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Quando c’è la salute pubblica

Abbiamo scelto di destinare alla sanità stanziamenti record, portando nel 2025 il Fondo sanitario nazionale a 136,5 miliardi di euro e ad una spesa pro-capite di 2.317 euro», ha detto la presidente del Consiglio Meloni. Aggiungendo elogi alla «detassazione delle retribuzioni per le prestazioni aggiuntive che servono ad abbattere i tempi delle liste d’attesa». La propaganda impera dalle parti di Palazzo Chigi. Purtroppo la verità è un’altra. In proporzione al Pil il governo di centrodestra ha ridotto l’investimento sulla sanità. E, nonostante promesse e decreti, le liste d’attesa per visite e accertamenti sono lunghissime e prevedono tempi ciclopici. Tanto che ormai, come documenta la Fondazione Gimbe, sono 4 milioni e mezzo gli italiani che rinunciano a curarsi, e più di 2,5 milioni rinunciano per ragioni economiche perché l’unica alternativa è rivolgersi a strutture private. Da questo dato di realtà siamo partiti per fare un lungo viaggio nella sanità in Italia rivolgendoci alle voci più competenti sul campo, tra cui studiosi come Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, e sindacalisti come Andrea Filippi, segretario nazionale della Fp Cgil medici e dirigenti Ssn. E abbiamo chiesto ai responsabili Sanità delle principali forze di sinistra presenti in Parlamento una disamina critica della politica del governo Meloni, chiamandoli ad avanzare concrete proposte.

Una vera opposizione, ampia e popolare, non può che partire da qui: dalla difesa e dal rilancio della sanità pubblica e universalistica, asse democratico di coesione sociale, imprescindibile perché basato sull’uguaglianza. La lezione della pandemia è stata durissima e chiara: senza investimenti sulla medicina territoriale, senza investimenti sul personale e sulla ricerca è impossibile affrontare emergenze pandemiche che potrebbero riproporsi. Ma quei medici e quegli infermieri che avevamo chiamato eroi quando erano in prima linea per salvare vite umane oggi sono dimenticati dal governo e dalla maggioranza, che invece di sostenere e promuovere chi ha lavorato giorno e notte per campagne di vaccinazione di massa pensa di togliere le multe ai no vax e mette in piedi una Commissione Covid chiamando a “testimoniare” contro le misure adottate in quei due anni difficilissimi una sequela di improbabili personaggi e di incompetenti. Sono tantissimi ormai i medici che, massacrati da impossibili turni di lavoro, lasciano il servizio pubblico. E moltissimi sono i giovani medici, infermieri e ricercatori costretti a trasferirsi all’estero perché altrove la loro identità professionale è maggiormente riconosciuta ed è adeguatamente remunerata. Il governo di destra non fa nulla per arginare questa emorragia. Anzi, appoggia e accelera una privatizzazione che avanza a passi da gigante, come documenta su questo numero il docente della Sapienza Ferdinando Terranova. La ricetta della destra è sempre la stessa: si svuotano i servizi pubblici, si depauperano di fondi e competenze per poi poter dire che il pubblico non funziona e va privatizzato. Beninteso non è un meccanismo nato ora. Il definanziamento della sanità pubblica, purtroppo, va avanti da tempo. Basti dire che negli ultimi quindici anni le sono stati tolti 37 miliardi. Oggi con il ministro della Sanità Schillaci – campione per assenza – abbiamo però toccato lo zenit. Nella Finanziaria hanno previsto solo 2,5 miliardi per la Sanità, quando lo stesso ministro ne chiedeva almeno 5. (Intanto se ne investono almeno 12 sul Ponte di Messina e la spesa militare è di 32 miliardi).

