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Caso Diciotti e risarcimento ai migranti, quante bugie del governo. Ecco la verità ricostruita punto per punto

Il caso Diciotti è arrivato a un tale punto di evoluzione che non si può seguire senza un filo di Arianna che ci accompagni nel percorso. Riassumiamo i fatti.

Alle 4 del mattino del giorno 16 agosto 2018, a circa due mesi dall’insediamento del governo giallo-verde con Matteo Salvini sulla poltrona del Ministero dell’interno, la nave della Guardia Costiera italiana “Ubaldo Diciotti – CP 941” raccolse in mare 190 migranti che le autorità di Malta non avevano soccorso, sebbene i naufraghi si trovassero nella sua area marittima di salvataggio (SAR). Tra i salvati c’erano 10 donne e 37 minori. La nave “Diciotti” si avviò verso Lampedusa su disposizione del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti Toninelli, responsabile del dicastero da cui dipende la Guardia Costiera e qui sbarcarono 13 persone a causa delle loro gravi condizioni di salute. Ma il Ministro degli interni Salvini impedì lo sbarco degli altri naufraghi intrecciando un dibattito con Malta su quale dei due Paesi dovesse farsi carico dei salvati.

Intervenne nuovamente il Ministro Toninelli che indirizzò la nave Diciotti verso il porto di Catania dove arrivò il 20 agosto, ma ancora una volta intervenne il Ministro Salvini che, innescato un dibattito con l’Europa per il dislocamento dei migranti, ove li avesse fatti sbarcare in Italia, vietò che i 177 naufraghi scendessero a terra. Il divieto di sbarco venne rimosso solo il 22 agosto, a seguito l’intervento della Procura per i minori di Catania, limitatamente a 29 minorenni non accompagnati. Il 23 agosto salì a bordo il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute che, all’esito della visita, inviò informative alle Procure di Agrigento e di Catania segnalando l’assenza di alcun atto motivato di limitazione della libertà personale da parte della competente autorità, oltre alla requisizione dei cellulari dei migranti ai quali era così impedita ogni comunicazione con familiari ed affetti. Finalmente, nella notte tra il 25 e il 26 agosto, fu permesso ai restanti 148 naufraghi di scendere a terra in quanto dichiararono di farsene carico la Conferenza episcopale italiana, l’Albania e l’Irlanda.

Questo esito fu favorito anche dal fatto che il 25 agosto Matteo Salvini aveva ricevuto un avviso di garanzia con il quale la Procura della Repubblica di Agrigento, in persona del Pubblico Ministero Luigi Patronaggio, lo informava dell’apertura a suo carico di un’inchiesta per sequestro di persona aggravato, arresto illegale e abuso di ufficio associando nell’indagine anche il suo Capo di Gabinetto Matteo Piantedosi. Trattandosi di un’indagine riguardante un Ministro della Repubblica, il 31 agosto il PM Patronaggio inviò gli atti alla Procura di Palermo che il 7 settembre li trasmise al Tribunale di Ministri.
A ottobre 2018 il Tribunale di ministri di Palermo, con un’ordinanza di 60 pagine, archiviò l’intera attività dell’autorità italiana fra il recupero dei naufraghi in mare e l’arrivo a Lampedusa scrivendo che il lavoro della Guardia Costiera era stato “meritorio” ma, per la settimana di trattenimento nel porto di Catania, restituì gli atti alla Procura della Repubblica di Palermo che a sua volta, ritenutasi incompetente, li trasmise alla Procura di Catania.

Il 2 novembre 2018 Matteo Salvini poteva comunicare urbi et orbi, tramite il suo canale Facebook, di aver ricevuto la comunicazione con la quale il PM di Catania Carmelo Zuccaro (già noto per la sua contrarietà alle operazioni di salvataggio in mare delle ONG internazionali) aveva chiesto al Tribunale dei Ministri etneo l’archiviazione.
La Procura di Catania aveva infatti interpretato il comportamento di Salvini come corretto perché, se il Tribunale dei Ministri di Palermo aveva ritenuto che non fossero stati commessi reati nei giorni tra il 16 e il 20 agosto perché c’erano le trattative con Malta, allo stesso modo, non potevano esserne stati commessi tra il 20 e il 26 agosto perché erano pendenti trattative con l’Europa.

Ma il Tribunale dei ministri di Catania non accolse la richiesta di archiviazione della Procura e il 23.01.2019 chiese al Senato della Repubblica, ai sensi dell’art. 96 della Cost., l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini per i reati di sequestro di persona aggravato, arresto illegale e abuso d’ufficio. Quell’organo giudiziario, presieduto da Nicola La Mantia, giudici a latere Sandra Levanti e Paolo Corda, fu molto chiaro quando scrisse: “E’ convincimento di questo tribunale che la condotta in esame abbia determinato plurime violazioni di norme internazionali e nazionali, connotandosi per ciò solo di quella indubbia illegittimità integrante il reato ipotizzato in quanto l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare”. E proseguiva: “Va sgomberato il campo da un possibile equivoco, va ribadito come questo tribunale intenda censurare non già un “atto politico” dell’Esecutivo, bensì lo strumentale ed illegittimo utilizzo di una potestà amministrativa”. Il Senato della Repubblica, tuttavia, non concesse l’autorizzazione a procedere nella seduta del 20 marzo 2019 e così finì la vicenda penale del caso Diciotti.

