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L’intensa ricerca (politica ed estetica) del regista iraniano Koohestani

Amir Reza Koohestani, regista e drammaturgo tra i più rilevanti del panorama iraniano contemporaneo. In Italia è noto soprattutto per il suo Dance on Glasses, uno dei suoi primi spettacoli col Mehr Theatre Group agli inizi degli anni Duemila e per la sua partecipazione alla Biennale teatro di Venezia con Blind runner.

Ma facciamo un passo ancora indietro: Nei primi anni della sua carriera teatrale Koohestani ha lavorato come drammaturgo radiofonico con  opere che fin da subito testimoniano una profonda ricerca politica, culturale e artistica che gli ha permesso di portare il teatro iraniano all’attenzione internazionale. Il suo lavoro affronta tematiche universali come l’interiorità e le relazioni sociali, mantenendo sia una connessione profonda con la cultura iraniana che al contempo un’apertura verso temi più globali come le migrazioni in Europa, intrecciando un approccio “minimalista” e simbolico insieme.

Mantenendo un legame costante con la cultura e i problemi sociali del proprio Paese di origine, trova spesso un filo emotivo e concreto connesso al mondo occidentale, con pubblico straniero, interrogandoci su questioni politiche e emotive con produzioni caratterizzate da un’eleganza visiva e una narrazione che lascia sempre spazio a un’interpretazione aperta.

Il suo lavoro si basa sulla voce e sul dialogo, utilizzando un linguaggio semplice e moderno. Uno dei migliori modi per descrivere le sue opere forse lo fornisce lui stesso quando dice: “I miei testi teatrali raccontano sempre una storia e sono centrati sui personaggi, ma sono aperti, senza un finale definitivo.” (cfr www.ilna.ir).

La sua scrittura si muove tra simbolismo e realismo, passando dalla descrizione documentaristica della vita quotidiana a una dimensione immaginaria di profonda ricchezza poetica. Le sfumature della vita quotidiana si intrecciano con un simbolismo che spesso ha radici proprio nella sua cultura di origine. Questo approccio alla narrazione lascia in fin dei conti allo spettatore la libertà di decidere la propria verità, quella potrà accogliere in quel momento della sua vita e con cui entrerà o meno in risonanza più profonda.

Koohestani usa la fiction per esplorare temi reali, creando un mix fra documentario e immaginazione. Una capacità di immaginare che, come afferma Joëlle Chambon, “gli artisti europei sembrano talvolta aver perso”. Al contempo Koohestani nelle sue opere fa tesoro di modalità che ricordano molto alcune tradizioni teatrali europee che continuano una ricerca di una terza via, appunto tra documentario e narrazione immaginativa. Chambon sostiene inoltre che il percordo di Koohestani sia dettato dalla sua lingua: il vocabolario persiano è breve, e la sfumatura si esprime meno nel lessico che nella metafora o nell’ironia, ossia nell’arte dell’aggiramento.

La combinazione di elementi di teatro simbolista e realistico, a volte integrando al contempo convenzioni del teatro tradizionale iraniano (come alcuni suoi spettacoli della produzione iraniana, entra anche nella messa in scena con elementi non verbali.

Il regista ci invita a spettacoli che si basano prima di tutto su un testo forte, drammatico e strutturato, e l’aspetto più importante di questo è che tutti gli elementi creativi dello spettacolo sono al servizio dell’idea e del testo principale, senza mai uscire dal mondo teatrale. La scrittura è poetica e realistica.

Koohestani, nelle opere con le produzioni europee, spesso racconta storie che si intrecciano in una città-mondo, dove ogni personaggio è in movimento e “spostato” con attori che parlano tedesco, farsi, arabo, francese e altre lingue europee. L’uso della diversità linguistica gli consente di utilizzarle come strumento per esplorare temi di incomprensione e del potere legato all’uso o non uso di una lingua.

La struttura scenica nelle sue opere è spesso costellata da video, proiezioni e riprese in real time, permettendo di amplificare la profondità del personaggio e del tema dello spettacolo. Nelle produzioni della sua compagnia, la Mehr Theatre Group, spesso vediamo movimenti scenici integrati con riprese in tempo reale del volto degli attori, creando un quadro multidimensionale della loro presenza sul palco. Le videoproiezioni sono così utilizzate per almeno due piani di realtà, quello visibile e quello nascosto dei personaggi, rivelando la molteplicità interiore ed esteriore. L’uso delle tecnologie nelle sue opere quindi è sempre presente e significativo pur mantenendo un approccio minimalista e strettamente funzionale.

Joëlle Chambon nel suo articolo “Amir Reza Koohestani, un dramaturge européen?” riporta proprio su questo tema: “il dramma esplora le sue tracce attraverso immagini e discorsi compositi, creando un “poema teatrale”. La scenografia multimediale nelle sue opere non si manifesta come “privilegiata” e mantiene il suo ruolo funzionale, essendo al servizio della narrazione.

Dal 2016, Amir Reza Koohestani è costantemente attivo in Europa e in Germania dove attualmente risiede. Ha realizzato senza la sua compagnia, in qualità di regista, diverse opere teatrali in Germania, Svezia e Francia con temi presi quasi esclusivamente dalla cultura europea, mentre con la sua compagnia ha sviluppato invece direzioni prevalentemente legate a tematiche contemporanee. Uno dei temi più noti nelle sue opere è la migrazione. L’artista critica l’ipocrisia delle politiche europee nei confronti dei paesi del Medio Oriente e il problema irrisolto della migrazione, nonché un’Europa meno accogliente nei confronti dei nuovi cittadini stranieri. Riflette inoltre sulla difficoltà di sfuggire alle etichette imposte dalla società e dal pubblico, che si aspettano da lui narrazioni legate esclusivamente alla sua esperienza di outsider o migrante, in particolare riguardo alla realtà iraniana. Il teatro europeo sembra non essere ancora pronto ad accogliere un autore “straniero” che riesca a portare in scena un dramma borghese senza associarvi etichette geografiche. (cfr intervista  aVenezia con «Blind Runner», fra Iran e Europa)

Maria Stuarda è l’ultimo progetto firmato da Amir Reza Koohestani con la produzione del Teatro di Stato della Bassa Austria a St. Pölten, andato in scena a settembre 2024.

Il regista, con la sua coautrice Mahin Sadri, ha trovato un adattamento innovativo della storia di queste due regine. Nella commedia di Schiller, Maria ed Elisabetta si chiamano a vicenda “sorella”. “Una ha amore ma non ha potere, e l’altra ha potere ma non amore”, dice l’autrice Mahin Sadri (cfr Landestheater.net). Schiller ritrae la rivalità politica e personale tra le due regine e allo stesso tempo la mette in discussione. Koohestani / Sadri rafforzano la drammaturgia dell’immagine speculare disponendo i personaggi simmetricamente attorno ai poli Maria ed Elisabetta condensando il classico in un “intimo spettacolo da camera con due regine, due amanti, due cameriere e una guardia”. I sosia sono un motivo letterario e artistico comune, spesso ripreso anche da Franz Kafka e che si ritrova nei primi lavori teatrali di Amir Reza Koohestani. A differenza dell’originale, sono le donne / sosia sono più coinvolte nella trama: “Abbiamo dato tanto spazio alle cameriere di Elisabetta e Maria Stuarda perché rappresentano le voci che spesso non vengono ascoltate. Nella nostra versione, vivono la politica da vicino, sviluppano il proprio atteggiamento nei suoi confronti e prendono le proprie decisioni” (cfr Mahin Sadri ).

Le cameriere salutano Elisabetta perché non vogliono sostenere le rimostranze del sistema politico. Forse si uniranno alla rivolta fuori dalle mura del castello. In ogni caso rappresentano la voce di chi spesso non viene ascoltato. “Per me, questo è un forte ponte con ciò che sta accadendo in Iran”, ha affermato Amir Reza Koohestani. Anche in questa opera, sul palco troviamo attori multilingue, dal tedesco al persiano. Koohestani e Sadri in questa versione sfidano la politica attuale europea che cammina verso i populisti. Come citato dal sito di www.tangente-st-poelten.at: “L’opera evidenzia l’importanza di usare l’arte per fare luce sulle ingiustizie e sfidare le strutture politiche oppressive”.