Ma dobbiamo essere onesti e dirla tutta: anche se miracolosamente il governo riprendesse ad investire in sanità (cosa che non è, e anzi pensa a distruggere il diritto universale di accesso alle cure con l’autonomia differenziata) si rischierebbe di finanziare un sistema attuale incardinato sul modello neoliberista basato sulle “Asl azienda”, che hanno come mission il profitto e che non rispondono ai bisogni e alle esigenze dei cittadini perché trattano la salute come se fosse una merce. Perciò torniamo a ribadire che per salvare un bene comune inestimabile come il servizio sanitario pubblico serve un radicale cambiamento culturale e di politica sanitaria sul territorio. E solo una sinistra con una più complessa visione dell’essere umano (senza scissione fra realtà psichica e fisica per dirla in estrema sintesi), che metta al centro la lotta alle disuguaglianze, può compiere questa rivoluzione. Ricreando e rilanciando la democratizzazione sottesa alla legge 833 che soppresse il sistema mutualistico e istituì il Ssn nel 1978, in quel fondamentale decennio dei diritti che furono (nonostante tutto) gli anni Settanta punteggiati da conquiste come lo Statuto dei lavoratori, il divorzio e – come ci ricordano Enzo Ciconte, Benedetta Tobagi e Paola Agosti su questo Left – contrassegnati da leggi che puntavano alla abolizione del patriarcato: un retaggio granitico e violento, che (almeno) sul piano giuridico è stato sconfitto con la riforma dello Statuto di famiglia e istituendo 50 anni fa (con la legge 405/19) i consultori come servizi di base a tutela della salute della donna, del bambino e della coppia e della famiglia. Questi fondamentali presidi pubblici, essenziali per promuovere la contraccezione e che potrebbero essere anche utili presidi per l’aborto farmacologico, sono invece depotenziati dal governo Meloni e resi terreno di propaganda religiosa e confessionale ad uso di associazioni anti abortiste e contro i diritti delle donne. Anche da qui, dalla difesa e dal rilancio della rete territoriale dei consultori, contro chi ancora accusa le donne che decidono di abortire di essere delle assassine, potrebbe ripartire una coalizione di sinistra che avesse ben chiaro che senza il pieno riconoscimento dell’identità e delle donne non ci può essere democrazia degna di questo nome. Ma per farlo ci vuole una concezione nuova dell’idea stessa di salute, che non è solo salute fisica ma anche psichica. Per questo, tornando a porre al centro il tema della sanità rilanciamo la battaglia dei giovanissimi che, con sensibilità e consapevolezza nuove, chiedono più attenzione alla salute mentale a scuola e non solo. Perciò torniamo a parlare dell’importanza dell’ampliamento della rete territoriale dei centri di salute mentale e della battaglia per la psicoterapia nei presidi pubblici, contro le politiche dei bonus – inefficaci e controproducenti – cavallo di battaglia (di retroguardia) del governo Meloni.

In apertura, disegno di Marilena Nardi

Un pensiero nuovo per una nuova Europa

Trump non smentisce se stesso e le promesse fatte ai suoi elettori: ha iniziato la sua presidenza con una raffica di iniziative che hanno lasciato sbalordito il mondo, in particolare gli interlocutori europei. Anche se quella di Trump è una modalità sicuramente eccessiva nell’affermare le priorità per gli Usa, come abbiamo già più volte scritto su Left si tratta di un riposizionamento degli Stati Uniti che sta avvenendo ormai da tempo. A 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e a 25 anni dall’ingresso della Cina nel Wto, gli Stati Uniti stanno progressivamente perdendo il ruolo di prima potenza economica del mondo. Già adesso la Cina da sola produce circa il 30% della manifattura mondiale, sostanzialmente pari alla manifattura di Usa, Ue e Giappone messi insieme.

Il superamento della Cina sugli Usa in termini di manifattura è in realtà avvenuto ben 15 anni fa, nel 2010. Nei 25 anni dal 2000, la Cina è passata da un Pil di 1.200 miliardi di dollari (ingresso nel Wto) ad un Pil stimato per quest’anno di circa 20mila miliardi di dollari. È una crescita del 12% all’anno per 25 anni. Nello stesso periodo gli Usa sono passati da 10mila a 28mila miliardi di Pil, ossia una crescita del 4,2% l’anno per 25 anni e l’Eu da 9mila miliardi a 19mila miliardi di dollari, ossia una crescita di circa il 3% l’anno.

