”. Lo
striscione della manifestazione recita “Contigo Jenni, con las campeonas del mundo” (Con te Jenni, con le campionionesse del mondo), a sostegno della giocatrice baciata da Rubiales.
In foto la calciatrice Jenni Hermoso

Il pensiero di Rosa Luxemburg così prezioso per interpretare il presente

Di Rosa continuiamo a parlare e a scrivere. Sulla sua contemporaneità Left ha prodotto significativi approfondimenti, pubblicando anche un interessante volume in collaborazione con la Fondazione Rosa Luxemburg e dal 4 agosto con un nuovo libro che ne rilegge le lotte insieme a quelle di altre importanti figure di partigiane dei diritti. Ci sarà modo di approfondire ulteriormente, ore vorrei proporvi una breve recensione di un testo da poco stampato Rosa Luxemburg oggi (Prospettiva Edizioni, a cura di Claudio Olivieri). Vi ho scritto insieme ad undici scrittori amanti, come me, di Rosa. Il significato del lavoro è nella controcopertina: «Un libro a più voci, punti di vista (femminili e maschili) a confronto sull’attualità del pensiero di Rosa. Perché fare i conti con l’opera della rivoluzionaria polacco/tedesca e trarre spunti dalla sua vita è di aiuto per interpretare alcune questioni cruciali per il presente e per tornare su nodi storici fondamentali del Novecento. Dagli interventi, differenti per accenti e sensibilità, emerge un filo conduttore: l’urgenza di rinnovare lo schieramento con gli ultimi e l’esigenza di interrogarsi sulle possibilità di liberazione».

Abbiamo, infatti, ancora bisogno di Rosa per affrontare l’attuale tremenda mutazione antropologica, politica, sociale, con la guerra che è diventata, dopo Vilnius, la nuova costituzione euro/occidentale. Il suo pensiero scientifico e la sua prassi politica, la sua etica superiore ci permettono di ricercare ancora, di ridisegnare il conflitto per l’alternativa di sistema. Spesso le sinistre hanno colmato le difficoltà e i vuoti del proprio presente chiamando a testimonianza antichi combattenti per la libertà. Fu Spartaco che, nel 1916,  diede il proprio nome al soggetto rivoluzionario guidato da Rosa Luxemburg. Il loro punto di riferimento era Karl Marx. Vi sono stati dirigenti comunisti, proprio come la Luxemburg, (ma penso anche a Gramsci) che mai hanno sottoposto sé stessi ad alcun apparato. Sono stati uccisi da anticomunisti. Essi sono tuttora punti di riferimento per tutte e tutti coloro che ancora vogliono «sovvertire tutte quelle situazioni nelle quali l’uomo è un essere avvilito, soggiogato, abbandonato e disprezzato». Come scriveva Karl Marx. Se viene rimossa la memoria, si resta prigionieri del passato.

Rosa fu combattente politica, attivista mai doma: la sua vita era la rivoluzione. Anche per questa propensione “totale” seppe dare al suo impegno una forte impronta pedagogica, un ruolo educativo e progettuale. Rosa riteneva, infatti, che la rivoluzione dovesse forgiare anche donne e uomini che fossero all’altezza dei compiti storici: una “nuova umanità”. In definitiva, in Rosa era molto arduo distinguere il pubblico dal privato. Ebbe curiosità umane e impegni culturali, grande libertà sentimentale insieme ad un rigore assoluto che ispirava rispetto, anche per la sua autorevolezza. Rosa, insomma, non appassisce mai. Anzi, ci dà spunti importanti per affrontare, ancora oggi, i temi fondanti per l’alternativa.

Per approfondire leggi il libro di Left Partigiane dei diritti

Reddito di cittadinanza, il colpo di spugna del governo Meloni a Napoli produce un disastro

Da oggi, 25 agosto, circa 33mila nuclei familiari riceveranno dall’Inps la comunicazione per sms o via mail sullo stop del reddito di cittadinanza, dopo aver percepito la settima rata di agosto. A fine del 2023 saranno in totale circa 230mila le famiglie coinvolte nello stop alla misura. Dall’1 settembre coloro che rimarranno senza Rdc potranno iscriversi sul sito dell’Inps per usufruire del programma Supporto formazione lavoro. Sulle conseguenze del taglio al reddito di cittadinanza pubblichiamo il racconto in prima persona del presidente della Municipalità 8 del Comune di Napoli

Il governo Meloni ha deciso, con un colpo di spugna, di cancellare la misura del Reddito di cittadinanza, prestazione nata come misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà che ha permesso a migliaia di nuclei familiari di poter sopravvivere in un Paese che, dal punto di vista degli avanzamenti dei diritti e delle politiche del lavoro, si dimostra fanalino di coda d’Europa; proprio durante la pandemia il Rdc si è dimostrata una misura essenziale che ha permesso a migliaia di cittadini di sopravvivere.
Ma cosa ha significato questa misura anche in merito alla lotta allo sfruttamento e alla capacità di livellare, al rialzo, le storture di un mondo del lavoro, come quello italiano che, da anni, oramai subisce una frammentazione? L’Italia è l’unico Paese europeo i cui salari sono diminuiti del -2,9 dal 1990 (dato Ocse). Il Rdc ha permesso a moltissime persone di poter sopravvivere, ed è proprio per questo che esso acquisisce senso in una dimensione complementare con una norma sul salario minimo, per ridare respiro a un mondo del lavoro che ha prodotto una massa di poveri e sottopagati alla mercé del “peggior” offerente.

