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Quando Marc Augé raccontava il volto inaspettato delle periferie

Con un sorriso bonario e l’aria di volersi occupare solo delle faccende più comuni – il calcio, la metro, gli outlet, le serate nei bistrot – l’antropologo Marc Augé è riuscito a decostruire tenaci ideologie del Novecento. Mettendone in luce il fondo religioso e astratto. In libri come Futuro (Bollati Boringhieri), per esempio, ha dissezionato la fede comunista nelle «magnifiche sorti e progressive» del proletariato e ha smascherato la psicoanalisi che, denuncia l’etnologo francese, «fissandosi sulla rivelazione del passato ha operato nella linea di continuità del cristianesimo e dell’ideologia del peccato originale».

Non meno sottilmente corrosivo è stato il suo lavoro di decostruzione del postmoderno che ha connotato gli inizi del nuovo millennio. Augé ne ha messo in luce la forte radice ideologica nascosta sotto la propagandata fine delle narrazioni. Lo ha fatto studiando i «non luoghi» (aeroporti, stazioni, centri commerciali ecc.) e le nuove forme di alienazione delle società capitalistiche dominate dal dio denaro e dalla ricerca di una felicità paradossale, basata sul consumo di merci. Proprio su questo tema è intervenuto nel 2016 al festival Leggendo metropolitano a Cagliari, in una serata dal titolo “La felicità è un concetto da maneggiare con cautela”, che è stato l’occasione di questa conversazione.

Il professor Augé non si fida del concetto di felicità, che gli Stati Uniti citano addirittura fra i diritti del cittadino nella Dichiarazione di indipendenza. «La felicità è qualcosa di individuale e di relativo, ho sempre pensato – dice lo studioso – che sia meglio diffidare di coloro che vogliono fare la felicità di altri. Un filosofo come Saint Just diceva che la felicità è una “idea nuova in Europa”, nel XVIII secolo. Fu l’inizio di una rivendicazione individuale del concetto di felicità ma paradossalmente portato a una concezione dirigista e talvolta totalitaria di felicità».

In anni recenti c’è chi ha criticato il modello economicistico di misurazione del benessere attraverso il Pil, preferendo guardare al “tasso di felicità”. Si scopre così che nel Nord Europa dove tutto è ordinato e funzionate, dove il livello di benessere materiale è diffuso, i tassi di suicidio sono inaspettatamente alti. «Anche in Francia ci sono molti suicidi – commenta Augé- soprattutto nei settori dove lo stress è altissimo. Apparentemente gli affari creano legami sociali, ma al fondo non è così, c’è un rischio di isolamento e le conseguenze possono essere terribili. Questo è il paradosso del liberalismo in generale: l’alienazione è l’ombra della libertà».

È il paradosso delle metropoli contemporanee, dove si registra la massima concentrazione di persone, ma al contempo si creano nuovi ghetti e situazioni di isolamento? «Il quadro delle metropoli contemporanee è il riflesso di questa realtà», risponde Augé. «Anche a causa della cattiva gestione di tre fenomeni cardine: l’immigrazione, la distribuzione della popolazione e l’istruzione. Gli anni Settanta in Francia sono stati particolarmente significativi da questo punto di vista, il ricongiungimento familiare ci fu quando esplose il problema della disoccupazione di massa: i “lavoratori ospiti” erano diventati abitanti disoccupati. Lo sforzo nelle politiche scolastiche e di abitazione avrebbe dovuto essere enorme. Ciò che fu intrapreso allora fu del tutto insufficiente».
Così che nelle metropoli globalizzate si sono create enclave e periferie, che a differenza di anni fa, non indicano più luoghi ai margini della città dal punto di vista spaziale. «Oggi le periferie sono una realtà molto complessa», osserva l’autore della raccolta di saggi L’antropologo e il mondo globale (Raffaello Cortina) e de Il dio oggetto (Mimesis). «Ci sono diversi tipi di quartieri – precisa Augé – alcuni molto ricchi ed eleganti, anche lontano dal centro. Quella che una volta era la periferia si infiltra la città e l’opposizione non è più geografica, ma sociale». Una discriminazione sociale che riguarda soprattutto gli immigrati e i tantissimi profughi oggi scappati dal Medio Oriente a causa della guerra.

Lei ha scritto che i migranti sono gli eroi dei nostri giorni, ma l’Europa ne ha paura, perché? «I migranti sono eroi perché fanno a meno delle certezze ingannevoli legate all’appartenenza ad un posto fisico», spiega Augé. «A volte fanno paura, perché agli occhi di coloro che si trovano “a casa” sono la prova che il loro senso di appartenenza ad un luogo o di possesso può essere illusorio». In Occidente viviamo un antistorico senso di attaccamento alla terra dove siamo nati, nonostante la società globalizzata, sia basata su un transito continuo, dove le distanze si accorciano. Dove fortunatamente i confini e le frontiere nazionali hanno perso significato. Dove, però, al tempo stesso, molti luoghi hanno perso identità, hanno subito un processo di standardizzazione secondo modelli capitalistici di organizzazione urbana che si ripetono. «Proprio così si generano i non luoghi», ci ricorda Augé evocando una sua fortunata formulazione entrata nel lessico comune. «Nella modernità si è assistito ad un proliferare su scala planetaria di luoghi di circolazione, di consumo e, apparentemente, di comunicazione. Negli aeroporti, nei supermercati, ci sono tante persone insieme, ma non si riescono a leggere i rapporti sociali».

Vent’anni dopo nella sua riflessione sui non luoghi cosa è cambiato, chiediamo ad Augé. «Il processo di globalizzazione è andato avanti. Le città sono state oggetto di un decentramento sempre maggiore. È avvenuto un processo di omogeneizzazione, ma anche di esclusione: una concentrazione di potere e di ricchezza nelle mani di pochi, a fronte di una massa di consumatori passivi e di persone povere. L’incontro fra globale e locale, talvolta, è divenuto “glocal” altre volte, ha creato un’opposizione netta». Anche la nozione di urbanizzazione ha assunto connotati inediti. Sono nate quelle che Augé chiama “città mondo”, come unico orizzonte, come un continuum. Metropoli dove il tempo sembra accelerato. Ubiquità e istantaneità sono i nuovi miti. «La mobilità oggi è un concetto paradossale», approfondisce l’antropologo. «Viene presentata come un ideale. In tutti gli ambiti. Si parla di imperativi di produzione, di efficacia del sistema, bisogna essere pronti a cambiare lavoro, la flessibilità è diventata una metafora totalizzante». Se da un lato le archistar si muovono attraverso il globo come se fosse il loro regno, dall’altra c’è il dramma delle persone costrette a fuggire, migranti e profughi. «Quella di oggi è una mobilità contraddittoria perché il gap sociale si allarga», ribadisce Augé. Che ha analizzato le ricadute nell’estetica di questi fenomeni, notando come la distanza, la freddezza, la ricerca dell’anestesia connotino oggi molta parte dell’arte contemporanea. Nuove, interessanti, prospettive si aprono semmai nell’arte urbana, quella che cerca un rapporto con l’architettura e l’urbanistica. Come il lavoro di Botto&Bruno sulle rovine che Augé ha avuto modo di conoscere a Torino e che si può vedere alla Fondazione Merz. Gli spazi industriali, di archeologia urbana su cui lavora la coppia di artisti torinesi mostrano un tempo in movimento, «testimoniano che ci siamo stati e ci parlano di un movimento verso il futuro, anche se in modo imprevisto», commenta Augé. «Forse la storia non è finita come pretendeva che accadesse Fukuyama – abbozza con ironia -. Probabilmente riusciremo a trovare nuove forme di convivenza e grazie a una migliore comprensione delle uguaglianze e delle disuguaglianze. Per questo dovremmo continuare a coltivare le utopie di cui le architetture contemporanee possono essere un’espressione». Nasce proprio come tributo alla riflessione di Augé sulle periferie il lavoro di Botto&Bruno intitolato Society, you’re a crazy breed (da una canzone di Eddie Vedder dei Pearl Jam). Cresciuti in quartieri operai i due artisti continuiamo a prediligere la periferia industriale «dove troviamo sempre una certa energia». Le fabbriche abbandonate, che hanno perso la loro utilità, diventavano luoghi dove poter immaginare qualcosa di nuovo. Nel loro lavoro fatto con collage fotografici, le ferite del tempo trovano una rigenerazione creativa. E fra le crepe spunta l’inaspettato: da un frammento di muro aggettante escono parole e frasi che si arrampicano come l’edera sulle pareti.

