Tutte cazzate. Mi si perdoni l’utilizzo di una parola greve e maleducata. Non ho trovato, pensandoci e ripensandoci, un sinonimo. I numeri dell’ultimo rapporto Gimbe sul finanziamento della sanità pubblica certificano che i buoni propositi in tempi di pandemia, quella pioggia di promesse sulla “sanità che sarebbe diventata una priorità” sono una menzogna che abbraccia l’intero arco parlamentare.
La spesa sanitaria pubblica del nostro Paese nel 2022 si attesta al 6,8% del Pil, sotto di 0,3 punti percentuali sia rispetto alla media Ocse del 7,1% che alla media europea del 7,1%.Sono 13 i Paesi dell’Europa che in percentuale del Pil investono più dell’Italia, con un gap che va dai +4,1 punti percentuali della Germania (10,9% del Pil) ai +0,3 dell’Islanda (7,1% del Pil). Impietoso il confronto con gli altri paesi del G7 sul trend della spesa pubblica 2008-2022 (figura 4), da cui emergono alcuni dati di particolare rilievo. Innanzitutto, negli altri paesi del G7 (eccetto il Regno Unito) la crisi finanziaria del 2008 non ha minimamente scalfito la spesa pubblica pro-capite per la sanità: infatti dopo il 2008 il trend di crescita si è mantenuto o ha addirittura subìto un’impennata. In Italia, invece, il trend si è sostanzialmente appiattito dal 2008, lasciando il nostro Paese sempre in ultima posizione. In secondo luogo, spiega il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta «l’Italia tra i Paesi del G7 è stata sempre ultima per spesa pubblica pro-capite: ma se nel 2008 le differenze con gli altri Paesi erano modeste, con il costante e progressivo definanziamento pubblico degli ultimi 15 anni sono ormai divenute incolmabili».
La prossima manovra non porterà nessun cambiamento di rotta. Non ne siamo usciti migliori dalla pandemia. Siamo quelli di prima, i sopravvissuti, con meno forze per indignarci.
Il governo delle destre non alimenta solo oppressione sociale, conformismo disciplinare sui valori, patriarcato, bellicismo iperatlantista. Il fondamento ideologico della sua identità è l’abbattimento della Costituzione repubblicana antifascista. Le forze democratiche stanno sottovalutando tale aspetto anche perché incerte e divise sulla reale difesa ed attuazione della Costituzione. La proposta populista/nazionalista sulla quale la presidente del Consiglio Meloni e la ministra Casellati stanno tentando di stringere i tempi è il cosiddetto “premierato”. Riteniamo, come Left, che sia una forma di irrigidimento verticale, plebiscitario, autoritario della forma/Stato. La bozza di riforma del governo prevede un presidente del consiglio eletto direttamente dai cittadini, con una soglia minima del quaranta per cento (potrebbe anche sciogliere le Camere e revocare i ministri. La prima, ovvia, considerazione, che Giorgia Meloni ipocritamente nega, è che viene fortemente indebolita la figura del presidente della Repubblica, prevista, non a caso, dalla Costituzione come massimo ruolo di garanzia. Il presidente della Repubblica ha poteri decisivi nella nomina del presidente del Consiglio e nello scioglimento delle Camere. Con la “riforma Meloni” la sua figura diverrebbe evanescente, simbolica.
Meloni sta proponendo uno schema inedito, che ha un solo precedente , fallimentare, il governo Rabin in Israele. Non funzionò. È, poi, una pericolosa convinzione che l’attuale presidente del Consiglio vuole imporre attraverso il suo vastissimo armamentario propagandistico che il Paese avrebbe bisogno di un governo più forte e stabile. Il governo, attualmente, in Italia, nella materialità dei processi decisionali quotidiani, è fin troppo forte e pervasivo. L’esecutivo ha annesso a se stesso quasi completamente il procedimento decisionale legislativo. Michele Ainis ci ha ricordato, qualche giorno fa, in un’intervista, per ricordare il diritto comparato, che lo stesso presidente Usa Joe Biden non può emanare decreti legge e non può sciogliere il Congresso. In effetti, il”premierato” non è una riforma circoscritta che tende “solo” ad esaltare una presunta sovranità popolare attraverso il meccanismo dell’elezione diretta. Bisogna ragionare, demistificare. La sovranità popolare prevista dall’articolo 3 (secondo comma) della Costituzione è, infatti, al contrario rispetto allo schema meloniano, partecipazione diretta quotidiana delle cittadine e dei cittadini alla vita politica, economica, sociale della Repubblica. Sovranità popolare non significa dare un voto di delega una volta ogni cinque anni allontanando, anzi, da sé l’agire diretto per il miglioramento della propria condizione sociale, culturale, di dignità, di costruzione della trama della convivenza collettiva. La sovranità popolare costituzionale è pluralismo, ricucitura delle differenze. Esige un sistema elettorale proporzionale, una riconquistata centralità del Parlamento (organo che è specchio del pluralismo), la valorizzazione dei corpi intermedi. Tutto ciò che, in due decenni di attentati politici alla Costituzione, è venuto meno. Il voto diretto per scegliere il presidente del Consiglio è indebolimento del conflitto sociale , passivizzazione della partecipazione. Rende evanescente il dissenso, lo emargina. È il contrario della filosofia di costruzione di un popolo partecipe che ha animato l’alto dibattito dell’assemblea Costituente e che ha orientato verso una democrazia orizzontale, costituzionale. La legalità costituzionale è limitazione del potere assoluto, è garanzia dei diritti. L’elezione diretta del presidente del Consiglio è, invece, concentrazione del potere. È pura propaganda dire che la proposta verte sulle esigenze di “stabilità e governabilità”. La situazione istituzionale è fin troppo stabile. Gramsci avrebbe parlato di “rivoluzione passiva”, di fronte al dogma neoliberista. La situazione sarebbe ancora più preoccupante se venisse approvata la cosiddetta “autonomia differenziata”: non solo la secessione delle aree più ricche del paese ma anche l’istituzionalizzazione delle disuguaglianze. È, in definitiva, in questa controriforma la discriminante tra democrazia costituzionale e democrazia plebiscitaria (il simulacro di una falsa sovranità). Tenteremo, anche questa volta, di essere partigiani della Costituzione.
Fate finta di essere felici. Era questo il succo del messaggio girato tra i fedelissimi di Fratelli d’Italia disponibili a diventare claque a Caivano in occasione della discesa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Qualcuno si è scandalizzato, molti hanno finto di essere sorpresi. Eppure che la politica oggi sia soprattutto narrazione lo sappiamo da anni, insistono a denunciarlo sparuti intellettuali e giornalisti.
Con la narrazione i disperati sono diventati usurpatori: i poveri usurpatori di dignità, i migranti usurpatori di luoghi non loro, i giovani usurpatori del futuro a carico degli anziani, gli anziani usurpatori della sanità pubblica perché pretendono cure, i lavoratori usurpatori del reddito dei capi, gli ambientalisti usurpatori della serenità del sistema produttivo. Usurpatori dappertutto bastonati da parole mendaci e quindi violente, com’è ogni falsità spacciata per vera.
