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Il valore dei contratti nazionali di lavoro

Entro il 31 di marzo si svolgeranno le assemblee sindacali per l’approvazione della piattaforma presentata dai sindacati confederali del settore chimico e farmaceutico, Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uiltec-Uil, per il rinnovo del contratto che scade il 30 giugno.
Tra i punti fondamentali della piattaforma, la richiesta di aumento del salario: 305 euro lordi mensili a livello medio. Argomento, quello delle retribuzioni, divenuto critico per le grandi categorie industriali. Va ricordato, infatti, che la trattativa per il rinnovo contrattuale dell’altro principale comparto industriale, quello metalmeccanico, è rimasta inchiodata, fin dal suo inizio, il 30 maggio dello scorso anno, proprio sulla richiesta sindacale di aumento salariale di 280 euro lordi mensili, sempre a livello medio.
Va detto che la tradizione di relazioni industriali del comparto chimico-farmaceutico è diversa dalle altre. Il confronto tra Federchimica – la Confederazione datoriale del settore – e le Organizzazioni confederali è caratterizzato da decenni da una forte propensione alla consultazione continua e da un livello di conflittualità molto basso. Tanto che, in passato, gli accordi di rinnovo contrattuale sono stati chiusi anche nel giro di uno o due incontri formali.
Vedremo, dunque, se le condizioni di estrema criticità dell’economia e, nel suo complesso, del nostro tessuto industriale che perde colpi da 24 mesi di fila, renderanno difficile mantenere questo trend positivo o se la tradizione di bassa conflittualità resterà salda.
C’è da interrogarsi anche su quale potrà essere il peso della situazione estremamente critica che ha investito la Versalis, azienda controllata dall’Eni, che opera negli impianti di Ragusa e di Brindisi. Situazione che può sfociare nell’abbandono della chimica di base nel nostro Paese.
Intanto, quali sono gli altri elementi che caratterizzano la piattaforma confederale? Dicevamo sopra delle retribuzioni, in merito alle quali le Organizzazioni confederali dichiarano: “dopo gli interventi di modifica delle tranche nell’attuale decorrenza contrattuale, anticipandole di 6 mesi nel 2024, dovuti alla necessità di recuperare il delta inflattivo degli scorsi anni, insieme al previsionale e ai costi determinati dalle nostre richieste, la cifra indicata è di 305 euro complessivi al livello di riferimento D1”.
Altro argomento centrale, la formazione continua. Sullo sviluppo delle competenze i sindacati affermano che “l’analisi della transizione digitale ed ecologica ha l’obiettivo di identificare le nuove competenze necessarie e i cambiamenti nei ruoli organizzativi”. Come in ogni altro settore lavorativo, viene sentita con forza la sfida rappresentata dall’avvento dell’intelligenza artificiale che, se porta con sé opportunità per lo sviluppo della qualità del lavoro, presenta anche i rischi di violazioni della privacy e di possibili discriminazioni algoritmiche.
Forte anche il tema della salute e della sicurezza con la precisa rivendicazione di una partecipazione dei lavoratori allo sviluppo dei relativi processi di organizzazione del lavoro nelle aziende.
Sul piano della qualità dei rapporti di lavoro, essa è di fatto già alta in questo comparto: il 96% degli impieghi sono a tempo indeterminato. Non di meno, i sindacati insistono sull’implementazione di misure specifiche per lo sviluppo e il miglioramento del welfare contrattuale, con l’obiettivo principale di un miglioramento dell’integrazione con i servizi pubblici.
Dunque, in una stagione tanto difficile, i tavoli contrattuali dei due principali comparti industriali sono aperti. Abbiamo visto con quali difficoltà quello dei metalmeccanici. Vedremo con quali sviluppi quello della chimica-farmaceutica. Una stagione da seguire con la consapevolezza che, così come tanti altri processi fondamentali, anche la contrattazione collettiva è di fronte a un bivio di grandissima importanza per il futuro industriale del Paese. Questo discorso è tanto più importante dopo la pubblicazione del Rapporto Mondiale sui salari dell’OIL, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che ha certificato che le retribuzioni dei lavoratori italiani hanno perso l’8,7% del loro potere d’acquisto negli ultimi 16 anni, dal 2008 al 2024. Nessun Paese, appartenente al G 20, ha fatto peggio di noi. Per questo, rinnovare i contratti presto e bene è indispensabile per ridare fiato al potere d’acquisto dei salari. Il Governo, se vuole contribuire con fatti concreti, dovrebbe mettere in cantiere un provvedimento di detassazione degli aumenti retributivi, come richiesto dai sindacati.

L’autore: Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Come una gita alcolica fuori porta

Come un gruppo di amici che pianificano una gita alcolica fuori porta, il capo del Pentagono Hegseth, il consigliere per la sicurezza nazionale Waltz, la direttrice dell’intelligence nazionale Gabbard e il vicepresidente Usa J. D. Vance hanno allegramente pianificato un attacco di guerra in una chat privata, in cui è stato invitato per errore anche il direttore di The Atlantic, Jeffrey Goldberg.

Il giornalista ha fatto il giornalista e ha raccontato al mondo come la classe dirigente del governo Trump abbia deciso i raid Usa contro gli Houthi, bombardando lo Yemen.
In quella stessa chat il vicepresidente J. D. Vance e il segretario alla Difesa Pete Hegseth hanno parlato di “odio” e “disgusto” verso l’Europa. Donald Trump ieri ha rincarato la dose: “Penso che gli europei siano dei parassiti”.