Da Left del 4 giugno 2016

L’impaginato originale dell’articolo qui: https://eleuthera.it/files/Auge_left_20160604.pdf

I morti senza testamento

E così il cerchio si è chiuso, e la pseudo sinistra impostora ha sancito col suo silenzio il terzo pannello della tortura:
Turchia, Libia, Tunisia, in terra, in mare, nel deserto.
Una donna e sua figlia sono state trovate morte di sete nel deserto (questa è la nuova morte dedicata ai migranti: aspetta dal governo la cartolina intestata con caratteri fioriti: “dedicata a te”, una per ogni speciale morte: di fame, di sete, affogati o stuprati, picchiati o congelati. Cento morti per uccidere i fuggiaschi – in fuga non da noi ma verso di noi).
Sono morti male organizzate, morti pasticciate, morti inermi, senza proteste. Morti che la sinistra impostora osserva sotto un sopracciglio curvo, labbra strette,
braccia occupate altrove. Non più corpi nudi in piedi, stretti sotto le docce, ma corpi buciati dai motori, rannicchiati nelle stive, mori, gialli, rosei, cerulei.
I morti che le navi non riusciranno più a salvare, incrociando all’infinito in acque richiuse. I morti senza bollettino di voto. I morti senza testamento, né sepoltura.
Il nostro passato ignoto, la nostra nuova preistoria.
Il nostro futuro non scritto.

L’autrice: Ginevra Bompiani è scrittrice, traduttrice, saggista e docente universitaria. È cofondatrice della casa editrice nottetempo

La foto è del giornalista libico Ahmad Khalifa rilanciata su Twitter il 19 luglio

La Spagna ferma l’onda di Meloni, Vox. Forte affermazione di Sumar. E Sánchez resiste

Il giornale La Vanguardia apre con un titolo che riassume il risultato delle elezioni spagnole e non ha bisogno di essere tradotto: “España frena la onda Meloni”.
Dopo due settimane di campagna elettorale che ha visto due blocchi contrapposti più conflittuali che mai, il Partito popolare si posiziona come il partito più votato in Spagna, ma il Psoe resiste. Il Pp è in vantaggio sul Psoe per 14 seggi, ma leggendo i voti assoluti la differenza reale è poco più di 300mila voti. La differenza tra Vox e Sumar è solo dello 0,8%, cioè appena 21.117 voti.
Il Pp insieme Vox hanno 169 deputati, ma non raggiungono la maggioranza assoluta di 176 seggi necessaria per formare un governo, mentre i socialisti e Sumar ottengono 153 deputati. Il Pp è in testa con 136 seggi, il Psoe arriva a 122, Vox ne arraffa 33 e Sumar ne ottiene 31. Tutti i sondaggi delle ultime ore, e anche quelli delle settimane precedenti, ad eccezione del sondaggio Cis, mostravano che il Pp avrebbe vinto le elezioni, ma avrebbe perso il governo.

Alle 23.52, con il 98% di sezioni scrutinate, Pedro Sánchez dichiara: «La Spagna è stata chiara. Il blocco retrogrado ha fallito». Feijóo vince le elezioni nei seggi, ma non ha il sostegno per essere nominato capo di governo. Sánchez resiste e potrebbe rimanere alla Moncloa perché la coalizione di sinistra potrebbe governare con il sostegno di Erc, Bildu e Pnv, i partiti nazionalisti e indipendentisti della Catalogna e dei Paesi Baschi. Però oggi non basterebbe ripetere il sostegno del 2019, servirebbero i voti di Junts, la coalizione politica catalana dell’ex presidente Puigdemont, che dichiarò unilateralmente l’indipendenza della Catalogna nel 2017.

Il Psoe e Sumar avevano chiuso la campagna elettorale in uno stato di euforia impensabile una settimana fa e il Pp, invece, aveva minimizzato il suo trionfalismo.
Yolanda Díaz ha incoraggiato cittadine e cittadini a votare per Sumar: «La destra era convinta di vincere e noi abbiamo cambiato il copione». Per ora il copione ha un finale incerto.
Vox il partito di ultra destra in chiusura di campagna elettorale aveva mostrato i muscoli con il sostegno di una quindicina di leader internazionali. I messaggi registrati dei primi ministri di Italia, Ungheria e Polonia, Giorgia Meloni, Víktor Orbán e Mateus Morawiecki, non hanno portato fortuna e così come non è riescito a riempire Plaza de Colón a Madrid, Vox non ha fatto il pieno alle urne e ha perso ben 19 deputati al Congresso. I franchisti, omofobi e xenofobi, di Vox hanno dimezzato i seggi.

L’estrema radicalizzazione dello scontro politico su tutti i temi caldi, dall’economia all’immigrazione, dalla transizione ecologica ai diritti, voluta dal Partito popolare, fa emergere un leggero riaffacciarsi del bipartitismo. Non si intravedono però spazi per ipotizzare un governo di minoranza del Pp grazie a una astensione dei socialisti, con la marginalizzazione da un lato della sinistra, cosiddetta radicale, di Sumar e dall’altro dei fascisti di Vox. «Chiedo al partito che ha perso le elezioni, il Psoe, di non bloccare ancora una volta il governo spagnolo» è la prima dichiarazione di Feijóo, pretende che i socialisti lo aiutino a governare. Ipotesi realizzabile solo con la messa in discussione della leadership di Sánchez, come avvenne nel 2016. Un’ipotesi piuttosto improbabile non solo perché significherebbe un suicidio politico per i socialisti, ma perché non esistono più i margini, né in Spagna né nel resto dell’Europa, per politiche centriste di larga intesa.

Né disuguaglianze, crisi climatica e stato di guerra, né la paura della vittoria di un blocco conservatore che minaccia di abrogare o modificare le leggi approvate negli ultimi decenni, come quelle sull’aborto, sulla violenza di genere e sul matrimonio egualitario, sulla riforma del lavoro e sulle pensioni, né l’incubo di rivedere ministri fascisti spariti dall’epoca di Franco, sono bastate per confermare un governo progressista. Anche il contesto europeo non è stato favorevole alla vittoria della sinistra alle urne. In Italia, Svezia, Finlandia, Turchia e Grecia sono saliti al potere governi che impongono una agenda retrograda fatta di ordine, disciplina e politiche xenofobe.

Queste elezioni politiche, svolte in piena estate nonostante il caldo, delineano due scenari possibili: o si torna al governo progressista, con in più i voti di Junts o la sua astensione, o la Spagna torna a votare in autunno. Intanto nella sede del Psoe i socialisti festeggiano la loro rimonta e il testa a testa con i popolari sulle note di ‘Pedro’ di Raffaella Carrà a tutto volume. Venerdì ci sarà il conteggio dei circa 200mila voti dei residenti all’estero. I socialisti credono di poter salire a 125 seggi grazie a quei voti, facilitando così la possibilità di un governo di sinistra. C’è festa anche nella sede di Sumar. Yolanda Díaz a notte inoltrata è uscita sul balcone: «Grazie a tutte le persone che si sono fidate di Sumar. Oggi la gente dormirà più serenamente, la democrazia ha vinto e ne esce più forte, oggi abbiamo un paese migliore».

Nella foto: frame di un video sul discorso dopo il voto del 23 luglio (facebook di Pedro Sánchez)

Lo sblocco navale

“Combattere l’immigrazione illegale, combattere le reti di trafficanti, ci consente soprattutto di offrire nuove opportunità di migrazione legale, noi infatti dobbiamo interrogarci su come possiamo cogliere i i frutti positivi delle migrazioni e questo è possibile soltanto con una gestione fondata sulla cooperazione tra di noi”. Così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in un passaggio del suo intervento alla Farnesina durante il convegno sulle migrazioni. “Il sostegno a profughi e rifugiati è un dovere al quale nessuno può sottrarsi, nel pieno rispetto del diritto internazionale – ha aggiunto la leader di Fratelli d’Italia – chi fugge dalle guerre, chi fugge dal terrorismo, dalla fame, dalle catastrofi naturali, ha il diritto di mettersi in salvo anche quando questo comporta attraversare i propri confini”.

Se Giorgia Meloni avesse pronunciato anche solo qualche grammo di queste frasi in campagna elettorale ora non sarebbe dov’è. Sarebbe stata considerata troppo “morbida” da un bella fetta dei suoi elettori. Del resto è proprio il cattivismo l’incipiente di qualsiasi sfondamento elettorale a destra. Matteo Salvini è stato quel Matteo Salvini perché “ha il coraggio di fare cose che gli altri non vogliono fare”. Ci si aspettava da lui che “chiudesse i porti”, che punisse gli stranieri (soprattutto quelli neri) e che maledisse l’Europa sbattendo la porta. Salvini si è scontrato con la realtà ed è stato soppiantato da Giorgia Meloni.

Ora tocca a lei. Dopo la propaganda la presidente del Consiglio si schianta contro due scogli ineludibili: le leggi che obbligano ad  accogliere e salvare le vite (che tutt’ora non sono rispettate dall’Italia e dall’Ue) e il “bisogno” di immigrati per sostenere l’economia e il vivere civile. Così Giorgia Meloni si ritrova a pronunciare gli stessi concetti dell’ odiatissima Boldrini. Perché alla fine irrompe sempre la realtà.

Buon lunedì.

