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Liberi di mentire: la politica di Musk&Co

L’inizio del 2025 ha segnato in maniera profonda lo scenario geopolitico globale, dando molto su cui riflettere, con preoccupazione. A ben vedere, però, il mutamento precede il cambio di calendario: l’elezione di Trump e l’ulteriore ascesa di potere di Musk sono il vero spartiacque, geopolitico e non solo, nel segno di una nuova e incendiaria aggressività. «You are the media now», ha profetizzato il tecnocrate di X subito dopo la vittoria di The Donald, e dell’altrettanto minaccioso vice J. D. Vance. È l’ideale del free speech, decantato dalla (nuova) Silicon Valley e dalle destre mondiali, a detta loro in difesa della libertà di espressione, ma in realtà deformando completamente il nobile principio illuminista, a partire dalla più becera estremizzazione verso un presunto – e scorretto – diritto di offesa e discriminazione, che nulla a che vedere ha con l’ironia illuministica.

Esattamente come con la laicità (specie nella Francia degli ultimi decenni), i partiti reazionari si appropriano di un concetto dei lumi alterandolo, in funzione dei loro abituali scopi avversi ad ogni forma di alterità culturale, con una neanche tanto velata pretesa di superiorità (sul caso francese si veda Jean Baubérot, La laïcité falsifiée, Paris, La Découverte).

Chi ha paura dell’articolo 11

Ruolo e funzione della storia trovano significato e collocazione nella sfera pubblica tanto nell’indispensabile ricostruzione dei fatti quanto nella costruzione di un orizzonte di senso di quegli eventi. Un processo in grado di restituire il rapporto dialettico tra passato e presente che spiega non solo da dove veniamo e dove siamo arrivati ma soprattutto il perché. Così l’ottantesimo anniversario della Liberazione d’Italia si pone, in un momento particolarmente critico del contesto internazionale, non soltanto come riferimento storico ma come orientamento per la società democratica attraversata da potenti spinte disgregatrici che rievocano tragicamente le cupe espressioni liberiste di Margaret Thatcher del 1987: «Non esiste la società, esistono gli individui».

La storia della liberazione dal nazifascismo, in Europa e nel mondo, ha invece storicamente dimostrato come senza uno sforzo collettivo i singoli individui sarebbero stati inesorabilmente condannati agli stermini di massa, alla guerra o alla sottomissione. La traiettoria storica dell’Italia fino ed oltre l’approdo al 25 aprile 1945 consente, fuori da retoriche celebrative, di individuare condizioni, contesti, punti di rottura e linee di faglia che hanno accompagnato la società italiana ed europea nel «viaggio al termine della notte» della dittatura iniziato al tramonto della Prima guerra mondiale.

Gennaro Spinelli: L’Italia è l’unico Paese in Europa ad avere legalizzato e finanziato i Campi “Nomadi” che di nomade non hanno nulla

L’8 aprile è la giornata internazionale dei rom e dei sinti, una popolazione purtroppo ancora vittima di pregiudizi e discriminazioni, anche nel nostro Paese. Per l’occasione abbiamo deciso di intervistare Gennaro Spinelli, presidente nazionale di Ucri- Unione comunità Romanès Italia. Gennaro è un violinista italiano di etnia rom, con oltre 1.500 concerti all’attivo in più di trenta nazioni, inoltre, nel 2018, l’International Romaní Union lo ha nominato ambasciatore per l’arte e la cultura romaní nel mondo. Gennaro ha anche scritto un libro, uscito per People nel 2022, intitolato Rom e sinti. Dieci cose che dovreste sapere.

Gennaro Spinelli, chi sono i Rom e i Sinti e come vengono percepiti in Italia?
I Rom sono un gruppo etnico presente in tutto il mondo, chiamati in tanti modi, da sempre giudicati e perseguitati ma mai conosciuti davvero. I Rom e Sinti in Italia sono uno dei gruppi storico-linguistici più numerosi ma non sono riconosciuti dallo stato italiano. I Rom sono una ricchezza culturale che troppo spesso viene scambiata per problema sociale.