“Odio soltanto – aveva scritto Vance – dover salvare di nuovo l’Europa”. “Condivido il tuo disgusto per l’Europa che se ne approfitta gratis – aveva risposto Hegseth – è patetico. Ma Mike ha ragione, siamo gli unici al mondo che possono farlo. La questione è il tempismo”.
Essere “anti” qualcosa è la cifra stilistica della politica quando si riduce a spettacolo e narrazione. Come da noi l’anti-antifascismo è il verbo per la maggioranza, nel trumpismo l’antieuropeismo è la caratteristica fondante della messa in scena.

In Parlamento qualcuno aveva chiesto a Giorgia Meloni dove stesse tra l’Europa e gli Usa. Furbescamente la presidente del Consiglio rispose che stava “con l’Italia”. Le si potrebbe riproporre la domanda: dove sta l’Italia tra questi Usa che ci vedono come parassiti e l’Ue?

Buon mercoledì.

“Case matte” contro i venti di destra

Viviamo un terremoto politico e sociale che impone un ripensamento radicale per le forze d’alternativa. La destra internazionale ha trovato una nuova coerenza, un linguaggio semplice e spietato, un’egemonia culturale che avanza di pari passo con la crisi della democrazia rappresentativa. E mentre le destre occupano lo spazio pubblico con parole d’ordine nette e strategie aggressive, la sinistra tradizionale si aggira smarrita, incerta su sé stessa, priva di una direzione chiara.
Chi governa gonfia il proprio consenso con la paura. Il vento forte che soffia dagli Stati Uniti attraversa l’Europa e si abbatte ovunque con la stessa violenza, è il vento dell’estrema destra: sicurezza contro libertà, ordine contro giustizia, confini contro diritti. Una visione proprietaria e privata dello Stato, capace di imprimere svolte repentine alla politica estera e di guerra, che l’Unione europea ha seguito come mantra fino ad oggi. L’arrivo di Trump accelera un paradigma già segnato e toglie il velo ad un nuovo processo di accumulazione che accentra il potere nelle mani di pochi oligarchi e schiaccia le persone. Il video trumpiano di Gaza sommersa di dollari e, contestualmente, la sospensione unilaterale del supporto all’Ucraina ci confermano che non vi può essere più alcuna fiducia nell’approccio globale degli Usa che sta determinando una modificazione del sistema economico e di sviluppo, indirizzando la spesa pubblica verso le armi e smantellando le fondamenta delle costituzioni occidentali praticando la separazione tra libertà e democrazia.
E di fronte a questo assedio, cosa fa la sinistra? Si rifugia nelle sue roccaforti logore, si perde in dibattiti autoreferenziali, organizza convegni sulle buone pratiche amministrative. Come se il fascismo diffuso potesse essere fermato con la manutenzione partecipata dei marciapiedi.
No, non basta più. Serve un salto di paradigma, un’azione politica che torni a parlare alla carne viva della società. Perché la politica non può essere solo un esercizio di mediazione e gestione della cosa pubblica: deve essere visione, conflitto e trasformazione.
Se la politica nazionale è paralizzata, le città possono diventare le nuove “casematte” della sinistra. Luoghi di resistenza e sperimentazione, officine di una democrazia che non si riduce al voto ogni cinque anni, ma si costruisce ogni giorno, nei quartieri, nelle scuole, nei luoghi di lavoro. Non è un’utopia: è già realtà.
Negli ultimi anni, nei municipi e nelle amministrazioni locali, si sono aperti spazi di lotta e processi di governo che hanno dimostrato una cosa fondamentale: il municipalismo non è solo gestione, è una visione politica alternativa. È il rifiuto della rappresentanza passiva, la costruzione di comunità agenti capaci di autogovernarsi, il superamento di un modello economico che svuota le città di senso lasciandole in balìa della speculazione e della rendita finanziaria.
Questa è la sfida. E non è una sfida astratta. È fatta di battaglie concrete: la casa, l’emergenza abitativa, la turistificazione selvaggia che trasforma i centri storici in luna park per ricchi e le periferie in recinti sociali. È fatta di lotte per il clima, per la giustizia sociale, per una sicurezza che non sia manganelli e telecamere, ma servizi, lavoro e spazi di aggregazione.
Siamo convinti che, per cambiare il mondo, la rappresentanza debba marciare insieme alle pratiche di trasformazione sociale e a una cultura politica non subalterna, capace di alimentare uno spazio politico partecipato e partecipabile. Senza questo intreccio, la sinistra resta un guscio vuoto, incapace di incidere sulla realtà. L’azione nelle istituzioni deve nutrirsi di movimento, conflitto e organizzazione dal basso. L’ottica municipalista determina un approccio che rende tutto questo praticabile: quando il governo locale incontra le lotte sociali, quando le istituzioni si aprono alla partecipazione diretta, si creano le condizioni per un cambiamento reale.
Non si tratta solo di amministrare, ma di costruire una politica che abbia un’anima, parole che accendano i cuori, un’idea di società radicalmente alternativa a quella della destra. Serve un nuovo patto tra istituzioni progressiste e movimenti, tra chi governa i territori e chi anima le piazze, tra chi ha responsabilità istituzionali e chi sperimenta nuovi modelli di convivenza e mutualismo.
Se la sinistra vuole tornare a essere un’opzione credibile, deve ripartire da qui. Non dalle alchimie elettorali, non dalle sigle stanche, ma dalle città e dai territori. Occorre, oggi più che mai, un patto per l’alternativa, un’alleanza di amministratori, movimenti, forze civiche e sociali che rimettano al centro le persone, la vita vissuta, i bisogni reali, la democrazia dal basso.
Non possiamo più permetterci il lusso dell’attendismo. La destra non aspetta, la crisi climatica non aspetta, l’impoverimento dei salari non aspetta. Serve coraggio, credibilità e generosità: merci rare nel nostro campo, ma senza le quali siamo condannati alla marginalità.
Dalle città può nascere una nuova “internazionale municipalista”, capace di sfidare la destra sovranista e tecnopopulista. Perché nessuno, nessuna, in nessuna città sceglierebbe la guerra, la paura, la disuguaglianza.
Questo è il tempo per ripartire. Questo è il tempo per dimostrare che si può fare.

