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Gaza, la farsa della tregua e il laboratorio dell’impunità

Gaza brucia ancora, come se la storia non fosse mai servita a niente. La tregua, una farsa utile ai governi per guadagnare tempo, si è dissolta nel fumo delle esplosioni. Netanyahu, sempre più prigioniero della sua stessa guerra, sacrifica tutto, ostaggi compresi, pur di non cedere alla realtà di un fallimento. E l’Europa? L’Europa osserva, deplora, e nel frattempo fornisce a Israele il necessario per continuare la mattanza.

Il laboratorio Gaza dimostra che si può fare: si può assediare una popolazione fino a ridurla in macerie, si può condannare alla fame, si può violare una tregua senza pagare alcun prezzo politico. Una scuola di impunità, dove la legge internazionale è carta straccia e il diritto di autodeterminazione non vale per tutti. Non per i palestinesi, non per chi non rientra nella geografia della civiltà che l’Occidente si racconta.

Nel frattempo, a Gerusalemme, le famiglie degli ostaggi riempiono le piazze gridando quello che nessuno al potere vuole ammettere: Netanyahu non ha il mandato per sacrificarli. Ma non c’è spazio per i dubbi quando la sopravvivenza politica si misura in bombardamenti. Netanyahu lo sa e scommette tutto sulla guerra, mentre i cadaveri si accumulano e la comunità internazionale volta la testa dall’altra parte.

La grande illusione era pensare che tutto fosse finito. Ma chi vive sotto le bombe non ha mai avuto il privilegio di illudersi.

Buon mercoledì. 

 

Foto WC

La disfatta dell’Europa

L’ultimo saggio di Piero Bevilacqua, La guerra mondiale a pezzi e la disfatta dell’Unione Europea, Castelvecchi è di quelli che faranno molto discutere. Non è una frase fatta. Le tesi dello storico sono nette, non lasciano spazio a dubbi o a interpretazioni, spargono senza risparmio sale sulle divisioni che si sono aperte nella sinistra, non solo italiana, dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio del 2022. Scritto con grande accuratezza, è un libro da consigliare soprattutto a chi ha già formato una propria opinione perché sarà costretto a rimetterla in discussione.

Il primo grave giudizio riguarda i nostri alleati americani. A partire dalle bombe nucleari cinicamente sganciate su Hiroshima e Nagasaki al termine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno messo in atto una violenta politica imperiale che non ha risparmiato nessun angolo del pianeta. L’elenco dei misfatti americani nel dopoguerra è lunghissimo e lo stesso autore non può che riferirne solo in parte. Il volto della democrazia nata a Filadelfia con la Dichiarazione d’indipendenza del 1776 appare oggi così sfregiato da giustificare la definizione data agli Usa di Stato criminale.

Non meno dura è l’opinione che Bevilacqua ha nei confronti dei governi di Israele che inseguono il disegno di una nazione ebraica estesa dal Giordano al Mediterraneo, pur sapendo che questo comporta la cacciata e lo sterminio del popolo palestinese. La terza, ferma presa di posizione è riservata all’Europa, il continente più ricco e progredito del pianeta, divenuto succube e complice dell’imperialismo americano. L’Alleanza atlantica, nata per scopi difensivi, è divenuta il braccio armato dell’aggressiva politica estera statunitense, ampliando ingiustificatamente la sua sfera di influenza sul continente europeo sino ad “abbaiare ai confini della Russia”, come molto efficacemente ha detto papa Francesco.

Si tratta, come si vede, di giudizi taglienti ma con pochi margini di contestazione. Laddove, invece, il confronto si farà certamente acceso è su quelle parti del libro che si occupano di Russia e della guerra in corso in Ucraina. L’autore ritiene che la Federazione russa, pur gravata da un innegabile deficit democratico, non abbia ambizioni imperiali essendo un paese vastissimo, ricco di materie prime e povero di popolazione. L’invasione dell’Ucraina troverebbe esclusivo fondamento nelle persecuzioni subite per anni dalla comunità russofona del Donbass e nella necessità di spezzare l’accerchiamento che la Nato ha messo in atto ai danni di Mosca a partire dall’89. Un ruolo positivo, osserva poi Bevilacqua, la Russia svolge insieme ai Brics, l’organizzazione cui fanno capo 36 nazioni che costituiscono il 40% della popolazione mondiale e il 37% del Pil. Spezzare l’arrogante monopolio del dollaro e avviare un nuovo ordine mondiale fondato sul multilateralismo e la cooperazione economica sarebbe nell’interesse di tutti.

Farei un torto all’autore se non precisassi che queste ultime considerazioni occupano uno spazio perfettamente equilibrato all’interno del saggio e che concentrerò l’attenzione su di esse soltanto perché è qui che si registra una varietà di opinioni all’interno della sinistra non solo italiana, si pensi ad esempio a Bernie Sanders e a Noam Chomsky negli Stati Uniti. Le ragioni, invero, non mancano. La Russia è la quarta economia mondiale dopo Cina, Usa e India ma è anche tra i Paesi più diseguali al mondo, superata soltanto da Quatar, Turchia, Mozambico, Yemen, Arabia Saudita, Bahrain, Angola e Peru. L’1% della popolazione russa detiene il 23,8% del prodotto nazionale (World Inequality Report 2023). In Italia l’1% più ricco possiede il 12,3% del Pil, in Usa il 20,7%, in Ucraina sorprendentemente il 9,3% (e anche in Bielorussia è appena il 9,7%). Non è il solo primato negativo della Russia. Lo Human Freedom Index 2023 – che include, fra le altre, la libertà di espressione, di associazione, di religione e il rispetto dei diritti umani – colloca la Russia al 121° posto su 165 paesi (gli Usa sono diciassettesimi, l’Italia trentaseiesima). La stampa russa, in particolare, gode di una libertà estremamente limitata occupando la 164a posizione su 180 (Reporters sans Frontières 2023). Non è del resto un caso se quasi tutto quello che sappiamo sui crimini commessi dall’impero americano nel mondo viene da inchieste prodotte negli stessi Usa o in altri Paesi occidentali. In Russia, poi, secondo gli ultimi rapporti di Amnesty International, la tortura e altri maltrattamenti nei luoghi di detenzione hanno carattere endemico, proseguono i rapimenti e le sparizioni di individui in Cecenia, gli oppositori sono sottoposti a procedimenti giudiziari arbitrari e a lunghe pene detentive, le principali Ong ambientaliste sono bandite dal paese e le persone Lgbti regolarmente discriminate.