Nel maggio 2024, a seguito di una denuncia presentata da Amnesty International nel marzo 2019, all’unanimità il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha condannato l’Italia per aver gravemente e sistematicamente violato la Carta sociale europea riguardo alla situazione abitativa dei rom e sinti, invitando inoltre a promuovere un cambiamento nelle politiche discriminatorie italiane in materia di alloggio. Com’era la situazione allora? C’è stato un cambiamento sostanziale dopo questa condanna?
L’Italia è l’unico Paese in Europa ad avere legalizzato e finanziato i Campi “Nomadi” che di nomade non hanno nulla. Ormai sono 50 anni che le persone che scappavano dalla guerra dei Balcani si sono recate in Italia e lo stato le ha chiuse in campi e da allora non se ne sono più andate, li definiresti nomadi? In Italia i Rom e Sinti storicamente abitano nelle case e i numeri affermano che solo circa il 5% vive nei campi, e sono quegli esseri umani scappati dalla guerra.

Recentemente è stata presentata una proposta di legge per fa riconoscere all’Italia il Samudaripen, il genocidio dei rom e dei sinti nel corso della seconda guerra mondiale. Una proposta nata su invito dell’Unione Europea, che lo aveva riconosciuto nel 2015 invitando tutti i paesi membri a fare altrettanto. Quanto sarebbe importante che l’Italia riconoscesse il Samudaripen, e successivamente lo status di minoranza linguistica ai rom e sinti?
Vuol dire rispettare, una memoria comune sempre troppo spesso dimentica come quella del Samudaripen. Riconoscere il genocidio dei rom vuol dire studiarlo nelle scuole, cosa che ad oggi non avviene come con altri genocidi invece, anche se i Rom sono passati per gli stessi forni crematori. Conoscere il Samudaripen è una forma di civiltà verso la quale la nostra società dovrebbe ambire ad andare.

Che cos’è l’Ucri e di cosa si occupa?
L’Ucri unione delle comunità romanès in Italia, di cui sono presidente, è la più grande organizzazione Rom e Sinti italiana a favore della cultura romanì. Ci occupiamo di diffusione e valorizzazione culturale in diversi aspetti, dalla letteratura al cinema alla musica, alle scuole alle questioni sociali. Forniamo supporto allo stato, agli enti e alle organizzazioni su ogni ambito della questione Rom.

Venerdì 4 aprile, alle ore 15 il Salone degli Specchi, Teatro San Carlo di Napoli, ospita un concerto per celebrare la Giornata Internazionale dei Rom e Sinti, può parlarcene?
Si tratta di un evento storico, infatti per la prima volta nella storia due solisti di etnia rom suoneranno nel teatro più antico del mondo in occasione della Romanì Week. Io e Santino Spinelli, saremo accompagnati da alcuni musicisti del Teatro di San Carlo guidati dal violinista Salvatore Lombardo e dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini di Pesaro guidati dal violinista Marco Bartolini, e daremo vita a un viaggio musicale che spazia dal repertorio classico rivisitato in chiave etnica a composizioni originali ispirate dalla tradizione romanì. Il concerto vedrà l’esecuzione di composizioni come la “Czarda” di V. Monti e le “Danze Ungheresi” di J. Brahms, insieme a brani originali di Santino Spinelli, che attraverso la sua musica innalza la tradizione romanì a un livello artistico elevato, distillando la sua essenza più autentica, lontana dai tratti folklorici regionalisti. La musica parla a tutti ed è il linguaggio più immediato per l’integrazione e lo scambio culturale. Si tratta di un traguardo significativo, che non solo celebra l’arte e la cultura romanì, ma segna anche un passo importante verso una maggiore inclusione sociale e culturale delle comunità Rom e Sinti. Il concerto si inserisce all’interno di una serie di eventi che si svolgeranno su tutto il territorio nazionale in occasione della Giornata dell’8 aprile, un’iniziativa che quest’anno coincide con la seconda Settimana della Cultura Rom e Sinta lanciata dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR), con il supporto dell’Unione delle Comunità Romanès in Italia (UCRI), e dell’Associazione Them Romano. Inoltre il concerto ha l’obbiettivo di contrastare le discriminazioni etniche, infatti l’iniziativa si arricchisce della partecipazione di partner prestigiosi come TIM/Timvision, che lancerà in anteprima un cartone animato ispirato alla cultura romanì e curato da UCRI.