L’appuntamento: domenica 30 marzo Sinistra Civica Ecologista Roma e le reti civiche del Lazio indicono un’assemblea a Roma ( dalle 9 al Nuovo cinema Aquila sui temi del municipalismo e dell’alternativa alla destra globale. «Siamo convinti che l’ottica municipalista può determinare un approccio in cui il governo locale incontra le lotte sociali e le istituzioni si aprono alla partecipazione diretta, creando le condizioni per un cambiamento reale», dicono gli organizzatori.

Questo è il link che lancia l’evento: https://www.facebook.com/share/p/1BzyxkqLgU/
Molti gli ospiti , in presenza o in video, tra cui: Ada Colau, Massimo Zedda, Roberto Gualtieri, Francesca Ghirra, Fausto Bertinotti, Francesca Druetti, Raphael Arnault, Emily Clancy, Massimiliano Smeriglio, Loredana De Petris, Luca Bergamo e tanti altri.
L’autore: Claudio Marotta è consigliere regionale Lazio 

Hollywood applaude, Israele arresta: la replica di No Other Land è dal vivo

Nel giro di tre settimane, dal palco dorato degli Academy Awards a Los Angeles al perdere sangue fuori dalla porta di casa.

Uno dei quattro registi premiati con l’Oscar per il documentario No Other Land, il palestinese Hamdan Ballal, 33 anni, è stato linciato dai coloni israeliani a Susyia, uno dei 19 villaggi che compongono il circondario di Masafer Yatta, nei territori occupati della Cisgiordania, dove da vent’anni Israele strappa pezzi di terra con la violenza.

L’abitazione di Ballal, secondo le testimonianze, è stata attaccata da una ventina di coloni con il volto coperto e armati, che hanno iniziato a lanciare sassi e poi hanno pestato gli abitanti. Erano presenti anche i militari dell’Idf, l’esercito israeliano, che hanno aiutato i violenti sparando in aria e illuminando gli obiettivi. Dopo essere stato massacrato di botte, Ballal è stato arrestato. Nessuno dei suoi familiari sa dove sia detenuto. Con lui è stato arrestato Yuval Abraham, co-regista israeliano del documentario, e un minorenne, già rilasciato.

Il documentario No Other Land racconta la quotidianità dei 2.800 abitanti di questa zona, che da anni subiscono attacchi, incendi, violenze e devastazioni. Il pubblico degli Oscar si è inumidito gli occhi applaudendo la rappresentazione dell’oppressione. «Almeno il mondo non potrà dire che non sapeva quello che succede qui», dicevano gli abitanti dopo la premiazione.

E invece il mondo ha applaudito il film e poi ieri ha osservato la replica, dal vivo, con gli stessi protagonisti. Ma gli oppressi della commozione da sala buia non sanno che farsene, là fuori.

Buon martedì.

In foto, un frame del video di sorveglianza dell’abitazione di Ballal pubblicato su X dal giornalista israeliano Yuval Abraham che ha co-diretto e co-sceneggiato No Other Land

La memoria tradita dei desaparecidos. Il 24 marzo ai tempi della motosega di Milei

Oggi ricorrono i quarantanove anni dal colpo di Stato civile-militare in Argentina. Dal 1983, anno del ritorno alla democrazia, ogni 24 marzo in Plaza de Mayo, a Buenos Aires, si tengono in forma ufficiosa grandi manifestazioni per chiedere verità e giustizia. Solo nel 2002, sotto il governo del peronista Eduardo Duhalde la giornata ha assunto valore istituzionale, sotto il nome di Dia de la memoria por la verdad y la justicia, per ricordare le decine di migliaia di persone sequestrate dai militari del regime, torturate, uccise e fatte scomparire durante i sei anni di dittatura (1976-1983). Un evento dalla grande carica simbolica, caratterizzato da manifestazioni, mostre, dibattiti e incontri di vario genere. Una giornata con tante iniziative che hanno l’obiettivo di costruire e nutrire la memoria collettiva degli argentini, ma che negli ultimi due anni, da quando Milei è al potere, è costantemente sotto attacco e oggetto di un’operazione per cambiarne valore e significato storico.

La dittatura è stata una tragedia: ha sterminato e distrutto il futuro di un’intera generazione. La giunta militare ha utilizzato la violenza per annichilire qualsiasi voce contraria, moderata o radicale che fosse. Per anni hanno tentato di insabbiare il loro sadismo: torture, sevizie, violenze psicologiche, nei centri di detenzioni. I voli della morte per gettare le persone ancora vive nell’Oceano o nel Rio de la Plata. Neonati e bambini strappati dalle braccia dei loro genitori, condannati a morte dalla polizia segreta. Trentamila desaparecidos. Si operava nell’omertà e nell’oscurità E ciò che non si poteva vedere o dimostrare, semplicemente non esisteva. Per chi è riuscito a salvarsi, ancora oggi, è un dovere raccontare il proprio vissuto per contribuire a nutrire la memoria collettiva.

