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La scuola pugnalata da Calderoli

«Quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il Presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue …». Queste sono le parole che il padre costituente Piero Calamandrei disse agli studenti l’11 febbraio 1950. Fissiamole bene a mente. Non si sono dedicate adeguate analisi alle possibili conseguenze sul sistema nazionale dell’istruzione dei provvedimenti relativi all’autonomia differenziata, che saranno messi in campo se il ddl 615, promosso dal ministro degli Affari regionali, Roberto Calderoli, dovesse andare in porto.

I dispersi e i salvati

Dispersione scolastica significa dispersione sociale. Il quadro è ormai chiaro, dopo decenni in cui in Italia il tasso di abbandoni scolastici, nonostante leggere flessioni nel tempo, è rimasto costantemente alto, collocando il nostro Paese tra i primi in Europa. Ed è altrettanto evidente che il sistema scolastico, da solo, non può arginare questo fenomeno. Si tratta di un’emergenza sociale complessa le cui cause sono molteplici, tra cui: gravi condizioni economiche delle famiglie, povertà educativa, contesti territoriali disgregati, assenza di servizi per la prima infanzia. Una situazione ben nota da anni ma, a quanto pare, visti i dati negativi che persistono, le soluzioni si sono rivelate sempre insufficienti. E tali appaiono anche gli interventi previsti nel Pnrr. La dispersione scolastica è la punta di un iceberg, il campanello d’allarme sulle condizioni di vita di un’Italia povera, economicamente e culturalmente, ma soprattutto senza sbocchi per il futuro. Perché poter studiare, anche in questi anni tormentati da crisi, pandemia e guerra, rappresenta una speranza di cambiamento. Individuale e collettivo. Viceversa, rinunciare alla scuola significa incontrare maggiori rischi di disoccupazione o lavoro in nero e minorile, povertà, esclusione, e anche, purtroppo, possibilità di devianza.

L’inganno del liceo made in Italy

Qualcuno sostiene che la destra al governo abbia dovuto sottostare in molti campi a vincoli e accettare di conseguenza annacquamenti e mediazioni. Sarà anche così, ma non sulla scuola. Sulla scuola sta facendo la destra.
Porta avanti la propria visione che, se sorprende, è per la nitidezza del progetto e l’ostentazione con cui viene esposta. Come se desse per scontata l’approvazione collettiva.
Questo a mio parere è il frutto da un lato, di un senso comune di taglio profondamente conservatore che non si è riusciti minimamente a scalfire; dall’altro, della incertezza del centrosinistra di governo che negli anni sul tema scuola ha commesso un errore dietro l’altro. La lista sarebbe lunga ma adesso siamo in emergenza e non serve l’elenco degli errori. Occorre capire (e farlo capire alla scuola e al Paese) cosa sta succedendo. Perché sta passando il messaggio che il “disastro” della scuola sarebbe colpa dello spirito che mosse le sperimentazioni partite dagli anni Settanta, di Barbiana, dell’egualitarismo che avrebbe eliminato ogni gerarchia, il riconoscimento del merito e quindi la valorizzazione dei migliori.
Possibile che non si riesca a vedere come il modello allo sfascio, perché anacronistico in una società che non può che reggersi su una cultura alta e diffusa, è ancora quello gentiliano che purtroppo porta benissimo i suoi cento anni?

L’anno che verrà

foto di Renato Ferrantini

Settembre è il mese delle ripartenze, della ripresa delle attività, una specie di nuovo inizio anno dopo la sospensione estiva. E tra le ripartenze ce n’è una che coinvolge milioni di persone: è l’avvio del nuovo anno scolastico. Quindi è giusto chiedersi che anno sarà per la scuola italiana, per gli studenti e le studentesse, per tutti coloro che nella scuola lavorano: docenti, personale Ata, dirigenti. Lo facciamo con la consapevolezza che stiamo parlando della infrastruttura sociale fondamentale per il Paese, per il suo sviluppo democratico ed economico, presente ovunque, dalla grande città ai piccoli centri. Lo facciamo perché ci interessa, perché è un patrimonio che ci appartiene e che vogliamo preservare e difendere: la scuola pubblica. La scuola misura lo stato di salute sociale e democratico di un Paese.
La sua missione fondamentale è concorrere all’uguaglianza sostanziale concretizzata dall’articolo 3 della Costituzione, fondamento del principio di solidarietà. Significa cioè che le è affidato il compito di assicurare l’uguaglianza delle condizioni di partenza, di fare cioè in modo che tutti e tutte partano sulla stessa linea. È lo strumento più potente per combattere le disuguaglianze e nello stesso tempo per assicurare, attraverso gli strumenti della conoscenza, la libertà. È il luogo dell’inclusione perché è aperta a tutti e tutte. Perché è bene ricordare il senso e gli obiettivi della scuola pubblica?

La risposta è che questo senso e questi obiettivi si sono persi o fortemente attutiti nelle scelte del decisore pubblico negli ultimi venti anni e nella stessa narrazione pubblica che si fa sulla scuola. Se passiamo in rassegna le scelte politiche che abbiamo alle spalle, il sistema di istruzione è stato troppo spesso oggetto di tagli e non di investimenti e gli interventi di riforma sempre subiti e non condivisi con coloro che devono farsene carico tutti i giorni: gli insegnanti e il personale della scuola tutto.