Solo che le parole, si sa, generano realtà e ci costringono a dibattere di questioni che sostanzialmente non dovrebbero esistere semplicemente perché non esistono. Così ci si può permettere tutto, su tutto. Matteo Renzi può accusare gli oppositori del jobs act di non avere «mai letto la legge» fingendo che quel provvedimento non sia stato letto e smontato dalla Corte Costituzionale. Giorgia Meloni può promettere e accusare l’opposizione di non permetterle di mantenere. Chi governa si può permettere di frignare denunciando l’oppressione del “pensiero dominante” di chi sta all’opposizione.
Chi finge meglio di essere felice vince.
Buon lunedì.
Nella foto: il presidente del Consiglio a Caivano, 31 agosto 2023 (governo.it)
Una lunga scia di femminicidi e di violenza contro le donne continua ad attraversare l’Italia ma non c’è ancora una sollevazione generale. È una emergenza strutturale, che non conosce tregua da anni, ma ancora non ci sono reazioni di massa come ci aspetteremmo. Anzi, sono tantissimi i tentativi di delegittimare le donne che hanno subito violenza. Sui media mainstream, sul web e non solo.
Siamo ancora sotto choc per lo stupro di Palermo con cui è stata doppiamente massacrata una ragazza di 19 anni, prima dal branco e poi da commentatori tv. Siamo sotto choc per la violenza, ripetuta e rimasta a lungo sotto silenzio di cui sono state vittime due bambine a Caivano agita da una gang di ragazzi e ragazzini cresciuti in un contesto di criminalità camorristica. Ciò che accomuna i due casi, oltre alle logiche mafiose, complici e omertose, è una dinamica di gruppo maschile violenta e perversa (lo dice persino il ministro Piantedosi). Come leggere queste azioni criminali? Sconvolge che i violentatori siano giovanissimi. Quale subcultura c’è dietro? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Maria Gabriella Gatti, medico, psicoterapeuta con una lunga esperienza clinica riguardo all’età evolutiva e docente della scuola Bios Psichè.
Professoressa Gatti, come leggere le violente dinamiche di gruppo maschili e giovanili che abbiamo visto in azione a Palermo e Caivano e che si erano già manifestate a Roma in un ambiente sociale agiato con il cosiddetto “stupro di Capodanno” e in altre occasioni? Stare in gruppo è caratteristico dell’adolescenza, è un fattore di crescita, ma in questi casi è diventato darsi manforte per sopraffare ragazzine?
È normale nell’adolescenza che i ragazzi stiano insieme, si riconoscano tra pari, nelle molteplici difficoltà e insicurezze proprie di quest’età, che trasformando il corpo trasforma anche la psiche. Per i giovani la sessualità dovrebbe essere una meravigliosa scoperta, che apre le porte ad una nuova visione “dell’altro” che suscita sensazioni e immagini mai sperimentate, in una ricerca non sempre facile, ma che dà senso alla vita. In una fase così complessa dell’esistenza umana, l’identità viene messa alla prova: insieme gli adolescenti si sostengono e condividono le difficoltà delle nuove esperienze. Il gruppo di pari rappresenta una fase di transizione che facilita la separazione dai genitori, realizzazione psichica fondamentale perché si possa diventare uomini e donne con una propria identità definita. Questa dovrebbe essere la fisiologia, che noi adulti (come genitori, insegnanti, operatori dell’informazione, psicoterapeuti ecc.) dovremmo favorire e tutelare e nello stesso tempo mettendo in atto una critica continua nei confronti di quell’ideologia che vede nella sopraffazione dell’altro la realizzazione, comunque falsa, dell’essere umano. Su questo tema si dovrebbe avere un consenso più o meno unanime, almeno formale…
Ma quando si parla di violenza sulle donne, però non è così…
Di fatto, nonostante i legislatori abbiano emesso nuove o più numerose leggi e pene più severe, si constata che le storie di violenze e di uccisioni continuano ad accadere e vengono addirittura considerate eventi ineluttabili. A parte la denuncia e l’indignazione mediatica, non si intraprende alcuna ricerca per comprendere le cause dei crimini in questione che sono la conseguenza di un pensiero malato presente da millenni. La cecità affettiva della cultura dominante, negando l’identità e la realtà psichica della donna, finisce per limitare la concezione stessa di essere umano.
Vale a dire?
La violenza sulle donne non è solo sopraffazione, è molto di più: è non riconoscere loro alcuna identità umana e specifica realtà psichica. Le donne sono per molti uomini solo oggetto di possesso, adibite alla procreazione e alle cure familiari. Per giustificare questo pensiero “malato”, cioè non aderente alla realtà, si attribuisce la responsabilità dei crimini degli stupri ed abusi alle donne stesse che sarebbero colpevoli di seduzioni svianti, di costumi inappropriati e di esigere la propria libertà: insomma “il male” sarebbe nel genere femminile, che non avendo alcuna razionalità, necessiterebbe di un controllo maschile e sociale. È un pensiero delirante che ci portiamo dietro da millenni che impedisce una reazione corretta ed una trasformazione culturale.
Si tende a credere che le violenze accadano solo in determinati contesti degradati. È così?
Non si può pensare che la violenza di gruppo contro le donne, messa in atto dagli adolescenti di un quartiere di Palermo o nel Parco Verde di Caivano, possa accadere solo in ambienti socialmente molto degradati e come conseguenza di una sottocultura. È cronaca di tutti i giorni che queste violenze avvengono a tutte le latitudini e in tutti gli ambienti sociali. Gli atti criminosi vengono commessi anche da giovani che hanno un buon livello di istruzione scolastica e appartenenti a famiglie ben inserite nel tessuto sociale: siamo di fronte al prodotto di una cultura millenaria che nega appunto identità, libertà e sessualità alle donne. Non possiamo separare l’atto sessuale dall’intenzionalità degli aggressori, quando in essi c’è la volontà cosciente di ledere, sfregiare, distruggere la realtà psichica delle loro vittime.
Le leggi ci sono, vanno attuate, ma con tutta evidenza non bastano. Il ministro Valditara dice che bisogna fare formazione nelle scuole, in che modo andrebbe svolta?
Dovremmo chiederci cosa intendiamo per istruzione: una serie di nozioni e informazioni che vengono apprese in modo passivo senza stimolare minimamente il pensiero e l’identità personale? La scuola vuole alunni accondiscendenti e poco reattivi e raramente si apre la discussione su temi sociali ed etici, che eventualmente gli insegnanti fanno a proprio rischio e senza alcun sostegno. Penso che attualmente la scuola sia priva di strumenti che consentano la conoscenza della realtà umana: quest’ultima è tenuta, nella maggioranza dei casi, fuori dai rapporti scolastici e non considerata nei contenuti nelle varie materie d’insegnamento. Molte scuole hanno adottato gli sportelli con figure professionali di sostegno psicologico per gli studenti che vi vogliano accedere. Iniziative meritevoli che andrebbero comunque incrementate e approfondite.
Gli sportelli psicologici nelle scuole sono importanti presidi, purtroppo assenti a Caivano. Lì i violentatori hanno potuto agire indisturbati?