Le porte del mio ufficio di Presidenza presso l’VIII Municipio del Comune di Napoli sono sempre aperte ai cittadini. Moltissimi i percettori che in questi giorni attraversano l’uscio dell’ufficio, ai quali ovviamente va tutta la mia solidarietà; qualche giorno fa una donna, sola, 56 anni, le mani consumate per aver pulito centinaia di scale, si è rivolta a me disperata, la sua faccia era quella della povertà più dignitosa. Non rientra più nel beneficio, malgrado oramai sia considerata per il mondo del lavoro inadatta alle mansioni più pesanti e meno retribuite, le uniche che le sono state proposte ovviamente al nero, per pochissimi euro l’ora. Questa donna non si è mai sottratta al lavoro, quello vero, quello che noi qui chiamiamo “fatica”. Il Rdc rappresentava per lei un modo per poter pagare l’affitto, fare la spesa, comprare qualche medicina per i numerosi acciacchi che la colpiscono a causa degli anni passati china. La perdita di questo diritto la metterà di nuovo sul baratro, di fronte alla miseria, di fronte al vuoto e alla solitudine del suo monolocale il cui fitto non saprà più come sostenere. Il Rdc era anche questo, un supporto direzionato al diritto all’abitare, ad avere un tetto sulla testa.

Una storia esemplificativa di tante altre storie, 21.500 per la precisione. È questo il numero delle persone che si sono viste revocare la misura con un colpo di spugna. Sono storie che ci conducono nel corpo vivo di una classe sventrata e nella manomissione del gioco degli specchi. La post-modernità fa in modo che ciascun essere umano non riveda sé stesso nella figura dell’altro riflessa dello specchio sociale.
Ma oltre ai percettori “diretti” del Rdc, pensiamo anche ai percettori “indiretti” di questa misura; i quartieri che governo, Chiaiano, Marianella, Piscinola e Scampia sono in un’area periferica a Nord di Napoli. Da diversi anni abbiamo visto spuntare come funghi piccoli esercizi commerciali di generi di prima necessità che sono sopravvissuti al Covid e alla concorrenza degli esercizi della grande distribuzione. Tutto ciò grazie alla carta gialla. Un rientro di Iva per lo Stato e un supporto alla sopravvivenza dei commercianti di quartiere.
L’Istituzione municipale è una istituzione di prossimità e quindi di vicinanza con chi in questo momento sta vivendo un tempo atroce. È evidente che siamo agli inizi di un ciclo di lotte per il reddito inteso come condizione imprescindibile per la dignità umana, ma queste lotte si determineranno come delle vertenze di vicinanza che si collocano su un piano di ricomposizione di ciò che altri stanno provando a mandare in frantumi.

L’autore: Nicola Nardella, avvocato, è presidente Municipalità 8 del Comune di Napoli