Bombe a grappolo, nel silenzio passa tutto, anche il peggio

Quando un giorno gli storici e gli studiosi guarderanno all’Italia dei nostri tempi non potranno che constatare quanto questo Paese si sia immiserito e sia oggi mediocre e spento: culturalmente, politicamente, socialmente. Si dovrà tornare su questo tema, per riflettere e capire come sia potuto accadere. Per il momento, però, basta rilevare – a dimostrazione dell’affermazione forse apodittica di cui sopra – come la stampa e i media nostrani, e a ruota i rappresentanti politici, hanno commentato e reagito alla notizia che gli Stati Uniti avrebbero fornito le cosiddette «bombe a grappolo» (cluster bombs) all’Ucraina. Perché questo è un esempio di come si è impoverito non solo il panorama culturale e informativo italiano, ma di come l’assenza di analisi critica, riflessione e discussione lo stiano trasformando, lasciandolo scivolare verso l’abulia, l’ignoranza e la totale passività.

Le «bombe a grappolo» sono bombe che molti paesi vietano, per le quali hanno sottoscritto una moratoria internazionale (non gli Usa, però, né l’Ucraina e la Russia). Perché sono micidiali, infide. Una forma di bomba più cattiva delle altre, se possibile, che semina altre bombe, lasciandole inesplose. Eppure, il presidente Biden ha deciso di mandarne all’Ucraina. Il giorno che il fatto viene annunciato il New York Times parla di una decisione non facile, senza però spiegare cosa ha convinto il presidente.

E i nostri giornali? Scorrendo le pagine web di Repubblica, Domani e anche il Corriere, la sera del 9 luglio (dopo che già al mattino era apparsa negli Usa), la notizia non era comparsa. Certo, la notizia era “apparsa” durante il giorno, ma a sera è già sparita (mentre di La Russa, Santanché e compagnia cantante si parla sempre). Il manifesto, invece, la ha riferita e commentata (e l’articolo, a sera, c’è ancora).

Ora, dal momento che è una vergogna che la Nato fornisca queste armi a Kiev, sarebbe anche una vergogna difendere quella decisione. Quindi? Meglio non parlarne e il problema è risolto.
Indegno giornalismo, questo, vergognoso davvero. Ma i nostri giornali più diffusi, lo sappiamo, sono i difensori della «democrazia occidentale». Difficile sarebbe difendere una decisione che, invece, appare solo ignominiosa.

Il giorno dopo, complice il summit Nato in arrivo a Vilnius, i giornali sono stati costretti a tornare sulla notizia, anche perché diversi Paesi (Italia inclusa) hanno mostrato riserve sulla decisione americana. Il manifesto, già dal titolo, fa risaltare un aspetto evidente della decisione unilaterale americana di fornire le famigerate bombe all’Ucraina: la contrarietà di molti Paesi («tutto il mondo», dice il titolo). L’articolo della Repubblica, invece, evidenzia lo “strappo”, quello della Meloni con Biden, e non cita la contrarietà di molti, come Germania, Francia e Gran Bretagna – con governi tra loro diversi per orientamento e tutti paesi Nato – che esprime una contrarietà ad adottare una decisione che va contro gli accordi internazionali. Sottolineare in questo caso che l’aspetto principale sia che la Meloni non è filo-americana come pretende appare, però, un tantino specioso. Il contenuto dell’articolo di Repubblica, a firma di tal Daniele Ranieri, è desolante. È vero, sembra dire, en passant, molti altri Paesi sono contrari. La decisione americana, però, riguarda nient’altro che l’uso di un’arma «in più» che, forse farà molti danni, ma quel che conta è uccidere il maggior numero di russi. Poco importa che Zelensky dica che userà le bombe solo in territorio ucraino. Chi impedirà alle future generazioni di rimanere vittime delle “bombette” inesplose che verranno disseminate a centinaia?

Quel che conta, sembra a leggere la Repubblica, è solo che gli ucraini abbiano un’arma in più (l’hanno usata anche i russi, in passato, e tanto basta). Non conta che tutti gli alleati si oppongano, non conta che quella sia una delle armi più viziose e maledette, non conta che la decisione Usa non abbia senso strategico né politico. Ancor più desolante è stato il pezzo del giorno dopo di tal Gianluca Di Feo, su Repubblica, in cui l’autore si diletta di spiegare quali saranno i vantaggi che verranno dall’uso della micidiale arma.

Come abbiamo imparato in questi mesi, per la Repubblica e tutti i media a favore dell’invio di armi non solo si deve stare dalla parte della Nato contro i russi, ma da quella americana, persino contro gli alleati, persino quando va contro le convenzioni internazionali. Invece di esecrare questa decisione dissennata, si sta dietro all’alleato protettore servilmente.

Non una critica, non un dissenso, non un fondo a deplorare la decisione. Quel che è peggio, poi, è che non abbiamo sentito un solo rappresentante politico tra quelli favorevoli all’invio di armi esprimersi contro la decisione. Perché, sembra di capire, se sei in guerra usi tutti i mezzi a disposizione, non importa quanto efferati, immorali o banditi dalle convenzioni. Li hanno usati anche i russi! Allora, usiamoli anche noi.

Certo, si capisce perché nelle classifiche mondiali sul grado di libertà di stampa il nostro Paese si trova in compagnia di altri che nessuno di noi invidia. Perché la «libertà di stampa» sarebbe anche questo: porre interrogativi, dare spazio ad altre opinioni. Qui non si tratta di criticare i giornalisti, che forse fanno quello che le testate per cui lavorano impongono o preferiscono. Si tratta però di mettere in evidenza che si è persa la bussola e tutti, supini, lasciamo che le cose passino sopra alle nostre teste, sperando di uscirne incolumi.

Lo spazio pubblico, nel nostro Paese, è stato occupato dai media filo-governativi – quale che sia il governo – e filo occidentali, comunque sia. Il contributo critico, dissenziente, è stato espunto. Nella discussione politica – la cui povertà è solo proporzionale a questa mancanza di pubblica discussione – non si avverte nessuna lucidità, nessuna prospettiva.

Un tempo, giornalisti come Montanelli, Scalfari, Bocca, Biagi, Arrigo Levi (solo per citarne alcuni certamente non “anti-americani”) avrebbero espresso una loro posizione autonoma e forse anche critica. Politici di orientamento diverso avrebbero detto la loro. E non mi riferisco qui a persone come Alexander Langer che, su questo, avrebbero gridato «vendetta!». Con cieca miopia, la nostra attuale classe politica, non solo quella al governo, ha dato di nuovo prova di sé, anche dai banchi di quella sinistra da cui ci si aspetterebbe una posizione diversa, di civiltà. Ma questo è quanto questa Italia mediocre e spenta sa offrire.

Sánchez si gioca il tutto per tutto per fermare la deriva di destra in Spagna

Si vota oggi, 23 luglio in Spagna. Previste inizialmente per dicembre sono state anticipate ad oggi. L’accelerazione elettorale coglie la Spagna di sorpresa e mette gli elettori, soprattutto i progressisti, nella condizione di dover decidere nel bel mezzo dell’estate, se consolidare il risultato delle elezioni amministrative, che consegna tutto il potere alle destre del Partito popolare e di Vox, permettendo alla coalizione di destra di arrivare anche alla Moncloa, o mobilitarsi per impedirlo.
Pedro Sánchez ha avviato questo percorso quando si è dimesso dopo i deludenti risultati ottenuti del suo partito, il Partito socialista, alle elezioni amministrative che si sono tenute lo scorso maggio in alcune importanti regioni e grandi città spagnole, come Madrid, Barcellona, Valencia e Siviglia. Mentre il Partito popolare, di centrodestra, ha ottenuto una netta vittoria, superiore anche alle aspettative, i socialisti sono riusciti a mantenere il governo solo in tre delle dodici regioni in cui si è votato.
Le dimissioni di Sánchez sono state una mossa inattesa per evitare il logoramento del governo nei prossimi mesi e per sollecitare una grande mobilitazione della sinistra spagnola che blocchi la stessa onda conservatrice già vista in altri Paesi europei. Si tratta di chiarire, nell’arco di poco tempo, se è scomparsa quella maggioranza sociale che ha sostenuto negli ultimi anni il governo progressista.
Dopo l’annuncio di elezioni anticipate, Yolanda Díaz, vicepresidente dell’esecutivo, raccoglie la sfida e si candida alle elezioni generali con il movimento Sumar (aggiungere/unire in spagnolo): un “partito strumentale” con un programma con al centro il femminismo, il mondo del lavoro e la giustizia sociale e climatica.
«Tutto è pronto», ha dichiarato Yolanda Díaz nella prima apparizione del nuovo marchio elettorale che vuole mettere insieme tutti i partiti e movimenti alla sinistra del Psoe.

Sumar si definisce «un movimento europeista e pluralista, con una forte volontà di affrontare la sfida dell’emergenza climatica e di muoversi verso una società più libera, più femminista e più egualitaria». L’obiettivo di questa piattaforma è «fare di Yolanda Díaz la prima donna presidente del governo spagnolo e garantire una maggioranza progressista che permetta di difendere i diritti conquistati e continuare a progredire».
Ben 35 gruppi di lavoro negli ultimi due mesi hanno preparato il programma politico della piattaforma Sumar.