Lei è ambasciatore mondiale della cultura romanì, può dirci brevemente le sue caratteristiche più importanti?
Perseveranza, giustizia e uguaglianza sono i concetti che mi guidano, utilizzo la musica come metodo di divulgazione e valorizzazione culturale per cambiare la visione su un popolo che è a tutti gli effetti sconosciuto. Credo fortemente nei valori che la cultura romaní mi ha trasmesso come quello dell’Unione familiare e la forza identitaria. Vi saluto con un augurio nella nostra lingua, But Baxt Ta Sastipè, che voi possiate essere sani e fortunati.

 

L’autore: Andrea Vitello collabora con Pressenza, ha scritto “Il nazista che salvò gli ebrei” (Le Lettere)

 

Che dicono gli scendiletto del danno Usa?

La cravatta rossa, il cappellino Maga in mano e un tabellone illeggibile. Trump ha annunciato i suoi dazi come fosse in campagna elettorale, nel giardino della Casa Bianca trasformato in palcoscenico per l’ennesimo show. Lo chiama “Liberation Day”, ma sa di resa dei conti: 20% all’Unione europea, 54% alla Cina, 46% al Vietnam. Nessuna strategia, solo rancore moltiplicato per arroganza.

Trump tratta il commercio internazionale come una guerra personale. Parla di “reciprocità”, ma ignora che il sistema è già basato su regole condivise. Ignora che chi pagherà non saranno gli alleati infedeli ma i cittadini americani: le famiglie, che vedranno i prezzi salire, e le industrie, che rischiano l’isolamento. Lo ricorda Leon Panetta: così si spara nei piedi. Fitch prevede una recessione. Moody’s stima 5,5 milioni di posti persi.

E l’Italia? È tra i 60 “cattivi”. Per Trump siamo colpevoli di eccellenza. Colpire il nostro export è colpire il cuore dell’economia italiana. Mattarella parla di errore profondo, Meloni prova a mediare, Bruxelles abbozza. Ma intanto il danno è già in corso.

Trump non tratta, impone. Usa i dazi come manganello geopolitico, disegna un’America che somiglia più all’autarchia del Novecento che a una potenza del XXI secolo. L’Europa, se vuole contare, deve scegliere: o il silenzio o la dignità.

Oltre ad essere uno dei peggiori presidenti è anche il più incapace e dannoso. Meloni e Salvini, gli scendiletto del danno, che dicono? 

La mediatrice immaginaria

“Meloni ponte”, “Meloni grande mediatrice”, “Meloni tra Trump e von der Leyen”. Ne abbiamo lette così tante, fin qui, sulla presidente del Consiglio come grimaldello fondamentale di una relazione tra Usa e Unione europea che alla fine qualcuno ci aveva creduto davvero. Del resto è stata proprio la presidente a prendere le parti del vicepresidente Usa J.D. Vance quando ha definito l’Europa «antidemocratica».

La credibilità internazionale del governo italiano e la capacità di mediazione dell’inquilina di Palazzo Chigi sono una favola che scorre a fiumi su giornali e televisioni. Fino a qualche settimana fa Meloni avrebbe dovuto essere colei che avrebbe smussato le intenzioni di Trump. «Lasciatela lavorare», dicevano i suoi fedelissimi, «e vedrete che i dazi Usa saranno solo una minaccia per alzare il livello delle trattative». No, non è andata proprio così.

Oggi alla Casa Bianca andrà in scena lo show. Trump comunicherà i dazi contro l’Unione europea. «È il liberation day», annuncia Trump, che promette comunque di essere «gentile». A von der Leyen e compagnia non resta che rispondere all’attacco commerciale americano infilandosi in una guerra che pagheranno le aziende e i cittadini. Non andrà bene, sicuro. Trump dichiara di sentirsi «derubato» dall’Europa, von der Leyen promette «vendetta».

E la nostra «grande mediatrice»? I retroscena dicono che sia lì a chiedere di «abbassare i toni». Meloni starebbe valutando almeno di ridurre i balzelli per l’Italia, come se fosse davvero possibile isolare il nostro Paese dalle conseguenze concatenate. Ancora una volta era tutto solo narrazione. Tanto a pagare il conto della messinscena sono sempre le aziende e i cittadini.