«Sto raccontando cose che non ho mai raccontato in cinquant’anni», dice con la voce rotta Julio Frondizi, sopravvissuto ed esiliato argentino. Decide di aprirsi per la prima volta davanti alla platea che ha assistito alla proiezione di ieri a Roma, al CSOA La Strada, del docu-film Resistenza. Julio parla delle vicende che lo hanno costretto a fuggire dal suo Paese: i genitori sono stati sequestrati dalla polizia segreta, mentre, suo cognato, ucciso in seduta stante. Gli occhi sono lucidi e non riesce a parlare. Vicino a lui ci sono altri compagni esuli e alcuni membri dell’associazione Progetto Sur che lo sostengono. Termina il suo intervento, lacrime a pioggia. Julio e i suoi compagni si avvolgono in un lunghissimo abbraccio. Una scena commovente. Dura da vedere. Soprattutto se si pensa che sono passati quasi cinquant’anni dal golpe che cambiò le loro vite e la ferita è ancora aperta. Basterebbe solo quell’immagine, di lacrime e abbracci, per capire quanto sia necessario e importante ricordare e parlare di quanto accaduto. Purtroppo in Italia si ricorda molto poco. E poca è l’attenzione mediatica verso questa ricorrenza. Un fatto molto curioso se si pensa che molte delle vittime di quella torbida stagione furono italiani o persone di origine italiana.

Ma i riflettori oggi sono tutti puntati sulle manifestazioni che si terranno in Argentina. Diversi settori della società parteciperanno ai cortei. Le organizzazioni per i diritti umani e i partiti politici che organizzano la marcia a Buenos Aires – come riporta il quotidiano argentino La Nacion – «metteranno in discussione l’amministrazione libertaria per l’andamento del piano economico e per la violenza istituzionale» che rimproverano al presidente Javier Milei e al ministro della Sicurezza, Patricia Bullrich, dopo quanto accaduto nelle ultime settimane durante le proteste per i pensionati nella zona del Congresso. Per la società civile e le opposizioni questa giornata assume una grande importanza, diventa un vero e proprio momento per resistere.

La motosega di Milei è passata anche sopra le politiche pubbliche volte a sostenere la memoria e la ricerca della verità e della giustizia. Lo scorso anno, pochi giorni prima della commemorazione, Luis Petri, Ministro della Difesa, ha deciso di eliminare l’ ERyA, il team che dal 2010 avevano censito e analizzato gli archivi delle Forze Armate per contribuire ai casi di crimini contro l’umanità. Gli esperti che ne facevano parte furono definiti «vendicatori» e accusati di «maccartismo» nei confronti dei militari.

Alberto Baños, ex giudice e alla guida della segreteria dei diritti Umani della Nazione (SDH), che sta smantellando poco a poco. Nel giro di un anno e mezzo, il personale che lavora nell’ex Escuela de Mecánica de la Armada, ESMA, (ex centro di detenzione dei gorillas) è stato ridotto di oltre la metà. Così come sono stati tagliati i fondi agli avvocati che si sono costituiti parte civile nei processi contro l’umanità, scoraggiandone il lavoro. Tagli che rientrano alla perfezione nell’operazione negazionista messa in atto dal governo Milei, per mortificare la memoria e tentare di riscrivere la storia. Sono azioni accompagnate da uscite mediatiche gravi, come quella di oggi (più o meno simile a quella dello scorso anno), in cui in un video commemorativo diffuso dalla Casa Rosada, si parla di “Memoria completa”, facendo dunque leva su una narrazione negazionista, secondo cui i militari intervennero per sedare l’ondata di violenza messa in atto dalle opposizioni di sinistra e radicali e quindi ribaltando la verità ufficiale, considerata da Milei e i suoi seguaci, come una storia di parte, appunto, incompleta.

Nessuno legittima (o nega) la violenza del terrorismo della fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta in Argentina. Ma il 24 marzo è la giornata della memoria per ricordare le vittime e gli orrori della dittatura militare. Punto. L’intento dichiarato è sempre quello di creare una data unitaria, ma il vero obiettivo è quello di sminuire le nefandezze della giunta civico-militare di quegli anni. Dargli una nuova lettura. Tuttavia, mettere tutto nello stesso calderone significa mortificare la carica simbolica della data e quindi colpire la memoria collettiva e la verità storica.

A non condividere la memoria collettiva, questa memoria su cui si costruisce ogni giorno l’Argentina democratica, sono solo i nostalgici. Questi goffi, ma pericolosissimi tentativi di riscrivere la storia, avranno una grande risposta dalle piazze del Paese sudamericano. Ed è quello che ci vuole, per commemorare le vittime di una delle più brutte pagine della storia dell’umanità

L’autore: Simone Careddu è giornalista e ricercatore
Foto Abuelas di Plaza de Mayo

Morti di Stato: il carcere come condanna senza processo

Ventidue. Come i giorni che servono a un uomo per abituarsi alla prigionia, dicono gli studi. Ventidue, come le vite spezzate nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. L’ultima, quella di un ragazzo di ventotto anni, senza fissa dimora, che si sarebbe tolto la vita nel carcere di Trieste. Era dentro per il furto di uno zaino. Dentro un sistema che punisce la povertà con la morte.
Prima aggredito, poi isolato. Infine, l’impiccagione. Un suicidio che non è una fuga, ma una sentenza scritta dall’indifferenza. Portato in ospedale, ha trovato comunque il modo di andarsene. Perché in carcere non si muore, ci si uccide. E fuori si continua a parlare di emergenza sicurezza, senza mai nominare la mattanza dietro le sbarre.