In sostanza la Russia odierna appare, agli occhi dei principali osservatori internazionali, un paese capitalista segnato da profonde diseguaglianze e dalla sostanziale assenza di tutte le libertà fondamentali, ciò che è senza dubbio frutto del suo passato. L’impero russo ha una storia plurisecolare. È nato nel 1721 con Pietro I il Grande ma già nei secoli precedenti la Russia moscovita aveva avviato la conquista della Siberia e degli immensi territori dagli Urali al Pacifico così che l’Unione Sovietica nel 1922 ereditò un paese vastissimo con una grande varietà di popolazioni dalle lingue e culture diverse, assoggettate con la violenza e russificate. Nel corso del XX secolo l’Unione Sovietica ha esercitato un controllo asfissiante e assoluto sui paesi dell’Europa dell’Est entrati nella sua sfera di influenza dopo la conferenza di Jalta del febbraio del ’45, provocando le rivolte di Budapest nel ’56 e di Praga nel ’68 represse con i carri armati. Ancor prima il patto siglato da Josif Stalin con Adolf Hitler e la conseguente spartizione della Polonia nel ’39 non trovano legittimazione nella necessità di difendere il bene supremo della sicurezza russa, perché così facendo saremmo costretti a riconoscere il diritto di ogni stato a calpestare la sovranità di un paese terzo pur di salvaguardare la propria. Ma pur volendo considerare spregiudicato realismo politico quella scelta, non c’è modo di giustificare l’eccidio compiuto nella primavera del 1940 dal capo della polizia segreta Lavrentij Pavlovič Berija che nel villaggio di Katyń fece massacrare ben 22 mila prigionieri, ufficiali dell’esercito, magistrati, giornalisti, politici, professori, esponenti vari della intellighenzia polacca, un’intera classe dirigente. Questo spiega, invero, la particolare avversione che i polacchi nutrono per i russi. Non per giustificare ma ancora una volta per capire, la scelta di Stepan Bandera di seguire le insegne naziste hanno radice nell’holodomor, la grande carestia causata dalla politica di industrializzazione forzata e di collettivizzazione in agricoltura promossa da Stalin. Nel biennio 1932-33, appena 8 anni prima dell’arrivo in quel paese dell’esercito di Hitler, avevano perso la vita almeno 3 milioni di ucraini, il 10% della popolazione dell’epoca. Per tornare in campo occidentale, l’attuale secolo di violenza americana è stato preceduto dal colonialismo inglese, francese, belga, olandese e anche italiano. Nel febbraio del 1937, come rappresaglia per l’attentato, peraltro fallito, da parte della resistenza etiope al generale Rodolfo Graziani, soldati italiani e squadracce fasciste massacrarono 19 mila civili ad Addis Abeba, tra loro molte donne e bambini. Non c’è grande nazione che possa considerarsi immune dal virus della violenza suprematista, nessuna è sinora parsa in grado di sottrarsi alla nietzschiana volontà di potenza.

Quanto all’ascesa al potere di Vladimir Vladimirovič Putin, al fianco è bene ricordarlo di Boris Nikolaevič El’cin, è stata documentata molto bene dal compianto giornalista Andrea Purgatori che ha mostrato come gli oligarchi siano stati decisivi per la sua scalata al potere e come i mercenari della brigata Wagner fossero il suo personale esercito. Putin governa di fatto ininterrottamente da un quarto di secolo, un lasso di tempo più congeniale a un dittatore che a un presidente regolarmente eletto ma ciò che è ancor più inquietante è il rapporto di alcuni suoi stretti collaboratori con Aleksandr Gel’evič Dugin, noto per le sue posizioni apertamente reazionarie, ultranazionaliste, razziste. Lo stesso Putin, sostengono alcuni studiosi (si veda Guido Caldiron, Ivan Il’in, tutto il nero del Cremlino, Il Manifesto 17 aprile 2022), fa spesso riferimento nei suoi discorsi al filosofo fascista Ivan Aleksandrovic Il’in, esiliato dopo la nascita dell’Urss, ammiratore di Mussolini e di Hitler, assertore di una innocenza russa insidiata dall’Occidente decadente e corrotto. È quanto sostiene anche Kirill, il patriarca ortodosso di Mosca, che evoca costantemente la necessità di difendere il Russkij mir, il mondo russo minacciato dal satana occidentale. Non stupisce, pertanto, che il presidente russo sia divenuto ovunque nel mondo un’icona dell’estrema destra nazionalista, rappresentata oggi in Italia da Matteo Salvini. Il 17 marzo 2023 la Corte penale internazionale ha emesso due mandati di arresto nei confronti di Putin e di Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissaria per i diritti dei bambini presso l’Ufficio del Presidente della Federazione Russa, per aver commesso il crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione, bambini in particolare, dalle regioni ucraine occupate alla Russia. Questi crimini sono stati accertati dai giudici dell’Aia; ma neppure è facile disgiungere le responsabilità di Putin nell’assassinio della giornalista Anna Politkovskaya, rea di aver raccontato i massacri compiuti dall’esercito russo in Cecenia, nell’improvviso “incidente” aereo che è costato la vita a Evgenij Viktorovich Prigozhin dopo aver tentato una marcia su Mosca, o nella morte in carcere di Aleksej Navalny, suo principale oppositore. Come si vede, anche riconoscendo il positivo impulso verso il multipolarismo e il contenimento dell’arrogante imperialismo americano, non è facile solidarizzare con la Russia di Putin.