Buon mercoledì.

Sepolti sotto la sabbia e sotto il silenzio

C’erano le ambulanze, c’erano le divise, c’erano i guanti. Tutto era lì, riconoscibile. Perfino le luci di emergenza hanno continuato a lampeggiare, come un ultimo segnale, come un disperato codice Morse che raccontava l’orrore: qui sotto ci sono soccorritori uccisi. Uccisi mentre correvano verso altri corpi. Uccisi perché facevano ciò che fa chi dovrebbe salvare. A Gaza, l’esercito israeliano ha colpito e sepolto. Letteralmente. I corpi di quindici operatori umanitari – della Mezzaluna Rossa, della Protezione civile, delle Nazioni Unite – sono stati recuperati da una fossa comune insieme ai loro veicoli. Non è un’esagerazione, è una testimonianza documentata dalle Nazioni Unite.

Erano operatori umanitari. Non combattenti. Non “scudi umani”. Non ambiguità semantiche. Eppure sono finiti sotto terra, sotto il peso di ambulanze schiacciate, e sotto un’altra sabbia, forse più pesante: quella del silenzio. Per giorni non è stato concesso l’accesso per recuperarli. E anche adesso che i loro nomi tornano a galla, non muovono le coscienze. Il diritto umanitario internazionale, dicono, è chiarissimo. Ma le bombe, si sa, fanno male anche alla grammatica.

Chi ha ancora il coraggio di usare la parola “errore”, oggi, è parte del problema. Chi ha lo stomaco di parlare di “difesa” è un agevolatore di assassini. Chi smussa i termini, chi arrotonda gli editoriali è complice del genocidio. Perché il crimine più grande, oltre all’assassinio, è la normalizzazione.

Buon martedì.

Foto dalla pagina Facebook della Croce rossa palestinese

L’intima gioia del potere

Novanta morti per suicidio nel 2024. Venti nei primi tre mesi del 2025. Le celle scoppiano, i cellulari entrano più facilmente dei medici. Mancano ottomila agenti. E il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è senza guida da tre mesi. Non per caso, ma per scelta.

Il governo Meloni ha deciso che le carceri possono attendere. O meglio: possono restare proprietà privata di un sottosegretario, Andrea Delmastro, che da mesi si comporta come capo non nominato, premiando agenti in diretta Rai e scegliendo i suoi fedelissimi. Il nome c’è: Lina Di Domenico, ma il Quirinale – cui spetta la nomina – si è ritrovato spettatore di un teatrino che scavalca la Costituzione. E tace.

Nel frattempo, chi è in carcere comunica con l’esterno come se fosse fuori. Gratteri denuncia, i sindacati implorano, i medici mancano, i morti si contano. Ma Delmastro resta. Perché le carceri, dice, sono “roba sua”. E se la gioca come una scalata di partito, con “intima gioia”.

Ci hanno spiegato che la sicurezza è una priorità. Ma il carcere, che dovrebbe essere specchio della civiltà, resta campo di battaglia ideologica. Con i corpi dei reclusi a fare da sfondo.

Buon lunedì.

 

Foto AS

Il Pnrr è in ritardo. Ma per loro il problema è ammetterlo

Siamo in ritardo. Non è un’opinione, è nei numeri. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è in affanno, la spesa procede più lenta del previsto, e le scadenze si avvicinano come lame. Il ministro Giorgetti vorrebbe guadagnare tempo chiedendo all’Europa una proroga al 2027. Ma da Bruxelles la risposta è secca: il termine resta il 2026. E per cambiarlo servirebbe l’unanimità dei 27 Paesi Ue. Tradotto: è quasi impossibile.

Nel frattempo a Roma si litiga. Meloni non vuole sentir parlare di rinvio: teme che ammettere i ritardi significhi smentire tutta la retorica del “governo del fare”. Meglio far finta che tutto proceda, mentre Ministeri e Comuni navigano a vista. Anche i dati non coincidono: la Ragioneria certifica una spesa lenta, il governo rilancia cifre più ottimistiche. Ma il problema non è nella contabilità: è nella sostanza.