Il carcere di Trieste ha un tasso di sovraffollamento del 169%. Significa che ogni tre persone detenute, almeno una non dovrebbe esserci. Ma c’era. Lui c’era. Lui, con altri 21 morti in tre mesi. Lui, dentro un sistema che si regge su celle chiuse e umanità aperta in due. Lui, dentro una democrazia che ha fatto dell’indifferenza una politica criminale.
Non è una statistica, è un fallimento. Non un numero, ma una condanna senza processo. Lo chiamano suicidio, ma è la lenta esecuzione di uno Stato che uccide lasciando soli. E noi, tutti, complici silenziosi, mentre il carcere si riempie di corpi e si svuota di giustizia.

Buon lunedì.

Foto AS

La giustizia internazionale lo cerca, l’Italia lo ospita: il caso Al-Kikli

Abdul Ghani Al-Kikli (4), signore della guerra accusato di torture e omicidi, fotografato in un ospedale di Roma con Ammar Joma (1) – fratello di Adel Joma, Adel Jumaa Amer (2) – ministro di Stato per il PM e gli affari di gabinetto, Mohamed Ismail (3) – ex miliziano e alto funzionario finanziario, Ibrahim Ali Al-Dabaiba (5) – figlio di Ali Al-Dabaiba e potente broker politico, Abdul Basit Al-Badri (6) – ambasciatore libico in Giordania, Ahmed Al-Sharkasi (7) – parente del premier Dabaiba e membro del consiglio dell’Arab Bank, e Dagoor (8) – stretto collaboratore di Adel Jumaa

Un altro criminale di guerra libico si aggira liberamente in Italia. Dopo il caso di Mahmoud Almasri, adesso tocca ad Abdul Ghani Al-Kikli, noto signore della guerra di Tripoli, accusato di torture, sparizioni forzate e omicidi extragiudiziali. Lo denuncia l’account @RefugeesinLibya, pubblicando una foto che lo ritrae in una stanza dell’Ospedale Europeo di Roma, circondato da uomini chiave del governo libico di Abdul Hamid Dbeibah.

Al-Kikli, secondo alcune fonti, è nella lista dei ricercati della Corte penale internazionale, ma l’Italia, invece di collaborare con la giustizia internazionale, sembra offrirgli ospitalità. Non è il primo caso. Già con Almasri, accusato di traffico di esseri umani e crimini contro le persone migranti, il governo Meloni si era dimostrato più incline all’accoglienza dei carnefici che delle vittime. Il paradosso è che mentre l’esecutivo si vanta di aver trasformato l’Italia in una fortezza contro l’immigrazione, consente a chi di quell’immigrazione ha fatto un business sanguinario di muoversi indisturbato nel nostro Paese.

La foto pubblicata da @RefugeesinLibya non lascia spazio a interpretazioni: Al-Kikli è in Italia, ospite di un sistema che ignora la giustizia e i diritti umani. E se la comunità internazionale chiede risposte, da Roma si alza il solito silenzio complice.

Buon venerdì. 

 

Foto @RefugeesinLibya

Il manifesto di Ventotene e le radici dell’Europa neoliberale

In una piccola isola alle coste dell’Italia, un gruppo di antifascisti si interrogava sulle sorti di un continente che pochi decenni prima dominava il mondo e che, dopo orrori inenarrabili, era in macerie. In quel contesto Ernesto Rossi e Altiero Spinelli scrissero quel Manifesto di Ventotene che è talvolta considerato un documento fondativo al quale riferirsi per completare un’integrazione incompiuta. Ad Altiero Spinelli, che fu eurodeputato grazie al Partito comunista italiano, è peraltro dedicato l’edificio principale del parlamento europeo. Nel gennaio scorso, quasi a voler mostrare l’incultura che contraddistingue le attuali classi dirigenti europee, il parlamento la cui sede porta il suo nome ha votato una risoluzione che assimila la falce e il martello alla croce uncinata nazista.

Inizialmente il Manifesto ricevette scarsa attenzione, anche perché il sistema internazionale come definito dagli accordi di Bretton Woods aveva negli Stati nazionali il suo perno, mentre quel testo, come ora vedremo, mira all’indebolimento dei poteri statali in quanto attribuisce ad essi la responsabilità dei conflitti del Novecento. In seguito, orientativamente dagli anni Novanta del secolo scorso, da sinistra ci si richiama spesso ad esso nella speranza che – anche grazie al particolare contesto in cui è stato redatto – possa fornire una spinta ideale per l’unità politica dei popoli del continente.

Leggendo dunque il Manifesto, sia nella Prefazione del 1944 redatta da Eugenio Colorni, sia nella prima parte attribuita a Spinelli, troviamo un pensiero per il quale la causa delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti va ricercata nella formazione di Stati sovrani guidati dalla volontà di dominare sugli altri e di ampliare i propri «spazi vitali». Gli Stati, in quest’analisi, sarebbero portati inesorabilmente a confliggere tra loro. L’idea è ripresa da un saggio dei 1919 di Lionel Robbins – economista noto per aver formulato la definizione neoclassica di economia che troviamo in ogni libro di testo -, secondo il quale «oggi sappiamo che se non distruggiamo lo Stato sovrano, lo Stato sovrano distruggerà noi». Ed è in effetti vero che gli Stati furono strumento essenziale dell’espansione imperialista dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento: essa ha condotto alle guerre dell’oppio, ai massacri in India, in Africa, a colonizzare in sostanza ogni angolo del globo ove fosse opportuno espandersi, e a portare infine quegli stessi stati a scontrarsi distruggendo il continente.