Infine mi riferisco alla tentazione – sempre presente – di privatizzazione del sistema pubblico di istruzione. Questo quadro non muta molto se guardiamo ad oggi. I tempi che attraversiamo sono caratterizzati da un aumento delle disuguaglianze sociali, territoriali ed economiche, un impoverimento delle condizioni materiali che è aumentato nell’ultimo anno per effetto della crescita dell’inflazione, con un rafforzamento delle disparità generazionali di genere. Nello stesso tempo stiamo attraversando cambiamenti epocali – transizioni – che pongono al centro della possibilità di competere dell’Italia la conoscenza e la scienza: mi riferisco allo sviluppo delle tecnologie digitali e alla riconversione ecologica delle produzioni e degli stili di vita. Sfide che impongono un cambiamento del punto di vista e politiche lungimiranti finalizzate alle prossime generazioni, le Next generation evocate dall’importante programma europeo licenziato dopo la crisi Covid. Cioè, ci troviamo in una fase delicata e di passaggio in cui le politiche pubbliche dovrebbero promuovere il contrasto alle polarizzazioni e alle disuguaglianze di accesso, garantendo una maggiore offerta di istruzione pubblica, allargando e rendendo effettivo il diritto all’istruzione ben oltre il termine obbligatorio di studi: quella formazione permanente e lungo l’arco della vita necessaria per affrontare questi rapidi cambiamenti e contrastare le nuove esclusioni sia occupazionali che democratiche.

Purtroppo non è questo che sta accadendo. Il governo di destra che si è insediato meno di un anno fa ci propone ricette note e stravecchie. In termini generali dopo la approvazione della legge delega sul fisco, abbiamo più di qualche preoccupazione, se non evidenti certezze, che il sostegno economico al sistema di welfare di questo Paese e alle istituzioni della conoscenza rischia di essere pregiudicato. Sulle questioni invece specifiche, siamo alle prese con l’ennesimo taglio delle istituzioni scolastiche o dimensionamento che dir si voglia, che sotto la presunta egida del Pnrr ridurrà del 9% le scuole esistenti. Peccato che il Pnrr c’entri poco e che ci troviamo di fronte ad una sorta di spending review sulle spalle degli studenti.

Decreti come un cinegiornale

Tra cent’anni quando storici e studiosi studieranno questo tempo potranno tranquillamente scorrere i nomi affibbiati ai decreti passati dal Consiglio dei ministri per ripassare la cronaca. Dal decreto Cutro al decreto Caivano la propaganda governativa nei suoi decreti più pubblicitari che legislativi ha trasformato l’attività politica in cronaca nera di risulta. Se accade qualcosa di tragico Giorgi Meloni e la sua schiera di ministri sono pronti a confezionare un bel decreto con qualche nuova punizione: è il panpenalismo tipico degli incapaci a governare le trasformazioni. 

Nel decreto “Caivano”, l’ultimo della serie, si prevede di risolvere il disagio giovanile mandando in carcere i genitori che non garantiranno la frequenza della scuola obbligatoria. Risolvere il disagio di un ragazzo arrestando i genitori è un’idea che suggerisce una chiara idea del solo della politica: tamponare, incerottare per inettitudine nel costruire. Della stessa stregua è l’ossessione dei siti porno come colpevoli degli stupri, secondo la stessa strategia dell’alienazione per cui la “colpa” di tutto ciò che accade sia sempre “fuori” dalla società. 

Così, insieme all’ennesimo osservatorio che nel giro di qualche anno si ritroverà senza mezzi e senza risorse, si pensa a un nuovo proibizionismo: quello telefonico. Nel Paese in cui non si riesce a evitare che i detenuti pubblichino le loro gesta su TikTok il governo aveva due strade: ammonire i grandi gruppi dietro i social o partorire una punizione (che non riusciranno a controllare) contro i ragazzetti. Inutile dire quale strada abbiano preso. 

Buon giovedì.

Chiara Saraceno: Quanti errori nel Pnrr sugli asili nido

I primi anni di vita sono fondamentali per lo sviluppo del bambino. E gli asili nido e la scuola dell’infanzia sono gli strumenti della formazione considerati ormai essenziali per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica. Soprattutto al Sud e nelle isole dove sono quasi inesistenti e dove il tasso di dispersione invece è altissimo. Per indagare le varie cause del fenomeno, il Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza per la prima volta ha promosso una commissione ad hoc di esperti e il risultato è stato un documento di studio e proposta pubblicato nel 2022 in cui l’assenza dei servizi per l’infanzia risulta tra le cause degli abbandoni scolastici precoci. Ma a che punto siamo con la grande operazione messa in piedi dal Pnrr, che proprio per asili nido e scuola dell’infanzia ha stanziato 4,6 miliardi di euro nella “missione 4”? Le notizie non sono confortanti. Anzi. Secondo quanto riporta il Sole 24 ore del 19 agosto, degli oltre 2500 progetti soltanto 900 prevedono la costruzione di nuove strutture e di questi circa la metà al Sud. Gli altri, si legge nell’articolo, riguardano ampliamenti di asili nido e scuole dell’infanzia già esistenti. Ricordiamo che l’obiettivo fissato nel Consiglio europeo del 2002 era di arrivare ad una copertura del 33% dei posti entro il 2010 (mai raggiunto in Italia) e che adesso l’Ue rilancia al 45% entro il 2030. Il rapporto Openpolis/Con i bambini del 2021 attesta che siamo al 25,5%, con 18,5 punti di divario tra Centro-nord e Sud. Eppure i servizi per la prima infanzia sono essenziali anche per promuovere la partecipazione al lavoro delle donne. In sostanza, sono diritti da garantire a tutti e questo porta un significativo cambiamento per tutta la società. E a maggior ragione nelle aree disagiate economicamente e socialmente.
Per fare il punto della situazione abbiamo rivolto alcune domande alla sociologa Chiara Saraceno che da tempo è impegnata, con i suoi scritti e anche in una rete di associazioni, nella battaglia per garantire a tutti i bambini i servizi della prima infanzia e che già su Left  aveva messo in guardia sull’assenza di interventi efficaci da parte dello Stato.