Abbiamo incassato più soldi di tutti e ora rischiamo di essere quelli che non riescono a spenderli. Bruxelles non ha tempo per le sceneggiate italiane: vuole cantieri, non scuse. La retorica non costruisce asili, né ponti. E mentre ci accapigliamo sul racconto, perdiamo l’unica occasione che avevamo.

Buon venerdì.

In apertura una foto dalla cabina di regia sul Pnrr del 27 marzo 2025

Guerra reale e guerra immaginaria

Un clima bellicista e allarmista veramente fuorviante e pericoloso si diffonde in Europa. Non sono i messaggi social di qualche esaltato, ma disposizioni della commissione europea, cioè chi comanda il vecchio continente. L’ultima pensata è un vero salto di qualità: si invitano le popolazioni a dotarsi di scorte d’acqua e di cibo per affrontare un’eventuale emergenza dovuta ad un’aggressione militare o per fronteggiare un evento estremo causato dal cambio climatico.
Ci informa di tutto ciò un importante quotidiano spagnolo, El Pais.

La sensazione è che si alzi il livello dell’allarme perché la proposta di riarmarsi contro un’eventuale aggressione russa e i relativi 800 miliardi di euro per finanziarla hanno lasciato l’opinione pubblica un poco indifferente se non contraria. Per convincerla il copione è quello di sempre: drammatizzazione della situazione, demonizzazione del nemico, Putin è il nuovo Hitler (qualcuno ricorda quando nel 2003 il governo di George W. Bush invase l’Iraq accusando Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa e non era vero?), e si continua a ripetere che l’Europa non ha la forza militare sufficiente per respingere l’invasore, ora che Trump ha tolto il sostegno militare americano, quindi bisogna riarmarsi comprando dalle aziende che le armi producono, soprattutto dalle aziende statunitensi.

Due considerazioni. La prima riguarda la guerra nel senso che penso che la signora Von der Leyen e capi di Stato come il dimezzato Macron e il defenestrato Scholz che la supportano, pensino che Putin sia un deficiente. Chiedo: se fosse vera la volontà espansionistica della Russia perché mai per attaccarci dovrebbe aspettare che l’Europa si sia armata fino ai denti?

La seconda sui due pericoli di cui si parla: guerra e cambio climatico. La prima è fortunatamente non più di un’ipotesi, il secondo è invece una palpabile realtà che da tempo distrugge interi territori, li sommerge o li desertifica. La differenza fra le due è che per il pericolo ipotetico la Commissione europea vuole spendere in armi 800 miliardi di euro, mentre per quello reale nulla. Fra guerra ipotetica quella con la Russia e guerra reale quella del cambio climatico c’è una sproporzione evidente a favore di quella pensata a tavolino.

Alla base di questo incontrollato clima bellicista c’è l’abbandono della protezione americana. L’ex-amico statunitense vuole imporre a Kiev una pace ingiusta e lascia all’Europa la decisione di far proseguire la guerra per ottenere una pace giusta. Certamente viviamo tempi carichi di incertezza sul futuro che ci attende, ma il pericolo di una invasione russa è poco credibile. Quello del cosacco alle porte, è un gioco molto pericoloso. Sono altre le insidie che le popolazioni stanno vivendo ormai da anni di cui nel passato si parlava molto e poco si faceva, mentre ora se ne parla di sfuggita e si continua a non far nulla.

Mi e vi chiedo se mentre ci prepariamo alla guerra con la Russia esondassero il Po o l’Arno o il Tevere o il Danubio o la Senna? Possibile! Molto più di un’aggressione russa; se arrivassero mesi con temperature insopportabili? Possibile. Se fossimo condannati alla sete? Possibile. Perché per mesi non piove e la siccità prolungata, i fenomeni di deforestazione, l’eccessivo sfruttamento del suolo hanno avviato un processo di desertificazione e poi quando tutto si secca e torna la pioggia le esondazioni diventano catastrofiche; ed ancora se fossimo condannati alla fame? Possibile. Perché i terreni fertili che ora ci forniscono il cibo quando si desertificano diventano aridi e improduttivi; e se fossimo sommersi dai rifiuti velenosi che produciamo? Possibile.
ReArm Europa è un progetto di falsa sicurezza.

