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Quella mano tesa di Vance ai neonazisti tedeschi

Mentre la presidente del Consiglio Meloni si prepara a partecipare alla convention della destra Usa (Cpac), dove Steve Bannon ha salutato a braccio teso, tornano in mente le parole del vicepresidente Usa JD Vance a Monaco. In quella stessa città che vide purtroppo il sorgere del nazismo, e che ospitò la conferenza del 1938 in cui si posero le basi del successivo conflitto mondiale, il nuovo vicepresidente parla di un free speech totalmente deformato rispetto all’alto ideale dei lumi. Ma d’altronde, come ben insegna il lavoro di Zeev Sternhell, il fascismo è programmaticamente anti-illuministico nel suo carattere reazionario estremo.

Vance arriva a dirci che non è Putin il pericolo, quello stesso Putin da cui arrivano, per bocca dei vari portavoce, attacchi durissimi la presidente Mattarella. No, Putin tutto sommato vuole difendere la tradizione nel suo Paese… Il pericolo è la stessa Unione Europea, e gli americani vedono l’unico modo per salvarci nel farci tornare alle singole nazioni, nello scompaginare il sogno di Spinelli, la novità sovranazionale uscita dal secondo conflitto mondiale, in realtà da secoli di un continente lacerato dalle guerre, un progetto straordinario per andare oltre ogni confine nel dialogo e nella comunanza umana.
Per Vance l’Unione è un pericolo per se stessa perché abbandona le tradizioni, quelle confessionali che Usa (e anche Italia) vogliono conculcare già dalla scuola, e attraverso la negazione di diritti individuali, su cui non può esistere una morale di Stato (concetto folle), perché al singolo deve restare la scelta, nella libertà che non tocca quella degli altri.

In realtà, forse, l’Unione è una minaccia strategica al predominio Usa, e anche russo, se si realizza veramente. Ma al momento, ci mostriamo inerti, fermi nel pantano generato dall’aver avviato il processo unitario a partire dall’aspetto economico, e non da quello che i padri fondatori, specie a Ventotene, avevano individuato come centrale, la cultura e dunque la politica. E tant’è, gli americani vogliono più soldi per la Nato, ma osteggiano una difesa comune del continente, e la Russia non ha problemi all’ingresso dell’Ucraina in UE, perché ritiene l’organismo irrilevante.

È chiaro che ancora non siamo stati in grado, come società nel suo complesso, di fare i conti e metabolizzare le vicende buie del nazifascismo. E così, la stampa di destra italiana ha esultato, parlando dell’arrivo a Monaco di Vance come di un nuovo sbarco in Normandia. Siamo ad un livello di cecità o manipolazione senza precedenti. Il discorso fatto a Monaco giorni fa è di una folle arroganza, già solo dal paragone senza fondamento tra l’influenza esercitata da un’attivista come Greta Thumberg e le plateali ingerenze dell’uomo più ricco del mondo, dotato di satelliti e canali di comunicazione personali, come Musk.
No, non può essere miopia, chi vede in Vance e nelle sue parole del positivo lo fa con malizia, c’è intenzione nell’assecondare questo progetto politico, che ci avvicina sempre più alla distopia de L’uomo nell’alto castello.

Ma come se non bastasse, le accuse di censura in Europa, di morte della libertà. Vance lamenta il controllo sul regolare svolgimento delle elezioni che si esercita in Europa, come una minaccia alla libera scelta delle persone. Ma la democrazia liberal-costituzionale non si riduce al voto, e soprattutto non possono darci lezioni coloro che, al grido fake dell’elezione rubata, nel gennaio 2021 hanno tentato un colpo di stato. Vance attacca proprio il principio fondamentale, quello che riconosce alla libertà dei singoli, per essere reciproca e di tutti, dei limiti, come quello di non offendere, che non va scambiato stupidamente col diritto di espressione.

Vance sfiora l’inquietante quando accosta una malcelata citazione voltairiana – «potremmo non essere d’accordo con le vostre opinioni, ma combatteremo per difendere il vostro diritto di esprimerle» – e l’aggressiva abitudine americana a voler esportare il suo concetto di democrazia: faremo questo «che siate d’accordo o meno». O ancora, quando rimprovera agli europei di mettere in prigione gli oppositori, minaccia mai fatta in questo continente, e invece promessa elettorale, forse in corso di realizzazione, con Trump.

E soprattutto, l’esaltazione di Afd, sulla scia di Musk. In recenti interviste, riportate nel programma tv Piazzapulita, esponenti del partito o delle sue giovanili parlano di legge sulla cittadinanza, ed evocano un preoccupante ritorno alla nazione di sangue, invocano deportazioni di massa. È un chiaro invito ad affidarsi agli epigoni del nazifascismo come distorta salvezza europea. Che l’amministrazione Usa lo faccia perché in fondo quello è il suo stesso progetto ideologico, o che lo faccia perché una svolta di questo tipo è funzionale a destabilizzare l’Europa, un rischio se veramente unita, poco importa. Il vicepresidente statunitense è venuto a dire all’Europa che no, non vogliono liberare dal nazismo, ma anzi ce lo raccomandano, con il carico di deportazioni, discriminazioni, propaganda fin nelle scuole, imposizione di una morale di stato reazionaria etc.

E veniamo a casa nostra. I leader europei si sono ritrovati a Parigi, per decidere come agire sulla questione Ucraina e sul nuovo asse Trump-Putin, asse non solo diplomatico ma di vera simpatia ideologica. Era il momento in cui dare un chiaro segnale, posizionarsi in modo netto. Meloni invece continua la sua strategia temporeggiante, che gioverà solo a lei e al suo rapporto con la destra estrema mondiale. E oltretutto, alla fin fine, se si guarda bene, si capisce che parte ha scelto, anche se per ora non può dichiararlo apertamente. “Non dobbiamo andare contro Trump”, ma è lui che vuole dividerci. “Dobbiamo lavorare con l’America”, ma questo nella loro prospettiva vuol dire solo avere Stati divisi, non l’Unione, così da poter esercitare ingerenze nelle nostre politiche a loro tornaconto (come tante volte è successo nella storia del secolo scorso). “L’America di Trump lavora ad una pace giusta per l’Ucraina”, peccato che la esclude, tornando alla logica delle sfere d’influenza, che non tutela i Paesi ma li usa come pedine. E cosa ancora più grave, la condivisione da parte di Meloni del discorso di JD Vance. Sono tutte facciate quando dice che Afd per lei non è un alleato, così come è una facciata, tatticamente utile, non entrare nel gruppo dei Patriots. Le affermazioni di Meloni ci dicono che è chiaramente vicina a chi sostiene questi partiti, e dunque ad un discorso che, alla vigilia delle elezioni in Germania, ha esortato l’Europa tutta  a votare nazista per cambiare (in peggio) la sua storia.