Professoressa Saraceno, frequentare asili nido e scuola dell’infanzia è considerata una importante prevenzione contro la dispersione scolastica, soprattutto in territori disagiati e nel caso di contesti familiari difficili. Sugli asili nido lei da tempo sostiene la necessità di colmare il divario esistente in Italia. Qual è il bilancio in questo momento? I fondi del Pnrr sono stati assegnati ai Comuni che ne sono privi? Sono riusciti a partecipare ai bandi soprattutto al Sud?
La situazione non è rosea. Ci sono stati, a mio parere, errori fin dall’inizio. Invece di verificare in quali comuni o comprensori si era più lontani dall’obiettivo di copertura del 33% e di conseguenza individuare dove destinare prioritariamente i fondi, si è deciso sì di attribuire una quantità di risorse maggiore al Mezzogiorno, notoriamente carente nella disponibilità di questi servizi, ma poi si è affidata la concreta “messa a terra” al meccanismo dei bandi, quindi alla decisione e capacità dei Comuni di parteciparvi. Come se la decisione se garantire o meno la scuola primaria fosse lasciata alla decisione di una giunta comunale.

E il risultato quale è stato?
Il risultato è che proprio i comuni più sguarniti spesso non hanno partecipato ai bandi, per sovraccarico di lavoro, mancanza di personale e professionalità adeguate, per motivi culturali (si pensa ancora che i nidi servano soprattutto alle mamme che lavorano, e dove l’occupazione delle donne in generale e delle madri in particolare è scarsa, i nidi sembrano inutili), per timore di non ricevere nel tempo dallo Stato le risorse necessarie per farli funzionare. Non a caso i bandi per il Sud sono stati riaperti più volte e ciononostante non ci sono state risposte per fruire di tutti i fondi disponibili. Si aggiunga che molti dei progetti presentati erano allo stato di abbozzo e richiedono un lavoro aggiuntivo per diventare operativi, nonostante, tardivamente, sia stata approntata una struttura professionale di accompagnamento ai comuni che ne avessero bisogno. Ora bisognerà controllare strettamente che i fondi non spariscano o non siano destinati ad altro. Si può accettare un ritardo, anche per fare le cose come si deve, ma avendo presente che nel frattempo si possono ulteriormente allargare i divari territoriali nella disponibilità di questo servizio così essenziale per la riduzione delle disuguaglianze tra bambini nelle opportunità di buona crescita, così come si allarga il divario tra la situazione italiana, che arranca a garantire il 33% di copertura a livello nazionale e il nuovo obiettivo europeo fissato al 45% per il 2030. Aggiungo che c’è un altro problema che né il governo precedente né l’attuale hanno messo a fuoco.

Qual è il problema?
Non basta creare nuovi posti nido, occorre anche farli funzionare quotidianamente e anno dopo anno. Se l’ultima legge di stabilità del governo Draghi, avendo definito la copertura del 33% un livello essenziale di prestazione ha anche allocato risorse per la gestione per gli anni a venire (che ovviamente andranno confermate e aggiornate), c’è un grave problema di personale che andrebbe affrontato subito: mancano le educatrici/educatori preparati, perché è una professione non molto considerata, anche a causa del diverso trattamento e opportunità professionali (e condizioni contrattuali) di cui godono le educatrici dei nidi rispetto alle insegnanti della scuola dell’infanzia. Le prime, con la sola laurea triennale, possono lavorare solo nei nidi, le seconde, con la laurea magistrale possono insegnare anche nella scuola primaria. Per avere un numero adeguato di educatrici/educatori il Ministero dell’istruzione, che ha la responsabilità dei nidi, dovrebbe interagire con quello dell’università innanzitutto per sollecitare le università a istituire corsi di laurea dedicati là dove mancano e invece i nidi dovrebbero aumentare e comunque a programmare attentamente le iscrizioni in rapporto agli aumenti previsti. Il settore nidi può diventare uno sbocco professionale interessante, ma deve essere programmato con attenzione. Poi si potrebbe anche discutere dell’opportunità di una carriera unica nell’ambito dello 0-6.

Oltre alle difficoltà da parte dei Comuni dovute alla mancanza di personale e all’organizzazione, c’è anche un gap culturale che impedisce la realizzazione di asili nido? E come si può superare?
Come ho già detto, prevale ancora l’idea che i nidi siano solo o prevalentemente un servizio di conciliazione per le mamme che lavorano. In parte sono concepiti così anche nel Pnrr. In questo modo si sottovaluta il loro essenziale ruolo educativo, non sostitutivo o surrogatorio a quello materno/familiare, ma complementare: importante per tutti i bambini ma in particolare per quelli in condizioni di svantaggio economico, sociale, culturale, inclusi i bambini di origine straniera. Non si aiutano neppure le madri, perché legare l’offerta di nidi all’occupazione materna impedisce alle madri che non sono occupate di cercare un’occupazione, di (ri)mettersi in formazione, di pensarsi non solo come madri. Occorre accompagnare l’aumento dell’offerta di nidi con un lavoro culturale, che persuada i genitori che il nido è una cosa buona per i loro bambini ed anche per loro, come opportunità di confronto e di rafforzamento delle propri capacità genitoriali.