Podemos è sempre stato incerto e scettico sulla possibilità di unirsi alla coalizione, ma alla fine la segretaria del partito Ione Belarra ha avviato una strategica consultazione online tra gli iscritti sul delicato accordo. Il risultato da parte della base è stato il via libera all’intesa con Sumar.
In oltre 40 anni di democrazia, è la prima volta che in Spagna le tante sinistre territoriali, alternative ed ecologiste sembrano trovare equilibrio e motivazione politica per correre insieme nello stesso cartello elettorale.

Lei, Yolanda Díaz, avvocata galiziana, seconda vicepresidente del governo spagnolo e ministra del lavoro e dell’economia sociale, con generosità e responsabilità, è faticosamente riuscita a raggiungere questo storico accordo superando, o almeno mettendo da parte, le litigiosità e le discriminazioni della sinistra spagnola.
La popolarità l’ha guadagnata nel corso della legislatura quando è diventata una delle protagoniste indiscusse nel governo di Pedro Sánchez, ha incarnato, aggiornandolo, il rinnovamento della sinistra indignata del dopo 15M, quella passata dalle strade alle istituzioni. Come ministra ha guidato 17 accordi, tra cui la riforma del lavoro richiesta dall’Unione Europea per ridurre il lavoro temporaneo. Una riforma concordata con i datori di lavoro e i sindacati, nell’ambito della tavola rotonda del dialogo sociale, per risolvere temi importanti, dal salario minimo alla cassa integrazione, a una regolazione all’avanguardia della cosiddetta economia di piattaforma digitale, quella degli algoritmi.

Ora Yolanda Díaz è riuscita a tradurre tutto questo in un programma politico che trasmette un’idea di Paese e un modello di società focalizzato sul miglioramento dei salari, sulla casa, la sanità, l’istruzione e la giustizia.
Dovrà gettarsi alle spalle i tanti intoppi delle negoziazioni e della contrattazione politica degli ultimi giorni. Podemos, da tempo in crisi di consensi con una leadership che non ha trovato il modo di fidelizzare il proprio elettorato, ha dovuto digerire rapidamente la disfatta subita nel voto locale del maggio scorso, e sembra aver accettato il veto sulla candidatura di Irene Montero, sua ministra dell’uguaglianza per il governo Sánchez.
In questa legislatura, Irene Montero ha portato all’approvazione la legge sulle persone transgender, che ha fatto infuriare parte del governo socialista, e un’altra legge nota con il nome “Solo sí es sí”, che ha posto il consenso informato al centro delle relazioni sessuali, come centinaia di migliaia di femministe chiedevano manifestando nelle strade dopo la sentenza nel caso di La Manada, uno stupro classificato come abuso. Con la pubblicazione della legge “Solo sí es sí”, alcuni giudici, interpretandola, hanno ridotto le pene per gli aggressori sessuali, il che ha provocato uno scandalo sociale che ha seppellito il capitale politico della ministra. Così la figura di Irene Montero, molto apprezzata in Podemos, ma con un enorme logorio all’esterno, è stata percepita all’interno di Sumar come una dubbia risorsa elettorale, con la possibilità che la campagna per le elezioni fosse monopolizzata dal fiasco di questa legge.
Da qui il veto sulla candidatura di Irene Montero e Podemos non più attore egemone nel patto che apre una nuova fase nella storia delle coalizioni a sinistra del Psoe.
“Dialogo e accordo” ripete Yolanda Díaz. Nel discorso che di fatto ha dato il via alla campagna elettorale della piattaforma Sumar ha chiesto che quando si tratta di votare non si guardi “ai quattro anni passati”, quelli della legislatura conclusa con le dimissioni di Pedro Sánchez, ma piuttosto «ai prossimi otto anni, al futuro e alla costruzione di un Paese migliore». Ha insistito sui sentimenti: ha sottolineato la speranza e l’illusione, in contrapposizione al cinismo e al risentimento. Ha elogiato la generosità dei partiti quando si tratta di fare accordi e, soprattutto, si è rivolta all’elettorato che vuole raggiungere: «Ci rivolgeremo a coloro che hanno dubbi, paure e non si fidano di noi. E non li deluderemo».  Per questo afferma «il nostro Paese può essere migliore e la vita può essere più facile», perché si concentrerà sugli “affari pubblici”. Istruzione, salute e giustizia, ha detto, prendendosi cura di loro in “modi diversi”. Cura, affetto e molto rispetto, ha usato queste parole, inusuali nel linguaggio della politica. Poi ha celebrato il fatto che «tutti i partiti politici si sono alzati per stringersi la mano», cosa che, ha sottolineato, «non era mai accaduta prima in Spagna».
La scommessa è chiara: le organizzazioni coinvolte nell’accordo di coalizione di governo, da Izquierda Unida a Podemos, non avranno in nessun caso un contingente più grande di quello che Sumar può raccogliere. Se i risultati del 23 luglio saranno favorevoli alla confluenza e si raggiungerà la cifra prevista di 40 o più deputati, Yolanda Díaz, leader di questo spazio politico, potrà mettere insieme una squadra di lavoro con persone di fiducia. Se i risultati saranno negativi o disastrosi, il ruolo di queste due organizzazioni all’interno dell’opposizione sarà minore, ma certamente insufficiente a gettare un’ombra all’interno del gruppo parlamentare rimasto in piedi.
L’esito delle elezioni del 23 luglio può essere l’inizio di qualcosa o la attestazione di una sconfitta.

Il 19 giugno scorso un sondaggio pubblicato da El Pais presentava uno scenario fosco: il Partito popolare di Alberto Núñez Feijóo potrebbe ottenere la maggioranza dei voti, il 33,1%, conquistando 136 seggi. La destra di Vox, invece, porterebbe al Congresso 38 deputati: dunque il centrodestra potrebbe toccare quota 174 esponenti, quando la soglia della maggioranza assoluta fissata a 176. Il Partito socialista di Sànchez, seconda forza politica, si fermerebbe al 27,4%, con 106 seggi, mentre Sumar, la piattaforma guidata da Yolanda Díaz, guadagnerebbe il 13,1%. Sicuramente non sarà una partita facile.

Cinema, Comencini sulla riforma del tax credit: Le risorse vadano a chi lavora davvero