L’autore: Matteo Cazzato è dottore in filologia, ricercatore e insegnante

In apertura il giuramento di Vance da vice presidente. Foto di Office of Vice President of the United States – https://twitter.com/VP/status/1881424590184067431, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=158280952

Milei e la truffa di San Valentino

Una foto di giovedì scorso a Washington ritrae Javier Milei e il suo idolo Elon Musk che brandisce una motosega color oro. E’ un regalo del presidente dell’Argentina Javier Milei al magnate sudamericano, in occasione di un suo viaggio negli Usa di particolare rilevanza: c’è in programma un incontro con la direttrice esecutiva dell’Fmi, Kristalina Georgieva, per accordarsi su un nuovo piano finanziario. Tutto normale, eccessi a parte, se Javier Milei non fosse coinvolto nella cripto-truffa che si è consumata la notte di San Valentino, per cui le opposizioni chiedono l’impeachment, mentre diversi studi di diritto internazionale si preparano ad azioni legali contro il presidente. Nella vicenda che segue non si parla solo di un uomo privo di senso delle istituzioni che dovrebbe rappresentare, anche da un punto di vista etico, ma di un inquietante alleanza tra destra sovranista e tecno-capitalismo che mette in pericolo tutti noi.

La sera del 14 febbraio, a San Valentino, Javier Milei posta su X e Instagram un messaggio di lancio della criptovaluta $LIBRA – token disponibile solo sulla piattaforma blockchain Solana – con un chiaro sostegno a un progetto privato, Viva la Libertad, per “incoraggiare la crescita dell’economia, finanziando le imprese e le start up argentine”. Grazie al suo sostegno, la moneta in poco tempo schizza da 0,000001 a 5,76 dollari. Tuttavia, con il passare delle ore, l’entusiasmo iniziale si trasforma in una catastrofe finanziaria, con il prezzo di $LIBRA che crolla di oltre il 90%. Secondo le stime degli esperti, sono 40mila le persone che hanno investito e perso un totale di 90 milioni di dollari circa.

Nel bel mezzo del crollo, e in odore di truffa, diversi follower cominciano a far circolare la voce che il profilo del “Loco” Milei è stato hackerato. Il presidente si rende conto della gravità della situazione, cancella il post e per rimediare, la mattina del giorno seguente, ne pubblica un altro. Ma la toppa è peggio del buco. Perché oltre a definire i suoi avversari politici «ratti immondi», chiarisce che con questo progetto «non ha alcun legame» e che «non era a conoscenza di tutti i dettagli» dell’operazione. Com’è possibile che un presidente si getti in un’azione così avventata? La verità è che non solo conosceva i dettagli dell’operazione, ma aveva incontrato più volte le persone dietro lo sviluppo della cripto-moneta: è di pubblico dominio la foto di un incontro del 30 gennaio alla Casa Rosada con il creatore di $LIBRA, lo statunitense e fondatore dell’impresa cripto Kelsier Ventures, Hayden Mark Davis, che con questa operazione speculativa si è portato a casa oltre 100 milioni di dollari.

Dopo un fine settimana di fuoco, lunedì scorso Javier Milei decide di tornare di nuovo sul caso in un’intervista sul piccolo schermo. Un confronto con un giornalista amico, tutto rigorosamente concordato e registrato, per scongiurare il bello della diretta (che poi sarà diffuso sui social il giorno seguente e creerà ulteriore scandalo). Anche in questo caso, un’altra toppa peggio del buco: davanti alla telecamera, il presidente dell’Argentina prima sostiene che di cripto «non ci capisco» e poi, riferendosi alle persone che hanno perso del denaro nella truffa, afferma che sono «consapevoli del rischio» e che lo hanno fatto «volontariamente». In qualche modo, è «come quando vai al casinò» o giochi «alla roulette russa». Il problema è che la pallottola se la sono beccata le persone, argentini o meno, che hanno deciso di investire nella criptovaluta, proprio perché gli è stato consigliato dal Presidente argentino. Come suggerisce Maximiliano Firtman, giornalista, esperto di IT e del mondo cripto, «senza le pubblicazioni del presidente, la truffa non sarebbe potuta avvenire perché nessuno conosceva la criptovaluta o aveva intenzione di investirci». La verità è che lui non è nuovo a queste vicende: già quando era deputato, aveva pubblicato delle truffe sulle criptovalute, la più famosa delle quali è stata quella di CoinX, per la quale non si è assunto alcuna responsabilità e aveva ammesso di essersi fatto pagare non meno di 10.000 dollari per la pubblicità. A sentir parlare il Presidente, pare di capire che, se c’è qualcuno truffato, è lui. Cioè un uomo che si definisce tecno-fanatico ed esperto di economia e finanza, si è fatto fregare in questo modo. Nel frattempo va a Washington a trattare con i massimi vertici del Fondo Monetario Internazionali per negoziare su nuovi prestiti.

Non sappiamo come andrà a finire questa vicenda a livello giudiziario. Sappiamo però che ha avuto ripercussioni a livello politico: in particolare ha creato delle piccole crepe all’interno del “triangolo di ferro” formato da Milei, sua sorella Karina (suo capo gabinetto) e Santiago Caputo (consigliere personale e architetto della vittoria di Milei). Soprattutto quando il Presidente, durante l’intervista televisiva, ha lasciato intendere che qualcuno ha sbagliato a farlo incontrare con i personaggi legati alla vicenda. Ma se nessun funzionario della Casa Rosada è stato ghigliottinato – come scrive Luciana Vázquez su La Nacion – è «perché si tratta di qualcuno troppo vicino al centro del potere».