Ma gli Stati nazionali sono destinati a confliggere per loro stessa natura, o c’è qualcosa di più profondo da affrontare affinché i rischi di conflitti e di guerre possano essere scongiurati? Se seguiamo un’antropologia secondo la quale la condizione naturale umana è quella della guerra di tutti contro tutti, è indubbio che la violenza umana sia potenziata dalla costruzione di stati armati e omogenei per razza, lingua, religione. Ma se accettiamo questa antropologia, perché mai un’entità statale sovranazionale, dotata di esercito e politica estera comune, non dovrebbe riprodurre su scala ancora più distruttiva quegli stessi rischi di guerra? È evidente che gli estensori del Manifesto si trovano di fronte ad un dilemma difficilmente risolvibile. E oggi coloro che sono pronti ad indossare l’elmetto per superare l’impotenza geopolitica del continente, mostrano con tutta evidenza quanto questa strada per assicurare la pace sia illusoria.

La seconda parte del Manifesto contiene invece l’indicazione di una serie di riforme ispirate ai principi del socialismo liberale: nazionalizzazione dei monopoli privati in alcuni settori di interesse collettivo quali quello elettrico, bancario, degli armamenti; riforma agraria con assegnazione delle terre a chi le lavora e sostegni alla piccola proprietà contadina; scuola pubblica che garantisca a tutti la possibilità di studiare fino ai più alti gradi di istruzione; e infine, ovviamente, piena rivendicazione di quelle libertà politiche calpestate dalle dittature, indipendenza della magistratura, laicità dello Stato, e per l’Italia abolizione del Concordato. Obiettivi, questi, da perseguire tramite un’alleanza tra le classi popolari e gli spiriti intellettuali soffocati dai regimi fascista e nazista.

Il carattere contraddittorio del testo emerge da un’affermazione decisiva che ricorre sia nella prefazione, sia nella sua prima parte. Essa è la base di quella deriva tecnocratica che ha fatto perdere al progetto europeo quella carica ideale che in alcune parti conteneva, ed è forse una chiave per comprenderne alcuni sviluppi. Queste riforme nella direzione del socialismo, infatti, non dovrebbero costituire il motore per la costituzione dell’Europa federale, semmai venire dopo la sua realizzazione:
«La linea di divisione tra partiti progressisti e partiti reazionari cade ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta politica quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale».

Ad avviso degli estensori del documento, dunque, prima si costruiscono le istituzioni europee, dopo semmai si soddisfano le esigenze delle classi popolari: un gruppo di tecnocrati dovrebbe erigersi sulle macerie di quei devastanti conflitti ed agire al di fuori e forse contro la volontà dei popoli e dei parlamenti democraticamente eletti, costruendo un’entità statale che, indipendente di una maggiore o minore realizzazione dei principi del socialismo e della democrazia, sarebbe priva del carattere bellicoso degli stati nazionali che l’hanno preceduta e in grado di assicurare pace, sicurezza e benessere.

Inizialmente il Manifesto ebbe scarsa diffusione, anche perché gli Stati – e non la dimensione europea – erano il terreno su cui si andavano affermando quei diritti sociali e politici sanciti da molte delle Costituzioni nate dalle ceneri del fascismo, come la nostra. Come si è accennato, infatti, i governi nazionali disponevano di una vasta gamma di strumenti atti a perseguire obiettivi economici quali l’equilibrio con l’estero, il sostegno della domanda interna, lo sviluppo industriale e delle aree economiche depresse, una fiscalità in grado di contenere gli squilibri nella distribuzione del reddito e di assicurare l’offerta di servizi pubblici; inoltre i partiti comunisti e socialisti, anche quando non avevano accesso al governo, avevano la forza per contrattare tassazione, spesa sociale e orientamenti economici. Tutto questo portò alla costruzione di quel modello sociale europeo che probabilmente è stato il punto più alto di composizione tra i principi della libertà economica e la difesa dei diritti economici delle fasce sociali più disagiate. Lo Stato, piuttosto che condurre alla guerra, pur in presenza di difficoltà e contraddizioni dava la prova di poter essere un efficace strumento di emancipazione e di partecipazione democratica.

Certo, tutto ciò avveniva all’interno di un’area geopolitica saldamente sotto il controllo degli Stati Uniti. Essi, pur intervenendo anche pesantemente per evitare che la partecipazione democratica potesse evolvere verso il socialismo, dovevano mostrare che, contrariamente a quanto affermava Marx, il capitalismo non impoveriva i popoli ma garantiva benessere. Poi, quando con gli anni Ottanta gli orientamenti dell’alta sponda dell’Oceano cambiarono, anche il quadro europeo subì profonde modificazioni. Non è questa la sede per ripercorrere le tappe che hanno condotto alla liberalizzazione dei movimenti di capitale, alla globalizzazione dei processi produttivi e al crollo del potere contrattuale dei lavoratori. Vediamo piuttosto come la tesi contenuta nel Manifesto di Ventotene per la quale il superamento delle sovranità statali sarebbe necessario per assicurare la pace, abbia potuto svolgere un ruolo in questo contesto.

Il neoliberismo afferma che la condizione naturale dell’uomo non è tanto quella hobbesiana dell’homo homini lupus, quanto piuttosto quella che spinge il singolo individuo a perseguire il proprio tornaconto individuale. Questa spinta sarebbe riscontrabile in ogni società e in ogni epoca storica, dunque anche in popolazioni selvagge non civilizzate. Questa idea è sempre stata contestata da gran parte degli antropologi, ma poco conta per un’ideologia del tutto disinteressata ai fatti. Negli anni Novanta del secolo scorso, a seguito del crollo del sistema sovietico, si è così formata l’illusione per la quale, poiché la natura umana è caratterizzata dalla tendenza a barattare in funzione dell’utile individuale, dopo un lungo e accidentato percorso tutti i popoli del mondo avrebbero potuto riconoscersi nei principi della democrazia e della libertà economica come declinati nei paesi occidentali, conducendo, nella sostanza, ad una “fine della storia”. Pace e prosperità sotto le insegne dei valori occidentali si sarebbero affermati ovunque.