Con questa, non va confusa la vicenda “Open Arms”, un caso pressoché analogo, ma che si svolse dal 14 al 19 agosto 2019. Anche in quel caso Matteo Salvini, Ministro dell’interno del governo Conte 1, impedì lo sbarco di migranti salvati dalla nave dell’ONG spagnola “Open Arms”. Nel corso del processo svoltosi dinanzi al Tribunale di Palermo, la Procura ha chiesto per lui sei anni di carcere. L’avvocata della difesa Giulia Bongiorno ha chiesto invece l’assoluzione sostenendo che “il diritto allo sbarco non si discute, ma non si può scegliere dove, come, con chi e quando” risultando che la nave Open Arms avesse rifiutato più volte di sbarcare i migranti. La sentenza, letta il 20 dicembre 2024, ha assolto pienamente Salvini con la formula “perché il fatto non sussiste”.

Ma il caso Diciotti non si esaurì con l’indagine penale abortita in Senato. Infatti, 41 dei migranti eritrei trattenuti a bordo, tra cui M.G.K., presentarono ricorso al Tribunale di Roma chiedendo la condanna del governo italiano, in persona del Presidente del consiglio dei ministri, e del Ministero dell’interno, al risarcimento dei danni non patrimoniali per l’impedimento frapposto allo sbarco per l’intero periodo dal 16 al 25 agosto 2018 o, in subordine, limitatamente al periodo dal 20 al 25 agosto in cui la nave venne trattenuta nel porto di Catania senza far scendere i naufraghi. Le autorità italiane si costituirono in giudizio eccependo, in via preliminare, la carenza di giurisdizione della magistratura dovendosi qualificare il divieto quale “atto politico”, come tale sottratto alle valutazioni giurisdizionali e, nel merito, deducendo che i due periodi di trattenimento a bordo erano giustificati dalle trattative col governo maltese (periodo Lampedusa) e con le autorità europee (periodo Catania). Con ordinanza del 9 luglio 2019, il Tribunale di Roma dichiarò la carenza di giurisdizione ritenendo gli atti impugnati di natura politica in accoglimento delle tesi delle Pubbliche Amministrazioni. La Corte d’Appello adita dai migranti, invece, con sentenza n. 1803/2024 del 13 marzo 2024, pur ammettendo la giurisdizione ordinaria, ha rigettato la domanda nel merito per mancanza di colpa della Pubblica amministrazione e per mancanza del danno conseguente.

Solo M.G.K. ha impugnato con un unico motivo detta sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione con ricorso cui hanno risposto, con controricorso e ricorso incidentale condizionato, la Presidenza del Consiglio dei ministri ed il Ministero dell’interno sollevando ancora la questione di giurisdizione che, per legge (art. 41 cod. proc. civ.), può essere decisa solo dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite.

Il motivo sollevato da M.G.K. denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la «violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. in relazione agli artt. 13, 24, 111 e 117 Cost., articolo 5 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed art. 6 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ed artt. 7 e 14 della direttiva 2008/115/CE».

A sostegno della propria censura M.G.K. ha osservato:
che il trattenimento a bordo era avvenuto in via di mero fatto, in assenza di provvedimenti amministrativi o giudiziari (come rilevato dall’Autorità garante nazionale dei diritti delle persone detenute nell’accesso sulla nave Diciotti del 23 agosto 2018), in violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Cost. che riservano alla sola autorità giudiziaria il potere di privare taluno della libertà;
che erroneamente la Corte d’appello aveva ritenuto non provato il danno non patrimoniale da ritenersi implicito nell’abusiva privazione della libertà personale per dieci giorni, sicché il giudice può ricorrere alle presunzioni semplici per valutare l’incidenza negativa sulle condizioni di vita e, quindi, liquidare il danno con equità.

Dal canto suo, la Pubblica Amministrazione (PA) ha insistito:
che il divieto di sbarco integrava un “atto politico” sia perché proveniente da un organo di governo, sia perché espressione della funzione di indirizzo politico con carenza di giurisdizione del giudice ordinario;
nel merito, per l’assenza dell’illiceità dei comportamenti e l’assenza del danno.
La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con l’ordinanza n. 17687/2024, adottata nella camera di consiglio del 18 febbraio 2025 e pubblicata il 6 marzo successivo, ha accolto il ricorso di M.G.K., rigettato il ricorso incidentale dell’Autorità italiana ed ha rinviato la vertenza alla Corte d’Appello di Roma che, in diversa composizione rispetto alla precedente pronuncia del marzo 2024, dovrà liquidare i danni e provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Per giungere a tale conclusione, la Corte di cassazione ha sviluppato i seguenti argomenti a favore di M.G.K., tralasciando qui le questioni tecniche afferenti alla questione di giurisdizione:
L’intervento ministeriale che ha impedito lo sbarco dei naufraghi non è un “atto politico” la cui definizione è strettamente circoscritta proprio per evitare la sottrazione alla giustizia di atti emanati sulla base di valutazioni politiche. Esso consiste, infatti, in atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali ed è insindacabile in sede giurisdizionale qualora non sia sottoposto a vincoli di natura giuridica. Se, invece, nella specifica materia, esistono canoni di legalità, il sindacato giurisdizionale è consentito.