Il Criptogate è una vicenda lontana, ma, in qualche modo, riguarda anche noi. Seppur con le dovute distinzione, c’è un filo conduttore che unisce i leader di questa destra sovranista: il delirio di onnipotenza. Il successo alle urne conferisce sì legittimità politica alla loro azione ma non gli consente di agire al di sopra dell’etica e della morale. Lo vediamo fare costantemente. Poi incorrono in errori clamorosi, insultano l’avversario e reagiscono goffamente (si scrive Criptogate, ma si può leggere Almasrigate). Un secondo elemento di riflessione riguarda l’alleanza della destra con le big tech e la cripto-finanza. In questo caso la politica, che in teoria dovrebbe controllare e regolare il tecno-capitalismo, gli fa da megafono e facilita la sua azione pervasiva all’interno della società: grazie all’attività promozionale sui social dei politici-influencer, le persone comuni, magari piccoli risparmiatori, maturano l’idea distorta secondo cui investire in questi asset è un modo per ottenere denaro in modo semplice e rapido. Ma come abbiamo visto in questo caso, la realtà nuda e cruda è che i piccoli risparmi, grazie alla speculazione, diventano ottime prede per i pescecani che nuotano nelle acque della finanza.

L’autore: Simone Careddu è giornalista e ricercatore
Foto da video us.gov

L’era dell’eversione internazionale

Donald Trump, dalla Casa Bianca, ha deciso che lui e il suo governo sono al di sopra della legge. Le leggi nazionali e, ancor di più, il diritto internazionale sono insignificanti se si oppongono a chi fa «il bene del Paese» ed è solo lui a decidere cosa sia il bene.

Trump e Putin, novelli campioni dell’autocrazia internazionale, si sono riuniti nella capitale mondiale delle plutocrazie per decidere quale sia la pace giusta per l’Ucraina: riabilitazione dell’imperialismo di Mosca, taglieggiamento dell’Ucraina, disarticolazione dell’Unione europea.

In Italia il governo vuole a gran voce la separazione delle carriere per la giustizia, spiegandoci che magistrati e giudici vanno troppo spesso troppo d’accordo. Sono troppo politicizzati, dicono. Ieri un giudice ha smentito le volontà di un magistrato e la separazione delle carriere è finita nel cesso. Giudice politicizzato pure lui.

Sul banco degli imputati c’è un sottosegretario condannato in primo grado per aver commesso un reato nello svolgimento delle sue funzioni. La sua difesa in tribunale ha spiegato che Delmastro non sapeva, per questo non è stato all’altezza. Meloni se ne frega: per lei il suo sottosegretario è innocente e questo ci dovrebbe bastare.

Nel frattempo Gaza è diventata uno scempio politico, oltre che umanitario. L’ultima proposta è di trasformarla in un parco dei divertimenti senza l’ombra di un palestinese. Intanto la verità è scomparsa: ognuno ha la sua, e chi ha più soldi possiede la più potente.

È il tempo dell’eversione internazionale.

Buon venerdì.

Francesco Valle, il santo del pizzo: l’ipocrisia nei necrologi della mafia

Francesco Valle era un uomo di “grande forza e bontà”, dice la famiglia. Anche gli atti giudiziari certificano la sua forza: era il capo della ‘ndrangheta tra Cisliano e Vigevano, condannato a oltre vent’anni per mafia e usura. I suoi affari ruotavano attorno a minacce, racket e videopoker, con la sua rete familiare a garantire il controllo del territorio. Un uomo d’onore, nel senso più stretto del termine. Onore che non ha impedito di schiacciare commercianti e imprenditori sotto il peso dei debiti imposti con la pistola sul tavolo.

Eppure, la memoria pubblica ha una curiosa amnesia selettiva. Muore un boss e la narrazione si ripulisce, le condanne diventano parentesi sbiadite, i necrologi scivolano nel ricordo privato e rispettoso. Non stupisce che i figli vogliano preservare l’immagine del patriarca, ma quando la mafia viene raccontata con le parole del mito, allora siamo di fronte a un problema più grande. Perché la forza della criminalità organizzata non sta solo nei soldi e nella violenza, ma nell’aura che si costruisce intorno.

Un “esempio di amore”. Lo hanno detto davvero. La vera domanda è: amore per chi? Per le vittime dell’usura? Per gli imprenditori costretti a versare il pizzo? Per gli affiliati che rispettavano il codice del silenzio? L’ipocrisia si nasconde nel linguaggio. I boss non muoiono mai solo come criminali, ma sempre come uomini di famiglia, benefattori, “grandi saggi”. La ‘ndrangheta lo sa bene: si tramanda nel sangue e nelle parole. E le parole, come sempre, funzionano più del piombo.

Buon giovedì. 

Il governo non sa, non vede, non sente. Ma spia

In Italia alcuni giornalisti e attivisti (sette in tutto) sono stati spiati con uno spyware dell’azienda Paragon. I giornalisti e gli attivisti intercettati sono tutti identificabili come “avversi” al governo, nella logica da stadio che il governo stesso alimenta fin dal suo insediamento. Persone poco gradite e spiate.

Il governo nega qualsiasi responsabilità, dicendo di non saperne nulla. Gli spiati vengono avvisati da Meta, con un messaggio WhatsApp.

Il Guardian scrive che, in seguito a questo, Paragon Solutions ha stracciato il contratto con l’Italia. Netta la smentita pubblica giovedì 14 marzo: «Nessuno ha rescisso in questi giorni alcun contratto con l’intelligence». Non passano 24 ore e il 15 marzo invece viene comunicato lo stop.

Poi si scopre che lo spyware Graphite non sarebbe stato utilizzato solo dai servizi segreti, che si avvalgono dei più efficaci dispositivi sul mercato, ma anche da un’altra forza di polizia.

Tutte le forze di polizia smentiscono, tranne la Penitenziaria. I servizi – l’Aise – confermano di usarlo, ma non contro giornalisti e attivisti. Il Pd e Italia Viva chiedono al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, di confermare l’eventuale utilizzo dello spyware da parte delle procure e della polizia penitenziaria.

«Le uniche notizie divulgabili sulla vicenda Paragon sono già state fornite dal governo. Il resto non è divulgabile». Lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano.

Quindi niente question time. Non è possibile sapere.

Buon mercoledì.

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Scrutare di nuovo l’orizzonte

La considerazione che si può azzardare nel rapidissimo sconvolgimento degli scenari internazionali innescato dall’avvento della seconda amministrazione Trump, è che la forma di globalizzazione che conosciamo sia finita.
L’aggressività dell’amministrazione Usa è ben rappresentata dall’annuncio portato in Europa dal vicepresidente di Trump, J.D. Vance, che la questione Ucraina sarà affrontata su un tavolo composto da Usa e Russia al quale per noi non c’è, semplicemente, posto. Impensabile immaginare quali potranno essere le conseguenze di un simile approccio.
Intanto, sul tavolo dei fenomeni macroeconomici ha fatto irruzione la politica dei dazi dell’amministrazione Usa.