Nel post-scriptum, infine, Bevilacqua, riserva al lettore un’ultima sorpresa. L’Europa, egli ritiene, è morta a causa della sua incapacità a sottrarsi al dominio americano persino di fronte al drammatico scenario di una guerra mondiale, ed è necessario un ritorno allo Stato-nazione. Anche questa opinione farà certamente discutere perché come lo stesso autore ammette i problemi che l’umanità ha di fronte, la difesa della biosfera anzitutto, superano i confini nazionali e neppure è possibile tornare indietro sulla moneta unica europea. A chi, come me, crede ancora nel sogno di Ventotene un nuovo ordine mondiale non può prescindere dall’Europa che, pur tra limiti e regressi, esprime ancora le forme migliori fra le democrazie attuate e gli stati sociali più avanzati al mondo.

L’appuntamento: Il 20 marzo il libro di Piero Bevilacqua sarà presentato alla Fondazione Basso a Roma da Ferrajoli, Prospero e altri

L’autore: Pino Ippolito Armino ingegnere e giornalista, dirige la rivista “Sud Contemporaneo” e fa parte del comitato direttivo dell’Istituto “Ugo Arcuri” per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Tra i suoi libri, “Il fantastico regno delle due Sicilie” (Laterza 2021)

La tregua è finita, non restate in pace

La tregua era una tregua solo per chi non guardava abbastanza. Per chi poteva permettersi di dimenticare che ogni giorno a Gaza significava assedio, fame, sete, e il suono costante dei droni in cielo. Adesso non c’è neanche più quell’illusione: l’aviazione israeliana ha ripreso i bombardamenti con la forza promessa da Netanyahu e con la complicità di chi si affretta a giustificare l’orrore. Più di 300 morti nella prima notte, decine di bambini, le case che crollano come carta, gli ospedali che ormai non sono più niente se non fosse per i medici che restano, consapevoli che salvarne uno vuol dire condannarne altri mille per mancanza di tutto.

Netanyahu ha deciso che la guerra è più conveniente della pace. Serve a schiacciare l’opposizione interna, serve a negoziare meglio con gli Stati Uniti, serve a ridisegnare il futuro di Gaza con il linguaggio della forza. Hamas non rilascia gli ostaggi e la punizione collettiva diventa la dottrina ufficiale: colpire tutti, donne e bambini inclusi, per dimostrare che Israele non tollera resistenze. Il ministro della Difesa minaccia che “le porte dell’inferno si apriranno” su Gaza. L’inferno lo ha già visto chi ancora scava tra le macerie.

Dicono che non c’era scelta. Dicono che la responsabilità è solo di Hamas. Dicono tante cose. Intanto, gli stessi che parlano di diritto alla sicurezza di Israele guardano altrove mentre un popolo viene annientato con il consenso della comunità internazionale. La tregua è finita. Il massacro continua.

Buon martedì.

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Se questa è l’Europa, dov’è la politica?

Com’era facilmente prevedibile, c’è certa stampa inebriata dal profumo dei soldi delle armi che da un paio di giorni sta usando la piazza piena per l’Europa come roncola contro chiunque si permetta di porre dei dubbi. A leggere certe dichiarazioni e certi editoriali, pare che tutti siano d’accordo sul folle piano di riarmo di von der Leyen, a parte qualche screanzato nemico della patria.

Conviene quindi ricordare che sono contro il piano Rearm Europe il Partito democratico – al di là della minoranza interna che farebbe la guerra alla segretaria anche per un voto sul semolino in commissione agricoltura –, il Movimento 5 stelle, Alleanza verdi sinistra e Italia Viva, con Matteo Renzi che lo ha definito “fuffa”. Questo solo nell’opposizione, al di là di Salvini nella maggioranza.

Vale la pena tenerlo a mente, perché la “sicurezza dell’Europa” è un’idea talmente vasta che non merita proprio di diventare l’ammennicolo di qualche esagitato che ne vorrebbe imporre una e indivisibile.

Dopo il ministro Valditara, che ci ha spiegato che “solo l’Occidente conosce la storia”, abbiamo ascoltato in piazza del Popolo Roberto Vecchioni dire che “solo noi abbiamo la cultura” e Antonio Scurati dimenticarsi che Bruxelles paga autocrati per torturare le persone migranti, mentre chiude gli occhi su Gaza.

Contrapporre al suprematismo di Trump e di Putin un presunto suprematismo europeo è la negazione dello spirito di Altiero Spinelli. Quella piazza non è il manganello di qualche saccente assertivo. Quella piazza chiede di voler bene a un’idea di Europa. Quale sia l’idea è il punto centrale. Lì sta la politica.

Buon lunedì.