L’Italia in ginocchio davanti ai gladiatori Zuckerberg e Musk

Fra le più sconcertanti manifestazioni dell’attuale degrado dello spirito pubblico in Italia, andrà ricordata l’entusiastica interlocuzione del Ministro della cultura Sangiuliano con Elon Musk e il suo progetto di sfidare alla lotta libera Mark Zuckerberg a Pompei o nel Colosseo: è andato tutto a monte e forse si trattava di uno scherzo in cui il governo è caduto senza alcun paracadute. Dopo l’estate il Parlamento discuterà l’autonomia differenziata, che minaccia non solo di distruggere irrimediabilmente l’impianto sociale della Costituzione ma anche di dissolvere il patto nazionale di origine risorgimentale (altro che morte della patria l’8 settembre!). Che proprio una destra sedicente patriottica possa essere protagonista dello scempio, lo dimostra l’episodio a cui facevamo riferimento e la sua mancanza di dignità repubblicana che svela il debito di Fratelli d’Italia con il berlusconismo. Come è possibile rendere disponibile il patrimonio storico e artistico del Paese, i luoghi stessi della nostra identità collettiva, ad un tale ridicolo circo (Come ha denunciato Tomaso Montanari)? Come è possibile ridurre un grande Paese a colonia delle fantasie di due membri di quell’élite che da tempo accumulano capitale economico e simbolico a spese del resto dell’umanità nel plauso generale? Come è possibile non respingere al mittente la proposta in quanto diseducativa per i giovani?
Per spiegarlo è necessario ricordare cosa sia il mito della Silicon Valley. Fra anni Novanta e inizio del duemila, infatti, la stessa cultura liberal-progressista fu abbagliata dalla visione di un luogo in cui il talento diventava automaticamente ricchezza. Steve Jobs amava dire che in California non importava il tuo vestito ma solo il tuo merito. Giuliano da Empoli, sociologo molto vicino a Matteo Renzi, magnificò, in un volume del 2000, l’alchimia per cui, con la nuova economia finanziarizzata e la rivoluzione digitale, sarebbe stato possibile produrre sempre più danaro da denaro senza passare dalla produzione di beni materiali, consentendo a chiunque di ascendere la scala sociale. La flessibilità del lavoro, lungi dall’essere precarietà, avrebbe consentito alle nuove soggettività nomadi eredi della contestazione di vivere libere da vincolanti radici e mettersi continuamente sul mercato qualora dotate di solide competenze. Già con la crisi del 2008 iniziò tuttavia ad essere chiaro come l’economia finanziarizzata non rendesse più il capitalismo compatibile con il benessere generalizzato, dato che la produzione del danaro dal denaro o attraverso una produzione di merci immaginifiche, non tornava sufficientemente alla società in termini di occupazione e servizi finanziati dal sistema fiscale. Nella Silicon valley solo uno su un milione ce la fa: magari talentuoso, certo, ma svettando su un marea sempre più vasta di sommersi.
Non è un caso che quando nel 2010 David Fincher realizza il film biografico su Zuckerberg (The social network), ne tratteggi un profilo a tinte fosche, mettendo in evidenza principalmente come la sua ascesa personale sia avvenuta sulla base di una spregiudicata cancellazione di ogni sentimento umano, oltre che di una continua manipolazione della realtà e degli altri, in una risentita rivalsa acquisitiva del nerd.  L’incapacità a relazionarsi per un complesso di inferiorità, viene come generalizzata nel prototipo del consumatore passivo che frequenta compulsivamente i social. Non c’è autenticità ed emancipazione nell’esteriorizzazione in rete della propria intimità, ma soltanto sfogo immediato e sterile degli aspetti più narcisistici del proprio io.
Questa psicologia trova facile cimento nello squid game della competizione sempre più generalizzata in ogni sfera della vita, di cui la gara gladiatoria ideata dai due ricchi ex-ragazzi diventerebbe un simbolo rituale. La vita è una gara con regole valide per tutti da cui si selezionano vincenti e perdenti. La controproposta di Dario Nardella (che guerrescamente intende ricorrere alla sorveglianza armata anti atti vandalici ndr), di effettuare la gara a Firenze ma convertendola in una sfida mentale-intellettuale e non fisica, mostra come anche la cultura democratica sia stata a lungo del tutto interna a questa narrazione tossica: non credo che Leonardo e Galileo avrebbero apprezzato la trovata.
Ma ormai dovrebbe essere chiaro da come sta andando il mondo che dai valori della competizione e dello spettacolo generalizzato non ne trae profitto una prospettiva progressista di emancipazione basata sui diritti umani. Il carattere individualistico e in ultima analisi gerarchizzante di questa visione finisce per favorire chi promette di assecondare senza infingimenti la struttura hobbesiana della giungla sociale, del tutto in contraddizione con ambientalismo e difesa delle minoranze. Infatti non c’è libertà e cura senza uguaglianza sociale. Senza promuovere quest’ultima vincerà sempre il fascismo: Nerone e non Spartaco.

Volevano essere sovranisti, sono solo familisti

Come ha osservato l’ex parlamentare Elio Vito nel mondo solo due leader politici e capi di governo hanno affidato alla sorella la gestione del loro partito: Kim Jong-un, dittatore a capo della Corea del Nord nonché segretario generale del Partito del Lavoro di Corea e Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei Ministri in Italia e presidente di Fratelli d’Italia. Inutili i guaiti degli accoliti meloniani: questo è un fatto incontestabile, sotto gli occhi di tutti. Nemmeno Silvio Berlusconi – che della proprietà privata del suo partito ne ha fatto una religione – era mai arrivato a tanto. 

Che poi Arianna Meloni sia anche la moglie del ministro Francesco Lollobrigida rende le loro vacanze estive insieme (seguite con audace riverenza da cronisti politici prestati al familismo d’avanspettacolo) il vero “luogo di potere”. In riva al mare, in barba ai luoghi istituzionali e di partecipazione democratica. 