Questo governo a parole parla molto di natalità, hanno organizzato anche gli Stati generali della natalità a maggio, ma al di là dei bonus, lei ritiene che ci sia davvero la volontà di creare dei servizi per l’infanzia? O prevale l’idea di famiglia chiusa in sé stessa con la donna che ritorna a fare l’angelo del focolare?
Credo che sulla necessità di aumentare l’offerta di nidi il consenso sia abbastanza trasversale, così come trasversale è la diversità delle motivazioni. Non credo che il problema con l’attuale governo sia che si vuole far tornare la donna a fare l’angelo del focolare, anche se non vedo grandi passi avanti sulle politiche di conciliazione ed anche quelle di parità salariale e non solo. Piuttosto, per rimanere ai bambini, vedo che c’è una certa difficoltà a considerare l’importanza della co-genitorialità, del coinvolgimento dei padri fin da subito.

Venendo al tema della lotta alla dispersione scolastica, il 6 ottobre EducAzioni, la rete di cui lei è portavoce, presenterà a Roma un Vademecum sui “patti educativi di comunità”. Che cosa prevedono in concreto per contrastare la povertà educativa?
Prevedono la creazione di alleanze territoriali, con e attorno alla scuola (inclusa quella dell’infanzia e i nidi), tra soggetti diversi, pubblici, di terzo settore, privati, per arricchire il curriculum educativo delle bambine/i e adolescenti specie nelle aree più svantaggiate. Si tratta d esperienze già in atto e diffuse, ma che mancano di un quadro normativo e di governance che garantisca continuità. Perché diventino una politica educativa normale proponiamo tre linee di azione.

Può spiegare nei dettagli?
Innanzitutto la costruzione di un sistema di governance integrato che permetta la collaborazione sinergica, strategica e operativa, tra i diversi soggetti impegnati nell’ambito delle politiche educative, del lavoro e del sociale, prevedendo e rafforzando processi che includano i ragazzi e le ragazze come protagonisti attivi nella definizione delle politiche che li riguardano. Il secondo punto riguarda un cambio di paradigma nelle procedure e negli strumenti di erogazione delle risorse finanziarie: dal bando competitivo a percorsi di co-programmazione e co-progettazione, in un rapporto paritario tra i diversi attori della comunità educante, che includano anche i ragazzi e le ragazze; sul rafforzamento dei soggetti e delle esperienze già riconosciute; e per l’identificazione di aree più vulnerabili, secondo dati statistici. E infine proponiamo un rafforzamento delle risorse a disposizione dei Patti Educativi attraverso un fondo ordinario, l’ampliamento quantitativo delle risorse economiche e l’aggiunta di alcuni criteri di assegnazione per l’erogazione di risorse ordinarie alle scuole.

Sul tema della dispersione scolastica e sui problemi della scuola che sta per ripartire, vedi il numero di Left in uscita l’8 settembre, in edicola e online

L’odissea di Seydou e Moussa raccontata da Matteo Garrone

C’è aria di festa a Dakar: ad animare le strade, in occasione del Sabar, colori, musica e canti. È qui, in un villaggio di etnia wolof, che vivono Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall), condividendo la passione per la musica e il sogno di raggiungere l’Europa.
In concorso alla 80esima Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia – e in sala dal 7 settembre con 01 Distribution – Io capitano di Matteo Garrone racconta il viaggio dei due giovanissimi protagonisti che decidono di lasciare il Senegal e che, costretti a farlo clandestinamente, affrontano gli orrori dei centri di detenzione libici e sfidano i pericoli del deserto e del Mediterraneo.

«In Senegal non c’è alcuna guerra. C’è però chi scappa», così scrivono Lorenzo Giroffi e Giuseppe Borello in un articolo apparso su Left il 19 ottobre 2018, “Senegal e Gambia, depredati a casa loro“, dove indagano, con puntualità, alcune tra le innumerevoli motivazioni sottese all’emorragia di giovani che fuggono dal proprio Paese di origine alla ricerca di migliori condizioni di vita.

Il viaggio di Seydou e Moussa assume i contorni audaci e temerari delle prime grandi scoperte, quando determinazione e speranza muovono, insieme ai passi, anche gli intenti: sogni di progetti futuri talmente ambiziosi da nascondere le insidie. Un viaggio di formazione che si trasforma ben presto in un illogico e disumano viaggio per la sopravvivenza. Dal Mali al Niger, alla traversata nel deserto, fino alle acque del Mediterraneo, è il paesaggio a rivelare ancora tracce di sconfinata bellezza: luoghi che restituiscono, grazie all’utilizzo dei campi lunghi, quell’attenzione e quella predilezione per l’elemento figurativo che rendono esteticamente riconoscibile il cinema garroniano. Esemplare è la scena nel deserto – quasi una sorta di ‘necessaria’ distensione narrativa del racconto che riecheggia, nella forma della composizione dell’immagine, alcuni dipinti di Chagall – quando una donna, finalmente ‘libera’ grazie all’incontro con l’umano sentire di Seydou, si libra in volo.

Ad emergere dallo sfondo, sulle curve sinuose delle dune sabbiose, i corpi dei personaggi impegnati nella dura marcia, figure inermi in equilibrio precario, prive della vivacità prefigurata nell’incipit, quando era la danza ad inneggiare alla vita.
La storia di Seydou e Moussa fa eco ad altri personaggi, anch’essi coraggiosi eroi del nostro tempo, come le sorelle siriane Yusra e Sarah Mardini, che hanno ispirato con le loro gesta Le nuotatrici (2022) di Sally El Hosaini, film che racconta della loro fuga da Damasco fino alle Olimpiadi di Rio del 2016. E ancora, richiama le storie di Diala Brisly, Abu Hajar, Bahila Hijazi e Lynn Mayya, Anas Maghrebi, Bboy Shadow, Tammam Azzam, Medhat Aldaabal, Omar Imam, artisti siriani sfuggiti alla guerra – protagonisti del potente documentario di David Henry Gerson, The Story Won’t Die (2022) – capaci di trasformare il proprio drammatico vissuto in espressione artistica (L’arte che resiste: The Story won’t die, Left, 10 giugno 2022).