Il divieto di sbarco del Caso Diciotti non fu un “atto politico” sottratto alla giurisdizione, perché la materia è regolamentata da normative nazionali e internazionali.
Alla luce di quanto sopra rilevato, il motivo di impugnazione di M.G.K. è risultato fondato sotto tutti gli aspetti che si concentrano sulla responsabilità da illecito extracontrattuale della PA ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. costituito dalla restrizione della libertà personale non giustificata da provvedimenti amministrativi o giudiziari in violazione dell’art. 13 Cost..
Oltre alla fonte costituzionale, l’obbligo del soccorso in mare è universalmente riconosciuto per antica consuetudine e, come tale, si colloca al di sopra di qualunque ipotesi di contrasto all’immigrazione irregolare.

Vi sono poi le convenzioni internazionali alle quali l’Italia ha aderito tra le quali la Convenzione SOLAS del 1974; la Convenzione SAR del 1989 (Convenzione di Amburgo) con la concreta attuazione di cui al D.P.R. 662/1994, nonché la Convenzione delle Nazioni Unite UNCLOS del 1982.
In base a queste convenzioni tutti gli Stati aderenti devono organizzarsi per svolgere l’attività di soccorso in mare e vige anche il principio di sussidiarietà per supplire alla mancata attivazione di uno Stato che dovrebbe intervenire e non lo fa.
Lo Stato che esegue il soccorso, ai sensi della Convenzione SAR capitolo 3.1.9, deve organizzare lo sbarco «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» fornendo un luogo sicuro in cui terminare le operazioni di soccorso; è solo con la concreta indicazione del POS (Place of Safety), e con il successivo arrivo dei naufraghi nel luogo sicuro designato che l’attività di Search and Rescue può considerarsi conclusa.

Con la locuzione “luogo sicuro” deve intendersi un “luogo” in cui sia garantita non solo la “sicurezza” – intesa come protezione fisica – delle persone soccorse in mare, ma anche il pieno esercizio dei loro diritti fondamentali tra i quali, ad esempio, il diritto dei rifugiati di chiedere asilo.
In capo agli Stati aderenti alla Convenzione SAR residua solo un margine di “discrezionalità tecnica” per l’individuazione del punto di sbarco più opportuno in considerazione delle specifiche esigenze che, caso per caso, si presentano.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione conclude che: « Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale».

Un paragrafo dell’ordinanza delle Sezioni Unite è anche dedicato alla negazione dell’autorizzazione a procedere contro il Ministro Salvini votata dal Senato della Repubblica il 20 marzo 2019. Sul punto la Corte suprema spiega che il procedimento di cui all’art. 96 Cost. ha un carattere assolutamente eccezionale e quindi di interpretazione restrittiva. E poiché tale norma tratta solo della responsabilità penale del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri, anche se cessati dalla carica, l’esito della votazione parlamentare non influisce sulle vicende risarcitorie civilistiche.

L’ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 cod. civ., in concreto, è deferito alla Corte d’Appello di Roma in diversa composizione che stabilirà, in via equitativa, la somma dovuta per ogni giorno di illecita privazione della libertà personale di M.G.K. (unico ricorrente per cassazione) a bordo della nave Diciotti.
L’itinerario logico giuridico esposto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione appare ancorato a precise norme giuridiche e principi derivanti anche da convenzioni internazionali ben noti (li aveva già richiamati il Tribunale dei ministri di Catania quando aveva chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere contro Salvini con l’Ordinanza del 23.01.2019) sicché le reazioni delle parti politiche di destra sono del tutto ingiustificate. Tanto più che non scendono nella critica delle specifiche motivazioni, ma si diffondono in tutti quei paradossi che dall’esito del giudizio si possono immaginare.

In particolare, la Corte di legittimità non ha affatto detto che ad ogni migrante irregolare spetterà una somma a titolo di risarcimento del danno per la permanenza a bordo, bensì ha chiarito quale sia l’interpretazione più corretta da dare a quelle convenzioni internazionali (alle quali l’Italia ha aderito) che disciplinano il recupero dei naufraghi nonché il luogo ed i tempi di assegnazione di un POS (luogo sicuro). È quindi solo dalla violazione dei trattati internazionali che scatta l’obbligo di risarcire le vittime.
E viene qui in mente che il governo italiano forse si espone eccessivamente a possibili richieste risarcitorie quando recupera naufraghi nel mezzo del Mediterraneo ma poi assegna loro, quale porto sicuro, quello di Ravenna o di Genova, in quanto dovrebbe poi spiegare perché, in quel caso specifico, costringe i migranti a ulteriori giornate di mare invece di sbarcarli nel più vicino “luogo sicuro”.
E che dire del portare i naufraghi in Albania? Ma qui il capitolo giurisdizionale è ancora in corso.
Per adesso il Caso Diciotti risponde ad un principio: “Risarcirne uno per educare giuridicamente un intero governo”. E sarebbe bene imparare la lezione perché un risarcimento sarà pena modesta, ma quando i ricorrenti fossero di più, si aprirebbero le porte anche dell’azione della Corte dei Conti per il relativo danno all’erario. In tal caso il risarcimento pagato dalla PA ai migranti danneggiati dovrebbe poi essere recuperato dalle tasche stesse del responsabile governativo.
In definitiva: non sarebbe bene che questo governo imparasse a rispettare le leggi e le convenzioni internazionali? Ne guadagnerebbe soprattutto la dignità dello Stato.