La vicenda di Caivano ripete purtroppo una lunga storia di violenza sulle donne proiettata in un tessuto degradato e malavitoso. I violentatori cercano come vittime bambine indifese che non hanno strumenti per reagire, si sentono così forti, anche se non sono altro che dei veri vigliacchi. Le vittime vengono sempre cercate tra le ragazze più timide e per annullare la loro volontà e consapevolezza si ricorre alla droga dello stupro o si approfitta di un momento di fragilità dovuto all’uso eccessivo di alcool e in questi casi si dice: se la sono cercata! Sicuramente Caivano è un quartiere dove la violenza è pressoché l’unica legge, ma quello che è accaduto alle due bambine e probabilmente anche ad altre merita una seria riflessione sulla complessità del fenomeno.
La lettera apparsa il 28 agosto su Repubblica del padre di una ragazzina vittima dello stupro di capodanno a Roma fa pensare, che ne pensa?
In questa coraggiosa lettera si coglie la gravità della lesione psichica subita da questa ragazza e la grande sofferenza che ne consegue. Molti adolescenti dopo abusi e violenze intraprendono comportamenti autolesivi e distruttivi sia fisici che psichici con vissuti di angoscia e di vuoto, fino al ritiro sociale. Uno specifico percorso psicoterapeutico può fornire non solo strumenti di comprensione ma ricreare un’identità che consenta nuovamente di aver fiducia negli esseri umani.
Quali sono le conseguenze che chi è stata violentata si trova ad affrontare? Vittorino Andreoli ha parlato di omicidio psichico rispetto a questi drammatici fatti, lei ne aveva già lungamente parlato su Left rispetto alla pedofilia.
Per gli adolescenti che hanno subito abusi è possibile far superare loro il trauma con uno specifico trattamento psicoterapico. Per i bambini la violenza produce un danno ancora più difficile da riparare per la loro identità meno strutturata e le minori difese: per questo motivo possiamo definire la violenza sui bambini un vero “omicidio psichico”, come ho più volte sostenuto. Con Andreoli non si può essere d’accordo sul fatto che ciascun uomo, come egli ha più volte affermato, è potenzialmente un assassino. Non siamo tutti figli di Caino e non abbiamo il marchio indelebile del peccato originale.
Nel 1995 Rando Devole e Ardian Vehbiu pubblicavano il libro “La scoperta dell’Albania. Gli albanesi secondo i mass-media” mostrando come l’immagine degli albanesi in Italia fosse fortemente condizionata da stereotipi dovuti alla chiusura del Paese durante il comunismo. L’attenzione mediatica che ha avuto il turismo italiano in Albania recentemente, rivela l’attualità del libro poiché i pregiudizi sugli albanesi ancora perdurano nonostante che il regime comunista sia finito da oltre trent’anni.
Prima di addentrarci nell’attualità si deve fare una premessa al fine di collocare i viaggi turistici in Albania in una prospettiva temporale più ampia. Le relazioni tra Italia e Albania sono fortemente radicate nella storia dell’imperialismo e del colonialismo italiano nel Mediterraneo. Già alla fine dell’Ottocento, le élites politiche del Regno d’Italia miravano ad annettere territori albanesi adiacenti la costa Adriatica che facevano parte dell’Impero Ottomano. Diversi diplomatici, studiosi e giornalisti italiani visitarono la regione tra Ottocento e Novecento. I loro resoconti di viaggio divennero le principali risorse d’informazione sugli albanesi e sono utilizzati ancora oggi come fonti storiche. Non conoscendo né la lingua e né le culture locali, le impressioni dei viaggiatori erano contraddittorie e condizionate dai bagagli di pregiudizi che si portavano da casa. Gli occidentali vedevano i Paesi balcanici come una terra di passaggio tra Europa civile e oriente barbaro. Gli albanesi erano descritti come un popolo selvaggio, anarchico, “nietzschiano”, e tendenzialmente criminale che viveva diviso in “tribù” e che non poteva incivilirsi senza il sostegno dell’Italia. Questi argomenti furono utilizzati per giustificare l’annessione italiana del sud dell’Albania dopo scoppio della Grande Guerra e l’occupazione dell’intero Paese nell’aprile del 1939, alla vigilia del nuovo conflitto mondiale.
L’interesse turistico per l’Albania sorge nel momento in cui si inizia a pensare ai territori “albanesi” come futuri possedimenti italiani. Viaggiatori come Antonio Baldacci, Arturo Galanti, Pio Biondoli, Vico Mantegazza e tanti altri indicavano l’Albania come meta per cacciatori, amanti della natura e dell’alpinismo. Essi inoltre fornivano descrizioni dei costumi e degli aspetti fisici di donne e uomini, che servivano per stimolare la curiosità e la fantasia erotica dei lettori anche in funzione eugenetica. Le guide turistiche sono il prodotto del processo di domesticazione e incorporazione dell'”altro” e degli ambienti “esotici” nell’immaginario imperiale. La guida L’Adriatico orientale da Venezia a Corfù pubblicata da Giuseppe Marcotti nel 1899, dà risalto al lascito architettonico e culturale della dominazione romana e veneziana che erano considerati da molti viaggiatori italiani come gli unici periodi in cui i territori albanesi avevano goduto di pace e prosperità. Lo stesso obiettivo avevano testi più elaborati che furono pubblicati nelle decadi successive come L’Albania Antica (1924), di Luigi Maria Ugolini, finanziata dell’Ente turistico italiano e L’Albania (1940), pubblicato dalla Consociazione turistica italiana.
Le opinioni, i concetti, e le categorie di origine coloniale sono ancora diffusi nella società contemporanea dato che, ad eccezione di singoli ricercatori, una riflessione sistemica sugli effetti a lungo termine del colonialismo non è mai stata intrapresa. Al contrario, si nota come figure istituzionali elogino il colonialismo italiano considerandolo un fattore di civiltà e utilizzando dunque gli stessi argomenti che erano in voga nel periodo liberale e fascista. Non è insolito leggere articoli e libri recenti che fanno riferimento ad “Albania una e mille” di Indro Montanelli pubblicato nel 1939, come una fonte attendibile, nonostante che il libro fosse scritto per giustificare l’annessione italiana dello Stato vicino.
Il retaggio dell’ideologia coloniale condiziona anche l’attuale politica estera italiana che vede l’Albania e i Balcani come zona di espansione economica. L’Italia è il principale partner economico albanese. Vi sono oltre duemila aziende italiane in Albania, alcune delle quali operano in settori chiave come quello bancario, edilizio e energetico. A Tirana ha sede l’ufficio dell’Agenzia italiana per lo sviluppo e la cooperazione. La maggior parte dei fondi a disposizione dell’agenzia sono spesi per progetti che hanno luogo in Albania. L’economia albanese è già fortemente legata a quella italiana. Tuttavia, il governo italiano sta incitando le aziende a investire di più nel Paese vicino. In linea con queste direttive, il ministro del turismo Daniela Santanché si è recata a Tirana ad inizio agosto per convincere la sua omologa Mirela Kumbaro a dare agli operatori italiani maggiori opportunità imprenditoriali ( Salvo poi affermare Vacanze in Albania non c’è paragone con l’Italiandr).