Una coproduzione internazionale Italia Belgio, l’ultimo film di Garrone ritorna a raccontare storie di immigrazione: la sua opera prima, Terra di mezzo (1996) descriveva la quotidianità delle prostitute senegalesi nella periferia romana, una realtà che, come afferma lo stesso regista, lo aveva sorpreso, anche per i suoi contorni surreali, fiabeschi.
In Io capitano Garrone sembra rimarcare l’attenzione nei confronti del reale in una maniera più vibrante e autentica, mettendo in primo piano l’essere umano alle prese con le innumerevoli sfide che è costretto a dover fronteggiare. «Per realizzare il film siamo partiti dalle testimonianze vere di chi ha vissuto questo inferno e abbiamo deciso di mettere la macchina da presa dalla loro angolazione per raccontare questa odissea contemporanea dal loro punto di vista, in una sorta di controcampo rispetto alle immagini che siamo abituati a vedere dalla nostra angolazione occidentale, nel tentativo di dar voce, finalmente, a chi di solito non ce l’ha».

Allo spettatore viene chiesto, dunque, di stare dentro le cose, di porsi in ascolto, di assumere il punto di vista del personaggio, di stargli accanto e di sperimentare quel sentimento di solidarietà necessario per restare in vita, anche quando il resto del mondo sembra rimanere inerte e silente davanti alle richieste d’aiuto.
Soprattutto nella seconda parte, il film restituisce i segnali di una dimensione immaginifica, che costituisce – rimarcandone il senso di sospensione – quella tensione tra «realismo della messa in scena e costruzione dell’universo onirico entro cui agiscono i personaggi» di cui scrive Christian Uva – nel volume da lui curato, Matteo Garrone (2020), edito da Marsilio – riflettendo sul cinema del regista romano.
Scritto dallo stesso Garrone, insieme con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso e Andrea Tagliaferri, Io capitano si impone, nell’intera cinematografia del regista, probabilmente come il film più compiuto, dove lo stesso protagonista si fa portavoce – quasi a voler riscattare i personaggi garroniani che lo hanno preceduto – di un’inedita evoluzione, che sospinge l’eroe/Seydou a re-inventarne l’epilogo, così come per la sua stessa storia personale.

La colonna sonora del film è firmata da Andrea Farri. Edita da Sony music è disponibile in digitale.

La passione di Giuliano Montaldo per Giordano Bruno. Un ricordo del grande regista

«Giovedì mattina in Campo di Fiore fu abbrugiato vivo quello scelerato frate domenichino di Nola … heretico ostinatissimo, et havendo di suo capriccio formati diversi dogmi contro nostra fede, et in particolare contro la Santissima Vergine et Santi, volse ostinatamente morir in quelli lo scelerato; et diceva che moriva martire et volentieri, et che se ne sarebbe la sua anima ascesa con quel fumo in paradiso. Ma hora egli se ne avede se diceva la verità». Il «frate scelerato», di cui parla l’Avviso di Roma del 1600, è Giordano Bruno, filosofo e frate domenicano, condannato dall’Inquisizione e bruciato vivo in Campo de’ Fiori, il 17 febbraio del 1600. La sua colpa? Aver superato l’ipotesi copernicana del sole immobile, al centro dell’universo. Bruno, nella Cena delle ceneri del 1584, non si limita infatti a porre il Sole al centro di un sistema di stelle fisse, ma arriva a intuire uno spazio infinito con infiniti mondi in evoluzione per un tempo infinito. Nel suo De l’infinito universo et mondi scrive: «Esistono innumerevoli soli e innumerevoli terre ruotano attorno a questi». Una teoria che rende eterno l’universo e rischia di escludere l’idea stessa di un dio creatore. Bruno si pone fuori dal cristianesimo. Diversamente da Spinoza, Giordano Bruno è un pensatore «anti cristiano», come ha detto uno dei massimi studiosi del Nolano, Michele Ciliberto.

Per ricordare Giordano Bruno, il suo spirito di ricerca,  multidisciplinare come voleva la tradizione rinascimentale, la forza della sua immaginazione, che diversamente da Spinoza, non temeva le immagini e la fantasia, l’associazione nazionale Libero pensiero”Giordano Bruno” guidata da Maria Mantello organizza ogni anno un pomeriggio di incontri e di interventi in piazza a Campo de’ Fiori a Roma dal titolo Nel nome di Giordano Bruno, senza laicità non c’è democrazia, a cui partecipano Antonio Caputo. Elena Coccia, Luigi Lombardi Vallauri, Maria Mantello e  il regista Giuliano Montaldo, autore di un  memorabile film  nel 1973 con, protagonista, Gian Maria Volonté nel ruolo del filosofo.