L’autrice: Shukri Said è giornalista. Coautrice e co conduttrice di “Africa Oggi” per Radio Radicale, firma il blog “Primavera Africana” su Repubblica.it; è inoltre corrispondente dall’Italia per la Bbc e per Voice of America

Manifestazione europeista: più bandiere che idee

La politica italiana è riuscita ad attorcigliarsi intorno a una manifestazione proposta da Michele Serra «per l’Europa». L’editorialista di Repubblica, qualche giorno fa, ha lanciato l’idea di «una manifestazione di sole bandiere europee, che abbia come unico obiettivo […] la libertà e l’unità dei popoli europei, per dare almeno l’impressione che esista un’opinione pubblica che si sente europea e non vorrebbe morire stretta nella tenaglia Trump-Putin».

Il Partito democratico guidato da Elly Schlein ha dato la propria adesione, i partiti centristi che usano l’Europa come ritornello ne sono felicissimi e il quotidiano degli Elkann sta investendo molte pagine sull’evento. In effetti, a prima vista, sono molte le persone disposte a manifestare contro l’imperialismo trumpiano e «per la libertà e l’unità dei popoli europei».

Ci sono almeno due evidenti problemi. Il primo è che l’Europa di oggi è la stessa che stringe accordi con i tagliagole in Libia e in Tunisia, la stessa che protegge la democrazia illiberale di Orbán, la stessa che accompagna lo smantellamento del welfare e dei servizi pubblici, la stessa che sventola il riarmo come via primaria per il trionfo democratico.

Poi c’è la diversa Europa che hanno in mente i Socialisti rispetto ai Popolari, per non parlare dei Patrioti o dei Conservatori. Insomma, si manifesta per un’idea che conviene non approfondire per non dividersi. Quindi si manifesta per una sensazione, che ognuno declina diversamente. Basta saperlo.

Buon martedì.

Verba volant? La questione della disabilità è più che mai cruciale

Verba volant scripta manent, sostiene un vecchio motto latino per sostenere l’importanza di mettere nero su bianco e di dare certezza ed ufficialità ad un atto.
E se succede che anche “verba manent”?
Questo è l’interrogativo che, in questi ultime settimane, si sono posti molti di coloro che vivono in modo diretto una situazione di disabilità. L’annuncio con il quale il presente argentino Milei ha sancito legalmente la possibilità di utilizzare termini quali imbecille, ritardato, idiota per definire le persone con disabilità intellettiva, che segue di qualche giorno l’intenzione espressa da Trump di eliminare i finanziamenti per le agenzie governative che si occupano dell’ inclusione lavorativa delle persone con disabilità, perché ritenute dal neo presidente americano inadatte a svolgere attività lavorative a prescindere da qualsiasi tipologia sia fisica, che neurologica o cognitiva e dal grado di gravità, sono parole, ma con un peso specifico enorme e, per molti versi, devastante.
“Le parole sono importanti” gridava Nanni Moretti al suo interlocutore, per evitare che si usassero con leggerezza, senza peso, in un suo vecchio film. “Le parole sono pietre”, era invece il titolo di un famoso libro di Carlo Levi.
Infatti, le parole dei due Presidenti d’oltre oceano configurano l’idea che il lavoro non sia un diritto universale, ma serva esclusivamente per generare profitto. Conseguentemente, in base a questo ragionamento disumanizzante che non considera il valore delle persone, il lavoratore disabile è una sorta di contraddizione in termini.
È come se il consumismo, nella sua forma ultra liberista, avesse compiuto una sorta di mutazione genetica, passando da una visione usa e getta delle cose alle medesima concezione delle persone.
Questa idea di una parte dell’umanità che viene considerata come uno scarto, cammina sottotraccia, a macchia di leopardo, in alcuni strati della società, nei nostri Paesi occidentali e rappresenta, se non disinnescata, un vero e proprio pericolo per le democrazie.
Dobbiamo ribadire senza tentennamenti che il lavoro è un diritto sacrosanto per le persone, tutte, e va difeso, promosso e sostenuto, non solo perché è il principale strumento di inclusione nel tessuto sociale di un Paese di chi è abile e di chi è disabile, ma perché è una delle principali cartine di tornasole dello stato di salute di una democrazia, che in quanto tale dovrebbe offrire maggiori strumenti per chi ha meno possibilità.
La tragedia nazifascista che ha segnato il novecento è iniziata disconoscendo prima i diritti basilari ai più fragili e poi la loro stessa esistenza. Agiamo tutti affinché alla storia non venga concesso di ripetersi.

Gli autori: Nina Daita è esperta di politiche sulla disabilità,
Cesare Damiano è ex ministro e presidente dell’associazione Lavoro&Welfare

Privati con potere da Stato: il futuro distopico è già qui

Elon Musk ha di nuovo mostrato il suo vero volto: quello di un uomo che tiene in ostaggio nazioni intere con la sua tecnologia. “Se stacco Starlink, l’Ucraina crolla”, ha dichiarato, ammettendo candidamente di essere il perno della resistenza di Kiev e, allo stesso tempo, il suo potenziale carnefice. Un uomo solo, con una connessione satellitare, si arroga il diritto di decidere le sorti di un conflitto mondiale. Se non è follia questa, cos’è?