Sentire. Solo così si può fare arte

Pittrice, scultrice, attrice e performer, Marilina Succo spazia fra linguaggi espressivi diversi ma uniti da un suo originale filo rosso di ricerca. Oltre alle sue creazioni pittoriche, su larga scala, e alle sue sculture, ci ha incuriosito la sua performance The Process (Silent please), in cui si mette in gioco totalmente, usando il silenzio per dialogare con l’altro, un silenzio pieno e vivo in cui è il “sentire” è protagonista.

“Questa è la mia prima performance in assoluto – ci racconta -. L’ho scritta e ideata perché avvertivo l’esigenza di unire il mio lavoro teatrale con quello pittorico. Spesso mi sento chiedere, ma tu dipingi anche? Quell’anche mi è sempre rimasto indigesto. Se ragioniamo troppo a compartimenti stagni limitiamo la visione. L’arte è dappertutto. E’ fluida. La mia esigenza è di comunicare un linguaggio e un mio pensiero, una mia idea, una mia etica, che poi lo faccia attraverso il teatro, portando in scena uno spettacolo o lo faccia attraverso una performance, una pittura o un canto o un ballo, non cambia la sostanza. L’importante è riuscire a dire quello che si sente, il mezzo lo si trova, viene da sé, di conseguenza.

Come nascono i tuoi ritratti astratti, di grandi dimensioni, che appaiono un po’ come fossero delle presenze oniriche?

Con questi grandi occhi a spirale vorrei bucare l’indifferenza, quella certa alienazione che connota la realtà in cui siamo immersi. Vorrei poter raggiungere la gente che guarda ma non osserva, che non si sofferma più sui particolari. Non si nota più nulla perché anche quando si va a vedere una mostra siamo tutti lì con il cellulare in mano a “fare storie”, ma non si vive più l’emozione. Questi occhi vogliono coinvolgere l’osservatore per stimolare una visione parallela.

Ciò che lega il tuo lavoro teatrale e pittorico è la ricerca di una visione che va oltre la superficie delle cose. In che modo cerchi un rapporto diverso con il pubblico?

Lavoro sulle sensazioni che si creano. La vista è il senso più utilizzato, perché è quello più immediato, più veloce, ma abbiamo tanti altri modi per metterci in relazione. Vorrei che i miei quadri venissero osservati anche con gli altri sensi, non solo con gli occhi. E che risvegliassero un “sentire”. E’ un verbo chiave che mi ha accompagnato per tutto il mio percorso teatrale, fin dagli anni di studio all’Accademia di arte drammatica a Milano dove mi sono laureata, perché l’attore prima di tutto deve sentire, non deve diventare, deve essere.

La fantasia che si esprime attraverso il corpo è il filo rosso che percorre il tuo lavoro lo ritroviamo nella tua pittura di grandi dimensioni, dove importante è anche il gesto fisico. Lo ritroviamo quando sei attrice e “usi il tuo corpo” come pennello. Come lo vivi?

Con la pittura rappresento dei volti, magari chissà sono volti di personaggi che ho interpretato. Nel nostro inconscio rimane ciò che viviamo profondamente. I volti che dipingo non nascono da una decisione fredda, razionale del tipo “ora disegno questo”. Vengono spontaneamente. Poi però una volta finiti, effettivamente, se uno va a vedere potrebbero alludere a personaggi che ho interpretato e in qualche modo ho vissuto. E qui torno alla connessione fra la mia pittura e il mio modo di fare teatro. A cui ho aggiunto la performance, perché quando interpreto un personaggio non è Marilina che parla e dice la sua idea. Mentre qui sono interamente io.

Sei tu, in un contesto il 22 marzo non semplice, al Vittoriale dove l’ombra di D’Annunzio aleggia fortemente, come l’affronterai?

Si sente fortemente la sua presenza e quel suo essere “maniacale”, lui ha creato il Vittoriale a propria misura. Entrando in quel luogo si percepisce proprio il profumo di tutto ciò che lui è stato, ogni angolo di quel posto rappresenta un suo carattere, un aspetto della sua personalità. La cosa che abbiamo in comune io e D’Annunzio, se posso dire così, è quel suo modo di mettere un po’ in imbarazzo le persone. Lui lo faceva con questo suo proporsi come presenza ieratica. Io invece costringo il pubblico a mettersi a nudo, con le proprie emozioni. Costringo lo dico tra virgolette, nel senso che quando la persona si siede accanto a me si mette in gioco. La performance può essere vissuta in due modi: puoi partecipare e interagire con me, oppure rimanere in piedi intorno e osservare quello che succede. Anche le persone che osservano si interfacciano. Io ho solo una lavagna e un gessetto, perché non voglio minimamente condizionare lo spettatore, neanche con la voce. A fronte di tutto ciò le persone tendenzialmente reagiscono e si raccontano.

D’Annunzio resta sicuramente una figura imponete, anche nel senso negativo del termine, mentre tu ci metti un elemento femminile che cerca il rapporto con l’altro, che in qualche modo lo spinge ad evolversi o quanto meno ad andare in crisi…

D’Annunzio era molto ego riferito, io invece mi metto a disposizione dell’altro, mi dedico a quella persona. Cosa che – a mio avviso- nell’arte contemporanea degli ultimi decenni pochi fanno. Vedo molte mostre, frequento le Biennali, vedo che molto è fatto per arrivare alle masse. Vedo poca arte che si dedichi al singolo. Invece abbiamo un bisogno enorme di amore e di attenzione, ma attenzione vera, proprio di sentire l’affetto da parte dell’altra persona. E questo è quello che cerco di fare, cerco di unirmi all’altra persona mettendomi sulla stessa frequenza dell’altro e cercando di stimolare, punzecchiando quelli che sono le debolezze, tirandole fiori però in modo positivo. Facendo in modo che la crisi sia un’occasione di crescita.