Per fare alcune considerazioni nel merito possiamo affidarci alla visione espressa dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, in un intervento tenuto al Forex il 15 febbraio a Torino. A partire dalle tensioni e dai mutamenti che investono gli scambi internazionali, che Panetta così descrive: «Molti Paesi stanno concentrando le relazioni commerciali su partner considerati affidabili, con cui hanno relazioni consolidate o affinità politiche ed economiche. Questa tendenza sta ridisegnando la geografia del commercio, gli scambi tra paesi appartenenti a blocchi geopolitici contrapposti e aumentando quelli tra economie politicamente allineati». E il governatore aggiunge: «La riconfigurazione del commercio appena delineata, in cui hanno un peso considerevole le motivazioni geopolitiche, sta indebolendo il sistema multilaterale di governance economica globale fondato sull’integrazione produttiva e sul libero scambio. Il commercio internazionale viene sempre più utilizzato come leva strategica, soprattutto nella competizione tecnologica».

In tutto questo, a che punto è l’Europa? La sua economia è stagnante, il Pil praticamente fermo, la domanda interna debole, «le aspettative di una ripresa trainata dai consumi e sostenuta dall’occupazione sono state ripetutamente disattese» e «in base ai dati più recenti, la ripresa potrebbe tardare ulteriormente». «A soffrire di più è il settore manifatturiero, che continua a perdere quote di mercato».
Che fare, dunque? «L’Europa deve adottare un nuovo modello di sviluppo che valorizzi il mercato unico e riduca la dipendenza da fattori esterni. Vanno rilanciati gli investimenti, che da anni sono inferiori rispetto a quelli degli Stati Uniti e la cui carenza è particolarmente evidente se confrontata con l’elevata capacità di risparmio del nostro continente». Ma, avverte Panetta, «non basta investire di più. È necessario investire meglio, privilegiando i progetti e le riforme in grado di innalzare la produttività, la cui bassa crescita rappresenta il principale fattore di debolezza dell’economia europea. In cima alla lista vi sono i settori innovativi, che rappresentano il motore della produttività; in particolare quelli legati alla doppia transizione, ambientale e digitale, che svolgono un ruolo cruciale anche per l’autonomia strategica europea, come nel caso dell’energia. Le risorse necessarie sono ingenti, e richiedono un contributo sia pubblico sia privato. Gli interventi vanno realizzati con azioni congiunte a livello europeo, al fine di realizzare economie di scala e di evitare le duplicazioni che deriverebbero da interventi frammentati a livello nazionale. Serve quello che, in un recente intervento, ho definito un ‘patto europeo per la produttività’ […] avviare un programma di spesa comune – mirato negli obiettivi e limitato nel tempo e nell’ammontare – per finanziare investimenti indispensabili per tutti i cittadini europei».

Il governatore della Banca d’Italia Panetta

«Oltre a rafforzare il potenziale di crescita degli Stati membri, questa iniziativa consentirebbe di generare un’offerta stabile di titoli comuni europei privi di rischio, un tassello essenziale per la creazione di un mercato unico dei capitali capace di finanziare progetti innovativi, compresi quelli più rischiosi. Le priorità e le strategie per rafforzare la competitività dell’economia europea sono chiare e ampiamente analizzate. La vera sfida, ora, è metterle in pratica».
Il ragionamento di Panetta si svolge, dunque, nel solco molto vicino a quello impostato da Mario Draghi nel suo Rapporto sulla competitività europea. Un approccio che appare sempre più consistente. Oggi non dobbiamo solo accettare di doverci confrontare con due giganti economici come, appunto, gli Usa e la Cina. Ma dobbiamo anche affrontare, con molto realismo, l’indifferenza di Trump e dei suoi per una qualsiasi forma di destino comune costruito di concerto. Per l’America di Trump è necessario che l’Europa divenga una “astrazione geografica”, priva di peso e di autonomia decisionale. E, perciò, inevitabilmente, assai più debole e più povera. È ora di scrutare di nuovo l’orizzonte.

L’autore: L’ex ministro Cesare Damiano è presidente dell’associazione Lavoro&Welfare

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Funambola senza rete: Meloni oscilla tra Usa e Ue, ma nessuno si fida

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni

Giorgia Meloni continua a muoversi su un filo sottile, oscillando tra fedeltà agli Stati Uniti e il tentativo di mantenere una parvenza di autonomia in Europa. Il vertice di Parigi lo ha dimostrato ancora una volta: da un lato, l’adesione all’aumento delle spese militari, un segnale lanciato a Washington; dall’altro, il rifiuto di discutere dell’invio di truppe in Ucraina, un gesto di prudenza che la allontana da Macron e dai “volenterosi” dell’Unione europea. 

L’equilibrismo, però, si sta rivelando sempre più una zavorra. La premier si ritrova in una posizione scomoda, costretta a rassicurare Trump, con cui condivide la diffidenza verso l’Unione europea, e a non irritare troppo i partner continentali, che guardano con sospetto la sua ambiguità. La sua strategia di evitare scelte nette rischia di tradursi in un isolamento doppio: non abbastanza allineata con i falchi europei, non abbastanza determinata per guadagnarsi un posto di rilievo nell’agenda di Washington. 

Meloni è una funambola su un filo sempre più sottile, con il rischio di precipitare nel vuoto. A Parigi ha cercato di tenere a bada Macron, senza però offrire alternative credibili. La sua prudenza sull’invio di truppe può sembrare buon senso, ma la verità è che non c’è nessuna strategia. L’Italia, in questa partita, non incide: annuisce agli Stati Uniti senza ottenere garanzie, si accoda alle decisioni europee senza influenzarle davvero. E così, mentre le alleanze si ridisegnano con una rapidità senza precedenti, Meloni resta impantanata in un’ambivalenza che non paga. Non a Bruxelles, non a Washington, non a Roma.

Buon martedì.

Così Londra voleva deportare i migranti in Ruanda

The Barge è il nome che gli abitanti di Portland hanno dato alla “nave-prigione” Bibby Stockholm. Per mesi è rimasta ancorata nel porto della cittadina del Regno Unito, ed è la rappresentazione plastica della feroce politica migratoria britannica.