«All’epoca avevo già lavorato a due film sul tema dell’intolleranza, in cui raccontavo la pazzia delle gerarchie militari che uccidono anche in tempo di pace e  un altro in cui raccontavo la drammatica storia di  Sacco e Vanzetti, proseguendo su quel filone ebbi l’idea di lavorare sulla figura di Bruno, anche lui vittima dell’intolleranza», ricorda il regista. «Un’immagine mi fece scattare l’idea del film, vidi una sera all’imbrunire dei ragazzi inglesi che parlavano e discutevano di Giordano Bruno ai piedi della statua a Campo de’Fiori. Una scena che mi colpì anche perché mi resi conto che non sapevo abbastanza di lui. Fu così che mi misi a studiare i suoi testi. E mi innamorai del pensiero di quest’uomo che guardava più lontano di tutti gli altri, che aveva il coraggio di portare fino in fondo la propria visione, senza paura e senza abiure. Poi dovetti lottare per tre anni per convincere la struttura del cinema, perché si impegnasse in questa impresa». Per una precisa scelta il regista non mise la parola fine in fondo al film, sperando che si continuasse a parlare di Giordano Bruno.

Intervista del 16 febbraio 2016

@simonamaggiorel

«Come persona molto ricca, in rappresentanza di un’organizzazione di persone facoltose che la pensano come me, chiedo al G20 di tassarci»

Lo chiedono perfino i miliardari. La disuguaglianza nel mondo è talmente ingiusta che provoca ribrezzo anche a coloro che ne giovano, così in vista del G20 in India 300 milionari, economisti di fama mondiale, artisti e politici dei Paesi G20 hanno deciso di firmare l’appello promosso da Oxfam, Patriotic Millionaires, Institute for Policy Studies, Earth 4 All e Millionaires for Humanity. Tra i firmatari ci sono milionari, ereditieri, politici ed economisti del calibro di Gabriel Zucman, Joseph Stiglitz, Thomas Piketty, Jayati Ghosh, Kate Raworth, Jason Hickel e Lucas Chancel.

Perché? Nell’ultimo decennio i miliardari del pianeta hanno più che raddoppiato i propri patrimoni, passati da 5.600 a 11.800 miliardi di dollari. Eppure, su scala globale, per ogni dollaro di gettito fiscale solo 4 centesimi provengono da imposte patrimoniali e con le regole attuali metà dei milionari del mondo non sarà assoggettata ad alcuna imposta di successione, potendo trasferire, esentasse, una ricchezza pari a 5 mila miliardi di dollari ai propri eredi. L’estrema concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi rappresenta “un disastro economico per l’ambiente e per il rispetto dei diritti umani che minaccia la stabilità politica in tutto il mondo – si legge nella lettera – (…) Decenni di riduzione delle tasse per i più ricchi, basata sulla falsa promessa che della ricchezza ai vertici avremmo beneficiato tutti, hanno contribuito ad acuire le disuguaglianze, portandole a livelli allarmanti”. 

I patrimoni dei miliardari sono aumentati al ritmo di 2,7 miliardi di dollari al giorno nell’ultimo triennio. In Italia la povertà assoluta è triplicata negli ultimi 15 anni. 

Buon mercoledì.

Smeriglio:«Dal successo di Sumar una speranza per un’Europa di sinistra»

Massimiliano Smeriglio

La campagna per le europee è già entrata nel vivo, anche si voterà nella settimana del 9 giugno 2024. Non c’è tempo da perdere, suggerisce l’ex capitana Carola Rackete che, annunciando la sua candidatura con Die Linke, denuncia la crescita di formazioni filonaziste (Afd) in Germania. Un’onda simile si segnala, purtroppo, anche in Grecia, in Olanda, in Finlandia, in Svezia e in molti altri Paesi. Per non dire della Polonia e dell’Ungheria.

Come scongiurare questa deriva post fascista? Lo abbiamo chiesto al parlamentare europeo e scrittore Massimiliano Smeriglio, (eletto nel 2019 da indipendente nelle liste del Pd) con il quale giovedì 7 al Visionaria Urban Fest, a Roma (Garbatella) abbiamo approfondito questo e altri temi insieme agli europarlamentari Ana Miranda Paz (The Greens) e Manu Pineda (The Left).

Massimiliano Smeriglio, da dove nasce la crescita dell’ultra destra in Europa e come contrastarla?

Nasce anche dagli effetti della globalizzazione e del neoliberismo temperato che ha caratterizzato la stagione dei governi progressisti in quasi tutta Europa ed anche in Italia. Parliamo di una destra che ha una sua ben precisa ideologia e visione del mondo che dobbiamo conoscere a fondo per poterla contrastare: è una destra nazionalista, negazionista riguardo al tema epocale dei cambiamenti climatici; è una destra guerrafondaia, patriarcale, con forti sfumature razziste. Dall’India di Modi all’Ungheria, alla Polonia, alla Tunisia di Saïed che guida un governo autoritario e razzista. Ma è la stessa destra che ha governato gli Usa con Trump e il Brasile con Bolsonaro. Meloni ha annusato questo vento e ha cercato di dargli rappresentanza.

Il quadro potrebbe essere ulteriormente aggravato dai risultati delle elezioni che si terranno a novembre nei Paesi bassi e il prossimo 15 ottobre in Polonia?

In Olanda è cresciuto un movimento di agricoltori con sfumature reazionarie. Realisticamente potrebbe vincere le elezioni. Nonostante segnali di ripresa di un minimo di movimento civile e di reazione culturale in Polonia, temo, la destra vincerà di nuovo.

Quali sono le  nuove caratteristiche di questo fronte di destra?

La novità è che questa destra non è più esplicitamente euroscettica, diversamente da quel che accadeva nel 2019. A ben vedere oggi si fronteggiano tre modelli di Europa: quella delle nazioni e dei nazionalismi, che riduce al minimo le istanze di una idea comunitaria europea. È l’Europa rappresentata nel Consiglio europeo, non quella espressa dal Parlamento europeo. Poi c’è l’Europa della tecnocrazia che è stata identificata come l’Europa del centrosinistra e che corrisponde ai governi tecnici che si sono susseguiti dal 2011 al 2022. Parliamo in questo caso di un modello di Europa dignitosa, che tutto sommato tiene sui diritti civili, ma non è un’Europa di sinistra, intesa come espressione della sovranità popolare e del Parlamento.