In un’intervista (Intervista a Amir Reza Koohestani, Landestheaterniederoesterreich, pagina Instagram, settembre 2024), esprime l’idea che ci sono donne che hanno la capacità di essere ottime regine o politiche, ma il sistema sociale o politico in cui vivono non consente loro di esercitare pienamente questi ruoli. La struttura scenica ci fa ricordare la macchina scenica del teatro greco “ekkyklema”, rivisitata e digitalizzata con pannelli trasparenti per la proiezione di video ripresi in tempo reale o registrati. La scenografia come elemento dominante che controlla e dirige attraverso la “macchina”. Elisabetta cerca fin dall’inizio di non alimentare la violenza e l’aggressività, ma alla fine non ha altra scelta, perché il sistema non lo permette. L’autore ribadisce che l’obiettivo principale è stato la creazione di questa macchina in cui le persone hanno difficoltà a sopravvivere, ossia lui si sente in dovere di creare situazioni difficili o sfidanti per i personaggi, quasi come se fosse una sua responsabilità artistica mettere alla prova i personaggi e mostrare le loro reazioni in condizioni estreme.

Pigmalione, di George Bernard Shaw, è il testo elaborato da Amir Reza Koohestani, con la produzione del Residenztheater, in cui mette in discussione l’influenza sempre più rilevante dell’AI e il ruolo della tecnologia sulla società contemporanea e nel modellare le nostre identità. Nella variante di Ovidio “Pigmalione e Galatea” (“Metamorfosi” X), uno scultore crea una statua di una donna di cui si innamora e Afrodite le dà vita. Nella commedia di George Bernard Shaw, rappresentata per la prima volta al Burgtheater di Vienna nel 1913, un professore di Fonetica scommette con il suo amico di trasformare entro sei mesi una venditrice di fiori ignorante in una signora di alta borghesia. Attraverso un intenso addestramento linguistico e di buone maniere, lui e la sua collega la trasformano, non solo esteriormente, una giovane donna sfacciata e sicura di sé in una brava signora che lotta con il suo nuovo ruolo e le sue aspettative.

Il tema dell’AI è uno dei temi più attuali nella nostra società. Indubbiamente l’uso dell’intelligenza artificiale è paragonabile ad eventi importanti come l’invenzione della stampa o l’utilizzo dell’elettricità. Le reti neurali dell’intelligenza artificiale selezionano la protagonista da una varietà di possibili candidati, un aspetto che rende il testo particolarmente attuale poiché invita il pubblico a riflettere sul ruolo della tecnologia nel determinare i destini umani in futuro e le reti neurali potrebbero cambiare il nostro futuro, quello privato, quello professionale o persino la nostra libertà (cfr www.adoringaudience.de).

Anche in questo spettacolo, il tema centrale si concentra sulla figura di una donna, come sottolineato dagli autori dell’opera. Così dice in un una intervista: “Eliza è una donna della classe operaia che non appartiene a nessun posto: nemmeno a suo padre che beve e non ha interesse per lei, né per il professore che abusa di lei per la sua vanità egoista. La lotta per definire se stessa, la propria identità, è al centro del nostro approccio all’opera di Shaw.”

Woyzeck Interrupted di Georg Büchner, non può essere considerato semplicemente un’opera sulla violenza domestica, nonostante vi si consumi un femminicidio. Questo atto di violenza, che ha avuto una lunga tradizione nella letteratura drammatica, si inserisce nel contesto di un’umanità segnata dalla gelosia, uno dei motivi che spingono Woyzeck ad accoltellare Marie.

L’ispirazione di Büchner, datata 1821, si lega a un crimine passionale. Oggi, in Germania, dove ogni tre giorni una donna viene uccisa da un marito o ex marito, la tragedia del femminicidio trova nuova vita nella versione del “Woyzeck” di Koohestani e Sadri dove non parlano di singoli casi, ma cercano relazioni del potere di genere e della violenza strutturale nella vita privata.

Quello che trovano sono modelli, che mostrano anch’essi ma non per riprodurli, bensì per interromperli. Gli autori propongono una nuova via: trasgressione delle regole / innovazione radicale / rompere il costrutto. Il tema della “rottura” si manifesta nella struttura drammaturgica del testo dove la protagonista interrompe la gravidanza e il Covid interrompe le prove. Così in un suo intervento.

La scena è una sorta di casa delle bambole a più livelli, e le stanze sembrano schermi. La struttura scenica enfatizza la sensazione di separazione, quarantena, isolamento. Da un lato è la metafora della situazione sociale del periodo del Covid nel 2020, dall’altra parte rappresenta le relazioni contemporanee mediate dalla tecnologia. L’uso costante delle immagini / video nella narrazione dei personaggi sottolinea la presenza rilevante della tecnologia / immagine nella vita dei personaggi. La narrazione non lineare e le scene frammentate, grazie all’utilizzo degli schermi e delle proiezioni, riflettono anche lo stato mentale di Woyzeck e la difficoltà di comunicare nel mondo digitale.

Lo spettacolo non è riuscito a conquistare pienamente i critici teatrali tedeschi, nonostante un cast perfetto e una realizzazione impeccabile.

In un mondo sempre più globalizzato, il teatro di Koohestani rappresenta un invito a guardare oltre le etichette geografiche e culturali, a interrogarsi sulle dinamiche del potere e sulle ingiustizie che caratterizzano la nostra società. Le sue opere non solo toccano le corde dell’anima, ma stimolano anche una riflessione critica sul presente e sul futuro, dimostrando che il teatro può essere un potente strumento di cambiamento e di dialogo tra mondi apparentemente distanti. Amir Reza Koohestani con la sua arte ci ricorda che il teatro è un luogo di incontro, di confronto e soprattutto di libertà.

L’autrice: Mahnaz Esmaeili è direttrice artistica e docente a contratto dell’Università Sapienza di Roma

Foto di Arno Declair

Cortina, la pista di bob e il solito spreco di Stato

C’è una pista di bob che nessuno vuole. Nemmeno il Comitato olimpico internazionale, che a Cortina ha mandato una lettera per dire chiaro e tondo che l’impianto rischia di essere una cattedrale nel deserto, con costi esorbitanti e un futuro incerto. Eppure, il governo insiste. Perché?

L’impianto costa 81 milioni di euro. Servirebbe per le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026, ma la realtà è che dopo i giochi resterà un monumento allo spreco. Nessun altro evento internazionale è previsto, la manutenzione sarà insostenibile, gli atleti italiani che praticano bob, skeleton e slittino si contano sulle dita di una mano. Ma chi se ne frega.

A Cortina si doveva recuperare la storica pista “Eugenio Monti”, chiusa dal 2008. Un’idea nostalgica che nasconde la solita gestione opaca delle grandi opere: progetti inutili, costi che lievitano, nessuna visione a lungo termine. Il Cio, di fronte a questa follia, ha persino suggerito di spostare le gare in Austria.

Ma l’Italia non molla. Perché i grandi eventi, qui, sono un pretesto per gettare – quando va bene – colate di cemento e – quando va male – anche per soddisfare appetiti. Non per lasciare eredità sportive, ma debiti. Il vero sport nazionale.

Buon venerdì. 

 

In foto: Il palazzo olimpico del ghiaccio di Cortina, di Wusel007 – Opera propria

Trump detta le regole, l’Unione europea prende appunti

Donald Trump alla primo consiglio dei ministri 26 febbraio 2025

Stanotte Trump si è esibito in una torrenziale conferenza stampa, la forma di governo preferita di ogni plutocrazia che usa le parole per fomentare lo spostamento dell’etica pubblica. Il presidente degli Usa ha detto al mondo che l’Unione europea è «nata per truffare gli Stati Uniti» e che i prodotti europei saranno «presto» soggetti a dazi del 25%. «Abbiamo preso la decisione, e la annunceremo a breve, che sarà del 25%», ha detto Trump. I dazi contro la Ue «riguarderanno le auto e altre cose», ha detto Trump.

L’elefantiaca Unione europea, di rimando, ha fatto sapere che «reagirà in modo fermo e immediato alle barriere ingiustificate al commercio libero ed equo, anche quando i dazi vengono utilizzati per contestare politiche legittime e non discriminatorie», promettendo di «proteggere le aziende, i lavoratori e i consumatori europei dai dazi ingiustificati». Letta così, la risposta di Bruxelles è un’affermazione di incontrovertibile buon senso. Il problema, sempre lo stesso, sta nel fatto che è solo una risposta, come sempre.