L’attuale attenzione che la stampa italiana ha dato al turismo italiano in Albania non deriva direttamente dalle relazioni italo-albanesi, ma da altre questioni. La campagna mediatica è stata resa popolare da La Repubblica, che descriveva l’Albania come “l’ultima spiaggia” per gli italiani che non possono permettersi le vacanze in patria perché costano troppo. Lo scopo del quotidiano non era elogiare l’Albania che viene presentata come meta low cost, ma criticare il governo e in particolare il ministro Santanché per non aver valorizzato le località italiane. Il premier albanese Edi Rama ha rubato la scena a tutti/e pubblicando l’8 agosto una foto della nave albanese Vlora carica di migranti che raggiunsero le coste italiane nell’estate del 1991. Il viaggio della Vlora è famoso per il modo in cui le migliaia di persone a bordo furono trattate dalle autorità italiane. I migranti furono portati all’interno dello stadio vecchio di Bari dove furono lasciati per giorni sotto al sole senza adeguato accesso all’acqua, al cibo e a servizi igienici. Si trattò di una delle brutte pagine della transizione albanese che mostrarono l’impreparazione e il razzismo delle istituzioni italiane.
Il “trollaggio” è stato utile a Rama per catturare l’attenzione dei quotidiani italiani ai quali ha rilasciato interviste a profusione. Su Libero Edi Rama ha definito Meloni “una tigre” della politica e l’Albania come una “piccola Italia”. L’aver equiparato il Paese da lui governato a un’appendice dello Stato vicino assecondando così i disegni di espansione che ancora permangono nella diplomazia italiana, è stato un modo di fare propaganda turistica presso quella parte di popolazione che ostenta orgogliosamente i propri pregiudizi verso gli albanesi. Inoltre, Rama forse sperava di far dimenticare le critiche rivolte al suo governo da Londra a causa dei flussi di migranti albanesi che attraversano illegalmente La Manica e che sono considerati una minaccia per l’ordine pubblico del Regno Unito. L’immagine progressista che Rama vuole dare di sé, gli è utile per controbilanciare le accuse che riceve quotidianamente dai partiti e dalla stampa d’opposizione. C’è stato perfino chi ha accusato il primo ministro di essere un autocrate che mina le libertà di stampa e di distruggere il patrimonio storico e naturale del Paese mediante opere di cementificazione per fini speculativi.
Il dibattito italiano ha continuato ad evolversi indipendentemente dagli interventi di Rama. Dopo una prima fase in cui l’Albania era dipinta come una felice scoperta per vacanze popolari, la stampa italiana ha dato risalto a opinioni opposte. Il Gazzettino, Libero e altri quotidiani hanno riportato recensioni di turisti che si lamentavano dei servizi, dei prezzi e delle spiagge perché erano inferiori alle loro aspettative. Oltre al fatto che trovare una spiaggia ideale ad agosto nella costiera adriatico-jonica spendendo poco è un’ambizione velleitaria, il problema principale di queste “critiche” è che estendono un giudizio personale maturato in seguito ad una conoscenza molto limitata del territorio, a tutto il Paese. Il disappunto dei turisti italiani è dovuto alla carenza di informazioni adeguate sull’Albania. In tal modo, l’attenzione mediatica è finita per riprodurre, come al solito, una serie di stereotipi, per lo più negativi, non senza accenti razzisti come, a mio avviso, certi articoli pubblicati da Mowmag. Il ritorno ai pregiudizi classici è stato accolto con piacere da persone che, come il governatore Toti, si sono sentite oltraggiate dall’idea che l’Albania potesse essere paragonata all’Italia che, dal suo punto di vista eurocentrico, risulta avere “la percentuale più alta dei beni culturali al mondo”.
Uno degli aspetti che maggiormente colpiscono dal modo in cui è stata raccontata l’Albania è la mancanza di voci albanesi, a parte ovviamente la voce di Rama che è diventato un personaggio ubiquo. Vi sono oltre quattrocentomila cittadini di origine albanese stabilmente residenti in Italia. Molti di loro hanno le conoscenze e le capacità professionali per esprimere un punto di vista complesso sul Paese dando così la possibilità di conoscerne meglio la cultura, la geografia, la storia a chi non ha avuto la possibilità di andarci spesso o di fare studi approfonditi. Lo stesso potevano fare tanti giornalisti albanesi residenti in Albania che la stampa italiana raramente interpella. Ultimamente si parla degli albanesi come esempio di “integrazione”, ma la voce degli albanesi così come quella di molte altre comunità di origine diasporica è del tutto assente dai giornali italiani più diffusi. Indipendentemente dall’orientamento politico, la stampa nazionale non è inclusiva e non rappresentano larghe fasce della società contemporanea. Dal momento che la narrazione dell’Albania è affidata a persone che la conoscono attraverso i filtri dell’ideologia coloniale, essa sarà ciclicamente riscoperta attraverso dinamiche relazionali e categorie descrittive di stampo ottocentesco.
Ogni volta che un morto sul lavoro balza agli onori della cronaca per la quantità delle vittime o per la modalità del decesso (come nel caso della tragedia a Brandizzo che ha ucciso cinque lavoratori) si spande nell’aria il rito abusato del “mai più” e le promesse di accertamenti e la proposta di nuove leggi. Di solito mentre si svolge l’orazione funebre per le vittime che hanno avuto occasione di diventare un caso nazionale da qualche parte in Italia accade che intanto ne muoiano ancora e ancora e ancora. Morti minori, incidenti meno spettacolari, nessuna pagina nazionale.
Resta quindi la sensazione di un attivismo retorico che delega dal giorno dopo il tutto alla magistratura. La notizia riemergerà nelle fasi di indagini e negli eventuali pronunciamenti dei tribunali. Tutto scorrerà in maniera non dissimile da com’è sempre stato, in attesa del prossimo sdegno.
Vittorio Malagutti sul quotidiano Domani racconta che nel miliardo e 300 milioni tagliati dal Pnrr a luglio dal ministro Fitto ci sarebbero 500 milioni anche per l’Ermts, il sistema di gestione del traffico ferroviario che probabilmente potuto evitare l’incidente. È ovviamente solo un piccolo esempio di come la sicurezza sul lavoro e i suoi dispositivi siano un “di più” che spesso rimane nascosto tra le righe, trattato con la stessa sufficienza di un lagnoso obbligo burocratico. Che in Italia manchi una reale cultura della sicurezza sul lavoro lo ripetono da anni i vari esperti che vengono disturbati solo in caso di tragedia. Disturbarli anche nella fase di scrittura delle leggi e dei regolamenti sarebbe una prima ottima idea.
Casa di Saïda è il quartier generale delle lavoratrici agricole di Fernana, una piccola cittadina rurale a una ventina di chilometri da Jendouba, capoluogo dell’omonimo governatorato del nord-ovest della Tunisia. Nella villetta di cemento a vista incastonata tra colline coperte da pascoli, arbusti selvatici dalle proprietà medicinali e sporadiche colture, Saïda convive con la sua famiglia e con il cognato, che ne è il proprietario. Né lei né suo marito, infatti, potrebbero permettersi di pagare un affitto. La condivisione degli spazi con la famiglia allargata è serena e il patio di casa è spesso animato dal vocio delle molte donne che la vengono a trovare. Oltre a me, oggi a pranzo ci sono altre quattro ospiti: Hayet e Khouloud, membri dell’associazione locale di donne Dar Rayhana, partner dell’Ong italiana Cospe nella realizzazione del progetto Faire, di cui Hayet è coordinatrice territoriale; Fadhila e Fatma, amiche, colleghe di Saïda e sue future socie di una nuova attività economica che le vedrà coinvolte in prima persona come imprenditrici. «Qui è dove convochiamo le braccianti della regione per organizzare riunioni e formazioni, condividiamo le idee e le nostre storie. Dove Saïda ci fa sentire sempre a casa, prepara da mangiare e ci accoglie a braccia aperte», mi introduce Hayet.