Quali politiche dovrebbero caratterizzare un’Europa di sinistra a suo avviso?

Bisogna mettere insieme diritti umani e civili, giustizia sociale e ambientale. Questa terza opzione deve rappresentare la nostra sfida. Dobbiamo essere molto ambiziosi e coraggiosi nello sfidare la destra, non sulle piccole cose, ma sull’idea di società. Loro sono patriarcali, noi siamo femministi. Loro sono nazionalisti, noi europeisti. Loro sono razzisti, noi antirazzisti. Loro negano l’emergenza climatica, noi dobbiamo fare della questione ambientale il centro del nuovo modello di sviluppo. Le tragedie climatiche che attraversano il mondo, purtroppo, non sono più al centro dell’agenda politica europea. Ripeto, noi come forze ambientaliste di sinistra dobbiamo tenere insieme la giustizia ambientale e quella sociale, anche perché a pagare i disastri climatici sono i più i poveri e chi sta peggio.

Frans Timmermans, che ora in Olanda affronta una difficile sfida nella corsa a primo ministro (per una coalizione di socialisti e verdi) ha lavorato a un Green new deal europeo, ma il progetto non è decollato, perché?

Purtroppo quell’opzione è stata sconfitta. L’Europa uscita dalle urne del 2019, da cui è nata l’idea della “maggioranza Ursula”, sosteneva il progetto di green new deal, fortemente voluto da Timmermans, e anche da un grande europeo come David Sassoli. A metà mandato quella scommessa è finita per cambi di maggioranze e anche per una certa furbizia e ambiguità del partito popolare che si è aperto alla destra dei conservatori. Meloni ha colto quella opportunità per uscire dall’angolo del conservatorismo identitario e rilanciare. Oggi questa storia è squadernata. Ma non ci siamo arresi. Abbiamo votato in continuità con l’inizio della legislatura, puntando su obiettivi ambiziosi riguardo alla neutralità climatica, per incidere sulla catena alimentare e sui processi produttivi. Ma non abbiamo più la maggioranza, perché gran parte dei popolari e dei liberali si sono spostati su un’altra linea.

Non a caso, anche in Italia, il liberale Calenda di Azione apre al nucleare, d’accordo con Salvini. Che ne pensa di questa opzione?

Io non sono d’accordo per molti motivi: per il modello di sviluppo ultra accentrato, per la pericolosità, ma anche perché in Italia ci sono stati due referendum e il popolo italiano ha scelto un altro modello di sviluppo.

Stiamo assistendo al fallimento dell’Europa riguardo alle politiche migratorie con costose e criminali esternalizzazioni dei confini e memorandum come quello firmato con la Tunisia dalla presidente della Commissione Von der Leyen con la premier Meloni. Intanto non c’è più neanche un impegno europeo al soccorso come era la missione Mare nostrum, mentre Fontex fa solo danno…

Anche su questo tema l’agenda conservatrice di destra purtroppo avanza in tutta Europa. La strategia? Negare e un po’ nascondere, molto esternalizzare. Come forze di sinistra non possiamo accettare la trasformazione di banditi del mare e criminali di guerra in interlocutori come è successo già nel caso dell’accordo con la guardia costiera libica all’epoca del governo Gentiloni e come accade oggi con l’autocrate Saïed a Tunisi. Dobbiamo chiarirci su questo punto.

Lei lo denuncia da tempo anche partecipando a missioni lungo la rotta balcanica e scrivendo reportage

Sì, in questi anni da parlamentare europeo ho avuto l’opportunità di andare sulla rotta balcanica e ho visto con i miei occhi quali drammi si consumano. All’epoca, l’attuale ministro Piantedosi era capo di gabinetto di Salvini e le sue direttive contro il diritto internazionale europeo facevano scuola. Oggi lo scenario, se possibile, è ancor più tragico.

Per i profughi ucraini è stata attivata la direttiva del 2001 che permette libera circolazione in Europa come è giusto che sia, come fare perché questo diritto venga riconosciuto anche a chi fugge da altre guerre dal Sud del mondo?

È clamoroso il doppio standard che applichiamo. Lo stato di diritto e il rispetto dei diritti civili e umani dovrebbero essere l’alfa e l’omega della politica culturale europea nel mondo, ma non è così. L’accoglienza di 4 milioni di profughi ucraini è stata importante, perché in Ucraina si muore, le città vengono bombardate dalla Russia di Putin. Ma noi non mettiamo in campo i medesimi strumenti e risorse per chi scappa da altre guerre, per chi fugge dalla Siria, dalla Libia, dal Libano, dall’assediata Palestina. È evidente che quando noi europei parliamo di stato di diritto e di diritti umani e civili non riusciamo a guardare oltre una prospettiva eurocentrica. E allora non siamo credibili, perché andiamo a due velocità.

Una questione simile riguarda il tema della guerra, l’Europa ha abdicato a un ruolo diplomatico per la costruzione della pace?