La regista Francesca Comencini

Un contratto di categoria, un salario minimo ad hoc, una riforma del tax credit che non tenga conto dei soli criteri economici e più ossigeno per chi, pur non essendo una grande produzione, fa cultura e genera linfa vitale per il settore del cinema e degli audiovisivi: l’associazione 100Autori, audita dalla sottosegretaria al ministero della Cultura Lucia Borgonzoni sulla riforma del tax credit ha fatto il punto di ciò che davvero occorrerebbe cambiare e migliorare per dare maggiore forza ad un comparto che genera migliaia e migliaia di posti di lavoro. Alla fine dell’incontro al ministero è stato fornito un documento unitario firmato anche da Anac e Wgi all’interno del quale le associazioni hanno elencato quelli che, secondo loro, sono infatti i nodi da affrontare e sciogliere. «Sottolineo l’importanza di questa unità di intenti tra associazioni, perché riteniamo sia necessario salvaguardare gli spazi artistici di libertà, cura e passione che sono alla base di ogni serie tv, di ogni documentario o film riusciti, grandi o piccoli che siano. Le risorse devono poter andare a chi lavora, e non a chi mette in piedi operazioni fraudolente, con budget fasulli», ha commentato la presidente dei 100autori Francesca Comencini  (in precedenza Andrea Purgatori era stato presidente dell’associazione). Nel documento le associazioni firmatarie ritengono che in ogni caso una proposta di riforma della normativa tax credit non possa essere sganciata da una revisione di tutti i meccanismi che concorrono al sostegno pubblico alle opere audiovisive in virtù del concetto di “eccezione culturale”.
«Riteniamo che la proposta di fissare criteri economici per l’accesso delle società al tax credit interno sia sbagliata, e si configuri inoltre come un intervento distorsivo della concorrenza anche ai sensi dell’art. 21 bis della legge 287 del 1990. Ci opponiamo con forza all’idea che la “dimensione economica” sia considerata prevalente garanzia di serietà per una impresa audiovisiva – scrivono nella nota -. Siamo invece favorevoli all’introduzione di ulteriori meccanismi di controllo che evitino l’utilizzo fraudolento del tax credit».
Tra le proposte avanzate al ministero c’è quella di applicare alle società di produzione, in sede di valutazione delle domande di tax credit, il meccanismo di “ranking” previsto dall’attuale legge per i contributi automatici, basato su una serie di criteri oggettivi che contengono sia elementi legati alla qualità (partecipazione a festival importanti), sia elementi legati allo sfruttamento economico (vendite estere, distribuzione in sala, vendite broadcaster ecc), ma senza alcuna limitazione o barriera aggiuntiva (niente cifre minime di automatici o limitare a una sola fascia di festival piuttosto che tutte e tre quelle contemplate attualmente); di ridurre quell’80% di tax credit alle grandi società; di introdurre una verifica sulla congruenza delle spese, in aggiunta all’attuale sistema di accertamento dei costi che non riesce a stanare le operazioni fraudolente; al fine di evitare la concentrazione dei contributi nelle mani di poche multinazionali e per garantire il pluralismo e la parità di accesso ai contributi di Stato, di reintrodurre dei “cap” più stringenti sulla singola impresa di produzione, includendo controllate e/o collegate e/o società che hanno in comune dei soci e/o produttori esecutivi che hanno collaborato stabilmente con le società soggette ai suddetti “cap”; di introdurre criteri premiali nell’attribuzione del tax credit ai progetti seriali, documentari e cinematografici scritti e realizzati da autori e autrici italiani/e e interpretati da attrici e attori italiani/e, rispetto a chi per esempio importa e adatta dei format stranieri o utilizza autori e/o attori stranieri. E ultimo ma non ultimo per ordine di importanza, il criterio della parità di genere. Per quanto concerne le proposte di tax credit alle start-up è essenziale tenere il “cap” massimo a  1.500.000 euro per evitare un fiorire di false start-up che vogliono semplicemente aggirare i “cap” al tax credit per le imprese più grandi.
Altro tema su cui in Italia c’è necessità di intervenire è quello dei diritti. Nella bozza di revisione del tax credit il ministero inizia ad affrontare il nodo. E veniamo a questioni di sostanza, ma che potrebbero risultare tecniche. Sarebbe necessario, precisa l’associazione 100 autori «che per ottenere il tax credit il produttore indipendente, nel rapporto con le Ott, debba obbligatoriamente possedere e mantenere diritti primari sull’opera, in quota e in maniera effettiva, parametrati all’entità del finanziamento pubblico ricevuto e messo a disposizione del budget. Si chiede che chi investe il 30 o il 40% su un prodotto cinematografico o audiovisivo possa vedersi riconosciuti i diritti reali ed effettivi per un importo uguale al suo investimento».
Le associazioni chiedono anche l’apertura immediata di un tavolo per la discussione di una riforma del sistema di finanziamento pubblico all’audiovisivo, che preveda criteri oggettivi per l’assegnazione e soprattutto tempi rapidi, perché l’Istituto Luce fatica ad evadere le pratiche ed erogare i contributi. Per i contributi selettivi, invece, fermi da tre anni, si chiede l’istituzione di commissioni selettrici i cui membri – produttori, sceneggiatori, registi e tecnici di settore, proposti al ministero dalle associazioni di categoria più rappresentative – ricevano un compenso e durino in carica massimo 12 mesi.
L’incontro è stato anche l’occasione per ribadire «come ancora oggi e solo per gli autori e le autrici, non esista un contratto collettivo (o “intercategoriale”) che stabilisca le più basilari regole relative a minimi salariali, condizioni di lavoro, maternità e paternità, disoccupazione, standard qualitativi in riferimento ai tempi e modi di produzione, e diritti degli autori nei confronti della propria opera».

 

Chi paga la “pace fiscale”

Nella pancia dell’Agenzia delle entrate ci sono, miliardo già miliardo meno, qualcosa come 1.100 miliardi di euro di crediti non riscossi. Di questa cifra enorme si pensa – lo pensano anche quelli dell’Agenzia – che solo 110 miliardi siano realmente “esigibili”, ovvero che ci sia la reale possibilità di recuperarli.

Quasi 50 miliardi di quei 110 sono stati sono stati cancellati con le ultime rottamazioni. Si sta parlando quindi di qualcosa come una sessantina di miliardi di euro che rimangono sul piatto. I numeri – che hanno l’enorme pregio di non poter fare propaganda – ci dicono che il 70% dell’enorme mole di debito con lo Stato riguarda l’1,3% dei contribuenti (anzi, di quelli che avrebbero dovuto contribuire) più ricchi: persone che mediamente hanno debiti superiori ai 500 milioni di euro. Non proprio bruscolini. Sicuramente non piccole partite iva strozzate dal fisco, come si dice dalle parti del governo.

Rimanendo sui numeri osserviamo che per l’ultima rottamazione (chiusa il 30 giugno) 60 miliardi si sono ridotti a 40 per effetti del beneficio della rottamazione. Rimangono fuori quindi 20 miliardi che stavano nel bilancio dello Stato da qualche parte e che fisicamente non ci sono più. Le ultime rottamazioni tra l’altro sono andate molto lontane dal risultato previsto: di 45 miliardi programmati ne sono entrati 17. Conta anche l’aspetto psicologico, naturale reazione alla narrazione del governo: chi avrebbe dovuto rottamare e non ha rottamato sapeva – e non si sbagliava – che avrebbe avuto altre occasioni per farsi condonare i nuovo.

A questo aggiunge che gran parte del gettito fiscale italiano proviene dai dipendenti tassati alla fonte. A questo aggiungete la tradizionale pigrizia dello Stato a tassare i grandi profitti. Il risultato è semplice.

Buon venerdì.

Ustica: quella notte andò così. L’intervista di Andrea Purgatori a Rosario Priore

Andrea Purgatori è stato un giornalista che con le sue inchieste ha svelato verità scomode e nascoste. Come per la strage del Dc-9 di Ustica in quel terribile 27 giugno 1980. Tra il 2006 e il 2007 è stato direttore di Left con Alberto Ferrigolo. Lo ricordiamo con questa sua intervista del 19 gennaio 2007 all’ex giudice Rosario Priore proprio sull’inchiesta sulla strage di Ustica.

Il consigliere Rosario Priore ha cominciato a seguire la strage di Ustica nel 1987, come consulente della Commissione stragi. Da giudice istruttore, tra il 1990 e il 1999 ha guidato l’inchiesta giudiziaria che al momento del rinvio a giudizio contava oltre tre milioni di atti, tanto che per trasferirli in Corte d’Assise furono necessari svariati Tir. Successivamente è diventato capo del Dipartimento per la giustizia minorile. Attualmente ha anche un incarico di consulenza per la Commissione Antimafia. Negli ultimi trent’anni ha seguito le più importanti inchieste di terrorismo interno e internazionale, comprese quelle sul sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e sull’attentato a Giovanni Paolo II.

Consigliere Priore, la sentenza della Cassazione che assolve in via definitiva i generali dell’Aeronautica è la pietra tombale sull’inchiesta per la strage di Ustica?
Assolutamente no. Questa sentenza ha preso in considerazione solo le posizioni personali di due imputati coinvolti per reati, e mettiamoci le virgolette, “secondari”. Gli autori della strage rimangono ignoti. L’inchiesta prosegue.

Il reato di strage non va in prescrizione.
Esattamente. Su questo ci sono stati degli stralci fatti dalla prima Corte d’Assise. E al termine dell’istruttoria io stesso stralciai una serie di atti proprio perché l’inchiesta continuasse sul reato di strage. Su questo non c’è discussione.

Al processo di primo grado andarono soltanto nove imputati, perché i reati contestati a tutti gli altri erano caduti in prescrizione.
Sì. Noi arrivammo a fine istruttoria con una settantina di imputati per reati tipo falsa testimonianza o favoreggiamento. Reati che chiamiamo secondari, ma secondari non sono. Molte di queste condotte caddero in effetti per prescrizione. Rimasero quelle condotte di particolare turbativa e impedimento dell’attività di governo o di organi istituzionali che, per l’aggravante prevista dal codice penale militare, furono definiti di alto tradimento. Nel corso degli anni ci fu una derubricazione da impedimento a turbativa, un reato minore. Poi una legge entrata in vigore durante la passata legislatura ha abrogato queste figure quando non sono commesse con violenza.

L’assoluzione implica come conseguenza che i reati di depistaggio, falsificazione, omissioni varie eccetera vengono sostanzialmente negati, o no?
Se c’è un registro tagliato con una lametta o nastri radar esistenti e mai consegnati – e ci sono – come si fa a negarlo? Non si può abolire la realtà. I fatti ci sono. Ci fu una vera e propria opposizione alla ricerca della verità… una sparizione quasi sistematica di tutti gli atti che riguardavano quella serata.

Mentre si sono trovati quelli del giorno precedente e quelli del giorno successivo.
Qualcosa che noi abbiamo chiamato una “mano sapiente” si è mossa in tutta questa vicenda. Nessuno può negarlo. I fatti provano che la scala gerarchica militare ha trasmesso notizia della caduta dell’aereo. Ma anche che per tanto tempo è stato negato che su questa vicenda noi avessimo dei rapporti con gli americani, i quali invece avevano costituito un team ad hoc…

Dal giorno dopo?
Certo. Per cercare di capire che cosa fosse successo. E sfido chiunque a trovare tante e tali stranezze in un incidente aereo qualsiasi.