Saïda ha quarantasette anni, ed è madre di tre figli che frequentano la scuola. Lei non ha potuto studiare, ha sempre lavorato come bracciante (Foto Giulia Giovagnoli)
Ma non è sempre stato così. Tre anni fa, Saïda riceveva di rado visite a casa. Né lei né le sue vicine della comunità locale avevano mai beneficiato prima di allora di interventi di sostegno governativi o internazionali. Era estranea a qualunque realtà associativa. Non partecipava a riunioni, incontri e formazioni, mentre ora ne è l’anfitriona e la promotrice. Viene adesso riconosciuta dalle altre lavoratrici rurali di Fernana come una leader, un esempio da seguire, anche se sembrerebbe non voler dare troppo risalto a questo ruolo. Alla domanda su come sia diventata femme ressource e come si senta ad esserlo, risponde imbarazzata, inclinando la testa a sinistra e nascondendo un sorriso più di umiltà che di timidezza. «Negli ultimi anni abbiamo accompagnato le braccianti della regione nel percorso di presa di coscienza riguardo ai propri diritti. Abbiamo proposto a Saïda e ad altre donne di essere femme ressource, leader nella costruzione di relazioni e di fiducia con le loro colleghe, per l’interesse e la dedicazione che hanno sempre dimostrato verso questo processo. Hanno una spiccata capacità di coinvolgimento e convocazione delle altre donne, che si fidano di loro», spiega Hayet.
Saïda ha quarantasette anni, le mani callose scolpite dal suo lavoro, orlate di unghie corte e smaltate. È madre di tre figli a cavallo del periodo adolescenziale che non hanno avuto la necessità di lasciare la scuola come ha dovuto invece fare lei all’età di tredici anni per cominciare a lavorare come bracciante, occupazione che non ha mai potuto abbandonare. Concentra nella sua statura modesta la forza e l’energia necessarie a condurre una vita gravosa con determinazione e perseveranza. Nella varietà della lingua araba parlata in Tunisia, viene riconosciuta come mra w noss: una donna e mezzo, espressione utilizzata per riferirsi alle lavoratrici agricole del Paese. Viene loro attribuito questo valore perché dimostrano una forza e una tenacia ineguagliabili nel lavorare instancabilmente per sostenere buona parte dell’economia nazionale e la vita delle proprie famiglie e comunità, nonostante siano sottoposte a condizioni di sfruttamento e di esistenza estremamente dure.
La storia familiare e personale di Saïda fa eco a quelle di tante altre donne della sua stessa zona di provenienza, in cui affonda le radici. Ricco di risorse idriche, ampie pianure e altrettanto fertili colline e montagne, il governatorato di Jendouba è uno dei principali fornitori di prodotti agricoli della Tunisia. La produzione cerealicola della regione nord- occidentale del Paese, di cui Jendouba fa parte, è stata di tale importanza sin dalla dominazione dell’impero romano da farle guadagnare l’appellativo di granaio di Roma. Percorrendo le dissestate stradine secondarie dell’entroterra, si possono notare ancora oggi le grandi estensioni di campi dorati, alternati ad appezzamenti coltivati a ortaggi, alberi da frutto, oliveti e pascoli. Come racconta Hayet, «Grandi proprietà terriere – si stima 200 ettari per famiglia – sono nelle mani di poche persone. La proprietà della terra è ereditaria e la ripartizione attuale proviene dal periodo della dominazione dell’impero ottomano. Durante la colonizzazione francese, queste terre sono state confiscate alle famiglie proprietarie ma poi, al momento della ritirata, riconsegnate esattamente alle stesse persone».
Terreno coltivato a patate. La maggior parte delle grandi coltivazioni si trova nella zona pianeggiante che si estende tra le città di Jendouba e Béja, a sud-oriente delle colline di Fernana. (Foto Giulia Giovagnoli)
La famiglia di Saïda è di origine rurale. Così come la maggior parte della popolazione esclusa dal possesso di appezzamenti maggiori, i suoi nonni e i suoi genitori avevano un piccolo orto familiare e qualche animale. Lavoravano come braccianti in terre altrui, sia gli uomini che le donne. A poco a poco, però, la situazione è cambiata. Nel cercare la risposta, le nostre commensali scoprono di avere opinioni discordanti e talvolta sfumate sul perché. Appartenere a un certo ambiente socio-culturale spesso non permette di valutare con chiarezza e neutralità i fattori che cooperano a determinarlo e a veicolare i sottili e lenti cambiamenti che lo attraversano. Al giorno d’oggi, in un territorio in cui il tasso di analfabetismo delle donne provenienti dalla zona rurale tocca il 50% – 8 punti percentuali in più rispetto alle zone rurali del resto della Tunisia, secondo l’ultimo censimento nazionale – il lavoro agricolo è loro esclusivo appannaggio, fatta eccezione per l’utilizzo dei macchinari pesanti e, purtroppo, per la supervisione del loro stesso lavoro. I dati presentati dall’Associazione tunisina di donne democratiche (Atfd) nel rapporto sulle condizioni di lavoro delle donne nel contesto rurale, mostrano che sono loro ad assicurare il 79% della raccolta dei prodotti agricoli, il 70% del diserbo e il 65% della semina.
Saïda, Fadhila e Fatma sono d’accordo su certi aspetti cruciali che motivano questa rigida divisione dei compiti: i proprietari terrieri preferiscono contrattare solo le donne perché possono pagarle di meno rispetto a quanto pretenderebbe un uomo. I soprusi e le violenze verbali, inoltre, sono all’ordine del giorno. «Anche i lavoratori subsahariani di sesso maschile guadagnano di più di noi, ma devono costantemente nascondersi e scappare dalla polizia, perché non hanno documenti», racconta Saïda con una sincera nota di compassione. Il tasso di disoccupazione nel governatorato di Jendouba raggiunge il 26%, contro il 15% della media nazionale, spingendo anche gli stessi tunisini, soprattutto uomini giovani, a intraprendere rotte migratorie quasi sempre illegali. Rimane spesso alle donne l’incarico di occuparsi economicamente, e non solo, della famiglia.
Il furgoncino Toyota da nove posti del caporale, dove verranno fatte salire diciannove braccianti (Foto Giulia Giovagnoli)
Il lavoro agricolo è strutturato attorno alla figura di colui che localmente viene chiamato intermediario: il caporale. Saïda e Fadhila si svegliano alle tre della mattina, preparano la colazione per tutta la famiglia, vestono gli indumenti da lavoro e alle quattro sono già in strada ad aspettare il suo furgoncino, che le porterà al campo talvolta in più di un’ora di tragitto. La maggior parte delle grandi coltivazioni si trova nella zona pianeggiante che si estende tra le città di Jendouba e Béja, a sud-oriente delle colline di Fernana. Nel veicolo da nove posti a sedere vengono fatte salire diciannove donne. Le loro colleghe meno fortunate vengono stipate nei cassoni dei pick-up, esposte alle intemperie e ad altri pericoli.