Donald Trump ha in mente un’idea precisa: scardinare le strutture democratiche degli Usa, lanciare una campagna predatoria e imperialista nei confronti del resto del mondo, consolidare il suo rapporto con Putin, che ritiene «molto intelligente», lucrare sulla pace in Ucraina dopo aver fatto affari d’oro sulla guerra, distruggere il diritto internazionale con il bilateralismo e accogliere chiunque si presenti al suo confine con un sacco di soldi.

Ecco, forse il problema per l’Europa è qualcosa di più dei “dazi ingiustificati”. Donald ha una strategia, e l’Europa?

Buon giovedì.

 

In foto Ipa: Donald Trump al primo “consiglio dei ministri”

La sinistra e le elezioni in Germania, cosa ci dice l’exploit di Die linke

La resurrezione della sinistra

Berlino – Se non fosse per il raddoppio dei consensi con il 20,7 percento (+10,3 – ca. 10,3 milioni di voti) aggiudicatosi dall’estrema destra AfD (Alternative für Deutschland, 152 seggi su 630), diventato secondo partito (nel 2021 era il quinto), per la sinistra tedesca ci sarebbe ancor più motivo di esultare per l’esito elettorale: Linke si afferma con l’8,8 percento in maniera stupefacente (2021: 4,9, 64 seggi, 4,35 milioni ca. di voti) e assolutamente imprevedibile fino a tre settimane fa, quando la si dava ormai in via di estinzione da almeno un anno e mezzo, ed era congelata al 3-4 nei sondaggi fino a fine gennaio. Il partito più votato, l’alleanza tra Cdu cristiano-democratica e Csu cristiano-sociale bavarese con il 28,5 (+4,3, 208 seggi, 11,2 milioni Cdu + quasi 3 milioni Csu) guadagna consensi, ma ciononostante, il risultato, il secondo peggiore della sua storia, non può soddisfare il candidato alla cancelleria, il leader Cdu Friedrich Merz che aveva sperato in un margine ben superiore al 30 anche se i sondaggi, rivelatisi affidabili, non accreditavano questa ambizione. La socialdemocrazia (Spd) subisce una sconfitta storica e finisce al terzo posto dopo l’AfD: mai è andata peggio di così (16,4: -9,3 rispetto al 2021, 120 seggi, 8,15 milioni ca.). Il cancelliere uscente Olaf Scholz aveva sperato fino a qualche settimana fa in una improbabile rimonta, anche se i sondaggi non lasciavano speranze, e non si vedevano segnali di ripresa, neanche inaspettata, come nel caso della Linke, nell’ultima fase di campagna elettorale.

Invece finisce per perdere quasi quattro milioni di voti. L’ex partito ecopacifista dei Verdi perde 3,1 punti (11,6, 85 seggi). I Liberali (Fdp) crollano rovinosamente con il 4,3 (-7,1) e rimangono fuori dal Bundestag per il mancato superamento dello sbarramento del 5 percento. Forte è la delusione anche per il Bündnis (Alleanza) Sahra Wagenknecht (Bsw) la formazione scissionaria della Linke che rimane al palo con il 4,9 (quasi 2,5 milioni di voti assoluti), mentre invece aveva sperato di poter continuare nella scia di successi elettorali a partire dalle elezioni europee e di quelle regionali in tre Länder dell’est dello scorso anno. Sommati ai Liberali (ca. 2,15 milioni di voti), sono più di 4,6 milioni di persone che non trovano rappresentanza in parlamento. Certo, la formazione di un governo sarebbe stata forse ancor più problematica, ma uno sbarramento più generoso avrebbe sicuramente giovato alla democrazia e anche alla politica.

Per esempio Bsw ha recuperato dal bacino delle astensioni 400.000 voti, e ha mancato il 5 percento per poco più di 13.000 voti. Wagenknecht, imputando una parte di responsabilità della sconfitta a media e istituti demoscopici, ha intanto fatto sapere che intende ricorrere contro l’esito elettorale. Ritiene che anche la partecipazione al governo in Brandeburgo e in Turingia abbia creato malumore. Ma Wagenknecht si è resa responsabile di un grande abbaglio: accodarsi alle politiche della destra sull’immigrazione è stato un clamoroso boomerang. Il suo voto al Bundestag a favore del progetto di legge anti-migranti insieme a Cdu/Csu e Afd ha probabilmente allontanato quanti a sinistra ritenevano Bsw, per l’insistenza su pace in Ucraina e trattativa con la Russia, un’opzione plausibile.
Un altro dato sorprendente di questa tornata elettorale è l’alta affluenza alle urne: 82,5 percento (2021: 76,4), mai così massiccia nella Germania riunificata (dal 1990).

Bisogna andare indietro fino al 1998 (82,2) per riscontrare un dato superiore all’80 percento, quando la vittoria della Spd e il buon risultato dei Verdi portò al primo governo rosso-verde con la guida del socialdemocratico Gerhard Schröder. Della grande partecipazione al voto si giovano soprattutto la AfD con 1,81 milioni di voti, e la Cdu/Csu (con 900.000 voti). Anche la Linke recupera dal voto 290.000 voti.

Due Germanie. Si allarga il divario tra i sessi: donne a sinistra, uomini a destra

Il voto spacca più che mai in due la Germania: “est e ovest mai così diversi”, dice il moderatore del primo canale Ard. La carta del voto è impressionante: a est è una macchia blu cielo quasi uniforme, fatta eccezione per i sei collegi magenta conquistati dalla Linke, e qualcuna rossa Spd come il collegio di Potsdam riconquistato da Scholz per un soffio sull’avversaria Cdu. A ovest prevale il nero della Cdu, tutta blu la Baviera della Csu, qualche macchia rossa Spd. Nel voto proporzionale a ovest Afd è il primo partito a Kaiserslautern nella Renania-Palatinato e a Gelsenkirchen, cittadina della Ruhr.

Tra i ceti operai l’Afd raggiunge il 38 percento (Cdu 22, Spd 12, Linke 8), il 34 tra i disoccupati, tra chi vive difficoltà economiche al 39 percento, più 20 rispetto al 2021 (Cdu 17, Spd 12, Linke 11). La fascia d’età con il consenso più forte (26 percento) è quella tra i 35 e 44 anni. Sono soprattutto maschi gli elettori di AfD (24 percento contro il 18 delle donne). Mentre Linke è tra le donne all’11 percento e tra gli uomini al 7. Nonostante AfD sia guidata da una donna, Alice Weidel, corteggiata da Elon Musk, a rappresentarla in parlamento sono ancor meno donne che nella scorsa legislatura (11,8 da 13,3). Si registra un calo di deputate ferme al 31,2 (2021: 34,8).

Linke e Verdi in testa con il 56,2 e 61,2 percento di deputate. A est, dove vive il 16,7 percento della popolazione tedesca, AfD viene votata anche da chi non necessariamente soffre il disagio sociale. Ma qui si riscontra il risentimento di chi si sente discriminato, considerato a ovest un po’ immaturo dal punto di vista politico, che non ha dimestichezza con la democrazia (liberale), per aver vissuto o esser nato durante il regime socialista della Ddr. Il governo uscente del cosiddetto semaforo di Spd-Verdi e Liberali non ha avuto a est praticamente legami sul territorio. Il divario ancora economico (-10 percento in termini di reddito) ma ancor di più quello sociale e culturale ha origini lontane nel tempo. Al momento della (ri)unificazione si pensò soprattutto all’unificazione monetaria, mentre quella politico-economica assunse i caratteri di una annessione.

La promessa sancita dal Grundgesetz (costituzione) della Repubblica federale, di riscrivere la legge fondamentale insieme una volta riunite le due parti, non venne mantenuta, prevalse la giustizia dei “vincitori”, e qualsiasi cosa provenisse dall’est era da respingere. Negli ultimi tempi si susseguono studi sociologici sull’est e l’editoria dà voce non più a una Ostalgie (nostalgia dell’est), ma a quella che, a detta dei sociologi, sembra una vera e propria identità a parte, che trova riflessi anche nelle generazioni successive per i racconti in ambito familiare.

Dalle urne esce un responso impietoso sul bilancio fallimentare del governo in piena sintonia con gli indici di basso gradimento espressi alla fine della loro breve esperienza alla guida del Paese, che ha portato a queste elezioni anticipate. Un sondaggio ha registrato in proposito il giudizio negativo dell’82 percento delle persone interpellate. Rincorrendo le politiche di destra (“respingerò in grande stile” aveva promesso Scholz), speravano di arginarla, e invece, come era da aspettarsi, le hanno spalancato un’autostrada.

Quale governo?