Parlando del tuo lavoro alcuni ti paragonano a Marina Abramovich, ma a mio avviso tu fai un’operazione diversa. Sbaglio?

La sua scelta è stata di esporsi dando l’occasione agli altri di esercitare “violenza” su di lei. Sì io tento di fare qualcosa di molto diverso. Molti mi paragonano a lei ma non mi corrisponde. Beninteso, lei ha segnato il secondo Novecento e i primi anni Duemila, parliamo di una artista che ha dato una svolta all’arte della performance, lei è stata un punto di riferimento importante a cui anche io ho attinto. Il paragone fra le nostre performance nasce dalla scenografia, il luogo che ricreo potrebbe evocare quello che lei ideò nel 2010 al Moma di New York per la performance The artist is present. In realtà l’unica similitudine sono le due siede una di fronte all’altra. Per il resto non c’è niente che accomuni le due performance: io sono nuda con una lavagna in mano, lei era vestita e non usava il linguaggio neanche scritto. Io cerco di mettermi in relazione all’altro, mentre lei era molto austera. Io mi metto a disposizione, mi plasmo, ascoltando l’altro.

Questo  lavoro di “metterti a disposizione” è il lavoro che fai anche al cinema quando sei diretta da maestri come Pupi Avati o da nuovi talenti?

Un po’ sì, alla fine si lavora su flussi di energia e ci si mette a disposizione di un personaggio. Io devo capire il personaggio com’è. Si affina il processo nel capire l’altro. Con Pupi Avati ho fatto Nato il 6 ottobre, mi muovo tra tv e cinema, che rimane il mio più forte amore.

Marilina Succo nella performance The process

La Biennale accenda i riflettori su Gaza, porta aperta su Mediterraneo da 4500 anni

Gaza com'era

Nella XIX Mostra Internazionale di Architettura che si terrà Venezia dal 10 maggio al 23 novembre, il Padiglione Italia curato da Guendalina Salimei affronta il tema complesso e difficile del rapporto tra le terre abitate e l’acqua, in sintonia con il tema generale della Biennale che propone l’architettura dell’adattamento, capace attraverso “Intelligens. Natural. Artificial. Collective” di rispondere alle sfide della contemporaneità.
Poche sono state le anticipazioni fornite durante la conferenza stampa dalla curatrice architetta Guendalina Salimei, docente alla Facoltà di Architettura di Roma, che ha potuto, per scelta degli organizzatori, solo indicare come la mostra sarà una “wunderkammer” orientata ad illustrare e ripensare il rapporto tra il mare e le nostre coste. Nessuna indicazione sul numero dei progetti esposti, sui nomi degli autori selezionati, sulla forma dell’allestimento, solo un accenno alla presenza di gruppi affermati ed esordienti la cui selezione è in corso tra le 600 proposte che sono state inviate in risposta alla call for visions and projects aperta lo scorso 24 gennaio.
Un numero di contributi che a detta della curatrice rispecchia un evidente successo per il tema proposto che ha visto candidature anche di istituti scolastici e amministrazioni e che confluiranno in una sezione del catalogo della mostra che si annuncia ricco e articolato in tre volumi concepito come un “portolano per la navigazione”.

Guendalina Salimei, curatrice del Padiglione Italia

Il presidente Pietrangelo Buttafuoco ha poi richiamato l’attenzione sulle intelligenze proprie dell’antica lingua del mare che unificava tutti i porti del Mediterraneo: noi siamo ancora quella terra in mezzo al mare e ancora ci riguarda, come allora, creare (o ricreare) la visione, da una centralità posizionata, di un orizzonte comune. Il Padiglione Italia, può essere “il corso velocissimo per la formazione del futuro, perché dal Mediterraneo noi veniamo e solo dal Mediterraneo noi possiamo costruire il futuro”.
Durante questa conferenza stampa quindi non si è parlato di intelligenza artificiale, bensì di intelligenza umana e di intelligenza del mare, di “un convivio di intelligenze riunite nell’intento di trovare soluzioni”. Così le parole di Buttafuoco che ha citato Muhammad-al-Idrisi, il celebre geologo alla corte di Palermo nel 1145 che dal monte Altesina spaziava con lo sguardo in tutto il Mediterraneo.
Il Padiglione Italia, affrontando il tema del rapporto tra le terre abitate e l’acqua, un tema così importante e ad una scala complessiva, nazionale costituisce una occasione pressoché unica per riflettere sui grandi temi urbanistici, ambientali dell’assetto del territorio, su un’idea di sviluppo e sugli effetti indotti dai cambiamenti climatici.
Una occasione rara che speriamo non vada dispersa e da cui far scaturire possibili indicazioni per una visione complessiva del Paese su questo tema.
Va però anche detto che se l’Italia condivide da millenni una connessione intima con i vari popoli e le varie culture del Mediterraneo, in questo momento in cui su un’altra costa dello stesso mare si stanno vivendo momenti drammatici sarebbe stato coraggioso dare uno sguardo dal mare verso quella terra ora devastata ma ricchissima di storia che è la striscia di Gaza.
Gaza una città che vive sul mare e con il mare da almeno 4.500 anni, che parlava allora la nostra stessa lingua, che ha commerciato e scambiato culture con i popoli italici per secoli. La Biennale, generosamente, avrebbe potuto darle uno sguardo, dal mare, contribuire al suo recupero e applicare il senso profondo del titolo Terrae Aquae. L’Italia e l’intelligenza del mare: ”la centralità del rapporto strutturale tra l’acqua e la terra, tra naturale e artificiale, tra infrastruttura e paesaggio, tra città e costa, incide sull’identità del Paese e sui delicati equilibri tra ambiente, uomo, cultura ed economia che devono essere sia tutelati nella loro integrità, sia ri-progettati per quell’imprescindibile adattamento a un futuro pervaso da nuove pressanti esigenze”. Dal comunicato stampa di presentazione del padiglione Italia alla Biennale Architettura 2025.