La nomina di Arianna Meloni a cane da guardia delle intemperanze interne di Fratelli d’Italia viene difesa con forza dal responsabile dell’organizzazione del partito Giovanni Donzelli e dagli altri meloniani, nella speranza di poter familiarizzare il più possibile con Meloni per non uscire dal cerchio delle sue grazie. Eppure dovrebbero essere proprio loro i più arrabbiati: se una leader politica e capa di partito sceglie la parentela come qualità per fare carriera significa che ritiene tutti gli altri irrimediabilmente mediocri e senza possibilità di redenzione. 

È la naturale involuzione di ogni sovranismo: stringersi per paura a una cerchia sempre più ristretta per la preservazione del potere, unica vera preoccupazione. Immaginate come Kim Jong-un e Meloni possano essere spaventati dal Paese lì fuori. 

Buon venerdì. 

Italia Hello, il nuovo hub informativo e gratuito per i migranti

“Siamo invasi!”, “Non c’è lavoro nemmeno per noi italiani”, “Regaliamo 30 euro al giorno a questi migranti”. Chiunque abbia seguito la stampa mainstream degli ultimi anni e chiunque abbia letto i titoloni delle prime pagine dei più grandi quotidiani si è di certo fermato a pensare che quella che stiamo vivendo è una vera e propria emergenza.
Qualcuno, la maggior parte, ci ha creduto davvero.
Una descrizione, quella italiana, inattendibile. Sono circa 5 milioni gli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, solo l’8,6% della popolazione. Ma se è vero che a questi dati accuratamente raccolti, manca una serie di numeri che sfugge a controlli per condizioni di irregolarità, per mancata documentazione o per diverse altre motivazioni, è altrettanto vero che dobbiamo muoverci facendo fact checking, decostruendo false narrazioni e, di fronte a dati reali, essere capaci di proporre numeri e conteggi, paragonando il nostro Paese ad altri in Europa e nel mondo.

A denunciare l’Italia come lo Stato con il tasso di disinformazione sul tema migrazione più alto è stata la relazione finale della Commissione parlamentare Jo Cox sulla xenofobia e il razzismo già sei anni fa. Una disinformazione, a tratti pianificata strategicamente, che allontana da possibili riflessioni e risposte rispetto a tutte quelle difficoltà che tante persone con background migratorio vivono ogni giorno sulla loro pelle in Italia. Il rischio è quello di continuare ad alimentare false narrazioni, rischiando di creare un vuoto sempre più grande nelle politiche d’accoglienza e d’integrazione del nostro Paese.
Sull’onda della crescita del digitale, qualche anno fa, a proporre una soluzione concreta e pensata con e per le persone migranti nel nostro Paese è stata ItaliaHello, un’organizzazione nata per favorire l’autonomia, la partecipazione attiva e l’indipendenza non solo di cittadini stranieri che arrivano nel nostro Paese, ma anche di tutte quelle persone che, pur trovandosi in Italia da parecchi anni, non hanno ancora una buona familiarità tra informazioni, servizi e uffici pubblici, vuoi per questioni linguistiche vuoi perché catapultati in un mercato complesso che spesso non garantisce adeguato accesso alle informazioni.

Grazie alle nuove tecnologie, certi che tutti noi abbiamo oggi in mano un cellulare, ItaliaHello ha messo in campo strategie a misura di persona, sfruttando le potenzialità dei social network e creando canali di scambio e analisi nel territorio nazionale con diversi focus group nelle principali città italiane in termini di presenza straniera per capire cosa mancava e come, insieme, crearlo.
Da questo lavoro di ricerca sul campo è nato qualche anno fa un vero e proprio hub informativo totalmente gratuito in sei diverse lingue che offre una serie di informazioni e contatti sul sistema sanitario nazionale, sul mondo scolastico e accademico del nostro Paese, ma anche sulla questione abitativa, sulle leggi nazionali e sul mondo del lavoro. “Come posso richiedere una visita medica? A chi devo rivolgermi per iscrivere mio figlio a scuola? Cos’è lo Spid? E come posso fare un 730?”. A queste e a tante altre domande, molti cittadini con background migratorio non trovano risposta: linguaggi complessi, poco materiale tradotto, ma soprattutto scarsissima attenzione al contesto culturale dal quale proviene la persona.

Se io chiedessi a un cittadino originario di un Paese del Medio Oriente o del continente africano, mai stato in Italia, di tradurre nella sua lingua locale un documento per spiegare come presentare la domanda per il ricongiungimento familiare nel nostro Paese, questa persona potrebbe darmi una traduzione perfetta ma quanto avrebbe chiaro il contenuto, quanto invece le procedure e il sistema più in generale? Quello che manca è offrire una conoscenza di contesto e dinamiche, di processi che non possiamo pensare di dare per scontato.
Per concentrarsi su questo problema, ponendo attenzione all’altro e puntando a un maggiore senso di autonomia, indipendenza e rappresentanza, tanto nel breve quanto nel lungo periodo, ItaliaHello vanta un team con persone provenienti da diverse parti del mondo: Usa, Albania, Senegal, Messico, Perù ecc per far esprimere in prima persona interessi, difficoltà, esigenze e per rivolgerci alle comunità di riferimento in maniera maggiormente partecipata e inclusiva.