Ma il problema non è solo l’Ucraina. L’Italia, con il suo consueto entusiasmo nell’affidarsi a privati senza alcun controllo, sta valutando di consegnare parte della propria sicurezza nazionale a Musk e alla sua flotta di satelliti. Salvini scalpita: “Si può firmare anche domani”. Meloni esita, per ora, ma il disegno è chiaro. Eppure, basta guardare la cronaca per capire quanto sia rischioso dipendere dalla volontà di un miliardario imprevedibile. Se domani Musk decidesse che l’Italia non gli conviene più? Se dovesse spegnere Starlink per un capriccio o una mossa politica?

Non è solo una questione di infrastrutture digitali, ma di sovranità. Affidarsi a Starlink significa consegnare a Musk il potere di accendere o spegnere comunicazioni vitali, con una leva che nessuno stato sovrano dovrebbe mai concedere a un privato. La Polonia l’ha capito, l’Ucraina l’ha subito sulla propria pelle. E l’Italia?

Aspettiamo il giorno in cui Musk deciderà che Roma non gli piace più e ci spegnerà il cielo.

Buon lunedì.

Jeffrey Sachs e la geopolitica della pace

Il 19 febbraio 2024 Jeffrey Sachs ha tenuto una conferenza al Parlamento europeo. Siamo difronte ad un documento storico eccezionale. L’invitato, infatti, è un protagonista della scena mondiale. Egli conosce i meccanismi che descrive, gli scenari e i protagonisti delle vicende che ricostruisce:

«Sono stato consulente del governo polacco nel 1989 – ricorda Sachs – del team economico del Presidente Gorbaciov nel 1990 e 1991, del team economico del Presidente Eltsin nel 1991-1993 e del team economico del Presidente Kuchma in Ucraina nel 1993-1994. Ho contribuito all’introduzione della moneta estone. Ho aiutato diversi Paesi dell’ex Jugoslavia, in particolare la Slovenia. Dopo Maidan, il nuovo governo mi ha chiesto di venire a Kiev e ho imparato molte cose. Sono in contatto con i leader russi da più di 30 anni. Conosco da vicino anche la leadership politica americana. Il nostro precedente Segretario al Tesoro, Janet Yellen, è stata la mia meravigliosa insegnante di macroeconomia cinquantadue anni fa. Siamo amici da mezzo secolo. Conosco queste persone. Dico questo perché ciò che voglio raccontare non è di seconda mano».

La portata della testimonianza, non a caso sfuggita ai principali mezzi di comunicazione, è che nel tenere questa conferenza Sachs compie un atto assolutamente atipico. Di solito chi è ai più alti livelli decisionali non racconta quello che succede al loro interno, mentre chi ne è fuori ha difficoltà nel ricostruire le dinamiche degli eventi. In questo caso un insider decide di raccontare per filo e per segno tutto quello ha visto e vissuto, fornendo un quadro non solo delle scelte dell’Amministrazione americana, ma anche delle modalità con cui vengono prese alcune decisioni decisive per i destini di popoli. La trascrizione dell’intervento – corredata dall’indicazione dei documenti indicati da Sachs -, è sul sito web Sinistra in rete. La rivista on line di informazione francese Mediapart ha scritto che non vi è documento più convincente contro la guerra, affermando che Sachs meriterebbe il Premio Nobel per la pace. Anche il Manifesto ha dedicato un articolo all’evento, ma, salvo sviste, non risulta al momento che in Italia altri organi di informazione abbiano dato alla conferenza l’attenzione che merita.

Sintetizzare un intervento densissimo di informazioni della durata di un’ora farebbe torto al suo spessore. Vale comunque la pena di tratteggiare il quadro che emerge, frutto appunto non di complottismi o di furore antiamericano, ma dell’analisi di un uomo che ama il proprio paese tanto quanto la pace nel mondo.

L’idea che è circolata a lungo, ma che ormai è coperta da disinformazione e discredito, è che la guerra possa aver avuto origine dalla violazione di un’intesa tra Stati Uniti e Russia raggiunta a seguito dello scioglimento del Patto di Varsavia. Invece, come racconta Sachs:

«Era stata raggiunta un’intesa sul fatto che la NATO non si sarebbe spostata di un solo centimetro verso est. Si trova in innumerevoli documenti. Basta cercare il National Security Archive della George Washington University per trovarne a decine. C’è un sito web What Gorbachev Heard About NATO. Dateci un’occhiata, per favore, perché tutto ciò che vi viene detto su questa promessa è una bugia: gli archivi sono perfettamente chiari».

Sachs cita anche un documento della Rand Corporation che descrive come far precipitare la Russia in una crisi economica e causare un cambio di regime. Dunque la guerra è stata il prodotto di una strategia americana ben definita, che si è infine mostrata fallimentare. Essa ha ripreso una vecchia idea britannica secondo la quale chi controlla i paesi dell’Est europeo controlla l’Eurasia, e dunque il mondo. Sachs ricostruisce come l’espansione a Est della Nato fosse orientata a ridurre la Russia a potenza locale. Al Pentagono, infatti, ritenevano che questo fosse possibile perché la Russia, avendo solo una vocazione Europea, staccata da essa non avrebbe avuto scampo.