Qualcuno continua a raccontarla come una somma di coincidenze straordinarie, superficialità e imperizie.
La coincidenza potrebbe esserci per dieci, magari cento eventualità. Qui abbiamo migliaia di circostanze di fatto che si volgono ad una determinata ricostruzione. È una coincidenza impressionante. Certo, se poi vogliamo accettare tutto, pu anche darsi che un ordigno collocato all’interno del velivolo sia esploso proprio nel momento in cui la rotta dell’aereo era seguita in parallelo e con rotte intersecanti da altri aerei non identificati…

Aerei militari.
Sicuramente militari. Un aereo civile non può fare improvvise virate a novanta gradi.

Nessuno dei tre gradi di giudizio ha messo in discussione lo scenario di guerra.
Sarebbe difficile, se non impossibile. Si negherebbe appunto la realtà dei fatti. Ma credo che nessuno abbia tentato una ricostruzione diversa. Nel processo di primo grado è stata compiuta un’istruttoria di altissimo livello, durata tre anni, con la presenza di avvocati e consulenti ferratissimi. Mentre in secondo grado il vaglio è stato sicuramente molto più limitato, quanto meno nel tempo. In molti hanno ritenuto insufficiente il tempo impiegato. Si è anche affermato che non bastasse a leggere le 5.400 pagine dell’ordinanza di rinvio a giudizio. Quanto a sviscerarle poi…

Torniamo alla sua ordinanza. Lì si ricostruisce con precisione quel volo e la sua fine. Lo scenario che la gente ha compreso solo a pezzi. Riproviamoci insieme. La sera del 27 giugno 1980, il DC9 Itavia con 81 persone a bordo decolla da Bologna per Palermo in condizioni strutturali perfette…
Era stato revisionato da poco, aveva tutte le licenze per volare senza alcuna preoccupazione.

Dunque, il DC9 decolla…
E viene preso subito in consegna dal radar di Poggio Renatico. Il volo viene seguito dall’immediatezza, non ci sono stati spazi vuoti… quelli li abbiamo trovati dopo perché sono scomparse le registrazioni.

All’epoca controllo aereo civile e militare erano sottoposti alla giurisdizione dell’Aeronautica, e i controllori erano tutti militari.
Divisi per competenze, ma spesso nella stessa sala.

Il radar di Poggio Renatico accompagna il volo fino all’Appennino tosco-emiliano.
E lì ci sono già delle presenze che non sono state sufficientemente spiegate.

Che tipo di presenze?
La convergenza di due aerei, provenienti uno da est e uno da ovest. E uno sembra nascondersi, diciamo così, nel cono d’ombra radar del DC9…

C’è anche un Awacs, un aereo radar della Nato, che in quel momento controlla quella parte di cielo. E vede tutto.
Sicuramente. All’epoca gli Awacs di stanza in una base Nato in Germania si attestavano in volo stazionario tra Piemonte e Liguria per addestrare i nostri caccia delle basi settentrionali. Poi scendevano sul Tirreno per addestrare le squadriglie di base a Grosseto.

Infatti risulta che ci fossero due caccia di Grosseto in volo. Un F104 monoposto e un intercettore biposto TF104 con i capitani istruttori Nutarelli e Naldini, che
poi sono quelli che muoiono nell’incidente delle Frecce Tricolori a Ramstein nell’agosto 1988.
Questi due aerei italiani seguono quasi a vista il DC9 quando c’è già la presenza del terzo aereo. Poi c’è una decisione di rientro alla base, non si sa presa da chi.

Rientrando lanciano il segnale di pericolo.
Premendo tre volte il pulsante del microfono. A conferma di questo c’è pure un tracciato di volo a triangolo, che significa situazione di massima emergenza. Questo è confermato dagli specialisti della Nato che ci hanno ausiliato nella perizia, manuali della Difesa aerea alla mano.

I caccia italiani atterrano una ventina di minuti prima che l’aereo precipiti.
Quasi in coincidenza. È stata una manciata di minuti. Lo dicono i registri della base.

Intanto il DC9 prosegue sul Tirreno e punta verso Palermo sull’aerovia Ambra 13. A questo punto i radar vedono altri aerei non identificati in decollo e atterraggio sulla base francese di Solenzara in Corsica.
Su questo abbiamo anche le testimonianze del generale dei carabinieri Bozzo, braccio destro di Dalla Chiesa, e di suo fratello. Quella sera erano casualmente in vacanza in un albergo a ridosso della pista. Per colpa del traffico militare non chiusero occhio.

I francesi sostengono che la base chiuse alle cinque del pomeriggio. Un po’ come se avessimo spento il radar di Ciampino. Non ci crede nessuno.
Quello è il radar di punta della difesa aerea francese verso il nord Africa. Se si chiude Solenzara è come chiudere gli occhi verso il pericolo.

Il DC9 intanto viene preso in consegna dal radar di Poggio Ballone.
E lì è successo quel che è successo… una serie di eventi strani. Tra gli altri il fatto del maresciallo Dettori che si impicca. Ai parenti più stretti, Dettori disse che quella notte era successo l’inferno. Che si era stati a un passo da uno scontro…

A un passo dalla guerra.
Ed era molto turbato per questo. Ma anche a Poggio Ballone non si è mai riusciti ad appurare chi fosse di turno quella notte. Anche in quelle carte c’era confusione…

A Ciampino avete impiegato anni per ricostruire i turni.
Facendo istruttorie pesantissime. Riportando lì tutti quelli che c’erano, mettendoli ai loro posti, vedendo chi avevano a fianco. Ma un lavoro che ha dato i suoi frutti.

Poi è Ciampino a seguire il DC9.
E il radar di Licola, in Campania…

Al largo di Anzio i controllori vedono tracce di aerei che ritengono americani, senza transponder acceso. Cioè, senza segnale di identificazione radar.
Che apparivano dove non c’erano aeroporti.

In gergo si dice che le tracce originavano dal mare, e facevano presupporre che ci fosse una portaerei. Videro addirittura un elicottero.
Chiarissimamente. Ma Licola ha delle documentazioni di quei momenti a dir poco alterate. Con sigle di aerei che si confondono in modo veramente preoccupante.

I controllori avevano notizia di un’esercitazione americana in corso?
Qualcuno disse che c’era, altri che non si sapeva nulla. Per quelli che dovevano vedere li hanno visti tutti perché l’hanno detto in aula. Non è provata l’esercitazione. Ma a quel tempo gli Stati Uniti erano in grado di compiere grosse manovre in mare prescindendo dal nostro controllo radar. Bisogna dirlo. E ricordare quell’episodio del dicembre precedente, in cui cadde un caccia alla periferia di Palermo.

Quando il relitto venne circondato.
Dai carabinieri e dai marine. I soliti cerchi paralleli, come a Sigonella…

Questo lo racconta l’allora giovane sostituto procuratore Lo Forte, che era di turno. Quando chiese di esaminare i resti se li erano già portati via i marine. Era un Prowler identico a quello che tranciò il cavo della funivia del Cermis.
Un gioiello di caccia, all’epoca.

Costretto a un atterraggio d’emergenza finito malissimo durante una esercitazione segreta al largo di Palermo, in preparazione di un attacco in Iran per liberare gli ostaggi rinchiusi nell’ambasciata Usa.
Infatti c’era la portaerei Nimitz, che in genere era dislocata nel Golfo Persico.

Siamo al momento cruciale. Il DC9 è in volo tra Ponza e Ustica e si vedono delle tracce radar che gli esperti americani contattati dall’allora sostituto procuratore Giorgio Santacroce attribuirono subito ad aerei militari.
Non ebbero mai nessun dubbio. Sia l’inglese John Transue, consulente di guerra aerea del Pentagono, che John Macidull della Federal Aviation Administration. Lui tra l’altro fece parte della commissione d’inchiesta per l’esplosione del Challenger, ed era un ex pilota militare della marina. Sapeva di cosa stava parlando.

Dissero che era una tipica manovra d’attacco aereo. Sole alle spalle, obiettivo di fronte…
Quello è il punto in cui il DC9 sparisce dai radar, ma poi si continuano a vedere altre tracce di aerei militari. Dopo l’incidente, ce ne è almeno uno che continua a volare per un certo numero di minuti. Quindi gli aerei erano sicuramente due. Non credo che nessuna delle istruttorie dibattimentali abbia mai sovvertito questa ricostruzione.

Qualche istante prima, una doppia traccia la vide benissimo un controllore di Marsala, Luciano Carico.
Disse che l’aereo in coda sembrava avesse “messo la freccia per superare” il DC9.

Prima che i mezzi di soccorso italiani raggiungano la zona del disastro, si vede la traccia di un elicottero che va lì a vedere che cosa è successo.
Si vedono parecchie tracce di presenze aeree, che emergono grazie all’esame dei nastri fatto presso la Nato in Belgio. E si vedono le manovre compiute dai nostri controllori a Marsala, tipiche di chi guida un aereo. Azioni alla consolle del radar che sono state sempre negate, e quando poi sono state contestate in modo formale sono state derise con frasi tipo: macché, quelli erano scherzi tra noi.