Cosa si sta facendo invece per rispondere all’emergenza climatica?
Solo chiacchiere! Non esiste né un progetto di mitigazione né un piano di adattamento. Mi si dirà che non è vero, che per la crisi climatica sono stati stanziati 520 miliardi. Lo si fece per riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus, ideando il NextGenerationUe. È vero come è vero che in quel progetto c’era un’idea di futuro gradevole. I risultati però sono stati pressoché inesistenti: le emissioni climalteranti sono aumentate e l’Europa post Covid non è più verde e più resiliente e adeguata alle sfide presenti e future. Non poteva che essere così perché è stato ostacolato qualsiasi nuovo modello energetico rinnovabile e poco bisognoso di energia, per favorire l’uso del gas, ora addirittura si pensa a un ritorno al nucleare; non si è reso più efficiente il patrimonio abitativo che resta un colabrodo in termini di consumo energetico; i trasporti sono rimasti quelli di sempre con molte emissioni, poca efficienza, troppi ritardi, nessuna soluzione per i pendolari, con il rifiuto di adempiere al superamento del parco auto a benzina e diesel. Si potrebbe continuare.

È ipocrita e falso sostenere che la lotta per il governo del clima può proseguire insieme alla decisione di riarmarsi: sul riarmo c’è la volontà politica di procedere e gli 800 miliardi per riarmarsi potranno essere recuperati dai fondi per la Coesione, attingendo cioè a risorse reali e già stanziate, una via preferenziale e pericolosa. Al contrario la lotta per il governo del clima appare sempre più fuori dall’agenda politica e senza finanziamenti. La situazione in cui siamo è ben riassunta dal celebre slogan che Sandro Pertini, uno dei presidenti della repubblica più amato dagli italiani, ripeteva continuamente – «svuotate gli arsenali, riempite i granai» – e che ora è completamente ribaltato. L’Europa è un continente in decadenza, con una classe dirigente mediocre che parla a sproposito di valori europei, da tempo evaporati, un continente che si compiace nel parlare di diritto internazionale e diritto umanitario e poi pratica l’indifferenza per il genocidio dei palestinesi.

Il risultato è che si lasceranno le popolazioni europee nella più completa insicurezza di fronte alla crisi climatica mentre si spenderanno tanti soldi per combattere un’invasione immaginaria. Si scambiano lucciole per lanterne in un gioco che serve solo agli interessi dell’industria militare.

Nel Paese dell’inquisizione al rovescio: chi denuncia è colpevole

Nel Paese in cui delle persone organizzate per salvare vite in mare vengono spiate dal governo, il ministro della Giustizia parla di «clima di inquisizione» perché le opposizioni gli chiedono conto della liberazione, con tutti gli onori, di uno stupratore violento amico dei trafficanti.

L’inversione della realtà accade nel giro di poche ore. Prima il sottosegretario Mantovano ammette che l’Onu e Mediterranea sono state intercettate con il software Paragon dai nostri servizi segreti. «Indagine preventiva», la chiamano. In effetti, ci vorrebbe coraggio per ammettere che si tratta di intercettazioni non autorizzate dalla magistratura da parte di un governo che straccia per legge le intercettazioni degli altri.

Poi, ieri, il ministro Nordio in Parlamento è stato salvato dalla mozione di sfiducia che gli chiedeva conto di aver liberato il torturatore libico Almasri, generale ricercato dalla Corte penale internazionale, serenamente liberato in Italia e riportato in patria.

Il favoreggiamento politico al traffico di esseri umani compiuto da un governo che avrebbe dovuto stanare i trafficanti «in tutto l’orbe terraqueo» è l’impronta di un sopruso sistematico che ha diviso questo Paese in amici e nemici.

Adottare pratiche e opinioni contrarie ai desiderata del governo implica l’intercettazione, la querela intimidatoria, l’esposizione via social, il deliberato attacco in pubblico, perfino la derisione. Non manca nessun ingrediente per poter definire tutto questo l’opera di un’autocrazia dalla parvenza democratica.

Buon giovedì.