Quello che colpisce è quanto questa strategia fosse frutto di analisi astratte svolte a tavolino, quasi che, ironizza Sachs, si giocasse a Risiko, come si faceva da bambini:  «Secondo Brzezinski, la Russia non ha altra vocazione che quella europea. Quindi, se l’Europa si sposta verso est, la Russia non può farci nulla. C’è da chiederci: perché siamo sempre in guerra? Perché “sappiamo” sempre cosa faranno le nostre controparti. Ma ci sbagliamo sempre! Uno dei motivi per cui ci sbagliamo è che nella teoria dei giochi non cooperativi che gli strateghi americani praticano, non si parla mai con l’altra parte. Si sa solo qual è la strategia dell’altra parte. È meraviglioso. Si risparmia così tanto tempo. Semplicemente non c’è bisogno della diplomazia».

Dunque nel 1999, violando intese concordate al momento della riunificazione tedesca, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca entrano nella NATO. La Russia è contrariata, ma sono paesi non adiacenti ai suoi confini. Poi, nel 2007, altri sette paesi entrano nella NATO: tre Stati baltici, Romania, Bulgaria, Slovenia e Slovacchia. Un cablogramma dell’allora ambasciatore degli Stati Uniti in Russia, ex dirigente della Cia – tenuto segreto all’opinione pubblica ma che ci è noto grazie ad Assange -, comunica al segretario di Stato Condoleezza Rice che tutta la dirigenza russa, non solo Putin, era fortemente contraria a quella scelta: Niet means Niet. Alla violazione degli accordi compiuta nel 1999 segue l’abbandono unilaterale da parte degli Stati Uniti del trattato ABM, avvenuta nel 2002, che nella misura in cui scoraggiava il primo attacco nucleare, garantiva un clima di relativa fiducia tra Stati Uniti e Russia.

La Cia, ricorda Sachs, dal 1947 ha organizzato circa cento di colpi di stato, più elegantemente detti “cambi di regime”. Tra questi particolarmente rilevante per questa storia è quello che ha condotto al rovesciamento del presidente ucraino Yanukovych. Sachs ne parla per conoscenza diretta:«Signore e signori, per favore, come sono apparsi all’improvviso tutti questi media ucraini all’epoca di Maidan? Da dove viene tutta questa organizzazione? Da dove sono arrivati tutti quegli autobus e tutte quelle persone? Ma stiamo scherzando? Questo è uno sforzo organizzato. E non è un segreto, tranne forse che per i cittadini europei e statunitensi».

Dopo la caduta di Yanukovych, il nuovo governo ucraino firmò gli accordi di Minsk II, che seguivano il modello italiano dell’autonomia dell’Alto Adige. Essi furono sostenuti all’unanimità dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma vennero violati da Stati Uniti e Ucraina. Poi, nel 2016, Trump ha aumentato le spedizioni di armi in Ucraina e lo stesso fece Biden nel 2021, finché nel 2022 Putin cercò inutilmente un accordo con Europa e Stati Uniti. Sachs allora, allarmatissimo, chiama al telefono il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan: «“Jake, evita la guerra, si può evitare la guerra. Stati Uniti devono solo dire: ‘La NATO non si allargherà all’Ucraina’”. Lui mi ha risposto: “Oh, la NATO non si allargherà all’Ucraina, non preoccuparti”. Gli ho detto: “Jake, dillo pubblicamente”. E lui: “No, no, no. Non possiamo dirlo pubblicamente”. Gli ho chiesto: “Jake, vuoi fare una guerra per qualcosa che non accadrà mai?” E lui: “Non preoccuparti Jeff, non ci sarà nessuna guerra”. Queste non sono persone molto intelligenti. Parlano da soli, non parlano con nessun altro, giocano alla teoria dei giochi».

Secondo Sachs è probabile che Trump e Putin troveranno un accordo in quanto il nuovo presidente americano non vuole sostenere ulteriormente i costi di una sconfitta. È dunque irrilevante che l’Europa soffi ancora sul fuoco:

«Vi prego di avere una politica estera europea, implora Sachs. Dovrete convivere con la Russia, quindi vi prego di negoziare con la Russia. Ci sono questioni reali di sicurezza sul tavolo sia per l’Europa che per la Russia, ma la boria e la russofobia non servono affatto alla vostra sicurezza, né a quella dell’Ucraina. L’avventura americana a cui avete aderito ha contribuito a causare circa un milione di vittime ucraine».

La testimonianza racconta di altri tentativi di pace sabotati, fornisce descrizioni di personaggi di primo piano della politica mondiale, e riporta colloqui e documenti che supportano il quadro descritto. Si racconta del bombardamento della Serbia, di Netanyahu, di Israele. Troverete molto, dedicateci un po’ del vostro tempo: sarà ben speso in questo mare di menzogne che ci circonda.