Nell’ambito del programma il Fattore Umano il 18 febbraio  (su Rai3 alle 23,10) è andato in onda Mare dentro di Irene Sicurella e Fabio Colazzo, reportage che racconta gli ultimi giorni di questa nave. Si può rivedere su Raiplay.

Ecco il racconto per Left della coautrice del documentario

migranti a Portland, frame del reportage tv Mare dentro

«È come essere psicologicamente detenuti. Cerco di uscire ogni giorno perché non voglio stare seduto lì, mi deprimo. Ci sono tante persone, invece, che non escono mai. Penso che molti stiano soffrendo in silenzio». Con queste parole, John, trentenne kenyota, descrive la sua vita a bordo della Bibby Stockholm, un enorme colosso galleggiante senza motore, grande come un campo da calcio, approdato a Portland, nel sud-ovest dell’Inghilterra, nell’estate del 2023. Simbolo brutale dell’aggressiva politica migratoria dell’ex primo ministro Rishi Sunak, la “Bibby” è stata costruita per gli operai delle piattaforme petrolifere e fino a qualche anno fa è servita allo scopo per cui era nata. Accogliere in letti singoli poco più di 200 lavoratori che restavano lì tutt’al più qualche settimana. E invece ha lasciato il suo ultimo porto d’attracco e al seguito del suo piccolo rimorchiatore è arrivata, quasi a passo d’uomo, a Portland, con una nuova missione: ospitare – tutti i letti singoli sono diventati a castello – un massimo di 500 richiedenti asilo, esclusivamente uomini, in attesa di essere chiamati a fare il colloquio per richiedere lo status di rifugiato.
Sull’isola ci è rimasta più di anno e mezzo, fino a fine gennaio scorso, quando, ormai svuotata, ha lasciato le coste britanniche. Il contratto con l’azienda proprietaria non è stato rinnovato: troppe proteste e costi troppo alti. Alla prova dei fatti, la soluzione si è rivelata tutt’altro che conveniente rispetto agli alloggi in hotel, come aveva invece proclamato a gran voce Sunak.
Intanto, però, la chiatta ha lasciato dietro di sé molto più di un fallimento logistico: centinaia di vite da ricostruire, forse altrettanti traumi. A bordo hanno trovato alloggio, chi per qualche settimana, chi per molti mesi, uomini di qualsiasi nazionalità: afgani, sudanesi, pakistani, colombiani, somali, kenioti, a volte scappati da terre che in pochi da queste parti sapremmo trovare su una mappa, come il Belucistan. Centinaia di vite lasciate indietro e da ricominciare, di ferite da metabolizzare in fretta, perché nel limbo logorante dell’attesa non si poteva mollare mai il colpo.

Spiaggia di Portland, frame dal reportage tv Mare dentro

Leonard Farruku era albanese e aveva 27 anni quando si è tolto la vita in una delle camere della Bibby Stockholm, a inizio dicembre del 2023. Dopo aver perso, molto giovane, entrambi i genitori, aveva attraversato la Manica su un gommone, era andato a vivere in un hotel e poi, sotto richiesta del Ministero dell’interno, sulla chiatta.
L’avevano visto angosciato, le ore prima. Aveva confidato che le condizioni a bordo non erano pessime, ma che il personale li trattava come criminali.
La mattina dopo mi sono alzato presto. Volevo andare nella sala di informatica, dove si può usare il computer. Ma c’era la sicurezza e un sacco di polizia. Mi hanno detto: “Non puoi entrare. C’è un’indagine in corso. Un ragazzo si è tolto la vita, si è ucciso. Ho pensato: “questa cosa è orribile. Sono arrivato qui solo ieri”. Poi sono andato a prendere un caffè vicino alla spiaggia. Quando sono tornato alla chiatta, ho visto l’ambulanza portare via il corpo del ragazzo. Era tutto vero. Mi sono detto: “È questo il modo in cui si esce da qui? La gente qui dentro è così stressata che si uccide”.

Salah corre, frame dal reportage tv Mare dentro

Salah ha 26 anni, è scappato dalla Somalia che ne aveva 16, dopo che la tribù rivale ha ammazzato suo padre ed è venuta a cercarlo. Nove anni di viaggio infernali attraverso i lager della Libia, la traversata del Mediterraneo su un barchino di fortuna, il passaggio di Ventimiglia, due anni da senzatetto a Parigi, la giungla di Calais e un furgone su cui si è infilato di nascosto per arrivare in Gran Bretagna. Eppure quel suicidio lo ha scioccato. Non riusciva credere che quel posto facesse così impazzire. E invece ne ha presto conosciuto la routine: sorvegliati da telecamere, sottoposti ai raggi X ad ogni ingresso e ad ogni in uscita, anche quella di cinque minuti, per la sigaretta salva stress. Nessuno oltre loro poteva salire lì dentro. E poi un autobus blu allo scoccare di ogni ora per essere scortati fuori e dentro dal porto, a piedi era vietato. L’ultimo alle dieci di sera: se lo perdevi, niente cena, e soprattutto, niente rientro. Iniziava la ricerca di un posto dove passare la notte, tentando di scansare la paura che potesse diventare un’annotazione sul dossier ministeriale e pregiudicasse tutto.
La Bibby Stockholm a Portland non si vedeva, era nascosta in un porto privato sotto la collina più alta dell’isola. La spiaggia ventosa che ha ospitato gli sport velici delle olimpiadi di Londra 2012 piena di corpi paffuti e bianchi, scoperti a raccogliere i soli estivi o imbaccucati nella pioggia fredda a portare i cani a passeggiare. La chiatta ferma, chiusa al mondo, in fondo, dietro le ultime case. Lontana dagli occhi, lontana dalle coscienze. Il giorno in cui è arrivata però, i cittadini si sono fatti sentire. Due fazioni che una cosa sola avevano in comune: quella barca non l’avrebbero voluta lì. Da una parte chi la trovava disumana, ma era pronto ad accogliere i migranti in arrivo, dall’altra chi invece non li voleva proprio lì, perchè “500 nuove persone su un’isola di tredicimila sono troppe”, perché le differenze culturali erano un rischio, perché “sono tutti uomini e fanno paura”, perché l’unico medico di base dell’isola non ha posto per gli inglesi, figuriamoci per gli altri. E c’è chi su queste divisioni ha cercato di cavalcare l’onda, come Voice of Wales, Patriotic Alternative o il British National Party, i partiti di estrema destra corsi in tutta fretta a Portland a fomentare le proteste anti-immigrati, a esacerbare le sofferenze.