Quest’immagine mi riconduce al Cinema Orione di Bologna in una notte piovosa di inizio primavera. Si sta proiettando la prima nazionale del film Il frutto della tarda estate, con la presenza della regista, la documentarista franco-tunisina Erige Sehiri. Il mio viaggio nella Tunisia rurale comincia qui, tra i primi piani ripresi da basse angolazioni dei volti delle donne raccoglitrici di fichi, all’ombra dei loro alberi frondosi e collosi. Al termine della proiezione, uno spettatore confessa alla regista che nonostante dalla visione del lungometraggio gli sia risultata evidente l’estrema vulnerabilità delle lavoratrici agricole, sono mancate a suo avviso pennellate di tragicità che rendessero lo spessore della loro sofferenza: «Queste donne ridono sempre». La risposta di Erige mi rimane impressa come il primo timbro d’ingresso in Tunisia: «Grazie per l’osservazione. Riconosco che c’è un messaggio implicito culturale che può non essere compreso dall’esterno. Di fronte alla scena delle donne caricate come bestiame sui pick-up, voi le vedete solo scherzare e cantare, è vero, mentre la reazione degli spettatori tunisini è di chiudere istintivamente gli occhi e di trattenere il fiato, come davanti a una scena clou di un film horror. Si aspettano che vada a finire come purtroppo troppo spesso succede nella vita reale: gli incidenti, le morti e gli infortuni sono molto frequenti».
Oggi non sono partita con Saïda e Fadhila alle quattro di notte, ma le ho raggiunte a metà mattina in un campo di patate nelle pianure vicino a Béja. Le trovo a testa in giù, impegnate a rincalzare la terra e a estirpare le erbe infestanti insieme ad altre sei colleghe, di cui due minorenni. L’aroma delle gramigne sradicate per restituire ordine e ossigeno ai bancali coltivati fa pizzicare le narici, sempre vicine al suolo. Il sole di metà giugno tra queste terre del pretestuosamente definito Sud del mondo è già alto e opprimente. Le donne si asciugano il sudore con i lembi dei fazzoletti annodati in testa. Le vene si dilatano; le tempie pulsano. Tra le colline di Fernana l’aria è più fresca. La schiena ricurva per più di sette ore sfinisce sia le adolescenti che le loro colleghe di oltre cinquant’anni. Nei brevi minuti di riposo che si concedono ogni tanto, di preferenza in piedi, per riequilibrare il baricentro e distendere i muscoli, Latifa recita poesie d’amore, Najet fa partire una canzone dal suo cellulare e Aziza lancia baci con le mani raccolte a grappolo. Verso mezzogiorno avvisano che è quasi giunta l’ora di lasciare il campo e ci incamminiamo poco dopo verso il furgoncino. Prima di riportarle a casa dovrà passare a prendere altre undici donne in servizio in un appezzamento vicino.
Oggi, sul Toyota bianco da nove posti, escluso l’intermediario che ne è l’autista e il proprietario, siamo in ventuno. Io e Khouloud, ospiti a pranzo a casa di Saïda, insieme a Hayet che ci raggiungerà più tardi, stiamo purtroppo facendo pendere l’ago della già precaria bilancia verso un sovraffollamento ancora maggiore. Dobbiamo partire comunque. Dopo qualche minuto di scompiglio per cercare di trovare il minimo spazio vitale per ciascuna, gli animi si distendono e ricominciano l’ilarità e il chiacchiericcio. Gli uomini, dicono, non sarebbero in grado di resistere a queste condizioni. Le coltivazioni della pianura scompaiono lentamente dalla vista e risaliamo le sinuosità della prima zona collinare, sostenute e cullate dalle spalle delle vicine sulle nostre. I loro respiri solleticano la peluria del viso. Gli sguardi ormai insonnoliti convergono verso l’enorme distesa d’acqua della diga di Sidi Bou Heurtma in lontananza, che annuncia tacitamente l’approssimarsi del ritorno a casa.
La loro giornata non è finita. Dovranno occuparsi delle faccende domestiche, della cura dei figli e, alcune, del proprio pezzetto di terra o di qualche animale da allevamento.
Come ogni altro giorno di lavoro – normalmente sei su sette, oggi hanno guadagnato 10 dinari a testa: 3 euro, che verranno corrisposti loro alla fine della settimana. In nero, senza assicurazione sociale, garanzie per il futuro né misure di sicurezza. Nessun diritto alle ferie e alla copertura in caso di malattia o di infortunio. All’intermediario spettano 5 dinari al giorno per ciascuna donna che porta a lavorare: oggi ne ha guadagnati 95.
Secondo lo studio L’economia informale in Tunisia, realizzato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo – Undp e dall’Organizzazione internazionale del lavoro – Oil, «il settore agricolo è uno dei maggiori serbatoi di occupazione informale nel Paese e presenta il più alto tasso di informalità, pari all’85,6%. In questo quadro, il drammatico ripetersi di incidenti mortali legati al trasporto non sicuro delle donne che lavorano nel settore agricolo ha suscitato più volte scalpore tra i tunisini. Molti si sono anche indignati per la mancanza di una copertura previdenziale decente e, soprattutto, di un quadro normativo in grado di proteggere queste donne dalle pratiche di sfruttamento illegale messe in atto da intermediari e trasportatori, analoghe a quelle della tratta di esseri umani».
«Non possiamo stare senza intermediario», spiega Saïda, mentre ci offre il the amaro e corposo che si beve dopo pranzo, «perché il proprietario terriero vuole negoziare solo con una persona, e solo con un uomo. Solo lui ha i contatti degli agricoltori, ci trova il lavoro, si occupa del trasporto e ci supervisiona. Proviene sempre dalla nostra stessa zona. Per esempio, noi siamo tutte di Fernana, e andiamo a lavorare dove c’è bisogno, anche lontano da casa. I nostri uomini, mariti e padri, si sentono sicuri solo se ci accompagna un altro uomo della stessa comunità». Khouloud sottolinea: «Non so se il termine sia appropriato, ma tra di noi questa la chiamiamo mafia». Sostenuta da dinamiche sociali conservatrici e patriarcali.
Fadhila è più silenziosa di Saïda, forse più introversa, ma i suoi ampi sorrisi rivelano la stessa accoglienza e le sue strette di mano la stessa tenacia. Riprende il discorso dell’amica, aggiungendo che, nonostante tutto, ora si trovano meglio con l’attuale intermediario. «È un caso più unico che raro: non ci tratta male. Se abbiamo bisogno di qualche dinaro in un periodo dell’anno in cui non c’è lavoro o durante la settimana, prima che arrivi la paga, lui ce li presta, per poi trattenerli da quella successiva. Il vecchio intermediario, invece, ci sfruttava molto. Voleva che lavorassimo il doppio turno giornaliero, mattina e pomeriggio, ma del secondo ci pagava solo una piccola parte, intascandosi il resto. Ci siamo ribellate e ne abbiamo cercato un altro».