L’applicazione di questi principi in Europa è stata leggermente diversa. L’Europa, infatti, ha seguito una variante tedesca del neoliberismo, nata negli anni Trenta del Novecento e detta ordoliberalismo, secondo la quale, se è pur vero che l’ordine di mercato corrisponde alla condizione naturale dell’uomo, esso non sorge spontaneamente ma deve essere istituito e protetto. In questa concezione del mercato, dunque, lo Stato non scompare, ma è chiamato a definire un quadro istituzionale e normativo che ne garantisca il funzionamento: lotta contro i monopoli per assicurare la concorrenza; leggi che regolano e difendono la proprietà privata; emissione di moneta affidata ad un’istituzione indipendente; una spesa pubblica minima in grado di assicurare il funzionamento della società attorno all’ordine di mercato. Un sistema economico integrato tra diversi paesi deve inoltre scongiurare la possibilità che i governi nazionali operino per interferire nella concorrenza, riducendo al minimo gli strumenti di politica economica di cui essi dispongono, per recuperarli semmai su scala più ampia nell’interesse comune.

L’ordoliberalismo fu il pensiero dominante nella Germania Occidentale dopo il 1945 ed ha ispirato quell’insieme di istituzioni, regole e divieti che costituiscono l’ossatura dell’Unione Europea. Tra di esse ricordiamo i limiti al disavanzo e al debito pubblico come definiti dal Trattato di Maastricht, il divieto ai governi di sostenere le industrie nazionali, una banca centrale e una moneta unica il cui compito è garantire la stabilità dei prezzi. La stessa fiscalità, sebbene sia rimasta di competenza dei governi nazionali, in un contesto di libero movimento dei capitali è fortemente condizionata: si possono tassare immobili e redditi da lavoro, ma più difficilmente i profitti, i valori e i rendimenti finanziari, che possono volar via verso paradisi fiscali – anche interni all’Unione – dove le condizioni sono più favorevoli.
Questo insieme di regole e divieti costitutivi dell’Unione, associato alla mancanza di una moneta nazionale e ad una fiscalità gravemente distorta, ha ridotto la capacità dei governi di far fronte alla domanda di servizi e di giustizia sociale proveniente dalle proprie popolazioni. Come è drammaticamente emerso in occasione della crisi del debito sovrano europeo del 2010, quest’ordine tecnocratico basato sui principi neoliberali, piuttosto che unire i popoli europei ha avvelenato i loro rapporti.

Nella sostanza l’ordoliberismo, associato alla diffidenza nei confronti dei poteri statali presente nel Manifesto, ha portato all’indebolimento della democrazia, del potere dei governi nazionali e dello Stato sociale, alimentando risentimenti e sfiducia nei confronti del progetto europeo. L’idea che quest’ultimo possa trovare un nuovo impulso per il risorgere del fantasma della guerra ci riporta ad una storia vecchia come ogni conflitto: il nemico esterno più o meno immaginato, o provocato, utilizzato come fattore di coesione interna. Così allo scoppio del conflitto in Ucraina, l’Europa, piuttosto che operare per il ristabilimento della pace, ha soffiato sulla guerra, alimentando i rischi di un altro disastroso conflitto che il superamento degli stati nazionali avrebbero dovuto scongiurare.

Spiace per i sostenitori del papa, come anche per i paladini della globalizzazione, ma né la religione, né la finanza, né le catene globali del valore sono in grado di assicurare la pace tra i popoli, ponendoli invece gli uni contro gli altri e creando fratture che, sebbene non siano geografiche, sono ugualmente profonde. Ci si dovrebbe chiedere invece perché letteratura, poesia, pittura, musica e arte in genere, pur articolandosi assai diversamente sulla base delle storie e delle culture dei popoli, li avvicinino anziché dividerli. La chiave per una ricerca in questa direzione è costituita dalla distinzione tra bisogni ed esigenze.

Le esigenze, cioè il piano all’interno del quale abbiamo appunto lo sviluppo culturale, si affermano non nella contrapposizione e nello scontro, ma nel rapporto, e in particolare nel rapporto col diverso. Il diverso può essere colui che ha raggiunto capacità artistiche più raffinate, o un popolo che presenta tratti culturali lontano dai nostri perché ha seguito differenti sentieri di sviluppo. Sul piano delle esigenze, dunque, è possibile realizzare l’uguaglianza valorizzando la diversità, escludendo violenza e oppressione. Certo anche l’economia, nello scambio e nella divisione del lavoro, può condurre all’arricchimento dei partner del rapporto, ma l’economia capitalistica, in quanto finalizzata alla massimizzazione del profitto, conduce inevitabilmente allo sfruttamento e all’impoverimento di chi dispone di inferiori capacità e strumenti tecnici. In sostanza un’economia governata politicamente può essere uno strumento di avvicinamento tra popoli, ma lasciata alle dinamiche capitalistiche porta allo scontro e forse anche alla guerra.