L’autore: Già docente di economia politica, Andrea Ventura è autore di numerosi saggi, fra i quali Il flagello del neoliberismo

 

Il cessate il fuoco del Pkk è un segno di forza. Per la pace

«Concordiamo con il contenuto dell’appello del leader Öcalan e dichiariamo un cessate il fuoco effettivo a partire dal primo marzo.2025».Così ha scritto il Comitato esecutivo del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) ha affermato in una nota il Comitato esecutivo del Partito dei lavoratori del Kurdistan in risposta allo storico appello lanciato dal leader curdo Abdullah Öcalan il 27 febbraio 2025.
Öcalan ha sottolineato l’urgente necessità di democratizzazione in Turchia e ha chiesto al Pkk di deporre le armi e di sciogliersi. Il Pkk, in risposta, ha dichiarato «nessuna delle nostre forze intraprenderà azioni armate a meno che non venga attaccata».
È chiaro che un nuovo processo storico sta iniziando in Kurdistan e in Medio Oriente grazie a questa chiamata che avrà anche un grande impatto sullo sviluppo di un contesto di libertà e della governance democratica in Turchia e in Medioriente . Indubbiamente, essere in grado di fare un appello del genere è stato di importanza storica; ora, l’implementazione di successo del suo contenuto è di pari importanza. Dal Pkk concordano con il contenuto dell’appello così com’è e affermano che rispetteranno pienamente e implementeranno i requisiti che contiene. Tuttavia, il Pkk sottolinea che anche la politica democratica e le basi legali devono essere garantite per il suo successo.
Appare molto chiaro che il Pkk è stato il grande movimento dell’ultimo mezzo secolo in Kurdistan. Attraverso una lotta molto coraggiosa e di sacrificio, pagando un prezzo molto alto. La consapevolezza sviluppata da Öcalan e la grande eredità di esperienza creata dal Pkk danno al popolo curdo la forza di continuare la lotta per il bene in comune, la giustizia e la libertà sulla base della politica democratica.
Ora solo la leadership di Öcalan può rendere pratiche questioni come la deposizione delle armi. D’altro canto, come chiesto da Öcalan , verrà presto convocato un congresso del Partito. I fatti concreti mostrano chiaramente che affinché l’Appello per la pace e la società democratica venga implementato con successo, per la democratizzazione della Turchia e del Medio Oriente basata su una soluzione democratica alla questione curda e per lo sviluppo del movimento democratico globale, a Abdullah Öcalan devono essere concesse le condizioni per vivere e lavorare in libertà fisica e stabilire relazioni senza ostacoli con chiunque desideri.
La democratizzazione della Turchia è un punto di svolta in termini di dissoluzione del Medio Oriente sulla base della democratizzazione e della trasformazione. È un punto di svolta non solo per i curdi, ma anche per tutti i popoli della Turchia, per l’intero Medio Oriente. l’esistenza di uno spazio democratico e politico è possibile solo attraverso il rispetto delle identità, della loro libera espressione e organizzazione democratica, e delle strutture socio-economiche e politiche.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, il cancelliere tedesco, il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il relatore del Parlamento Europeo sulla Turchia, gli Stati del Regno Unito, della Germania, dell’Iran, dell’Iraq, dell’Arabia Saudita e il Portavoce per la Politica estera dell’Unione Europea hanno dato un forte sostegno all’appello di Abdullah Öcalan.
L’uscita della questione curda dal conflitto e dalla violenza, è basata sul riconoscimento della politica democratica e della dimensione giuridica. Tutti dovrebbero sapere che la democratizzazione non è mai una debolezza. La pace non è opera dei deboli, la pace è opera dei coraggiosi, la pace è opera dei forti. Costruire la democrazia è il lavoro dei coraggiosi. La democratizzazione e la pace sono elementi preziose e importanti per essere oggetto di negoziati politici. I diritti umani più elementari e i diritti più fondamentali dei popoli non possono e non devono mai essere negoziabili. Questo processo non è un processo di sconfitta.
Abdullah Öcalan durante gli incontri ha affermato: “La democrazia è l’arte di aprire liberamente la bocca alle persone”. È tempo che la Turchia parli. Ora è il momento per la società di esprimersi liberamente.

L’autrice: Hazal Koyuncuer è rappresentante della Comunità curda milanese

Tania Sacchetti (Spi Cgil): Le nostre pensionate in campo per difendere i diritti delle donne con la mobilitazione

In Italia il tasso di occupazione femminile tra i 20 e i 64 anni si attesta al 55%, mentre la media dell’Unione europea sfiora il 70%. Le donne italiane ricevono in media pensioni inferiori del 33.2% rispetto agli uomini e dedicano in media cinque ore al giorno al lavoro di cura non retribuito per la famiglia, uno dei tassi più alti tra i Paesi dell’Ocse.
Questi sono solo alcuni dei numeri che fotografano la condizione femminile nel nostro Paese e che il sindacato dei pensionati della Cgil ritiene opportuno ricordare in occasione dell’8 marzo.

Per la segretaria generale dello Spi Cgil Tania Scacchetti: «Queste cifre rafforzano le ragioni e le rivendicazioni portate avanti dalla Cgil anche attraverso la campagna referendaria. Lavoro sicuro, dignitoso, ben retribuito. Migliorare le condizioni per accedere al diritto di cittadinanza per chi è già legalmente nel nostro Paese. Sembrano cose piccole, scontate che tuttavia oggi non sono garantite, anzi sono spesso ostacolate, a maggior ragione per le donne».
«Le donne dello Spi – prosegue Scacchetti – sanno, perché lo hanno dimostrato con le loro storie e le loro battaglie che le donne possono cambiare il mondo. E sappiamo che questo mondo va cambiato».
«Se le donne tutte insieme sospendessero le loro attività, lavorative, di cura, sociali, affettive, culturali anche solo per qualche ora, forse sarebbero più visibili e tangibili il valore, il peso e il protagonismo delle donne nella società, che molti, quasi tutti, nei convegni declamano ma su cui si fa troppo poco per renderlo possibile e riconosciuto. Per queste ragioni – conclude la dirigente sindacale – come sindacato dei pensionati promuoveremo e promuoviamo tutte le iniziative di mobilitazione possibili e sosteniamo le ragioni e le iniziative di sciopero che saranno decise e definite».