Oggi la piattaforma ItaliaHello è visitata da tantissime persone, arrivando a contare 181.725 utenti dall’1 gennaio 2023 a oggi. Il lavoro dell’organizzazione sta crescendo, costruendo sempre più un sistema ibrido in cui a strumenti e canali digitali si aggiungono iniziative e progettualità in presenza con percorsi per favorire l’occupabilità ma anche con momenti di formazione e informazione su questioni finanziarie, mentorship, imprenditoria ed educazione civica.
Il dialogo interculturale e il continuo lavoro in mixité assumono una posizione centrale.
Oggi il vero cambiamento è quindi rendere le persone autonome e indipendenti.Il cittadino informato è un cittadino consapevole che sa come muoversi e come contribuire attivamente nella società in cui vive, rispondendo alle false narrazioni che spesso lo ritraggono come l’invasore.
Un passo fondamentale e un invito a cambiare: dal parlare per loro a dar loro parola. Ne saremo capaci, cara Italia?

 

Sono milioni quelli da castrare

Bestialità per vendicare le bestialità. Sullo stupro di gruppo di Palermo vale tutto, l’importante è indicare “quelli” come diversi da noi. L’alienazione come soluzione, ovvero la vigliaccheria travestita da vendetta. 

Il ministro Matteo Salvini ingaggia una guerra di testosterone chiedendo la castrazione chimica: “se stupri una donna o un bambino hai evidentemente un problema: la condanna in carcere non basta, meriti di essere curato”, dice Salvini. L’uscita mostra almeno due cretinaggini evidenti: castrare è una forma di cura (come i nazisti?) e la condanna è una punizione, al contrario di quello che dice la Costituzione. Immaginiamo che sia di “buon senso” castrare anche coloro che cercano online quel video (potenziali stupratori), coloro che applicano altre forme di violenza patriarcale e coloro che vedono le donne solo come prede sessuali. Il conto finale è di qualche milione di maschi italiani veri. La ministra Roccella invece vuole vietare “i porno”. Altra forma di alienazione: va tutto bene, i maschi sono tutti buoni e bravi ed è solo una “corruzione esterna” che complica le cose, secondo lei. 

Troppo difficile invece allargare il discorso non solo ai colpevoli ma anche ai responsabili. Toccherebbe mettere in discussione l’idea dell’essere maschio in una società in cui la capacità di sopraffazione è una virtù richiesta fin da bambini. Toccherebbe decostruire gli stereotipi e prendersi la responsabilità (gli uomini) di invertire i modelli senza sentirsi persi. Ci si accorgerebbe che la politica dello stesso Salvini è come quella di un sopraffattore che si cela dietro il “buon senso” e “il fin di bene”.

Buon giovedì. 

Roman Hocke: Così nacque “La storia infinita” di Michael Ende

Nell’ottobre del 1981, esattamente quarant’anni fa, usciva per Longanesi l’edizione italiana de La storia infinita, il capolavoro di Michael Ende che ha appassionato milioni di persone in tutto il mondo. Pochi sanno però che questo libro fu concepito e scritto in Italia, a Genzano, un borgo dei Castelli Romani dove Ende ha vissuto per oltre un decennio. Per indagare questo legame misterioso e affascinante tra lo scrittore tedesco e la cultura italiana ho incontrato Roman Hocke, amico di Ende, grande conoscitore della sua poetica e suo agente letterario. Roman, che vive tra l’Italia e la Germania, mi accoglie nella sua residenza genzanese, non lontano dalla villetta in cui Michael Ende visse con la moglie Ingeborg Hoffmann tra il 1970 e il 1985.

Cosa spinse Michael Ende a lasciare la Germania?
In Germania Ende, sebbene il suo lavoro avesse trovato un grande riscontro di pubblico, si era confrontato con un clima intellettuale ostile. Erano gli anni 60, gran parte degli intellettuali erano vicini alla sinistra extraparlamentare e vedevano le sue storie fantastiche come un superficiale escapismo dal confronto con la realtà politica di allora. Erano naturalmente posizioni di stampo molto ideologico, ma a quel tempo era difficile uscire da questi schemi. Ricordo che Michael Ende si è sempre dichiarato orientato a sinistra, e non ha mai capito il senso di questa critica. Lui cercava la libertà di potersi esprimere e sviluppare i temi che gli interessavano. Per lui cambiare il mondo significava prima di tutto cambiare le cose nella testa della gente. Così, mentre in Germania, qualsiasi cosa facesse, ovunque andasse, anche ad una festa di amici, veniva criticato, perché si diceva che portava a far fuggire i giovani dalla realtà in mondi immaginari, arrivato qui in Italia, ha trovato un luogo con un’apertura culturale in cui poteva sviluppare il suo percorso liberamente, senza doversi giustificare con nessuno. In Italia non ha cercato solo il buon vivere, che pure apprezzava moltissimo. Qui ha trovato persone con cui fare lunghe discussioni su questo suo sentiero artistico-letterario, per trovare alla fine poi sé stesso.