Fatma, cinquantasette anni. Un paio di mesi fa, dopo trentacinque anni di lavoro come bracciante, si è fatta male alla schiena. La sua speranza è il progetto di allevamento di pecore. (Foto Giulia Giovagnoli)
Per Fatma, invece, alta e magra, uno sguardo malinconico incorniciato da rughe simmetriche che finiscono dove cominciano le cuciture dell’elegante hijab azzurro, la situazione è adesso più complicata. È la più anziana del gruppo. Un paio di mesi fa, dopo trentacinque anni di lavoro come bracciante, si è fatta male alla schiena. Non potrà più lavorare come le altre, quindi non ha nessuna possibilità di chiedere un anticipo all’intermediario. Il marito riesce a trovare solo occupazioni occasionali. Fanno fatica a sostenere le proprie spese mediche e quelle della figlia con disabilità. L’unica alternativa su cui Fatma sta riversando le speranze è il progetto di allevamento di pecore che ha proposto insieme a cinque amiche e colleghe, tra cui Saïda e Fadhila, alle responsabili del progetto Faire.
Coronando gli sforzi fatti per sostenere le braccianti nel rendersi protagoniste del proprio futuro, Cospe e Dar Rayhana le hanno accompagnate nell’identificazione e nell’elaborazione di idee di impresa collettive, contribuendo al loro finanziamento. «Le donne rurali sono portatrici di un grande savoir-faire. Non sono passive, hanno tantissime cose da insegnare. Conoscono la vita meglio di noi, e noi contribuiamo affinché possano conoscere i propri talenti, i propri diritti. È importante che sentano che il dialogo con noi sia privo di pregiudizi; devono potersi sentire libere di condividere con noi qualunque aspetto che vogliano delle proprie vite. Possono certamente cambiare la loro vita, ma non dev’essere imposto. La visione di Dar Rayhana è che l’empowerment economico sia il problema principale nella regione. Un giorno, durante un focus group, una donna ci ha detto che aveva subito violenza dal marito perché gli aveva chiesto dei soldi per comprare del pane. Abbiamo capito che dovevamo partire da lì. Affrontando i diritti economici, possiamo arrivare ad affrontare a poco a poco anche tutti gli altri», racconta Nacyb, presidentessa di Dar Rayhana che ci è venuta a prendere a casa di Saïda mentre il pomeriggio volge ormai al termine.
Hayet sorride guardando in camera, insieme a Nacyb, alle prese con la corda del secchio, Saïda a sinistra e Samia, bracciante e sua vicina di casa. Sono venute a visitare Samia per scambiarsi consigli: anche lei sta per avviare la propria attività economica, insieme ad altre colleghe e amiche. (foto Giulia Giovagnoli)
Prima di accomiatarci, Saïda vuole mostrarci dove alleveranno le pecore da carne. Con l’aiuto della figlia maggiore, approfitta per portare al pascolo nel terreno sotto casa del cognato i pochi ovini della sua famiglia, che si annunciano irrequieti e scalpitanti facendo rimbombare le corna contro il portone della stalla. «Ci occuperemo delle pecore in sei amiche, vicine e colleghe che conosco da molti anni. A rotazione, due di noi ogni giorno si occuperanno dell’allevamento, mentre le altre andranno a lavorare nei campi. Anche prima ci aiutavamo a vicenda, ma senza conoscere bene i nostri diritti. Ora ci siamo rafforzate, riconosciamo meglio le ingiustizie, sappiamo organizzarci e prendere decisioni. Il prossimo passo potrebbe essere creare un’associazione o un Gda (Gruppo di sviluppo agricolo) tra di noi, per poterci strutturare ancora di più, ricevere finanziamenti e sovvenzioni statali e renderci indipendenti dal lavoro come braccianti».
Wiem, la figlia maggiore di Saïda, segue con lo sguardo la madre e l’ascolta attentamente. Ogni tanto scatta a rincorrere un animale che cerca di allontanarsi dal gregge e lo riporta indietro, tra le sue braccia o trascinato da una corda. Il sole ormai basso illumina di taglio le colline punteggiate di cespugli e di edifici spogli di cemento. Dal loro tetto piatto si innalzano le barre di ferro per la costruzione di un ulteriore piano, lasciate a vista come promemoria e proposito di un futuro più prospero. Chiedo a Wiem se le piace vivere qui. «Sì, ma ho visto mia madre soffrire così tanto in tutti questi anni che non voglio lavorare in agricoltura, in nessuna mansione. Se proprio dovesse rendersi necessario, farei almeno lavorare gli uomini al posto delle donne!».
Salutiamo Saïda e la sua famiglia, Fadhila e Fatma. Mentre imbocchiamo la strada per Jendouba, Khouloud rassicura che le rivedremo presto: «Conosco queste donne sin dall’inizio del progetto Faire; ho cominciato questo viaggio con loro. Penso che siano le nostre eroine nazionali. Durante la pandemia, quando la maggior parte di noi stava seduta a casa, loro andavano al campo a lavorare per darci da mangiare, rischiando la propria salute, come fanno ogni giorno. Io le ho conosciute in quel periodo. Appena possibile, le andavamo a trovare a casa e loro venivano alla casa della nostra associazione a preparare il caffè. È una connessione meravigliosa, non è solo lavoro. Noi non le stiamo aiutando, stiamo solo cercando di essere mediatrici affinché possano migliorare le proprie condizioni di vita e nel frattempo impariamo da loro. Lavoriamo così, come attiviste dell’associazione; crediamo che le relazioni umane siano la cosa più importante. Ciò che rimarrà per sempre, anche quando i progetti saranno terminati. Noi continueremo ad andarle a trovare e a farci forza a vicenda, perché sono nostre sorelle».
People, planet, peace: l’8 settembre a Firenze l’evento per i 40 anni del Cospe
Dal 1983 l’Ong è attiva in molti angoli del mondo con progetti incentrati sul ripudio delle ingiustizie sociali e delle discriminazioni di ogni genere, sulla giustizia ambientale e sulla cura dei beni comuni. In occasione dell’anniversario dei 40 anni, dalla mattina fino alla sera dell’8 settembre a Firenze sono in programma numerosi eventi (il programma completo di People, planet, peace qui). Incontri con gli operatori Cospe, dibattiti sui diritti ambientali e civili, mostre di fotografia e, in chiusura della giornata, lo spettacolo The story is sick (nella foto), con la compagnia teatrale palestinese Ayyam al Masrah – Theater Day Productions, l’unica attiva dal 1995 nella Striscia di Gaza. Introducono lo spettacolo il console italiano a Gerusalemme Giuseppe Fedele e l’attore e scrittore Moni Ovadia.
Il video l’ha pubblicato il quotidiano inglese The Guardian perché si sa che i migranti morti vanno raccontati a debita distanza per non sporcare il tappeto del salotto. Mostra una donna magra, magrissima, praticamente uno scheletro riversa a terra con gli occhi spalancati di chi è stata mangiata dalla sua disperazione. Al suo fianco un’altra donna grida ripetutamente è morta, è morta, è morta con una voce che sembra un ripetersi di spari.