Urso frena (ma non troppo): il ddl spazio è un regalo per Musk

C’era una volta il sovranismo che difendeva i confini, la patria e il controllo nazionale. Poi, quando si tratta di spazio, le porte si spalancano e l’accoglienza diventa entusiastica, purché il beneficiario abbia il pedigree giusto: Elon Musk, il signore dei satelliti, il magnate che ha fatto della sua impronta planetaria un passe-partout anche per i governi più nazionalisti. Il disegno di legge sulla space economy, approvato alla Camera e in attesa del Senato, è la dimostrazione plastica di come l’ideologia ceda il passo agli interessi, specie quando sono intrecciati a quelli dell’uomo più ricco del mondo.

Il ministro Urso ha provato a frenare l’entusiasmo filo-Musk, ma il risultato è un compromesso che lascia più di una porta aperta. Il silenzio in aula, l’assenza di un confronto vero e la fretta con cui si è arrivati al voto parlano chiaro: l’Italia si appresta a diventare un hub strategico per Starlink senza che nessuno ponga reali condizioni. Il sovranismo, qui, si traduce in accondiscendenza.

Intanto, Fratelli d’Italia cerca di mantenere il punto, ostentando una difesa della sovranità tecnologica che suona più come una foglia di fico. Ma il malumore interno esiste, specie per quel dialogo con Eutelsat che fa storcere il naso ai fedelissimi di Musk. Andrea Stroppa, il suo emissario in Italia, ha già dettato la linea sui social: chi non si allinea, finisce nel mirino.

E mentre il governo parla di strategia spaziale nazionale, la realtà è un’altra: nessun vincolo chiaro, nessuna regia europea e un pezzo di industria italiana pronto a essere svenduto. Lo spazio, in fondo, è l’ultima frontiera del mercato. E anche del sovranismo a geometria variabile.

Buon venerdì. 

Foto WP

Gianni Fresu: Vi racconto Gramsci terzomondista

«Io penso che Antonio Gramsci non possa essere sottratto dalla lotta politica contemporanea, trasformando la sua eredità in memoria letteraria del passato o riservando le sue categorie all’esegesi di un clero di specialisti». Si ribella radicalmente a una musealizzazione del pensiero del politico e autore dei Quaderni del Carcere Gianni Fresu, professore di filosofia politica all’Università di Cagliari dopo una lunga esperienza di insegnamento all’Università Federale di Uberlândia in Brasile. Siamo tornati a cercarlo per sapere di più del suo nuovo libro Questioni gramsciane (Meltemi).

«Questo mio nuovo lavoro raccoglie una sintesi di riflessioni maturate negli anni della mia esperienza in Brasile. È fondamentale leggere Gramsci alla luce della lotta politica attuale, come accennavo e aggiungo che l’indagine attorno alla sua opera oggi non può che scaturire dall’interazione tra filologia e traduzione filosofica, perché i due termini, reciprocamente funzionali, sono immanenti alla sua concezione del mondo. Disinteressarci del momento della traduzione della filosofia nella praxis significa privare il suo lascito teorico del principale contributo al pensiero critico mondiale, monumentalizzarne l’opera come se fosse un classico che poco ha da dire alla realtà odierna.

Il lungo “viaggio” di Gramsci in Latinoamerica

Il 20 settembre del 2012 scompariva a Rio de Janeiro, Carlos Nelson Coutinho, professore di Teoria politica presso la Universidade Federal do Rio de Janeiro (UfRJ), appassionato militante marxista, traduttore e raffinato studioso (anche della cultura italiana): in una parola, un intellettuale autentico (tra i più noti del suo Paese), inteso alla maniera di Sartre, ossia come colui che «abbraccia interamente la sua epoca». Nato a Bahia nel 1943, Carlos aveva iniziato l’attività di studioso nell’ambito della critica culturale e letteraria, avvicinandosi alla figura e all’opera di György Lukács (col quale aveva intrattenuto una corrispondenza negli anni giovanili), contribuendo alla diffusione delle opere del filosofo ungherese nel suo Paese. Ma Coutinho è stato soprattutto il più importante interprete e traduttore di Gramsci in Brasile, curandone la pubblicazione di tutte le principali opere; a lui si deve, tra l’altro (insieme con Luiz Sérgio Henriques e Marco Aurélio Nogueira), la versione integrale portoghese in sei volumi dei Quaderni del carcere, in una edizione che suscitò critiche, ma che ha resistito finora, quando è stata affiancata da una nuova traduzione, curata da un team coordinato da Giovanni Semeraro. Accogliamo quindi con vero piacere la pubblicazione del volume di Carlos Nelson Coutinho, Scritti gramsciani (Bordeaux), curato da Guido Liguori e Alvaro Bianchi – eminenti studiosi gramsciani e amici di lungo corso dell’autore – che raccoglie, nella collana della International Gramsci Society, di cui Coutinho è stato componente e dirigente, i più rilevanti scritti su Gramsci.