Lo scenario che si apre non lascia margini a novità storiche sul fronte delle coalizioni possibili. Dando per scontata, infatti, l’esclusione della AfD, almeno come Merz ribadisce, e il mancato ingresso di Fdp e Bsw, e della Linke, i conti presentano come unica possibilità la coalizione tra cristiano-democratici e socialdemocratici, la un po’ meno Große Koalition, che garantisce la maggioranza dei seggi in parlamento Cdu/Csu, in passato la formazione considerata più stabile, ma ora di tutt’altro che facile composizione politica, che per una Spd in piena crisi esistenziale potrebbe avere un esito fatale, e per una Cdu al di sotto del margine di manovra che avrebbe desiderato. Se invece fossero entrati più partiti nel Bundestag, la “fetta” di seggi di Cdu/Csu e Spd si sarebbe assottigliata rendendo necessario un terzo alleato per formare una maggioranza governativa, in questo caso, piuttosto che la Linke, i Verdi, che risultano aritmeticamente superflui.

Merz pensa addirittura sfruttare gli sgoccioli della legislatura corrente prima della costituzione del nuovo Bundestag a il 24 marzo, e prima quindi anche della formazione di un nuovo governo, per un accordo con Spd, Verdi e Fdp per aggirare così la Sperrminorität: cioè la minoranza parlamentare (in questo caso costituita dai seggi di Linke e AfD) che può bloccare riforme costituzionali per cui sono necessari i due terzi (422 seggi). In questo modo Merz vorrebbe allentare la rigidità del pareggio di bilancio (Schluldenbremse, o “freno al debito”), in favore di più spesa militare, come del resto avrebbe voluto Scholz, ma che il liberale Christian Lindner, ministro delle finanze, ha respinto, provocando la crisi di governo lo scorso novembre. Non sarà facile per Merz, nonostante l’urgenza dettata anche dal contesto internazionale, giungere alla formazione di un nuovo governo entro Pasqua, la scadenza che si è dato.

Intanto il leader Spd Lars Klingbeil ha fatto sapere che “non è per niente scontato che ci sarà un governo con la socialdemocrazia. La palla è nelle mani di Merz (che) però dovrà prima abbassare i toni”. Il co-leader della Linke Jan van Aken comunica disponibilità a votare per la riforma della Schuldenbremse, che Linke da sempre osteggia, ponendo precise condizioni: certamente non a favore del riarmo. Per il militare già si spende oltre al dovuto. In Europa sono 430 miliardi contro i 300 della Russia. Per ben altro c’è urgenza di liberare investimenti, come infrastrutture e alloggi sociali. E se si assommassero i voti di AfD? “Sarebbe un problema votare con loro a favore di qualcosa”, “non contro qualcosa”.

Né con AfD né con Cdu. La risposta è Linke

Ma quali saranno le ripercussioni dei futuri accordi e/o colloqui preliminari nell’opinione pubblica? Per ammissione stessa del più autorevole esponente Verde, Robert Habeck, vice-cancelliere, nonché ministro delle attività produttive e del clima uscente, il motivo dell’emorragia di voti verdi verso la Linke (700.000), in prevalenza voto giovanile, consiste nel non aver escluso a priori possibili coalizioni con la Cdu/Csu. La chiave di volta fatale per i Verdi e propizia per Linke viene individuata da Habeck nel fatidico voto al Bundestag di fine gennaio per la risoluzione non vincolante sulla politica anti-migranti su iniziativa di Merz passata grazie ai voti AfD, seguìto due giorni dopo dal voto sul progetto di legge di simile indirizzo (votato anche da Bsw), stavolta respinto.

È a questo punto che insorge una sollevazione popolare, di dimensioni imponenti in tutto il Paese, contro Merz e la Cdu, per aver fatto cadere il cordone sanitario parlamentare contro l’AfD. In centri piccoli e grandi centinaia di migliaia di manifestanti scesi spontaneamente in piazza, e davanti alle sedi Cdu, hanno ribaltato il quadro soprattutto per la Linke, che prima sembrava spacciata. Il voto Linke è a favore dell’unico partito che con sicurezza mai si sarebbe coalizzato con la Cdu. Habeck, non poteva garantirlo, proprio perché “abbiamo fatto della disponibilità al dialogo la nostra cultura politica”. Mentre i giovani hanno voluto dare un segnale chiaro: “né con AfD, né con Cdu”.

L’analisi di Habeck, sorprendente per la sua schiettezza, pare calzante. In massa, ragazzi e soprattutto ragazze (al 35 percento) sotto i trenta anni hanno votato per la sinistra (24 percento), sotto ai 25 al 25, al primo voto addirittura al 27 percento, facendo della Linke il partito più votato in queste fasce d’età. Purtroppo al secondo posto nelle preferenze del “popolo” giovane si trova l’estrema destra, che diventa primo partito con il 32 percento dell’est (cinque Länder: Brandeburgo, Mecklenburgo-Pomerania, Sassonia, Sassonia-Anhalt e Turingia, qui record con il 38,6). Segue la Cdu al 18,7 e la Spd all’11,6. AfD si aggiudica quasi tutti i collegi a est, fatta eccezione per i due assegnati alla Linke: il collegio di Erfurt, capoluogo della Turingia, conquistato dall’ex presidente del Land Bodo Ramelow, e Lipsia II riconquistato dall’attuale co-capogruppo al Bundestag Sören Pellemann, che nel 2021 aveva garantito insieme ai due collegi vinti da Gregor Gysi e Gesine Lötzsch a Berlino la presenza al Bundestag.

A est la Linke ha il 13,4 e Bsw il 9,3. Ma Afd non avrebbe potuto trionfare senza il consenso raggiunto anche a ovest, dove diventa secondo partito con il 18 percento dopo la Cdu (23,5) e prima della Spd ferma al 17,6. Buona l’affermazione con il 7,6 di Linke che torna a superare il 5 percento anche in Baviera (2021: 2,8). La Linke si giova anche del voto di ex elettori Spd (560.000), di Fdp (100.000) e di Cdu/Csu (70.000).

Irruzione della sinistra sociale

La campagna elettorale si è concentrata quasi esclusivamente sull’immigrazione, come se la Germania, in recessione da un paio di anni, non dovesse affrontare in modo urgente altre sfide. Certo, le responsabilità dell’accoglienza si fanno sempre più onerose anche per quegli enti locali a cui non manca la volontà ma i mezzi finanziari per affrontarla. L’ostacolo più gravoso è costituito dal dogma del “freno al debito”, in realtà vero e proprio freno allo sviluppo del Paese che avrebbe bisogno di investimenti anche per le infrastrutture più elementari, molte in stato fatiscente, uno dei principali responsabili dell’attuale declino economico. Nell’emergenza del contrasto al fascismo la forza più affidabile, è sembrata essere la Linke.

Anche se l’immigrazione ha oscurato anche il tema del cambiamento climatico, non si può escludere che molti tra i giovani che animavano i Fridays for Future si siano adoperati nel porta-a-porta dei 600.000 indirizzi visitati campagna della Linke. Nuova linfa vitale immessa nel partito, messa subito all’opera sul territorio, 17.470 nuove adesioni dal 29 gennaio, giorno del voto sulla famigerata risoluzione antimigranti, persone soprattutto giovani mobilitate su temi sociali (caroaffitti, carovita, salute), che per la sinistra hanno fatto la differenza, nel giudizio del ricercatore demoscopico Peter Schöppner (Istituto Mentefactum), che per Handelsblatt, il quotidiano finanziario. Questi vede nel “timore per tagli drastici allo stato sociale” uno dei motivi del consenso per Linke, visto quel che “prospetta la Cdu a proposito del Bürgergeld”, il reddito di cittadinanza, e le vaghe enunciazioni della Spd, che soffre di un deficit di credibilità.

Anche questa si è concentrata troppo sull’immigrazione, afferma Schöppner. Invece la Linke si è presentata come un soggetto competente in temi sociali, che ha saputo parlare, dividendosi i compiti tra i dirigenti, a differenti gruppi di persone, come la giovane co-capogruppo Heidi Reichinnek, diventata una vera e propria star dei social, dopo la sua invettiva in Bundestag contro Merz, visualizzata trenta milioni di volte. È la strategia di comunicazione sui social in particolare TikTok e Instagram che ha contribuito al successo di Linke, come conferma il grande consenso tra l’elettorato giovane. Invece la campagna mediatica di Bsw è sembrata monocorde, sbiadita, dai toni nazionalistici anche nei colori sfumati che richiamano il tricolore tedesco, e concentrata sulla leader Wagenknecht dall’aspetto severo, gradita soprattutto alle fasce d’età più alte.