Anche qua, coincidenze straordinarie.
A pochi minuti dalla caduta di un aereo, non credo che in sala radar ci potesse essere un’atmosfera di gioco.

Il professor Aldo Casarosa, un docente di ingegneria all’università di Pisa che è stato suo perito, e il professor Manfred Helde, un perito tedesco che ha lavorato per lei insieme al professor Emilio Dalle Mese, esperto radarista, hanno fatto una ricostruzione dell’evento come di una “quasi collisione”. Secondo loro cosa è accaduto nel momento in cui il DC9 si è venuto a trovare vicino a questo aereo militare, o a questi aerei militari?
Essi danno per scontata come minimo la presenza di un altro aereo che vola nella stessa direzione del DC9 e a un certo punto, sovrapponendosi o sottoponendosi al velivolo civile, determina dei fenomeni tali, dei turbini che fanno venire meno l’assetto di questo aeromobile con conseguente collasso della struttura.

Per capirci meglio, il caccia non identificato che si nasconde viene intercettato e cercando di fuggire provoca un turbine che investe il DC9 spezzandolo.
Il DC9 ha l’ala di sinistra tranciata di netto.

E sicuramente nell’ala non c’era una bomba.
No, lì nessuna bomba. Questa seconda ipotesi parla di un effetto esplosivo che incide sulla congiunzione tra carlinga e motore di destra, che si stacca e determina la frattura dell’ala sinistra.

Ci sono tre punti radar che si vedono nettamente a destra del DC9.
Compongono una traiettoria radar registrata a Ciampino. Due si vedono prima alla destra del velivolo e uno appare dopo, mentre attraversa il nugolo di frammenti del DC9 che sta precipitando. Sono le tracce che inducono gli esperti americano e inglese a ritenere che ci sia stato un velivolo su una rotta parallela al DC9 con una velocità superiore, che ne attraversa la traiettoria, ovvero compie la manovra d’attacco. Ma le risposte radar che fanno presumere la presenza di questo secondo velivolo sono venute fuori dopo qualche tempo perché nel primo sviluppo dei dati di Ciampino era stato dato un tracciato pulito, dove appariva solo la traccia del DC9.

Senza nulla a destra né a sinistra.
C’è stato detto che non era necessario, perché all’Aeronautica interessava soltanto vedere dove fosse finito il DC9.

Invece, guarda un po’, con quelle tracce la ricostruzione cambia completamente.
In effetti se ne erano accorti fin dal primo momento, ma poi avevano fatto questa scelta di offrirci solo il tracciato del DC9, senza i segnali ai lati.

Singolare. Finché è solo il tracciato del DC9 tutto è congruo e affidabile, quando invece spuntano le altre tracce si comincia a dire che il radar non funziona bene.
Tutti coloro che hanno visto e non facevano parte del mondo, diciamo così, degli esperti italiani che contestano queste evidenze, non hanno mai avuto alcun dubbio.

Parliamo della teoria della bomba. Secondo la ricostruzione fatta dal gruppo di periti guidati dall’inglese Frank Taylor, sarebbe esplosa nella toilette. Ma i pezzi recuperati non portano alcun segno.
Nessun pezzo dell’aereo reca tracce di esplosione. Nessun pezzo si è frammentato o fratturato per effetto di esplosione.

Strana quella bomba capace di far collassare un aereo ma che non lascia segni. Una bomba perfetta. Infatti la tavoletta del water è stata ripescata intatta.
Se è per questo, ci sono curvature nei pezzi del vano toilette che avrebbero dovuto confermare la presenza della bomba e invece dicono tutto e il contrario di tutto. Perché lì dove dovevano essere concave sono convesse, e dove dovevano essere convesse sono concave. Abbiamo lavorato mesi e mesi per cercare di capire quale potesse essere la posizione dell’eventuale ordigno. Abbiamo ipotizzato la bomba posta nel vano dei tovagliolini di carta, la bomba dietro al water, la bomba nella cappelliera, la bomba sotto il lavabo… nessuna posizione corrispondeva agli effetti rilevati. Senza tener conto della perizia frattografica affidata a esperti di grandissimo livello. Lo ripeto, questi periti non hanno trovato un solo frammento che fosse stato esposto ad un’azione esplosiva.

Poi ci sono i corpi delle vittime.
Anche in questo caso, nessuna traccia di esplosione interna. Basta ricordare l’estroflessione dei timpani che è stata ovviamente attribuita a una depressurizzazione improvvisa dell’aereo e non a un’esplosione.

Nella base del Sismi di Verona lei trovò delle carte sopravvissute a uno dei tanti strani roghi che hanno segnato questa storia, che davano per certo che la strage di Ustica fosse conseguenza dell’intercettazione di un Mig di Gheddafi da parte dei nostri alleati francesi e americani, come risposta a una serie di “licenze” che noi consentivamo ai libici i quali mandavano i loro aerei a fare manutenzione a Banja Luka nella ex Jugoslavia e a cui poi noi permettevamo di tornare indietro attraversando l’Appennino e il corridoio tirrenico passando davanti alla base di Solenzara, sulla verticale della Sesta flotta e sopra Sigonella.
È vero. In quelle carte si supponeva anche che ci fosse stato una specie di tradimento da parte dei nostri che avevano rivelato ai libici una aerovia non coperta dai radar per cui era possibile attraversare il nostro territorio senza essere intercettati. Per intenderci, i “buchi” della rete radar.

Sta di fatto che c’è un Mig 23 libico che cade sulla Sila, ufficialmente il 18 luglio.
Tre settimane dopo Ustica.

Ma i due medici che effettuano l’autopsia sul corpo del pilota lo trovano come se fosse stato conservato in un surgelatore.
Sì, odore e tracce di putrefazione che non potevano essere quelle di chi è morto quarantotto ore prima, perché la prima perizia avviene quasi nell’immediatezza.

Infatti, scrivono un supplemento di perizia che sparisce, e di cui viene negata l’esistenza finché invece poi viene ritrovato.
Lì si dice che la pelle delle mani si sfilava come un guanto, che c’erano vermi grossi come fiammiferi, che gli organi interni erano colliquati… e retrodatano la morte a tre settimane prima. Ovvero, in coincidenza con la notte della strage di Ustica.

Della nazionalità del pilota non s’è mai saputo niente, e i pezzi dell’aereo furono restituiti alla Libia. In realtà quelli più importanti stanno ancora qua.
In parte furono trovati in sopralluoghi fatti addirittura diversi anni dopo.

Alcune parti del Mig 23 presentavano fori di colpi di cannoncino aereo.
Helde, che è il massimo esperto di questa materia, ci disse che avevano danni e traiettorie tipiche di colpi di mitraglia.

Quando la cosa fu contestata, cosa rispose l’Aeronautica?
Che sì, era vero perché avevano portato i pezzi alla Snia e avevano provato a sparare sulle lamiere del Mig per vedere qual era la capacità di penetrazione. Poi ci fu un progetto per inabissare quei resti nel Tirreno.

Adesso ci arriviamo. Lei ha trovato una serie di testimonianze della notte del 27 giugno, e non del 18 luglio, di persone che nel cielo della Calabria vedono un caccia inseguito da altri due caccia che gli sparano appunto col cannoncino.
È vero. In punti diversi di quella regione.

Lungo la traiettoria che va a finire sulla Sila dove poi verrà ritrovato il Mig.
La traiettoria coincide perfettamente. Dal mare fino alla Sila.

E invece la storia dell’affondamento dei pezzi?
C’è un documento in cui l’Aeronautica militare chiede al Sismi se può mettere in due casse i pezzi restanti del Mig usati alla Snia per buttarli in mare da un elicottero a 12 chilometri dalla costa laziale. Ma il Sismi, all’epoca il direttore era l’ammiraglio Martini, si oppose fermamente. E per fortuna.

Non li avremmo trovati più.
Procedura un po’ strana francamente, quella di andare a buttare a mare questi pezzi.

Parliamo delle posizioni degli attori potenziali di questa vicenda che, oltre all’Italia, sono Francia, Stati Uniti e Libia. Con una premessa. In quel momento Gheddafi era il nemico numero uno sia degli Stati Uniti che della Francia. Gli americani andarono addirittura a bombardare Tripoli e Bengasi nell’86. Reagan impegnò squadriglie in duelli coi libici sul Golfo della Sirte per anni.
Abbattendone anche alcuni.

Lei ha fatto decine di rogatorie internazionali. Vediamo la qualità delle risposte. La Francia?
Formalmente ha accettato tutte le nostre rogatorie però fornendo risposte parziali.

Come la storia della base di Solenzara chiusa alle cinque del pomeriggio?
Un’affermazione smentita dai nastri radar, dalle testimonianze, da una serie di cose. Per ci hanno fornito anche elementi utili, per esempio le perizie sull’aereo della Uta caduto nel deserto del Tenerè. Lì anche un profano poteva vedere con chiarezza i segni provocati dall’esplosione della bomba all’interno. E Gheddafi se ne è assunto la responsabilità.