Pub inglese frame dal reportage tv Mare dentro

Poi è arrivato il 4 luglio 2024, quando la sinistra di Keir Starmer ha riconquistato il Regno Unito dopo un impero conservatore di 14 anni. Il giorno seguente alla sua elezione, Starmer ha cancellato l’accordo tra Gran Bretagna e Ruanda che garantiva la possibilità di inviare richiedenti asilo arrivati illegalmente nel Regno Unito nel paese africano. Una forzatura che al tempo aveva fatto reagire anche la Corte suprema e l’Onu.
Ma sembra che poco altro sia cambiato. L’idea di “esternalizzare” e confinare i migranti continua ad affascinare tanti, ma a funzionare poco. Fa forse fa un po’ gola anche al nuovo premier inglese, che a settembre scorso, parlando con Giorgia Meloni dei due centri per richiedenti asilo costruiti dall’Italia in Albania, sembrava mostrare il suo interesse per il nuovo modello.
Peccato che dall’Albania i migranti tornino inesorabilmente indietro ogni volta. Le Corti d’appello, a cui è affidata la convalida dei trattenimenti, continuano a rigettare i fermi, così come avevano fatto le sezioni Immigrazione dei tribunali. E ora il governo discute un cambio di rotta: trasformarli in veri e propri centri per il rimpatrio nel tentativo di evitare che rimangano ancora deserti per mesi. Un altro fallimento. Logistico, politico, umano.

IL FATTORE UMANO È un format di Raffaella Pusceddu e Luigi Montebello, regia di Luigi Montebello, musiche originali di Filippo Manni e Massimo Perin. La puntata da titolo Mare dentro di Irene Sicurella e Fabio Colazzo va in onda martedì 18 febbraio, alle 23.10 – Rai 3

L’autrice: Irene Sicurella è giornalista

Tutela dei diritti nel nome di Giordano Bruno: laicità contro i soprusi della Chiesa

La filosofia di Bruno è la squilla della libertà: non ci può essere libertà senza il prerequisito della laicità, base di ogni patto democratico di civile convivenza democratica. 
Come ogni 17 febbraio in Campo de’ Fiori a Roma rendiamo onore al Nolano, perché la memoria di quel rogo sia fiamma contro l’oscurantismo