Dall’altra parte, anche il trio degli “anziani” e plurieletti della Linke nella loro autoironica “missione ciuffo d’argento”, capeggiata da Gregor Gysi che stravince con il 42 percento il suo collegio di Berlino, uno dei quattro conquistati nella capitale, riporta vigore insperato. Gysi vede così realizzata la sua aspirazione di tenere il discorso inaugurale del Bundestag da decano, con quasi 31 anni di attività parlamentare alle spalle. Di rilievo anche l’osservazione del politologo Oliver Lembke, che spiega il successo della Linke a fronte di “un’usura e dei molti compromessi di Spd e Verdi al governo coi Liberali” e con il riscontro nella società di una certa “risonanza per pacifismo e una solida critica nei confronti del capitalismo”. Temi sociali accompagnati da antifascismo e anticapitalismo sembrano un’ottima base di ripartenza. E in un clima di risentimento e caccia al migrante, il successo dell’unico partito in controtendenza contro il razzismo e a favore del rispetto del diritto di asilo e dell’accoglienza assume una valenza ancor più significativa.

Jan van Aken precisa che l’obiettivo è cambiare la maggioranza nella società e le migliaia di nuovi attivisti lasciano ben sperare. La grande sfida sarà di integrarli nel partito a tutti gli effetti, anche dopo la campagna elettorale a grande partecipazione. In un articolo su Jacobin edizione inglese, di Loren Balhorn parla di ultima chance di rinnovamento per Linke, che era sembrata trascurare il territorio a favore del parlamentarismo. “Non vogliamo lasciare l’est nelle mani di Afd”: il lavoro del porta a porta, come spiega la co-leader Ines Schwerdtner, ex direttrice dell’edizione tedesca di Jacobin, è stato anche un lavoro di tipo sociale. Si è parlato anche con chi ha dichiarato di voler votare AfD, e si è offerto un’assistenza di sportello, che ha destato interesse. Si intende così lavorare sul territorio con luoghi di consulenza sociale.

“Il parlamento e la società devono accompagnarsi l’un l’altra”, die Heidi Reichinnek. La crescita del partito sul territorio “sarà una maratona” che può durare dai quattro agli otto anni. La varietà della sinistra sociale irromperà anche al Bundestag, con le elette e gli eletti di varia ispirazione ed estrazione: “una vera rivoluzione culturale” scrive Raul Zelik sul quotidiano indipendente di sinistra, nd, ex proprietà del partito, dal 2022 una cooperativa. Certo, questo presenterà dei problemi, “ma è soprattutto una chance”.

La zattera rossa di Berlino in mezzo alla marea azzurra Afd

Con quasi il venti percento (19,9) e quattro collegi uninominali Linke diventa per la prima volta addirittura primo partito della capitale, 8,3 percento in più rispetto al 2021 e riportandosi ai successi dei primi anni (2009: 20,2 a pari merito con la Spd, prima Cdu con 22). Solo la Pds, il Partito del socialismo democratico aveva preso di più in una elezione del parlamento berlinese nel 2001 (22,6), ma mai si era piazzata al primo posto. Ines Schwerdtner riesce a strappare con un insperato 34 percento il collegio a una delle rappresentanti più (in)degne e inquietanti dell’AfD, Beatrix von Storch (21,9).

Per la prima volta si conquista un collegio a ovest, nel movimentato e culturalmente variopinto quartiere di Neukölln, con un candidato del tutto singolare: Ferat Koçac, con background di migrazione curdo, da sempre nel mirino di gruppi neonazisti che hanno dato fuoco alla sua auto sotto la sua abitazione, è una figura emblematica del quartiere, uno dei pochi che si spende anche pubblicamente per la causa palestinese. “Non ci volevo credere”, è stato il suo commento a caldo della clamorosa vittoria, su cui nessuno avrebbe scommesso, al 30 percento contro il 19 della candidata Cdu. Pascal Meiser strappa infine ai Verdi il collegio di Friedrichshain-Kreuzberg loro ex roccaforte per ben 23 anni.

La giovane Stella Merendino, di professione infermiera, manca per una manciata di voti la conquista del seggio uninominale di Mitte, il centro di Berlino, ma viene comunque eletta col voto di lista. Nella capitale amministrata da Cdu e Spd, mentre i conservatori aumentano di poco con il 18,3 dal 17,2, perde anche qui la Spd dal 22,2 al 15,1 che scivola dietro all’AfD che balza dal 9,4 del 2021 al 15,2. Calo consistente anche per i Verdi che passano dal 22 al 16,8, mentre Bsw ha raggiunto il 6,6, e i Liberali sono finiti ancor più in basso del voto a livello nazionale, con il 3,8. Cdu e Verdi si aggiudicano ciascuno tre mandati diretti, solo un collegio va a Spd e Afd, fortissima nei quartieri popolari situati più a est: per esempio Marzahn-Hellersdorf, con il seggio maggioritario e con punte proporzionali del 43 percento.

Nota 1: Regola dei tre mandati diretti (Direktmandat): 299 seggi su 630 al Bundestag vengono assegnati secondo il maggioritario uninominale, il resto su base proporzionale a seconda del consenso percentuale ottenuto con il voto di lista (bloccata, deliberata con assemblee/congressi di partito), con sbarramento al 5 percento. Se un partito conquista tre collegi uninominali ha diritto ad entrare in forza corrispondente alla percentuale raggiunta anche se inferiore al 5 percento. Dal 1990 la Pds/Linke ha fallito l’ingresso al Bundestag solo nel 2002 (due collegi conquistati, due deputate ma senza gruppo). Quest’anno per la prima volta si è votato secondo la nuova legge che limita I seggi a 630, per evitare le dimensioni elefantiache (2021: 737 seggi). Soprattutto la Cdu/Csu si era giovata dei “mandati in eccedenza”, cioè collegi uninominali in più rispetto al voto di lista, per compensare i quali si assegnavano più seggi del dovuto anche a tutte le altre liste di partito. Con la nuova legge I mandati in eccedenza vengono decurtati a partire da quelli che hanno registrato minore consenso. Per questo decade l’elezione diretta per 23 deputati: 15 Cdu, 4 AfD, 3 Csu e una Spd.

L’autrice: Paola Giaculli è traduttrice e commentatrice politica, collabora con Transform

In foto Ines Schwerdtner, Heidi Reichinnek e Jan van Aken. Guidano Die Linke Foto Ipa

Due anni dopo Cutro: il governo assente, la colpa a piede libero

Il mare restituisce sempre tutto. Corpi, verità, omissioni. Due anni fa, a Cutro, restituì novantaquattro vittime e un numero imprecisato di dispersi. Restituì un bambino senza nome, Kr16m0, poi riconosciuto come Mohammad Sina Hoseyni. Restituì la certezza di una tragedia evitabile e la fotografia di uno Stato che guardava altrove.

Due anni dopo, la memoria è lasciata alle famiglie, a qualche associazione, agli attivisti della Rete 26 febbraio. Non al governo, che non si è visto. Troppo impegnato a inasprire le pene contro chi tenta la traversata, troppo preso a blindare i confini e a scambiare uomini per statistiche. L’ha detto chiaro Assad Al Maliki, sopravvissuto siriano che ha visto il fratellino morire tra le onde: “Ci dicono irresponsabili, ma chi parla non conosce la Siria”. Il governo, con ogni evidenza, non conosce Cutro. Non sa cosa significhi lottare per un nome, per un corpo, per un diritto.

La presenza istituzionale si riduce a qualche dichiarazione di circostanza. L’assenza, invece, è una scelta politica. Come lo fu nel 2023, quando l’esecutivo andò a dieci chilometri dalle bare senza fermarsi a rendere omaggio ai morti. Come lo fu nel caso di Almasri, torturatore liberato e rimpatriato con un volo di Stato. Dicono di combattere gli scafisti, ma quelli veri se li riprendono in patria con tutti gli onori.

Ora iniziano i processi. Sei ufficiali e sottufficiali rischiano di rispondere di naufragio colposo e omicidio plurimo. “So’ migranti, poi vediamo”, scrivevano nelle chat mentre il caicco si spezzava. Un processo c’è. Ma non basterà. Perché la responsabilità politica è ancora a piede libero.

Buon mercoledì.