Di più. Dopo il pronunciamento dell’Alta Corte dell’Aja, Gheddafi fa un discorso televisivo alla nazione in cui dice: ammettiamo la nostra responsabilità per l’attentato di Lockerbie e per l’esplosione dell’aereo della Uta ma poi, non richiesto, aggiunge che per Ustica la Libia è solo una vittima.
L’obiettivo più probabile erano dei velivoli libici…

Però la Libia non ha mai risposto a una sola rogatoria.
Purtroppo no. Chiesi anche di poter esaminare eventualmente i resti del pilota del Mig 23, così avremmo capito molto di più.

Qualcuno sospetta che il pilota di quel Mig fosse italiano e che in realtà stesse cercando di arrivare sull’aeroporto di Crotone per fare rifornimento.
Molti indizi lo dicono. E non solo perché indossava tuta e stivaletti dell’Aeronautica militare italiana.

È sparita parecchia roba di quello che aveva addosso?
Io so che avevamo una gran fretta di restituirlo alla Libia, ricordo che furono mobilitati anche dei grandi industriali italiani. L’allora direttore del Sismi, generale Santovito, chiese l’intervento dell’Impregilo (gruppo Fiat) telefonando a Romiti.

Gli americani come si sono comportati?
Il giudizio complessivo è positivo perché hanno eseguito quasi 90 rogatorie.

Ma poi alcuni testimoni hanno fatto marcia indietro.
Beh, c’è l’episodio di Coe, uno degli addetti militari. Fu lui a dirci che presso l’ambasciata americana era stato costituito un team apposito sulla strage di Ustica.

Singolare che l’ambasciata americana costituisca un team per occuparsi di un incidente civile che apparentemente non la riguarda.
Che è un non evento, appunto.

Hanno consegnato migliaia di pagine in parte censurate che indicano che l’ambasciata di Roma e il Dipartimento di Stato hanno seguito questa vicenda giorno dopo giorno, fin dalla prima notte. Ma sulla richiesta di consegna dei documenti della Cia la risposta data anche al presidente della Corte d’Assise è stata un secco “no”. Strano anche questo per un non evento.
In effetti gli americani si sono chiusi su alcuni passaggi forti della vicenda, dicendo che c’era una sorta di segreto militare. Strano, perché poi ci hanno dato i registri della Saratoga, e notizie anche sul Mig. Per noi sarebbe stato essenziale capire a chi apparteneva, cioè se fosse davvero libico o di un altro Paese.

Magari utilizzato per compiere un’azione contro la Libia.
Possiamo ipotizzare ogni cosa, perché gli americani avevano avuto una serie di Mig da Israele che li aveva presi alla Siria. Bottino di guerra. O dal Giappone, perché ogni tanto c’erano piloti nord coreani, cinesi o vietnamiti che prendevano il volo verso il Giappone. E uno molto bello che si era piuttosto danneggiato atterrando dalla Libia su Creta. Ma il numero maggiore venne a loro dall’Egitto, col quale si dice che avessero costituito un vero e proprio squadrone.

Per operazioni sporche?
Non si può dire con certezza… sta di fatto che i piloti avrebbero conosciuto il russo.

La Nato ha collaborato fino in fondo?
Ha avuto un atteggiamento di rilevante collaborazione, e voglio ricordarlo perché si perdono troppe cose nella memoria di un Paese. Questo atteggiamento fu determinato da una mia introduzione all’allora segretario generale Javier Solana da parte dell’attuale nostro presidente Napolitano. Fu così che io ebbi un accesso molto più facile alla Nato. Così abbiamo avuto la possibilità di utilizzare il materiale di alcuni registri e documentazioni coperte dal segreto.

La perizia fatta dalla Nato viene autorizzata dai 17 membri dell’Alleanza ma poi è contestata dalla nostra Aeronautica militare.
È questa perizia che ci dice della presenza probabile di una portaerei.

E anche della presenza prima, durante e dopo l’incidente di aerei militari non identificati col transponder spento.
Questo lo disse nell’immediatezza lo stesso ammiraglio Flatley, che comandava la portaerei Saratoga. Parlò di intenso traffico a sud di Napoli visto dai radar americani e quindi non da quelli italiani. E quando dico radar americani dico radar imbarcati, i cui nastri furono portati immediatamente al comando a terra.

Però sia lui che l’allora capostazione della Cia Duane Clarridge, un signore che è riuscito a svicolare il processo per lo scandalo Iran-Contras, autore di operazioni sporche in mezzo mondo e per sua stessa ammissione, a lei hanno detto una cosa e in aula hanno detto il contrario.
Sì. Clarridge dichiarò davanti a me e a un magistrato del Dipartimento di Giustizia americano che aveva visto il Mig 23 sulla Sila il 14 luglio e non il 18, salvo poi dire che forse s’era sbagliato. E la sua affermazione corrisponde con lo scritto su un diario di uno degli imputati assolti.

In Italia le resistenze nella struttura militare sono state moltissime. Un esempio: l’identificazione di tre controllori di Grosseto che quella sera in torre parlano di qualcosa che somiglia esattamente all’incidente appena avvenuto e che lei ha individuato tra i 700 militari della base soltanto grazie all’indennità mensa e non perché l’Aeronautica le ha dato i nomi. Tra l’altro all’inizio sostenevano di non riconoscere la loro voce registrata su nastro…
Istruttorie pesantissime. L’ostacolo più grande non so se in malafede o in buona fede, ma che è costato un impegno molto forte nella ricostruzione dell’evento, è stata l’assenza presso di noi di ogni sapere tecnico.

Ci sono state diverse morti sospette.
Suicidi in ginocchio, incidenti stradali, aerei, infarti, depressioni fulminanti. Ogni tanto mi chiedo: ma ogni volta che c’è un incidente aereo, succede tutto questo? Che ci siano tante distruzioni di prove, tante stranezze, tante morti…

Alla fine della partita, lei che idea s’è fatto? Quella di un intrigo internazionale?
Qualcosa di internazionale c’è, ci mancherebbe. Fosse stato un fatto solo nazionale non avremmo avuto i mezzi per una operazione di copertura del genere. Ma la sintesi di questa storia credo si possa trovare nelle parole di un grande capo dei servizi di un Paese straniero che ero andato a interrogare per l’attentato al papa. Il francese Alexandre de Marenches.

Cosa le disse de Marenches?
Lei immagina mai di trovare delle prove di quello che è successo a Ustica? Guardi che se io avessi voluto o dovuto organizzare un attentato a Gheddafi, le garantisco che non avrei lasciato tracce. Questo mi disse…

(da Left del 19 gennaio 2007)

Nella foto: Andrea Purgatori dal sito di Atlantide

Il filo rosso da Zaki a Regeni

Patrick Zaki è libero. Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha firmato il decreto di grazia presidenziale in occasione della festività dell’egira di Maometto. A dare la spinta è stata la dimissione di massa dei membri del Comitato per il dialogo presidenziale che chiedevano a al Sisi un segno di distensione. Il governo italiano aveva cominciato a muoversi subito dopo la condanna dello studente bolognese.

Al di là delle forzature politiche (il centrodestra che si intesta il merito e qualcuno nell’opposizione che ne sottolinea l’ininfluenza) resta un fatto che dopo tre diversi governi nella vicenda di Zaki si ottiene un successo tangibile. Ciò che conta è capire quale sia la natura dello scambio.

Il futuro prossimo ci dice che domenica prossima a Roma si terrà la conferenza sui migranti, un’occasione ghiottissima per al Sisi che vorrebbe entrare a pieno titolo nel cosiddetto “Piano Mattei” per ottenere denaro in cambio del controllo delle frontiere. I Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sanno bene che la leva per mungere l’Ue sta proprio nei migranti usati come arma non convenzionale di pressione politica. Ottenere un subappalto delle frontiere significa, di fatto, avere le chiavi dei rubinetti delle partenze per esercitare pressione.

Il futuro che ci sta da anni dietro le spalle ci dice che il processo di Giulio Regeni rimane incagliato alla Procura di Roma perché l’Egitto non comunica le residenze degli uomini ritenuti colpevoli della morte di Regeni ai magistrati romani. Che la liberazione di Zaki sia considerata da al Sisi la chiave per “chiudere” il processo Regeni non è un’ipotesi così avventata. Sarà compito del governo disinnescare il rischio di una contropartita del genere.

Le due cose (migranti e caso Regeni) potrebbero anche incrociarsi e rientrare in una trattativa più ampia che contempla l’enorme mole di scambi commerciali (soprattutto armi) tra Italia e Egitto. Un dato però è certo: con il dittatore si continua a fare affari. Anzi no, c’è un altro dato certo: i genitori di Giulio Regeni dal 25 gennaio 2016 attendono di avere giustizia.

Buon giovedì.