Oggi l’Europa appare segnata dalla contrapposizione tra un elitismo autoreferenziale, intellettualmente corrotto e lontano dai bisogni dei popoli, e un populismo che propone facili scorciatoie a problemi complessi. Questa contrapposizione può essere fatale. La politica deve trovare nuove fondamenta: abbiamo armi sufficienti a rendere la terra inabitabile, non c’è bisogno di costruirne ancora; abbiamo scienza, mezzi tecnici e potenza economica che se sottratti alla logica capitalistica sarebbero in grado di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti. Non vi è coesione, né funzione geopolitica che possa svolgere l’Europa, senza una idea di sviluppo umano, di uguaglianza e di civilizzazione che superi i dogmi del passato sulla natura umana portata alla violenza, o sul mitico selvaggio barattante volto all’arricchimento personale. È necessario il recupero e il radicale rinnovamento di quei valori del socialismo che hanno caratterizzato gran parte della storia europea.

L’autore: Andrea Ventura, P.h.D. in Politica economica, ha insegnato Economia per le scienze sociali ed Economia del settore pubblico presso la Scuola di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”, Università di Firenze. È autore di numerosi saggi e storico collabora di Left

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Meloni si rifugia nel mito nero per nascondere il vuoto

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni oggi si imbarca per Bruxelles senza il mandato del suo governo per votare il piano ReArm Europe voluto da von der Leyen. Non è un retroscena: lo ha detto chiaramente il capogruppo leghista alla Camera, Riccardo Molinari, e lo ha ribadito ieri pomeriggio il vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini.

Dopo aver detto a Bruxelles che il problema era solo un nome poco goloso – poiché per lei la politica è una continua rappresentazione – oggi Meloni deve riferire agli altri leader di Stato che la sua maggioranza è a pezzi, che i nodi sono venuti al pettine: troppi amici di Trump, troppi nemici dell’Europa, troppi nazionalismi spicci, troppi ex innamorati di Putin affastellano la sua compagine di governo.

È un fallimento politico enorme. L’Italia, quando non si tratta di cianciare di immigrati e minoranze, non riesce a trovare una quadra. Il governo italiano non ha una politica estera. Per nascondere il disastro, la capa del governo ha fatto ciò che sa fare meglio: fare leva sulla sua malinconia nera, infangando il manifesto di Ventotene per rassicurare la sua base (nera) e sollevare un polverone.

L’infingarda sceneggiata di ieri alla Camera è la trappola perfetta per opposizione e giornalisti. Sputando sulla storia, ha condito il vuoto pneumatico del governo con la polemica. Ma che alla premier non piaccia l’idea di Europa lo sappiamo da tempo. I sovranisti governano con piccoli cabotaggi nel mare ristretto delle loro idee locali. Per natura, sono incapaci di unioni di qualsiasi portata. È la loro natura.

Buon giovedì.

Alzare i salari, combattere il lavoro povero

La denuncia, fatta in un’intervista a La Stampa da Fabrizio Russo, segretario della Filcams, il sindacato dei Lavoratori del Commercio, del Turismo e dei Servizi della Cgil, ci offre un buon riassunto della situazione del mercato del lavoro italiano.
In quei settori, in particolare ristorazione e turismo, il lavoro povero è una questione strutturale. Il livello delle retribuzioni giornaliere non ha bisogno di aggettivi: in media, negli altri settori economici – eccezion fatta per l’agricoltura – ci si attesta sui 96 euro lordi. Ma nel turismo e nella ristorazione si viaggia sui 55-60 euro giornalieri, come ci ha ricordato Russo.
Ora, da lungo tempo, ci vengono presentati dati che attestano una costante crescita dell’occupazione in Italia. Sono dati veri, indiscutibili, certificati dall’Istat Ma, il più delle volte, questi dati non vengono separati per settore e accompagnati dall’andamento delle specifiche ore lavorate. La crisi dei settori industriali è nota. E la crescita dell’occupazione avviene proprio nei settori del terziario. Per essere più precisi: nei settori del commercio, del turismo e delle pulizie. Quelli nei quali le paghe sono più basse, dove vengono imposti part-time forzati ed è più intenso il peso della stagionalità e del contratto a termine. Nella media nazionale il part-time si ferma al 27%; nel turismo è al 52%; negli appalti per le pulizie e per le manutenzioni si tocca il 70-80%. Con orari settimanali medi al di sotto delle 20 ore. In queste aree troviamo centinaia di migliaia di lavoratrici lavoratori che stanno tra le 5 e le 10 ore settimanali di lavoro.
Anche questa è, di fatto e statisticamente, occupazione. Ma il fatto è che cresce il numero dei lavoratori che sono meno pagati e hanno una paga assai più scarsa rispetto a quelle dei settori della manifattura. In sintesi, dove la paga è più ricca diminuisce l’occupazione; dove la paga è più povera l’occupazione aumenta. Parliamo, insomma, di una massa considerevole di redditi da lavoro di 400-500 euro lordi o poco più al mese.
Dobbiamo avere la capacità di dire le cose come stanno. A gennaio 2025, il tasso di occupazione in Italia è salito al 62,2. Questo valore è ancora il più basso in Europa. Infatti, l’Italia rimane ultima tra i 27 paesi dell’Unione europea per tasso di occupazione. E, come abbiamo visto, quel tasso in costante crescita non rappresenta, nella sua sostanza, un mercato del lavoro sano e di qualità. La povertà del lavoro in questo Paese è forte e sostanziale e riguarda circa tre milioni di lavoratori.
La consapevolezza di questo fatto non dovrebbe essere limitata agli studiosi, ai sindacalisti e agli imprenditori. Dovrebbe essere un argomento di primo piano nel dibattito politico. Confronto che dovrebbe sostanziarsi dei dati di realtà e abbandonare partigianerie e propaganda che non servono a nessuno e che, soprattutto, non affrontano la situazione reale.

L’autore: L’ex ministro Cesare Damiano è presidente dell’associazione Lavoro&Welfare

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