 

In foto, la spiaggia di Cutro (Araldica81)

Così Israele sta trasformando la Cisgiordania in una prigione a cielo aperto

Tuttə ci siamo chiestə come mai un accordo nella sostanza identico a quello già proposto da Biden nel maggio del 2024 sia stato accettato solo a metà gennaio 2025 da Netanyahu, a pochi giorni dall’insediamento del presidente Trump. Nessunə confidava nei sentimenti pacifisti di Donald Trump, così come nessunə ha creduto che la decisione potesse essere stata influenzata in alcun modo dalla volontà dell’amministrazione Usa di ridurre l’approvvigionamento militare o i fondi alla macchina bellica israeliana.

Alla ratifica dell’accordo sul cessate il fuoco sono sì seguite le dimissioni di Ben Gvir, ma non quelle di Smotrich, esponenti della politica israeliana ugualmente noti per le loro posizioni razziste, omofobe e genocidarie nei confronti della popolazione di Gaza. Già dal primo giorno di cessate il fuoco, la risposta a questa domanda è apparsa subito chiara: Trump ha probabilmente offerto a Netanyahu la graduale annessione della Cisgiordania e la promessa di pulizia etnica della Striscia. Dalla mattina di martedì, infatti, sono arrivate notizie di arresti di massa tra Betlemme e Hebron (Al-Khalil), ma soprattutto di operazioni su vasta scala a Jenin, area A, dove, secondo gli accordi di Oslo, i militari israeliani non avrebbero accesso né giurisdizione.

Ad oggi, sono chiusi quasi 763 dei 898 checkpoint militari presenti in Cisgiordania. I palestinesi che abitano in quest’area non possono muoversi per andare a lavorare, ricevere cure mediche o andare a scuola, tutte attività già altamente compromesse dopo il 7 ottobre, come documentato da diversi giornalisti e giornaliste sul campo. Nelle prime 72 ore di tregua con Gaza, nei territori occupati della Cisgiordania almeno 15 palestinesi sono stati uccisi, 13 dei quali a Jenin, incluso un ragazzo di 16 anni e una bambina di due, colpita alla testa da un cecchino mentre era in braccio alla madre, incinta del suo secondogenito. Contatti diretti da Jenin hanno condiviso video di demolizioni e uccisioni sommarie in mezzo alle strade. Dalle immagini che arrivano, sembra non resti più nulla del campo profughi di Jenin. Lo stesso sta avvenendo a Tulkarem e nei dintorni di Hebron.

Nel frattempo, centinaia di palestinesi sono statə costrettə a lasciare le loro case sotto la minaccia delle armi da parte dei soldati israeliani, mentre decine di persone, soprattutto giovani, sono state arrestate in modo arbitrario durante la notte. Le celle che si liberano con gli scambi di prigionierə, all’interno della cornice del cessate il fuoco, si riempiono immediatamente di nuovi detenuti. La Cisgiordania è diventata, infatti, una grande prigione, con coloni israeliani armati, forze di polizia, l’esercito e i servizi segreti, che conducono operazioni letali su larga scala.

Lo stesso nome dato a quest’ultima operazione su Jenin rimanda a un immaginario ben preciso: “Iron Wall”. The Iron Wall (Il Muro di Ferro) è infatti il lavoro seminale dell’intellettuale sionista Vladimir Jabotinsky. L’argomentazione centrale di Jabotinsky in questo volume era proprio che gli ebrei sarebbero riusciti a raggiungere pace e sicurezza in Palestina solo attraverso la creazione di una presenza militare forte e inflessibile, che scoraggiasse qualsiasi negoziazione o accordo con la popolazione araba autoctona. Scriveva: «Non può esserci alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi. Le popolazioni native, civilizzate o meno, hanno sempre opposto una resistenza ostinata ai colonizzatori».
L’applicazione di questa dottrina è lampante nelle continue operazioni militari a Gaza, in Cisgiordania e in aree come Jenin.

In un probabile progetto di annessione della Cisgiordania, con il benestare dell’amministrazione statunitense, i tentativi di resistenza a Jenin vanno necessariamente neutralizzati seguendo la dottrina dell’Iron Wall. Anche quanto successo alla fine del 2024, sempre a Jenin, si inserisce in questo quadro. A metà dicembre, infatti, è stato il turno delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese di tentare un primo indebolimento delle sacche di resistenza del campo. In questa occasione, i titoli dei giornali israeliani esprimevano grande soddisfazione nel vedere l’Autorità Palestinese che “finalmente” gestiva i propri problemi interni.

L’opinione pubblica in Cisgiordania, in quei giorni, era però divisa rispetto a quanto stava accadendo. Pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione a Jenin, un gruppo di studenti di una scuola di Ramallah, giunti in classe dove insegna un’amica palestinese, fremeva per discutere con noi i recenti sviluppi nel campo profughi di Jenin. Le opinioni degli studenti erano profondamente polarizzate. Da un lato, i giovani sostenitori dell’Autorità palestinese dipingevano le operazioni come necessarie per evitare che la Cisgiordania diventasse “un’altra Gaza”. Dall’altro, un altro gruppo di studenti sosteneva che i combattenti di Jenin stessero lottando per la libertà di tutta la Palestina. Alcune studentesse, sorelle di guerriglieri, insistevano poi sul fatto che la liberazione della Palestina sarebbe dovuta necessariamente passare per la Jihad.
Secondo fonti interne palestinesi, le forze dell’Autorità palestinese si sono unite anche alle operazioni in corso a Jenin a metà gennaio. Pare evidente che, come sottolinea Patrick Wolfe nella sua definizione di colonialismo d’insediamento, dove non arriva l’assimilazione, è necessario intervenire con l’eliminazione dei nativi.
Dall’altro lato della Cisgiordania, a sud, sono invece i coloni a dare fuoco alle case e alle automobili dei villaggi palestinesi nella zona di addestramento militare di Masafer Yatta. Qui, le violenze dei coloni e dell’esercito sono all’ordine del giorno, come raccontato anche nel documentario candidato agli Oscar No Other Land.

Ali Awad, attivista di Youth of Sumud, un’organizzazione palestinese che promuove la resistenza non violenta contro le demolizioni e gli sfratti nell’area di Masafer Yatta, è stato vittima di un attacco da parte dei coloni a Tuba, avvenuto domenica 26 gennaio. In questo attacco, la sua auto, l’unica del villaggio, è stata data alle fiamme. Tuba, senza quest’auto è altrimenti completamente isolata a causa del divieto imposto da Israele di costruire strade nella zona. Ali, insieme ad altri attivisti locali, pratica la resistenza non violenta ed è stato in Italia diverse volte per raccontare l’esperienza di lotta di quel fazzoletto di Palestina.
Giovedì 30 gennaio, infine, abbiamo assistito anche all’arresto di Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo ed europarlamentare indipendente eletta con Rifondazione comunista, attualmente alla guida di AssoPace Palestina. Si trovava proprio a Tuba per portare solidarietà a quelle comunità colpite dalla violenza dei coloni israeliani solo pochi giorni prima.

L’esercito israeliano ha trattenuto Morgantini insieme a Roberto Bongiorni, giornalista del Sole 24 Ore, che la stava accompagnando per un reportage sulle colonie israeliane. Sono stati fermati anche Mohammed Barakat, guida palestinese di Gerusalemme, e Sami Hureini, attivista del movimento Youth of Sumud. Quest’ultimo è stato rilasciato nella tarda serata di giovedì 30 gennaio, senza alcuna accusa formale, se non quella di aver violato una presunta “zona militare” – un’area palestinese dichiarata zona di addestramento militare negli anni 80 da Israele in una manovra del tutto unilaterale e contraria al diritto internazionale.

Sempre pochi giorni dopo il cessate il fuoco sono stati resi noti anche i piani dell’amministrazione statunitense su Gaza. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha proposto di trasferire i palestinesi dalla Striscia di Gaza verso paesi vicini come l’Egitto e la Giordania, suggerendo di «ripulire» il territorio per costruire resorts e stabilimenti balneari. In questo contesto, il presidente nordamericano ha anche dichiarato che i palestinesi non avranno diritto di tornare nella Striscia di Gaza.

Israele attacca e criminalizza qualsiasi tipo di resistenza: armata, non-violenta e internazionale. A Jenin interviene l’esercito con il pretesto della lotta al terrorismo, a Gaza si parla chiaramente di pulizia etnica mentre nei luoghi dove si pratica la non violenza come Tuba e At-tuwani entrano in azione i coloni.
La matrice di questa violenza e repressione è sempre la stessa, cambia solo chi la mette in atto.