E come mai Ende scelse di trasferirsi proprio a Genzano?
Il rapporto di Ende con l’Italia risale già alla metà degli anni 60. Ogni estate scendeva con la moglie Ingeborg a Roma, dove erano ospiti della scrittrice Luise Rinser. Poi, nel 1967 quando decisero di trasferirsi definitivamente, Luise volle presentarli a mio padre, Gustav René Hocke. Mio padre aveva scritto Il mondo come labirinto, che nell’ambito degli artisti e degli scrittori fantastici è un po’ una bibbia, perché restituisce dignità all’arte fantastica, dall’antichità fino al giorno d’oggi, contrapponendola al filone classico. che sempre ciclicamente domina il mondo culturale. Michael Ende aveva scoperto tramite l’opera di mio padre l’esistenza di una tradizione artistica letteraria con cui potersi identificare. Poté inoltre fare i conti con l’eredità artistica del padre, Edgar Ende che fu un pittore originalissimo, da molti definito – a torto – surrealista. Grazie a questo libro Ende ha capito all’interno di quale tradizione si trovava e ha potuto continuare a sviluppare la propria poetica. Tra lui e mio padre si creò subito uno stretto rapporto di amicizia e collaborazione artistica. Michael Ende decise quindi di prendere casa a Genzano. I Castelli in quel periodo erano il fulcro di una vivacissima vita culturale. Molti artisti e intellettuali dalla Germania, da tutto il mondo, gravitavano sul territorio e collaboravano con le amministrazioni comunali, con i giovani, c’erano tantissime iniziative.
L’Italia ha sempre rappresentato un polo di attrazione per gli artisti tedeschi.
La cultura tedesca non si capisce senza Roma, senza l’Italia. Ecco perché agli studenti e artisti di ogni disciplina, che hanno un talento speciale, viene offerta questa possibilità da parte dello Stato tedesco, di vivere un anno a Roma, a Villa Massimo, di vivere l’arte e la letteratura italiana, perché ne assorbano i valori e li integrino nella loro opera. Tra di essi il compositore Wilfried Hiller, che fu borsista a Villa Massimo e collaborò con Michael Ende a partire dal 1978 fino alla morte di Ende.

Oltre a Hiller, che rapporti ebbe Michael Ende con gli artisti di Villa Massimo?
C’erano sempre artisti interessati. Ma erano cauti per via di questa critica ricevuta da Ende in patria, e poi perché a quel tempo lui era classificato come autore di libri per bambini. E questo gli ha dato, diciamo, un marchio di artista di secondo grado. Solo dopo la sua morte è cambiata questa visione, si è capito che lui ha usato i libri per ragazzi per parlare a tutti. Diceva, «io scrivo per quello che è rimasto bambino nell’uomo, la facoltà di avere fiducia, di voler cambiare il mondo in positivo».

La fantasia come strumento rivoluzionario; sull’Auryn Bastian legge la scritta «Fai ciò che vuoi». Potrebbero confondersi con gli slogan del ’68 “Fantasia al potere”, “Vietato vietare”. Che rapporto aveva Ende con Marcuse, con i grandi ideologi del ’68, con l’esistenzialismo?
Le posso dare un aneddoto su questo. Una volta stavamo discutendo su argomenti molto simili e lui disse: «Se il mondo fosse veramente come lo descrive il pensiero esistenzialista, niente avrebbe un senso, quindi ci sarebbe solo la classica soluzione, quella di spararsi. Allora che cosa mi rimane da fare? Nient’altro che avere fiducia che il mondo, la nostra esistenza abbia un senso. Non so quale sia, però così riesco a vivere molto meglio e a motivare le mie decisioni e i miei valori secondo questo pensiero».
E questa è la grande diversità rispetto a tutte queste correnti di pensiero, che mise Ende in una situazione di solitudine, senza ideologia, senza religione. Perché non apparteneva a una religione. Ma si opponeva anche a una visione strettamente razionalistica, a idee tipo: l’amore non è che una reazione chimica, i nostri pensieri, impulsi elettrochimici. “Fai quello che vuoi” significa “Agisci secondo i tuoi veri desideri”. Questo è lo spirito profondo che lo guidava. Questa è la visione trasmessa da tutti i suoi libri.