La scena è stata ripresa nel campo di detenzione di Abu Salim, ai bordi di Tripoli, la capitale libica dove l’Italia è il grande sponsor, con le spalle coperte dall’Unione europea, della contemporanea Shoah che come quell’altra accade serenamente nell’indifferenza delle istituzioni. Di quella donna non sappiamo nulla, come non sappiamo quasi mai nulla dei migranti che dalle nostre parti sono solo numeri e percentuali che calano o crescono e poi vengono dati in pasto all’una e all’altra parte politica. Quella donna probabilmente se fosse riuscita a trovare le forze per imbarcarsi e se avesse avuto la buona sorte di non finire incastrata in fondo al mare avrebbe potuto meritarsi l’etichetta di clandestina qui da noi, prima di essere sballottata in altri illegali centri di detenzione, questa volta nostrani, dove almeno c’è da bere e da mangiare.
Quello che sappiamo è che i finanziatori del campo che l’ha stremata fino a lasciarla morire siamo noi. Quella donna è il risultato del “Piano Mattei” che viene sventolato come vittoria per “aiutarli a casa loro” e che non gocciola dalle mani insanguinate delle autarchie nemmeno un ciotola di riso per trovare le forze che servono al giorno successivo.
Buon giovedì.
Nella foto: frame del video diffuso da The Guardian
Forse è proprio vero che la crisi è il motore più profondo per una vera risposta estetica. Questa riflessione non viene di certo compiuta per la prima volta adesso. Chi scrive è stato molti anni fa folgorato da una frase che gli disse Bruno Zevi «Saggio, la modernità è ciò che trasforma la crisi in valore e suscita una estetica di rottura e di cambiamento».
Da allora ho rivoluzionato il mio modo di pensare e di fare. Ho cercato sempre di partire da una crisi e quanto più acuta essa fosse, tanto meglio era.
Per esempio, ragioniamo sui nuovi strumenti informatici. Ebbene, questi strumenti non sono affatto “soluzione” o una “scorciatoia del fare”, ma l’esatto contrario. Sono delle sfide. Ci chiedono come il nostro operare debba modificarsi alla luce di queste nuove potenzialità. Come non possono non mutare con l’avvento di una potenzialità parametrica i parametri del nostro lavoro? Un progetto è pensato ormai come un insieme di variabili in costante mutazione che non solo determinano un nostro diverso modo di progettare dal punto di vista pratico ma devono portare a un esito molto diverso nell’aspetto e potenzialità delle nuove architetture rispetto al passato. Riflettiamo: la presenza della macchina ha determinato un processo progettuale radicalmente diverso dalla architettura rinascimentale e “allo stesso tempo” anche una costruzione basata sui nuovi concetti di trasparenza, di economicità, di funzionalità. Lo vediamo bene quando guardiamo alla città e all’architettura nata dalla rivoluzione industriale. Similmente, nella rivoluzione informatica non cambia solo il “modo” di progettare, ma deve cambiare l’essenza stessa dell’architettura che assorbe in sé quei caratteri parametrici, interattivi, mutabili. addirittura “intelligenti”, della informatica stessa.
La riflessione sulla crisi ha avuto un grande campo di applicazione nell’ambito del dottorato di ricerca in Architettura Teorie e Progetto negli anni dal 2011 al 2018 a “Sapienza”. Molti lavori sono partiti dalle criticità che si aprono nel mondo contemporaneo.
Per esempio, il mondo della costrizione e delle carceri, il mondo dei rifiuti, il mondo delle crisi ambientali e idriche e, venendo a noi, il mondo dell’immigrazione e dei campi profughi. La storia illustrata di Fiamma Ficcadenti nasce esattamente in questo ambito. Fiamma ha realizzato un gran lavoro “scientifico” proprio nella sua dissertazione dottorale “Architettura dell’Impermanenza”, per capire non solo che cosa sia il mondo dei campi profughi nelle sue implicazioni sociali, politiche e umane, ma che è anche servito a delineare quali possono essere le idee nuove che urbanistica e architettura possono offrire esattamente affrontando queste crisi. Il processo di studio di queste nuove criticità allarga così il campo di azione della stessa disciplina architettonica. Che ora è in grado di offrire idee e soluzioni in questo campo, come similmente è avvenuto nel settore dei rifiuti, delle carceri o delle crisi idriche. La dissertazione dottorale di Fiamma da questo punto di vista è straordinaria ed è in pubblicazione in un libro con la casa editrice Quodlibet.
Ma un bel giorno Fiamma mi ha mandato le prime tavole della storia illustrata “Io non sono qui” (Vita nostra edizioni). Queste tavole mi hanno colpito immediatamente per un insieme di ragioni. Innanzitutto la forza del tema che è appunto un argomento di rilevanza storica e che viene sentito e interpretato da chi lo conosce a fondo – certamente – ma anche da chi rivela una straordinaria anima poetica. Ma mi colpì anche che quanto conoscevo attraverso il suo ponderoso lavoro di ricerca ora si muoveva nel campo dell’espressione. Un tema cosi drammatico da spingere la nostra autrice – la immagino la notte a scrivere e disegnare dopo una giornata in cantiere – a darne una interpretazione attraverso lo scritto sempre giusto e intelligente e dei disegni che mi apparivano meravigliosi.
Pur amando da sempre il fumetto come modalità espressiva, non ho gli strumenti professionali per illustrare al lettore la forza e la bellezza di quanto Fiamma ha realizzato. In fondo però non è necessario, basta guardarlo.
Il suo lavoro parla da sé e sono certo che chi lo legge ne sarà rapito: dalla forza del disegno, dall’acutezza della scrittura, dalla capacità di trasformare la crisi in valore e in una nuova estetica. Una estetica dura, anti-indulgente, anti-retorica e alla fine necessaria all’autrice, ma anche a far muovere il lettore nella direzione della vita e dell’amore.
In apertura e nel testo: illustrazioni di Fiamma Ficcadenti
Il prode conduttore televisivo Andrea Giambruno, nonché compagno della presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva promesso che in qualità di primo first gentleman nella storia d’Italia sarebbe stato invisibile. Sì, ciao. Non riuscendo a controllare il testosterone che gli chiedeva di uscire dal dietro le quinte ha scelto di condurre una trasmissione di carattere politico. Il compagno della presidente del Consiglio che tutti i giorni in tivù discetta di politica pretendeva di non essere associato a Meloni. Che beata ingenuità.
In veste di conduttore di trasmissione politica il prode Giambruno è riuscito a inanellare una strepitosa serie di figure barbine che talvolta gli hanno fatto meritare articoli più estesi di quelli dedicati alla non moglie. L’ultima risale a pochi giorni fa quando, con la capacità analitica di un giocatore di briscola al bar di fronte al sesto bicchiere di vino bianco, ha detto che se le donne non bevono sono al sicuro. Un’idea strepitosa al pari di quella del ministro Piantedosi che consigliava ai disperati di morire di fame e di guerra nei loro Paesi per non rischiare di morire annegati.
Dopo avere detto una banale sciocchezza che fa Giambruno? Torna in televisione e contrattacca: «anche le mamme dicono alle proprie figlie di stare attente», dice il prode Giambruno, dimostrando di non sapere la differenza tra un messaggio giornalistico e un rimbrotto materno. Avrebbe potuto scusarsi, spiegare meglio la sua frase che ha fatto scalpore. Niente di tutto questo: Giambruno contrattacca. «E la sinistra, quindi, vuole tutti ubriachi, drogati?», risponde. Niente, proprio non riesce a tenere a freno il testosterone.