L’autrice: Federica Stagni è ricercatrice al dipartimento di Scienze sociali e politiche alla Scuola normale superiore di Pisa

Lollobrigida brinda all’idiozia

La chiamavano l’era della post-verità e invece semplicemente è l’epoca in cui non ci si vergogna. Non ci si vergogna, ad esempio, di avere un ministro dell’Agricoltura che non sa più cosa inventarsi per difendere l’uso di alcol, ennesima ipocrisia delle libertà a corrente alternata.
Avremmo potuto avere un ministro che coscienziosamente affrontasse gli 800mila morti all’anno per abuso di alcol nella regione europea. Avremmo potuto ascoltare le azioni da intraprendere per quei 100mila minori che ogni anno abusano di alcol nonostante la legge ne vieti loro la vendita. Avremmo potuto sapere dei circa 1,3 milioni di giovani tra gli 11 e i 24 anni, di cui 660mila minori, che hanno consumato alcol in modalità rischiose per la salute. Oppure di quelli che, tra questi, il 18,9% dei maschi e il 13,3% delle femmine, hanno praticato il binge drinking, ossia l’assunzione di grandi quantità di alcol in breve tempo.

Il ministro Lollobrigida, invece, ha preferito spiegarci che «l’abuso di acqua può portarci alla morte», oltre a causare «una sudorazione eccessiva». Nell’era in cui non ci si vergogna, un ministro non ha contezza del fatto che l’acqua non è un pericolo per la salute pubblica. Nell’era in cui non ci si vergogna, un ministro accetta di rendersi ridicolo davanti al Paese pur di apparire come il fedele protettore delle lobby che si ritiene in dovere di rappresentare. Da ministro a testimonial, senza farsi sfiorare dal dubbio che l’effetto finale sia un dubbio persistente: quanto può fare male abusare di ministri così?

Buon martedì.

Vannacci prepara la trappola, Salvini inciampa sui binari

C’è un tratto grottesco nella parabola di Matteo Salvini: a furia di agitare il rosario, gli è rimasto in mano solo il filo spezzato. Il suo dominio sulla Lega, un tempo incontrastato, ora somiglia a un castello di carte pronto a crollare al primo soffio di vento. E il vento ha il volto del generale Roberto Vannacci, che della fedeltà a Salvini ha fatto una variabile dipendente dai propri interessi.

L’ultimo affronto arriva dalla Toscana, dove Vannacci sconfessa la candidata leghista Elena Meini e si prende la scena: il suo Mondo al contrario è già pronto a diventare una casa politica, se necessario anche in solitaria. Un messaggio chiaro: l’era di Salvini come leader indiscusso è finita. E mentre il ministro dei Trasporti insegue treni sempre più in ritardo e si attarda in battaglie di bandiera come il Ponte sullo Stretto, i suoi generali iniziano a disertare.

Salvini ha costruito il suo potere sulla propaganda, ma ora la realtà presenta il conto. Le urne non premiano, gli alleati ridono sotto i baffi e i colonnelli della Lega fiutano il cambio di stagione. Vannacci non è un incidente di percorso: è il segnale di un declino. E questa volta non basteranno selfie e felpe per rimettere insieme i cocci.

Buon lunedì.

Quella mano tesa di Vance ai neonazisti tedeschi

Mentre la presidente del Consiglio Meloni si prepara a partecipare alla convention della destra Usa (Cpac), dove Steve Bannon ha salutato a braccio teso, tornano in mente le parole del vicepresidente Usa JD Vance a Monaco. In quella stessa città che vide purtroppo il sorgere del nazismo, e che ospitò la conferenza del 1938 in cui si posero le basi del successivo conflitto mondiale, il nuovo vicepresidente parla di un free speech totalmente deformato rispetto all’alto ideale dei lumi. Ma d’altronde, come ben insegna il lavoro di Zeev Sternhell, il fascismo è programmaticamente anti-illuministico nel suo carattere reazionario estremo.

Vance arriva a dirci che non è Putin il pericolo, quello stesso Putin da cui arrivano, per bocca dei vari portavoce, attacchi durissimi la presidente Mattarella. No, Putin tutto sommato vuole difendere la tradizione nel suo Paese… Il pericolo è la stessa Unione Europea, e gli americani vedono l’unico modo per salvarci nel farci tornare alle singole nazioni, nello scompaginare il sogno di Spinelli, la novità sovranazionale uscita dal secondo conflitto mondiale, in realtà da secoli di un continente lacerato dalle guerre, un progetto straordinario per andare oltre ogni confine nel dialogo e nella comunanza umana.
Per Vance l’Unione è un pericolo per se stessa perché abbandona le tradizioni, quelle confessionali che Usa (e anche Italia) vogliono conculcare già dalla scuola, e attraverso la negazione di diritti individuali, su cui non può esistere una morale di Stato (concetto folle), perché al singolo deve restare la scelta, nella libertà che non tocca quella degli altri.

In realtà, forse, l’Unione è una minaccia strategica al predominio Usa, e anche russo, se si realizza veramente. Ma al momento, ci mostriamo inerti, fermi nel pantano generato dall’aver avviato il processo unitario a partire dall’aspetto economico, e non da quello che i padri fondatori, specie a Ventotene, avevano individuato come centrale, la cultura e dunque la politica. E tant’è, gli americani vogliono più soldi per la Nato, ma osteggiano una difesa comune del continente, e la Russia non ha problemi all’ingresso dell’Ucraina in UE, perché ritiene l’organismo irrilevante.

È chiaro che ancora non siamo stati in grado, come società nel suo complesso, di fare i conti e metabolizzare le vicende buie del nazifascismo. E così, la stampa di destra italiana ha esultato, parlando dell’arrivo a Monaco di Vance come di un nuovo sbarco in Normandia. Siamo ad un livello di cecità o manipolazione senza precedenti. Il discorso fatto a Monaco giorni fa è di una folle arroganza, già solo dal paragone senza fondamento tra l’influenza esercitata da un’attivista come Greta Thumberg e le plateali ingerenze dell’uomo più ricco del mondo, dotato di satelliti e canali di comunicazione personali, come Musk.
No, non può essere miopia, chi vede in Vance e nelle sue parole del positivo lo fa con malizia, c’è intenzione nell’assecondare questo progetto politico, che ci avvicina sempre più alla distopia de L’uomo nell’alto castello.

Ma come se non bastasse, le accuse di censura in Europa, di morte della libertà. Vance lamenta il controllo sul regolare svolgimento delle elezioni che si esercita in Europa, come una minaccia alla libera scelta delle persone. Ma la democrazia liberal-costituzionale non si riduce al voto, e soprattutto non possono darci lezioni coloro che, al grido fake dell’elezione rubata, nel gennaio 2021 hanno tentato un colpo di stato. Vance attacca proprio il principio fondamentale, quello che riconosce alla libertà dei singoli, per essere reciproca e di tutti, dei limiti, come quello di non offendere, che non va scambiato stupidamente col diritto di espressione.

Vance sfiora l’inquietante quando accosta una malcelata citazione voltairiana – «potremmo non essere d’accordo con le vostre opinioni, ma combatteremo per difendere il vostro diritto di esprimerle» – e l’aggressiva abitudine americana a voler esportare il suo concetto di democrazia: faremo questo «che siate d’accordo o meno». O ancora, quando rimprovera agli europei di mettere in prigione gli oppositori, minaccia mai fatta in questo continente, e invece promessa elettorale, forse in corso di realizzazione, con Trump.

E soprattutto, l’esaltazione di Afd, sulla scia di Musk. In recenti interviste, riportate nel programma tv Piazzapulita, esponenti del partito o delle sue giovanili parlano di legge sulla cittadinanza, ed evocano un preoccupante ritorno alla nazione di sangue, invocano deportazioni di massa. È un chiaro invito ad affidarsi agli epigoni del nazifascismo come distorta salvezza europea. Che l’amministrazione Usa lo faccia perché in fondo quello è il suo stesso progetto ideologico, o che lo faccia perché una svolta di questo tipo è funzionale a destabilizzare l’Europa, un rischio se veramente unita, poco importa. Il vicepresidente statunitense è venuto a dire all’Europa che no, non vogliono liberare dal nazismo, ma anzi ce lo raccomandano, con il carico di deportazioni, discriminazioni, propaganda fin nelle scuole, imposizione di una morale di stato reazionaria etc.