Forse perché non fu capito a sinistra, una certa destra antimodernista si è sentita autorizzata ad appropriarsi di temi e personaggi di Ende, sulla falsariga di quello che aveva fatto con Tolkien.
Tolkien non era certamente un autore di destra, ha scritto i suoi libri nel periodo tra le due guerre. Per lui la modernità era quindi questa orribile esperienza nazista. Lui come tanti altri artisti si è rivolto al passato per trovare un luogo ideale. Quello tolkieniano è un mondo in cui convivevano elfi, hobbit, uomini. I popoli della Terra di Mezzo rappresentavano gli ebrei, i cristiani, i musulmani, e gli orchi erano i nazisti. Tantomeno Ende, che scriveva in un’epoca molto diversa, durante la guerra fredda, con la minaccia atomica incombente. Lui era pacifista, ecologista. Quando dopo anni venimmo a sapere che la destra postfascista si era appropriata, senza neanche chiederlo, del nome di Atreju per le sue manifestazioni, era ormai troppo tardi per opporsi.

Anche i cattolici hanno provato ad assimilare il pensiero di Ende, interpretandolo in senso cristologico.
Lui non era certamente cattolico o protestante. Raccontava che doveva essere battezzato, i genitori gli avevano anche comprato l’abito del battesimo, ma poi gli andava stretto e si decise di non battezzarlo. Certamente era una persona che cercava però, anche nella religione, ma in tutte le religioni. Ha sempre dialogato con ebrei, cristiani, antroposofici ecc. Fantàsia non è un paradiso, non è un luogo in cui sono presenti categorie politiche o morali. Fantàsia è composta da creature che rappresentano il bene e il male, ma che non si pongono il problema morale, dal momento che sono personaggi creati dalla fantasia umana: immagini come la “donna aiuola” sono elaborazioni di esperienze personali. Ma Fantàsia è composta da diversi strati, c’è la letteratura, i personaggi delle favole, i tre moschettieri, ecc.

Ende afferma in Zettelkasten, Skizzen und Notizen: «Sogniamo mediante immagini e viviamo i sogni in modo immediato. La lingua delle immagini è quella più vitale».
Certamente! Uno studioso ha ipotizzato che la storia di Bastian sia in realtà un sogno, in seguito al quale lui torna rinato.

In un passaggio de La storia infinita scopriamo che Fantàsia è interamente fondata sui sogni, che sono fragilissimi. È quando Bastian ritrova, grazie al minatore cieco Yor, il sogno di un padre congelato. Quell’immagine allude chiaramente al rapporto tra il ragazzo e suo padre e alla perdita della madre. Ho letto che il padre di Ende si chiudeva nella sua stanza al buio e disegnava con una torcia attaccata alla matita, alla ricerca delle immagini pure. Che rapporto aveva Ende con il padre?
Credo che nel suo percorso sia stato fondamentale un padre visionario, che all’epoca non fu veramente compreso dalla critica, ma che ha sempre rivendicato la propria identità, la sua autonomia. E così anche per Michael il tema era trovare una strada sua. Questa fase ineluttabile che ognuno nel suo percorso di crescita deve affrontare: dopo aver vissuto sicuro e protetto occorre assistere al crollo del mondo dei genitori e cominciare tutto da zero. Ciascuno deve farsi una sua identità, i suoi rapporti, formarsi il suo mondo, affrontare quei pensieri neri che conosciamo tutti. Tutto ciò nel caso della generazione di Ende era amplificato dall’esperienza del dopoguerra, dove il salto nel nulla era veramente praticato e tematizzato.

Ende racconta così la storia di Bastian: «un giovane che in questa notte di crisi, una crisi esistenziale, perde il suo mondo interiore, […], e deve saltare dentro questo Nulla, allo stesso modo in cui dobbiamo farlo anche noi europei. Siamo riusciti a perdere tutti i valori e ora dobbiamo saltare dentro, e solo se abbiamo il coraggio di saltarci dentro, in questo nulla, possiamo risvegliare le forze creative più personali e interne e costruire una nuova Fantàsia».
Questo ha molto a che fare con la storia della Germania, questo shock che lui ha vissuto, la totale perversione dei valori che ci uniscono come genere umano. Dopo la guerra la Germania era uno sfacelo totale d’identità, non c’era niente e bisognava ricominciare veramente da zero “die Stunde Null”. Anche mio padre come Ende apparteneva a quella corrente che cercava di ricollegarsi al filone dalla cultura umanistica e ricreare, reinventare una nuova Germania su base umanistica. Ende quegli anni li ha vissuti intensamente. Bisogna immaginare che molti libri in tedesco ancora non c’erano, perché non erano stampati o diffusi. Non sono mai stati comprati così tanti libri come nel dopoguerra, un afflusso enorme di nuovi valori e argomentazioni. Erano 12 anni che il Paese era fuori dal mondo. Ci fu un Rinascimento dei teatri, tutto a un tratto qualsiasi cosa poteva essere messa in scena pubblicamente. In una città come Monaco c’erano 100 teatri, per trasmettere queste nuove idee, e questo è il tuffo nel nulla che Ende ha vissuto nel dopoguerra, dove non c’era niente, perché non potevi rifare il modello francese o quello americano, dovevi trovare la tua strada, la tua idea.