Giordano Bruno, 425 anni fa, dopo lunghi anni di carcere e sofferenze (fu sottoposto anche a tortura almeno due volte: a maggio del 1597 e a settembre del 1599), a piedi scalzi e con la lingua stretta nella mordacchia, veniva condotto dal carcere del Sant’Uffizio a piazza Campo de’Fiori per essere bruciato vivo. Era l’alba del 17 febbraio del 1600, e la Chiesa cattolica, che aveva voluto quella morte atroce, celebrava in quell’anno il suo Giubileo.
Il Santo tribunale dell’Inquisizione Romana, presieduto personalmente dal papa, l’aveva condannato al rogo perché «eretico, impenitente, pertinace» ed anche i suoi scritti, posti all’indice dei libri proibiti, venivano dati alle fiamme.
Sono gli anni in cui la Chiesa, attraverso la sua macchina inquisitoriale, che si alimentava della delazione e del sospetto indotto, del terrore del rogo e di torture a volte anche più crudeli della morte, sferrava uno dei più pesanti attacchi repressivi contro quanti osassero pensare con la propria testa e rivendicassero il diritto di scegliere visioni del mondo e comportamenti di vita non omogenei e funzionali alle sue opinioni.
Bruno non può non scontrarsi col potere dominante perché si assume il “fastidio” di pensare.
E fastidito si era definito nella sua commedia, Candelaio. Un unico termine, fastidito, che diviene monogramma esistenziale di chi non subisce il mondo, ma vive nel mondo e incide nel mondo. Senza il dubbio (demone) del fastidio contro il conforme e il fideistico, Bruno non avrebbe potuto maturare la sua rivoluzionaria filosofia. Una filosofia che ha fatto paura e che fa paura ancora a molti per la sua attualità straordinaria. Un pensiero che costringe a fare i conti con le proprie piccolezze e ristrettezze mentali. Perché non ammette zone grigie. Perché è un atto d’accusa contro l’opportunismo, la pavidità, la rassegnazione, che producono – scrive Bruno – il «servilismo che è corruzione contraria alla libertà e dignità umana». La sua filosofia fa paura perché è una condanna inappellabile per chi vorrebbe l’umanità eterna minore: “gregge” “asino” “pulcino” “pulledro” (sono i termini che usa Bruno). In uno stato di perenne minorità. Incapace di intendere e di volere. Bisognosa quindi di padrini, padri protettori, padreterni. Tanto più pericolosi quanto più assoluti. Un’umanità in ginocchio nella speranza del miracolo e delle intercessioni degli unti del signore, che nelle simoniache alleanze sguazzano.
Bruno mette a nudo i meccanismi psicologici e consolatori, che riducono gli uomini ad asini obbedienti che si fanno «guidare – scrive – con la lanterna della fede, cattivando [imprigionando] l’intelletto a colui che gli monta sopra et, a sua bella posta, l’addrizza e guida».
Giordano Bruno è un intellettuale scomodo perché condanna la menzogna, l’ipocrisia, l’ignoranza. Soprattutto se a praticarla sono i così detti “dotti”. «La sapienza e la giustizia iniziarono a lasciare la terra – scrive – dal momento che i dotti, organizzati in consorterie, cominciarono ad usare il loro sapere a scopo di guadagno. Da questo ne derivò che … gli Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi assieme ai saggi …e ai popoli».
In un contesto storico come quello attuale, dove il senso della ragionevolezza sembrerebbe smarrito nella ripresa del fideismo religioso che si fa anche terrorismo, nel mentre spettri nazifascisti avanzano, noi bruniani, nell’anniversario del martirio di Giordano Bruno vogliamo rimettere al centro più che mai il valore della Laicità, supremo principio della nostra Carta costituzionale repubblicana.
Niente è più prezioso della Laicità, perché le garanzie di convivenza civile non possono venire da supposte rivelazioni, ma dal patto laico di cittadinanza, a tutela della dignità di ciascuno e nel diritto di ciascuno a essere l’esclusivo proprietario della sua vita. Sempre e ovunque, come sancisce la nostra Costituzione che vincola lo Stato repubblicano a rimuovere gli ostacoli che impediscono autonomia e autodeterminazione individuali.
Senza laicità non c’è democrazia. Non c’è libertà, né giustizia, né uguaglianza di pari opportunità. Ma solo sopruso.
La laicità è allora essenza e motore della democrazia per concretizzare l’uguaglianza nei diritti umani, nell’impegno politico a produrre benessere sociale, rispetto reciproco. Per uscire dalla caverna della sottomissione individuale e sociale, sperimentando il coraggio della libertà.
Bruno vuole un mondo di individui pensanti e liberi. Per questo ha accolto con entusiasmo la Rivoluzione copernicana, che sviluppa e amplifica nel suo straordinario infinito. In tutta una serie di successive e concentriche rivoluzioni. Eccole in sintesi:
– Al principio divino, sostituisce la Natura – Materia – Vita autosufficiente. Quindi perfetta, divina, nella sua infinita autonoma capacità di generare gli infiniti fenomeni. In natura niente si crea e niente si distrugge.
Alla conoscenza prefissata nel modulo dell’anima creata, sostituisce la fisicità della mente corpo funzione biologica. Insomma come dirà Crick, lo scopritore insieme a Watson della catena del DNA: «come la bile è una secrezione del fegato, l’anima è una secrezione della mente».  Contro il confessionalismo del precetto, rivendica la libertà dell’etica nella sua autonomia ed autodeterminazione per ciascun essere umano. Perché ognuno è proprietario della propria vita. Responsabile del progetto di vita che vuole per sé. Comunque e sempre.
Alla politica del potere di pochi, contrappone quella della cittadinanza per tutti.
Usciti dalla gabbia del geocentrismo, dove «gli erano mozze l’ali», gli esseri umani possono finalmente spiccare il volo e «liberarse de le chimere» di un cielo superiore e una terra inferiore.
E il Nolano chiama ogni essere umano a spiccare questo volo per sperimentare le infinite possibilità di pensare, conoscere, agire. Per diventare, «possendo formar altre nature, altri corsi, altri ordini con l’ingegno», «cooperatori dell’operante natura». Penetrando le leggi fisiche della materia-vita. Dove tutto è corpo animato e infinita trasformazione nel suo particolare caratterizzarsi fenomenico.
La «natura materia madre, che partorisce dal suo grembo all’infinito le sue forme», non ha bisogno di altro che di se stessa. È autosufficiente nella costanza del suo autonomamente farsi.
Non c’è più bisogno di creazionismo, né di provvidenzialismo, né di finalismo.
Il Nolano ha squarciato il velo! E la favola delle immaginarie sacralizzate essenze si schianta su questa materia-vita-infinita-totale-universale-essere, di cui ogni essere umano nella sua fisicità fa parte. E proprio nella sua fisicità può scoprire, conoscere, agire. E in questo si è maghi. Si è dei a se stessi.
La magia di Bruno è conoscenza. È sviluppo della capacità di indagine e ricerca per analizzare i legami chimici degli elementi naturali, i profondi nessi causali tra tutte le cose: «magia – scrive – è la contemplazione della natura e scoperta dei suoi segreti».
E il nostro filosofo scrive: «Approvo quello che si fa fisicamente e procede per apotecàrie [farmaceutiche] ricette… Accetto quello che si fa chimicamente»; «Ottimo e vero è quello che non è sì fisico che non sia anche chimico e matematico».
Questa è la magia per Giordano Bruno, contro la «magia di disperati» «di chi invoca supposte intelligenze occulte con riti preghiere formule».
La magia è allora arte della conoscenza, magia di conoscenza, «potenza cogitativa» che sa tessere interrelazioni rappresentative. È memoria ragionata, che sviluppa pensiero problematico. Elabora giudizi fondati.
E Bruno sottolinea la fisicità di questo processo intellettuale: «la ricerca ragionata dei dati particolari, è il primo accostarsi al cibo, la loro collocazione nei sensi esterni ed interni, è una forma di digestione» per «progredire nelle operazioni dell’intelligenza», per «vedere con gli occhi dell’intelligenza».
La memoria dunque, in questo incessante processo di scomposizione e ricomposizione di «atomi corporei-mentali» (li chiama proprio così) è «conoscenza del nuovo». Esercizio di continua trasmigrazione concettuale. Succedersi di cicli conoscitivi conclusi, che si riaprono a sempre nuovi cicli di diversificate acquisizioni (le pitagoriche trasmigrazioni di cui parla).
Ma perché questo accada, bisogna superare «l’abitudine di credere, impedimento massimo alla conoscenza».
Bisogna allora impegnarsi a “spacciare” (scacciare) via l’ottusità della fede asinina attraverso una radicale renovatio. Per fare spazio alle infinite possibilità delle individuali singolarità. Quelle che ancora oggi l’integralismo cerca di reprimere.
È il confessionalismo di potere che considera l’umanità eterna minore, e che per questo vuole riappropriarsi del controllo della scuola, della ricerca, della scienza …
Contro tutto questo e molto altro ancora, la filosofia di Bruno è la tromba del riscatto perché – come scrive- «la vita vera … sta nelle nostre mani». Ognuno ha intelletto e mani, afferma Giordano Bruno, ma è la mano, l’operosità, l’agire che ci rende intelligenti.
Christian René de Duve, premio Nobel per la medicina (1974) ha scritto: «L’Homo sapiens, quello che possiede conoscenza, deriva dall’Homo habilis, colui che sapeva usare le mani». Un bel riconoscimento per il nostro Giordano Bruno, che a proposito di evoluzionismo secoli prima di Darwin scriveva che senza la mano «l’uomo in luogo di camminare serperebbe, in luogo d’edificarsi palaggio si caverebbe un pertuggio, e non gli converrebbe la stanza, ma la buca». E ancora «dove sarebbero le istituzioni de dottrine, le invenzioni de discipline, le congragationi de cittadini, le strutture de gl’edificij et altre cose assai, che significano la grandezza et eccellenza umana […]? Tutto questo se oculatamente guardi, si referisce non tanto principalmente al dettato de l’ingegno, quanto a quello della mano organo de gl’organi».
Insomma, è l’azione che fa la differenza! Ed è sul primato dell’agire che Bruno prospetta la sua riforma politico-sociale. Invitando a costruire Repubbliche, a rimuovere le ingiustizie, perché il Paradiso – scrive Bruno – bisogna costruirlo in terra, o almeno cercare di far diventare la terra meno inferno. Ecco allora, che alla religione del regno dei cieli, Bruno contrappone la religione civile, che è legame politico-sociale. Legame umano per vivere in pace e serenità. Nella civile pacifica convivenza: «dove – sostiene il Nolano – la quiete de la vita sia fortificata e posta in alto […] dove non si dee temer d’altro che d’essere spogliato dall’umana perfezione e giustizia». Ovvero spogliato della dignità. Dei diritti umani, che garantiscono l’emancipazione individuale e sociale. Che, come aveva ben capito il Nolano, esiste soltanto se è tutelata nel patto sociale.
Patto costituzionale lo chiamiamo oggi. Vincolo per ciascuno a rispettarlo, perché è la garanzia che la mia libertà inizia contemporaneamente a quella di ciascun altro. Nei diritti e nei doveri. E solo su queste basi di laicità – cultura dell’emancipazione e dell’uguaglianza – si può costruire una società più giusta ed equa, dove ognuno sia tutelato contro il sopruso, il familismo … la prepotenza.
«La legge – scrive Bruno – faccia che gli potenti per la loro preminenza e forza non sieno sicuri». E aggiunge: «gli potenti sieno più potentemente compressi e vinti» affinché «gli deboli non siano oppressi».
Insomma bisogna avere la certezza del diritto e costruire le condizioni del diritto: per l’emancipazione individuale e sociale. Perché a nessuno continua: «non gli sia oltre lecito d’occupare con rapina e violenta usurpazione quello che ha commune utilitate». (Spaccio).
Ecco il bene comune! I beni comuni!
E proprio sulla questione dei diritti sociali e dei beni comuni, passa oggi la riaffermazione della dignità di ciascuno, anche contro l’arroganza di un liberismo selvaggio che assicura la ricchezza a pochi, e a tutti gli altri la certezza di una vita sempre più precaria. …
Attenzione, la ricchezza non è un male – sostiene il nostro filosofo – se è risultato del lavoro che consente l’emancipazione a cui tutti devono essere posti nella condizione di accedere. Ma, cara Ricchezza – scrive – sei da scacciare via « quando amministri alla violenza, quando resisti a la giustizia […] e non sei quella, che dai fine a’ fastidi e miserie, ma che le muti e cangi in altra specie».
Insomma, poiché il sopruso trova sempre il modo di metabolizzarsi. Ecco allora la necessità di affermare per il bene comune il principio dell’uguaglianza delle opportunità: «non è possibile – afferma il nostro filosofo – che tutti abbiano una sorte; ma è possibile ch’a tutti sia ugualmente offerta».
Insomma libertà e democrazia nell’accesso ai diritti. E se questo non avviene, – continua Bruno – dipende «dalla inegualità, iniquità ed ingiustizia di voi altri, che non fate tutti equali e che avete gli occhi delle comparazioni, distinzioni, imparitadi ed ordini, con gli quali apprendete e fate differenze. Da voi, da voi, dico, proviene ogni inegualità, ogni iniquitade». Gli uomini possono produrre le ingiustizie. Gli uomini possono rimuoverle. Ecco allora in sintesi il programma attualissimo della Riforma di Giordano Bruno: fornire l’istruzione a tutti perché ognuno possa emanciparsi; rimuovere gli ostacoli degli svantaggi individuali, sociali ed economici; togliere i privilegi; deporre i tiranni; costruire le Repubbliche e rafforzarle; scegliere governanti onesti. Perché individui si diventa. Perché l’appartenenza nella cittadinanza è nostra costruzione.
Cittadinanza democratica, di cui la laicità è motore e baluardo contro il sopruso.