E veniamo a casa nostra. I leader europei si sono ritrovati a Parigi, per decidere come agire sulla questione Ucraina e sul nuovo asse Trump-Putin, asse non solo diplomatico ma di vera simpatia ideologica. Era il momento in cui dare un chiaro segnale, posizionarsi in modo netto. Meloni invece continua la sua strategia temporeggiante, che gioverà solo a lei e al suo rapporto con la destra estrema mondiale. E oltretutto, alla fin fine, se si guarda bene, si capisce che parte ha scelto, anche se per ora non può dichiararlo apertamente. “Non dobbiamo andare contro Trump”, ma è lui che vuole dividerci. “Dobbiamo lavorare con l’America”, ma questo nella loro prospettiva vuol dire solo avere Stati divisi, non l’Unione, così da poter esercitare ingerenze nelle nostre politiche a loro tornaconto (come tante volte è successo nella storia del secolo scorso). “L’America di Trump lavora ad una pace giusta per l’Ucraina”, peccato che la esclude, tornando alla logica delle sfere d’influenza, che non tutela i Paesi ma li usa come pedine. E cosa ancora più grave, la condivisione da parte di Meloni del discorso di JD Vance. Sono tutte facciate quando dice che Afd per lei non è un alleato, così come è una facciata, tatticamente utile, non entrare nel gruppo dei Patriots. Le affermazioni di Meloni ci dicono che è chiaramente vicina a chi sostiene questi partiti, e dunque ad un discorso che, alla vigilia delle elezioni in Germania, ha esortato l’Europa tutta  a votare nazista per cambiare (in peggio) la sua storia.

L’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, ricercatore e insegnante

In apertura il giuramento di Vance da vice presidente. Foto di Office of Vice President of the United States – https://twitter.com/VP/status/1881424590184067431, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=158280952

Milei e la truffa di San Valentino

Una foto di giovedì scorso a Washington ritrae Javier Milei e il suo idolo Elon Musk che brandisce una motosega color oro. E’ un regalo del presidente dell’Argentina Javier Milei al magnate sudamericano, in occasione di un suo viaggio negli Usa di particolare rilevanza: c’è in programma un incontro con la direttrice esecutiva dell’Fmi, Kristalina Georgieva, per accordarsi su un nuovo piano finanziario. Tutto normale, eccessi a parte, se Javier Milei non fosse coinvolto nella cripto-truffa che si è consumata la notte di San Valentino, per cui le opposizioni chiedono l’impeachment, mentre diversi studi di diritto internazionale si preparano ad azioni legali contro il presidente. Nella vicenda che segue non si parla solo di un uomo privo di senso delle istituzioni che dovrebbe rappresentare, anche da un punto di vista etico, ma di un inquietante alleanza tra destra sovranista e tecno-capitalismo che mette in pericolo tutti noi.

La sera del 14 febbraio, a San Valentino, Javier Milei posta su X e Instagram un messaggio di lancio della criptovaluta $LIBRA – token disponibile solo sulla piattaforma blockchain Solana – con un chiaro sostegno a un progetto privato, Viva la Libertad, per “incoraggiare la crescita dell’economia, finanziando le imprese e le start up argentine”. Grazie al suo sostegno, la moneta in poco tempo schizza da 0,000001 a 5,76 dollari. Tuttavia, con il passare delle ore, l’entusiasmo iniziale si trasforma in una catastrofe finanziaria, con il prezzo di $LIBRA che crolla di oltre il 90%. Secondo le stime degli esperti, sono 40mila le persone che hanno investito e perso un totale di 90 milioni di dollari circa.

Nel bel mezzo del crollo, e in odore di truffa, diversi follower cominciano a far circolare la voce che il profilo del “Loco” Milei è stato hackerato. Il presidente si rende conto della gravità della situazione, cancella il post e per rimediare, la mattina del giorno seguente, ne pubblica un altro. Ma la toppa è peggio del buco. Perché oltre a definire i suoi avversari politici «ratti immondi», chiarisce che con questo progetto «non ha alcun legame» e che «non era a conoscenza di tutti i dettagli» dell’operazione. Com’è possibile che un presidente si getti in un’azione così avventata? La verità è che non solo conosceva i dettagli dell’operazione, ma aveva incontrato più volte le persone dietro lo sviluppo della cripto-moneta: è di pubblico dominio la foto di un incontro del 30 gennaio alla Casa Rosada con il creatore di $LIBRA, lo statunitense e fondatore dell’impresa cripto Kelsier Ventures, Hayden Mark Davis, che con questa operazione speculativa si è portato a casa oltre 100 milioni di dollari.

Dopo un fine settimana di fuoco, lunedì scorso Javier Milei decide di tornare di nuovo sul caso in un’intervista sul piccolo schermo. Un confronto con un giornalista amico, tutto rigorosamente concordato e registrato, per scongiurare il bello della diretta (che poi sarà diffuso sui social il giorno seguente e creerà ulteriore scandalo). Anche in questo caso, un’altra toppa peggio del buco: davanti alla telecamera, il presidente dell’Argentina prima sostiene che di cripto «non ci capisco» e poi, riferendosi alle persone che hanno perso del denaro nella truffa, afferma che sono «consapevoli del rischio» e che lo hanno fatto «volontariamente». In qualche modo, è «come quando vai al casinò» o giochi «alla roulette russa». Il problema è che la pallottola se la sono beccata le persone, argentini o meno, che hanno deciso di investire nella criptovaluta, proprio perché gli è stato consigliato dal Presidente argentino. Come suggerisce Maximiliano Firtman, giornalista, esperto di IT e del mondo cripto, «senza le pubblicazioni del presidente, la truffa non sarebbe potuta avvenire perché nessuno conosceva la criptovaluta o aveva intenzione di investirci». La verità è che lui non è nuovo a queste vicende: già quando era deputato, aveva pubblicato delle truffe sulle criptovalute, la più famosa delle quali è stata quella di CoinX, per la quale non si è assunto alcuna responsabilità e aveva ammesso di essersi fatto pagare non meno di 10.000 dollari per la pubblicità. A sentir parlare il Presidente, pare di capire che, se c’è qualcuno truffato, è lui. Cioè un uomo che si definisce tecno-fanatico ed esperto di economia e finanza, si è fatto fregare in questo modo. Nel frattempo va a Washington a trattare con i massimi vertici del Fondo Monetario Internazionali per negoziare su nuovi prestiti.

Non sappiamo come andrà a finire questa vicenda a livello giudiziario. Sappiamo però che ha avuto ripercussioni a livello politico: in particolare ha creato delle piccole crepe all’interno del “triangolo di ferro” formato da Milei, sua sorella Karina (suo capo gabinetto) e Santiago Caputo (consigliere personale e architetto della vittoria di Milei). Soprattutto quando il Presidente, durante l’intervista televisiva, ha lasciato intendere che qualcuno ha sbagliato a farlo incontrare con i personaggi legati alla vicenda. Ma se nessun funzionario della Casa Rosada è stato ghigliottinato – come scrive Luciana Vázquez su La Nacion – è «perché si tratta di qualcuno troppo vicino al centro del potere».

Il Criptogate è una vicenda lontana, ma, in qualche modo, riguarda anche noi. Seppur con le dovute distinzione, c’è un filo conduttore che unisce i leader di questa destra sovranista: il delirio di onnipotenza. Il successo alle urne conferisce sì legittimità politica alla loro azione ma non gli consente di agire al di sopra dell’etica e della morale. Lo vediamo fare costantemente. Poi incorrono in errori clamorosi, insultano l’avversario e reagiscono goffamente (si scrive Criptogate, ma si può leggere Almasrigate). Un secondo elemento di riflessione riguarda l’alleanza della destra con le big tech e la cripto-finanza. In questo caso la politica, che in teoria dovrebbe controllare e regolare il tecno-capitalismo, gli fa da megafono e facilita la sua azione pervasiva all’interno della società: grazie all’attività promozionale sui social dei politici-influencer, le persone comuni, magari piccoli risparmiatori, maturano l’idea distorta secondo cui investire in questi asset è un modo per ottenere denaro in modo semplice e rapido. Ma come abbiamo visto in questo caso, la realtà nuda e cruda è che i piccoli risparmi, grazie alla speculazione, diventano ottime prede per i pescecani che nuotano nelle acque della finanza.

L’autore: Simone Careddu è giornalista e ricercatore
Foto da video us.gov