Gli autori: Corrado Landi, Giancarlo Leonelli e Fiammetta Nante sono architetti

In apertura: la vita a Gaza prima della guerra e della distruzione

Marilina Succo e l’arte di guardare in profondità

Marilina Succo

Fino a che punto siamo disposti a dire sì? È una domanda che ci interroga profondamente e che l’artista Marilina Succo (in foto) formula ad incipit della sua performance The process (Silence please), mettendo a nudo se stessa. Fino a che punto siamo disposti a sentire a pelle l’altro, le sue esigenze più profonde, fino a che punto siamo disposti a esporci allo sconosciuto, con la fiducia che come direbbe Terenzio «Homo sum, humani nihil a me alienum puto». Nulla di ciò che umano mi è estraneo.

Nella latinità il maschile era misura di tutte le cose ed era sempre un “lui”a prendere l’iniziativa. Senza parlare e armata di gessetto e lavagna Marilina Succo sul palco ribalta i ruoli decidendo «di proiettare e definire il proprio sguardo nello sguardo dell’altro», provocando l’altro, spingendolo a mettersi in gioco a 360 gradi. Dopo il successo di The process a Roma e in altre città, il 22 marzo alle 15 approda al Vittoriale (Gardone Riviera, Bs) sfidando l’ombra del Vate, portando scompiglio nella cura maniacale con cui concepì quel monumento a se stesso.

Per alcuni aspetti la performance di Marilina Succo potrebbe far pensare a quella di Marina Abramovich al MoMA di New York, The Artist is present (2010). Ma, forte della propria poliedrica identità di attrice, scultrice, pittrice, Succo prova a spostare ancora più in là l’asticella della sfida: non vuole essere l’artista che si espone come Abramovich perché chiunque possa esercitare violenza su di lei, ma la donna artista che, esponendosi, interroga l’altro invitandolo a mettersi in discussione. Info: vittoriale.it

“Più di quanto un essere umano possa sopportare”

L’orrore non si misura solo nel numero di vittime, ma nelle ferite incise sulla dignità umana. Il rapporto intitolato “More than a human can bear: Israel’s systematic use of sexual, reproductive and other forms of gender-based violence since 7 October 2023”, pubblicato il 13 marzo 2025 dalla Commissione d’Inchiesta indipendente delle Nazioni Unite su Israele e i territori occupati denuncia uno schema preciso: la violenza sessuale e di genere come arma di guerra. Oltre la distruzione fisica di Gaza, il documento svela un sistema di oppressione che si accanisce sui corpi delle donne, sulle loro scelte riproduttive, sulla loro stessa esistenza.

Il dossier descrive ospedali materni colpiti, accessi negati alle cure, donne costrette a partorire in condizioni medievali, mentre il cibo e l’acqua vengono usati come strumenti di sottomissione. E poi ci sono i racconti di violenze inflitte come forma di dominio, di umiliazione, di annientamento identitario. Il rapporto documenta casi di stupri, molestie sessuali e altre forme di violenza di genere perpetrate dalle forze di sicurezza israeliane e da coloni nei territori occupati. In particolare, denuncia episodi di violenza sessuale contro uomini e donne palestinesi durante arresti e detenzioni, sottolineando che questi atti sono stati filmati e diffusi come strumento di terrore psicologico. I numeri non sono meri dati: il rapporto documenta oltre 46.000 persone uccise a Gaza, di cui almeno 7.216 donne e un numero imprecisato di persone morte per complicazioni legate alla gravidanza e al parto. Sono la prova di una sistematica violazione del diritto internazionale, che avviene nel silenzio complice di chi dovrebbe garantire la giustizia.

Non si tratta di eccessi, ma di un metodo. Il rapporto afferma chiaramente: “gli attacchi alle strutture sanitarie e il blocco dell’accesso alle cure riproduttive fanno parte di una strategia deliberata di oppressione e controllo della popolazione palestinese”. Un metodo che utilizza la guerra non solo per uccidere, ma per lasciare cicatrici incancellabili su generazioni di palestinesi. Il rapporto lo dice chiaramente: questa non è una serie di episodi isolati, ma un sistema di oppressione consapevole e voluto. Il mondo, ancora una volta, è chiamato a scegliere tra la complicità e la denuncia.

Buon venerdì. 

 

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La ballata dei diritti (negati), il nuovo disco di Stefano Corradino