Mi piacerebbe sapere qualcosa sul suo legame con Ingeborg Hoffmann. Una donna che ha scelto di stare al fianco del marito, di mettere da parte una vita professionale altrettanto valida e creativa, per dedicarsi interamente ad aiutarlo. Cos’è nell’opera di Michael Ende che secondo lei è un debito verso Ingeborg?
Ingeborg era una grande artista, una donna straordinaria, dotata di una inesauribile forza interiore e di un solido senso della giustizia. Lei reagiva con indignazione a ogni piccola ingiustizia, come se si fosse trattato di un omicidio. E questo è stato per Ende di grande beneficio, perché lei sapeva cogliere ogni nota stonata, ogni parola che non suonava, nei suoi racconti, e con queste antenne lo ha aiutato a comprendere anche il senso dei suoi stessi testi. Quello che aveva scritto di giorno, Michael lo faceva leggere la sera a Ingeborg, che sapeva vedere esattamente quando c’era qualcosa che non andava. Su quei passaggi lui faceva un segno e ci lavorava il giorno dopo. Grazie a questo spirito di giustizia, a questo spirito, “di verità”, ha illuminato con la sua luce la vita e il lavoro di Michael Ende.

Ende uscì profondamente amareggiato dalla visione della trasposizione cinematografica de La storia infinita. Tentò invano di chiedere il ritiro del film dalle sale perché tradiva il senso della sua storia. Fu un lungo e difficile contenzioso che lo logorò e di cui non riuscì a vedere la conclusione. Qual è la situazione oggi? Riusciremo a vedere una nuova e più fedele versione di La storia infinita?
Abbiamo dovuto affrontare lunghi processi per chiarire tutta la situazione e l’anno scorso abbiamo vinto anche l’ultima istanza, e da allora tutti i diritti cinematografici sono ritornati disponibili. Ma noi non vogliamo dare ancora il film sul mercato, perché abbiamo un piano ben definito. Volevamo prima cominciare con Jim Bottone, il primo grande successo di Ende, che è stato trasformato nei due film col budget più alto che ci sia mai stato in Germania, recentemente usciti con un grande successo di pubblico e di critica. Il prossimo sarà Momo, e poi toccherà a La storia infinita. Abbiamo il forte interesse da parte di centinaia di produzioni da tutto il mondo, però noi vogliamo proseguire questa nostra strategia e fare un libro alla volta, secondo l’ordine cronologico di pubblicazione.

Tornando all’Italia: perché sembra non restare nulla di questa esperienza straordinaria a Genzano? Non esiste neanche una via intitolata a Michael Ende, una targa commemorativa.
Abbiamo fatto vari tentativi per la verità, di collaborare con Genzano, e abbiamo avuto anche degli ottimi rapporti con alcuni sindaci. Erano stati fatti alcuni passi nella direzione giusta, furono organizzati eventi e scambi culturali tra Garmisch, la sua città natale, e Genzano. Ma poi … diciamo che il problema di queste strutture politiche dei Comuni è che cambia il sindaco, la giunta, e cambia tutto, e così il discorso è tornato sotto zero. Noi cerchiamo sempre di ricordare che Michael Ende è stato un fiero cittadino di Genzano, che si è sempre interessato ai fatti di Genzano, che conosceva moltissima gente, era veramente inserito. Ende ha vissuto a Genzano per 15 anni. Questo luogo aveva visto la nascita di Momo, de La storia infinita. Qui ha preso spunto per tanti personaggi e luoghi dei suoi romanzi. Quando Ingeborg morì, nel 1985, Ende non poteva più restare qui, questi luoghi erano troppo legati al loro rapporto, ed è tornato in Germania. Ma qui è rimasta la collina tondeggiante che ha ispirato la tartaruga Morla, il vecchio anfiteatro che ha offerto rifugio a Momo, e innumerevoli tracce di questa straordinaria storia. Gli anni di Genzano sono stati i più fecondi, i più produttivi e creativi della sua vita, perché tutti i grandi libri che ha scritto, i suoi più grandi pensieri, tutti i progetti che ha realizzato in seguito, sono tutti determinati e nati in questi anni di Genzano. A lungo se ne è persa la nozione. Oggi però qualcosa sembra risvegliarsi: da qualche mese a questa parte la nuova amministrazione comunale sta avviando importanti iniziative per valorizzare questa preziosa eredità culturale e umana. Un segnale che fa ben sperare per il futuro.

Intervista pubblicata su Left del 22 ottobre 2021

Roman Hocke partecipa al Fantàsia festival a Genzano (Roma 25-27 agosto)