A questo riguardo a me è capitato di votare in difformità rispetto alla formazione politica a cui appartengo da indipendente (il gruppo dell’Alleanza progressista di Socialisti e Democratici al Parlamento Europeo ndr). La questione non è il dibattito sulle responsabilità della Russia che sono acclarate, ma come organizzare una agenda negoziale e di pace. Su questo le risposte europee sono gravemente deficitarie. A mio avviso non si può non avere l’ambizione di costituire la pace, non si può lasciare un’agenda di pace nelle mani di Paesi come la Turchia piuttosto che la Cina; non si può lasciare nelle mani del papa o del cardinale Zuppi un negoziato di pace, perché la pace non è una posizione etica o morale, è una scelta politica che attiene alle istituzioni sovrane, cioè elette dal popolo. La nostra capacità di investire e rispondere all’emergenza della guerra è stata buona. Ma sulla costruzione della pace c’è una cappa insopportabile. La Nato è una alleanza militare difensiva, non gli competono le scelte politiche. L’atlantismo sta diventando la cifra dei governi di destra più che l’europeismo. Noi dobbiamo invece rilanciare l’iniziativa strategica europea, dobbiamo rimarcare l’indipendenza e la sovranità europea rispetto a una agenda che corre tra Londra e Washington e che non è la nostra.

Riguardo all’obiettivo del 2 per cento in armamenti richiesto dalla Nato agli Stati membri entro il 2028, il cancelliere tedesco Olaf Scholtz ora frena e anche la segretaria del Pd Ellly Schlein. È sufficiente?

Rientra in quella agenda opposta a quella della destra a cui accennavamo all’inizio. Su questo dovrebbe sentirsi coinvolto in maniera seria tutto il campo democratico progressista. Io spero che questi temi – il clima, l’immigrazione, la pace, la lotta al patriarcato, la lotta al nazionalismo per rilanciare le istituzioni comunitarie (dunque europee non delle nazioni) – siano condivisi anche dal M5s, dal Pd e da tutte le forze del campo largo. Penso che l’Alleanza verdi sinistra italiana possa dare un contributo importante a questa discussione. Penso anche che ci sia lo spazio per una lista, una aggregazione di sinistra, ecologista, basta sulla giustizia sociale e sulla pace, che possa caratterizzare un pezzo di campagna elettorale in maniera importante.

Serve una lista pacifista come quella proposta da Michele Santoro?

Servono anche forme di mobilitazione dal basso come quella messa in campo da Santoro, a cui io ho partecipato e che sostengo. Penso che la questione della pace sia uno dei temi della costruzione di una agenda di trasformazione dell’Europa, ma non so se possa essere l’unico punto. A mio avviso la costruzione della pace ha a che fare con il modello di sviluppo, perché quando decidi di rimpinguare 27 arsenali per 27 eserciti stai dicendo “viva il nazionalismo” e non “viva la difesa comune europea”. Un’agenda di guerra produce crisi sulle catene alimentari ed energetiche, genera inflazione e la pagano i più poveri, senza contare che la guerra inquina tantissimo.

Al Visionaria Urban fest interverrà Yolanda Diaz,vice presidente del governo Sanchez. Ha realizzato un importante risultato alle recenti elezioni spagnole con il movimento Sumar arrivato al 12, 3 per cento. Come ministro del lavoro ha varato politiche sul salario minimo, contro i contratti precari e a termine, ha lavorato alla legge che regola i contratti di riders ecc. Può essere di ispirazione?

Io lo spero molto, seguo Sumar dall’inizio, condivido parte del mio lavoro al Parlamento europeo con Maria Eugenia Rodriguez Palop, responsabile del programma di Sumar. Ho avuto la fortuna di veder nascere questa piattaforma politica culturale che ne confedera realtà nazionali, regionali, locali, unendo culture politiche diverse: dal partito comunista spagnolo a Izquierda unida, a Podemos e tante realtà locali. Sono contento del successo di Sumar e che venendo in Italia, Yolanda Diaz, abbia scelto di venire da noi. È stata a Bruxelles per parlare con i commissari e in Francia per parlare con Mélenchon, andrà alla Festa dell’unità e viene al Visionaria Urban fest. Che abbia deciso di accettare il mio invito è motivo di orgoglio proprio per quello che stiamo cercando di fare. La cosa straordinaria di Yolanda Diaz è che è una leader donna dalla formazione politica solida, robusta, che ha declinato approcci di sinistra mettendo le mani al cuore del problema: la giustizia sociale, il mercato del lavoro, il femminismo che lei lo ha declinato come politiche attive relative alla autonomia di genere e alla tutela delle donne sul posto di lavoro. Penso che l’esperienza del governo Sachez sia molto significativa. Ad essa Diaz ha dato un contributo straordinario. Quanto alle europee penso che la spinta di Sumar possa assomigliare a quella che diede Syriza, guidata da Tsipras una decina di anni fa. Il movimento politico Sumar non è la reductio ad unum, ma uno spazio di esperienze diverse e plurali che Diaz è riuscita a mettere insieme.

 

L’appuntamento: Yolanda Diaz la leader di Sumar  è l’ospite d’onore di Visionaria Urban fest 2023 a Roma. Dal 4 al 9 settembre, con il titolo”impronte”, è tornata la festa per la sinistra popolare nel cuore rosso della Capitale nel quartiere Garbatella. Oltre alla già vice presidente del governo Sanchez e ministra del lavoro che l’8 settembre incontra Smeriglio e Gualtieri in un incontro pubblico in Campidoglio, tantissimi i protagonisti di questa edizione- da Monica Guerritore a Sandro Portelli. Da Tridico, Ciaccheri, Marotta, allo stesso Smeriglio, Fratoianni e Bonelli e tanti altri. Fra gli eurodeputati ci sono Ana Miranda, Manu Pineda, Pietro Bartolo e Maria Eugenia Palop. La Villetta Social Lab, torna così a farsi spazio di confronto a sinistra e di resistenza, lanciando una proposta in vista delle Europee.

 

 

 

 

 

Autore della foto Eric VIDAL
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