Stefano Corradino

Stefano Corradino è un giornalista fortemente impegnato in ambito sociale e nella difesa dei diritti umani, inviato di Rainews24, dal 2005 è anche direttore di Articolo21.org, associazione che lotta per la libertà di informazione e di espressione.
Ma Stefano, oltre che grande appassionato di musica, è anche musicista e cantautore, e, grazie ad un progetto di crowdfunding, è riuscito nell’impresa di incidere un disco, Note di Cronaca – Sette storie vere in musica, nel quale ha trasferito alcune delle sue più significative ed emozionanti esperienze di cronista in forma poetica di canzone.
Il suo recente libro con il medesimo titolo – “Note di Cronaca” (Villaggio Maori Edizioni) – va idealmente a completare il progetto di coniugare cronaca ed elaborazione artistica, laddove Stefano, dopo aver trasformato in canzoni alcune storie vere narrate in negli ultimi dieci anni di servizi televisivi, nel libro racconta la genesi del progetto, soffermandosi ed approfondendo le storie, spesso dure, di mafia, di guerra, di immigrazione, di diritti umani negati, e anche di morti sul lavoro di cui è stato testimone in prima linea.
I protagonisti di queste vicende sono spesso e soprattutto donne, come le giornaliste Ilaria Alpi e Federica Angeli, o come Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi.
Ma nel libro ci sono tante altre storie che il giornalista ha raccontato nei suoi servizi. Come le tragiche vicende di Giulio Regeni, ma anche quelle meno note di Mario Paciolla e Andy Rocchelli. In occasione del suo nuovo tour di presentazioni che parte il 16 marzo, gli abbiamo rivolto qualche domanda.
Stefano, come sono nati i due progetti – libro e disco – e qual è stata la spinta emotiva che li ha messi in moto?
Come spiego nella premessa, nasce dall’esigenza di riuscire a fondere le due anime che convivono in me, da una parte la realizzazione professionale come cronista, e dall’altra il mio amore per la musica, coltivato fin da bambino. Devo dire che da giovane, per un certo periodo ho accarezzato l’idea di dedicarmi totalmente alla musica come occupazione principale, poi, col passare del tempo è rimasta l’ambizione di dare forma a qualcosa che fosse molto più concreto di semplice un hobby personale. L’ispirazione mi è venuto durante il periodo del Covid, nel marzo del 2020, quando, tornando in macchina dalle Marche, dopo la morte di Giorgio Sacrofani, un soccorritore fulminato dal contagio, ho pensato di scrivere una canzone dedicata al sacrificio di tutto il personale sanitario che in quel periodo drammatico era impegnato “a mani nude” e con turni massacranti a fronteggiare un’emergenza mai vista, e che oggi ci stiamo quasi dimenticando. Nacque così “Contagiò”, la prima canzone del disco, a partire dalla quale, piano piano, partendo dalla mia esperienza di cronista, ho cominciato a focalizzare i temi da trattare e conseguentemente a trasformarli in altrettante canzoni.

È stato più difficile realizzare il disco o pubblicare il libro?
Sicuramente molto più difficile la realizzazione del disco, che oltretutto ho preteso venisse stampato proprio in vinile, formato a cui resto particolarmente affezionato. Pur essendo da anni lontano dal circuito musicale mi sono presentato e proposto a diverse case discografiche senza alcun riscontro concreto, finché ho ricontattato un amico musicista di Orvieto, Stefano Profeta, che con la sua l’etichetta “Carpe Diem” ha creduto nel progetto.
A quel punto servivano le risorse per realizzare ed editare professionalmente il lavoro, e alla fine l’ho risolto tramite un crowdfunding che quasi inaspettatamente ha raccolto quattordicimila euro mi ha permesso di finanziare il progetto. La ciliegina sulla torta è stata il bellissimo disegno di copertina di Mauro Biani, che considero come un collega, un autentico “cronista per immagini”.

 Visto che sei un giornalista ci si sarebbe aspettato che uscisse prima il libro e poi il disco, e non viceversa?
In realtà è stata proprio la casa editrice – Villaggio Maori Edizioni di Palermo – che mi ha suggerito di ricucire e ricollegare tutto il lavoro mettendo a fuoco gli argomenti, ripartendo dalle sette canzoni che avevo scritto, riportandole in altrettanti capitoli del libro, ognuno dei quali è commentato ed arricchito dalle interviste a sette autorevoli personaggi: Giovanna Botteri, Nando dalla Chiesa, Bruno Giordano, Mamadou Kouassi Pli Adama, Dacia Maraini, Riccardo Noury, Antonella Viola. In chiusura ho voluto riportare il racconto della fortunosa “Intervista (im)possibile” fatta a Londra a Bob Geldof nell’ormai lontano 2006.

Dal punto di vista musicale quali sono stati i tuoi riferimenti?
Da grande appassionato di musica sono sempre stato affascinato dai grandi cantautori italiani – la grande “scuola genovese” di Lauzi, Tenco, Paoli, Fossati etc. – ma anche francesi, e dal Rock anglo-americano, a partire da Bruce Springsteen.
In questo caso, trattandosi di storie quasi sempre drammatiche, se non tragiche, il nesso immediato è con il grande Fabrizio De Andrè ed il suo celebre capolavoro “Non al Denaro, né all’Amore né al Cielo”, basato sull’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.
Certamente “Sulla Nostra Pelle” – la canzone in cui racconto la storia di Stefano Cucchi – rimanda immediatamente a Spoon River – che ho voluto appositamente citare a chiusura del capitolo a lui dedicato. «Non mi uccise la sorte, ma due guardie bigotte: mi cercarono l’anima a forza di botte» (Fabrizio De André, dal brano “Il blasfemo”). Voglio però sottolineare come in ogni capitolo, accanto ciascuna storia tragica, ho voluto mantenere un filo di speranza, una luce in fondo al buio, che è rappresentata dal coraggio e dalla determinazione dei sopravvissuti, che, come Ilaria Cucchi, non si sono mai arresi ed hanno voluto perseguire la verità con tutte le proprie forze.