L’appuntamento: L’associazione nazionale del Libero Pensiero “Giordano Bruno” come ogni anno ricorderà il filosofo Giordano Bruno il 17 febbraio in Campo de’ Fiori a Roma (dalle ore 17). Con interventi di Giulia Gazerro “L’eco di Bruno: uomo natura cultura in un universo dinamico, di Luca Tedesco “Il Libero Pensiero a Roma nel 1904: l'(in)attualità di un congresso” e di Maria Mantello: Laicità è democrazia. A seguire i recitativi di Annachiara Mantovani. E infine cori di canti popolari nella continuazione dello spirito bruniano, diretti da Sara Modigliani.

L’autrice: Maria Mantello è saggista e presidente dell’Associazione nazionale del libero pensiero Giordano Bruno

Segreti, minacce e depistaggi: il governo insegue i suoi fantasmi

Il sottosegretario Alfredo Mantovano

Mi pare che sia passato molto sotto traccia l’articolo pubblicato lo scorso 11 febbraio su Il Foglio a firma di Luca Gambardella. All’interno si legge che, dopo la figuraccia mondiale del governo Meloni con la liberazione del capo della polizia libica Osama al Najem, detto “Almasri”, il capo dell’Aise, Giovanni Caravelli, sarebbe volato in Libia per “escogitare un piano per evitare nuovi episodi imbarazzanti”. Il Foglio scriveva che “Caravelli ha incontrato il premier libico Abdulhamid Dabaiba e il procuratore capo di Tripoli, al Sidiq al Sour, con i quali si è confrontato sui nominativi riservati di alcuni libici su cui la Corte penale internazionale ha emanato un mandato d’arresto. Il capo dell’Aise ha informato chi di questi potrà viaggiare in Italia in futuro senza il rischio di essere arrestato”.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi, Alfredo Mantovano, rispondendo ai giornalisti alla Camera, ha smentito la ricostruzione parlando di “calunnia in libertà” e ha promesso di querelare il giornalista e la testata.

Nel frattempo, abbiamo scoperto che l’attivista sudanese David Yambio (che ha denunciato d’essere stato vittima delle torture di Almasri) è indagato dalla procura di Palermo. L’abbiamo saputo – anche lui – da un articolo de Il Giornale, che però ha indicato come indagato Luca Casarini di Mediterranea, sebbene non lo sia. L’informazione era contenuta in un documento riservato del Viminale indirizzato ai servizi. Yambio è tra gli spiati con lo spyware Graphite di Paragon, che però non è in uso in quella Procura.

Tutto bene?
Buon lunedì.