Qual è stata la storia più importante dal punto di vista emotivo e del tuo coinvolgimento personale?
Tra tutte ne citerei due. La prima, e forse la più straziante, è quella Yaya Sangare che ho raccontato ne “La Nave della Speranza”. L’ho incontrato nel 2017 a Napoli in riva al mare. La sua storia è la stessa di migliaia di persone. In Costa d’Avorio c’era la guerra e Yaya decise di scappare con tutta la sua famiglia. Arrivò in Mali, proseguì per l’Algeria. Poi la decisione di venire in Europa. È l’ottobre 2017. Yaya e la sua famiglia si imbarcarono sul malfermo gommone di uno scafista, stracarico di persone. A metà traversata il gommone si inabissò trascinando con sé la moglie, il fratello e tre dei suoi quattro figli. Nessuno di loro riemerse dalle acque. Si salvò solo Deborah, la sua figlia più piccola, che durante l’intervista continuava a giocare sulla spiaggia. Yaya scrutava l’orizzonte commuovendosi: «Ogni volta che guardo il mare li vedo». L’altra è quella di Marianna Viscardi, la madre di Lisa Picozzi, giovane ingegnere morta sul lavoro, cadendo da un solaio di copertura durante un sopralluogo in cantiere. L’ho incontrata nel 2017, a casa sua dove in salotto mi fece vedere alcuni libri fotografici. Ma non c’erano le foto di Lisa, della sua infanzia, del suo lavoro, o della sua passione per la pallavolo. Marianna in quei libroni ci conservava uno per uno i ritagli degli articoli sulla morte di Lisa e sull’inchiesta scaturita dopo la sua morte. Dopo i vari gradi di giudizio i titolari dell’azienda furono tutti assolti, oppure non scontarono mai la pena. «Come posso credere nella giustizia? – fu il commento di Marianna – da questo punto al luogo dove Lisa riposa sono centodue passi, li ho contati».
“102 Passi” è il titolo che ho scelto di dare alla canzone e al capitolo dedicato a Lisa.

Hai deciso di devolvere i proventi della vendita del disco ad Amnesty International?
In effetti, una volta coperte le spese, ho deciso che una parte del ricavato dalla vendita dei dischi andrà ad Amnesty International. Ho pensato a varie organizzazioni, da Emergency a Unicef, da Save the Children ad Action Aid, ma ho trovato in Amnesty e nelle sue battaglie internazionali quella che più si lega al filo conduttore del mio lavoro: i diritti umani negati.

Tutto questo si ricollega anche al tuo impegno civile ed al tuo ruolo di direttore di Articolo 21.org?
Articolo21 è un’associazione nata nel 2002, per la libertà di informazione e di espressione che si ispira al medesimo articolo della Costituzione. Mi onoro di esserne membro fin dalla sua fondazione e dirigo il sito di Articolo21.org dal 2005. L’Associazione porta avanti la sua battaglia quotidiana contro le censure, i bavagli, le intimidazioni, denunciando i condizionamenti governativi dell’informazione, ed è composta non solo da giornalisti ma anche da scrittori, registi, attori, musicisti, attivisti nel sociale. Si impegna inoltre a tenere accesi i riflettori su tutte quelle vicende di casi ancora irrisolti che rischiano di cadere nel dimenticatoio, come quello di Andrea Rocchelli, fotoreporter di Pavia ucciso in Donbass nel 2014, o quella di Mario Paciolla, cooperante, attivista e volontario, la cui morte nel 2020 in Colombia è stata sbrigativamente classificata come suicidio, senza dimenticare Alberto Trentini, tuttora detenuto in Venezuela con capi d’accusa del tutto generici e di cui purtroppo si parla ancora pochissimo.

Stefano Corradino in tour presenta il suo lavoro il 16 marzo a Maranello. il 26 marzo a Fusignano . E ancora il 4 aprile a Crotone, il 14 a Napoli,  il 16 aprile a Castelnuovo Vomano,  il 2 maggio a Trieste, il 17 maggio. a Città della Pieve, il 28 giugno a Fano

Cover illustrata da Mauro Biani

L’autore: Roberto Biasco è critico musicale e collaboratore di Left

Guerra in Europa? No, guerra nel Pd. E i soliti noti non vedono l’ora

E così, un mercoledì di metà marzo, il Partito democratico si scopre incapace di trattenersi dalla sua natura. A Bruxelles, il delicato voto sul faraonico progetto di riarmo (in ordine sparso) di Ursula von der Leyen è l’occasione per mettere in discussione la segreteria.

Persino il presidente del partito, Stefano Bonaccini, per la prima volta si schiera contro la linea ufficiale e rompe quello che finora era sembrato un patto di non belligeranza con Elly Schlein. Con lui ci sono Antonio Decaro, Giorgio Gori, Elisabetta Gualmini, Giuseppe Lupo, Pierfrancesco Maran, Alessandra Moretti, Pina Picierno, Irene Tinagli e Raffaele Topo.

La linea della segretaria era ed è chiara: la sicurezza europea è fondamentale, ma non può passare da una corsa alle armi di 27 singoli Stati, per di più a discapito del già fragile welfare europeo, impoverito da crisi e pandemia. La cosiddetta ala riformista risponde: «Non votare il piano ReArm Europe ci avrebbe isolati». La differenza tra isolarsi e distinguersi è sottile, e su quel crinale si gioca tutto lo scontro.

Verrebbe da pensare, più banalmente, che una componente del partito – la solita, da sempre – non vedesse l’ora di disconoscere una segretaria democraticamente eletta, in vista delle prossime elezioni del 2027. Non vedevano l’ora di farlo, e la guerra, si sa, è da sempre un’ottima occasione di polarizzazione.

Eccola, la nuova vecchia linea politica del partito: usare gli eventi del mondo per logorare la segreteria di turno. Di nuovo, eccoci qua.

Buon giovedì.