La crescita impetuosa della Cina ha resistito alle tante crisi che si sono verificate in questi anni: crisi finanziaria del 2008, crisi della Ue nel 2015, pandemia nel 2020, guerra in Ucraina nel 2022. La novità di questi anni, e la grande preoccupazione americana, è che questa crescita non è solo nella manifattura perché ormai da diversi anni la Cina è diventata anche una potenza nell’innovazione, settore che è sempre stato monopolio degli Usa.

Per capire meglio possiamo considerare ad esempio la spesa in ricerca e sviluppo: la Cina è passata dall’1% del Pil nel 2020 al 2,8% del Pil attuale. Considerando la crescita del Pil che è stata di circa 20 volte, è un aumento di spesa di oltre 50 volte in 25 anni ossia un aumento annuale di risorse per la ricerca di oltre il 17% all’anno! Inutile sottolineare la miopia delle classi politiche italiane che hanno invece sempre tagliato i fondi alla ricerca…

Gli effetti di questa crescita di risorse per la ricerca in questo quarto di secolo sono quello che vediamo oggi: la Cina è leader mondiale nella quantità di brevetti registrati (tra il 2015 e il 2020 sono stati il 37% del totale) e nella produzione scientifica (supera Ue e Usa nella produzione di articoli scientifici).

Oltre a questo, nel 2020 la pandemia ci ha fatto realizzare quanto il sistema economico occidentale sia dipendente dalla Cina. Questo ha portato l’Europa e gli Usa a ripensare le catene produttive cercando, laddove possibile, di rendersi più indipendenti dalla produzione cinese. Le azioni che vediamo oggi messe in atto da Trump sono in realtà in perfetta continuità con una volontà, non solo americana, di recuperare questa autonomia nel confronto con la Cina. Per gli Usa è una questione non solo di primato economico ma anche e forse soprattutto di sopravvivenza di un modello politico, sociale e culturale che di fatto è diventato nel dopoguerra il riferimento unico per l’Occidente. Ed è incredibile pensare che noi europei siamo stati accecati per decenni su un sistema che ha enormi contraddizioni. Così accecati che continuiamo a definire gli Stati Uniti come la “più grande democrazia del mondo” e non si capisce se questa grandezza si riferisca al numero degli elettori. In realtà non sono poi così tanti se confrontati per esempio con l’India. Quanto alla struttura dello Stato e al bilanciamento dei poteri – lo abbiamo capito, in questi ultimi giorni in modo evidente – hanno più di qualche problema.

Ecco allora che anche l’Europa non è più strategica per gli Usa e quindi diventa un problema economico. Di conseguenza anche il Medio oriente diventa non più strategico, visto che ormai gli Usa sono autonomi da un punto di vista energetico. Noi europei forse non avevamo ancora realizzato questo allontanamento così netto degli Usa, questo volersi togliere dalle questioni europee non più considerate evidentemente importanti nel confronto con la Cina. L’accelerazione formidabile del riposizionamento strategico Usa porta con sé la necessità per l’Europa di ridefinire se stessa.

Quello che dobbiamo decidere è su quali basi ricostruire o forse meglio costruire la nuova Europa. E io penso che questo possa essere un momento anche per aprire gli occhi e capire che il sistema americano non funziona perché non fa star bene le persone. Per far ciò è bene ripartire proprio da ciò che abbiamo in Europa che invece funziona e fa vivere bene le persone, come per esempio il sistema sanitario pubblico. E qui penso sia importante sottolineare un aspetto: la sanità universale gratuita per tutti non è solo una questione di giustizia sociale o economica (è qualcosa che abbiamo indietro perché paghiamo le tasse) ma è anche e soprattutto un presidio culturale e politico perché definisce un’idea di socialità e di stare insieme, di pensare agli altri come importanti a prescindere da chi sono o cosa fanno.

Se la sanità viene mercificata quello che diventa merce non è (solo) l’attività medica ma è l’essere umano malato cioè l’essere umano nel momento in cui è più fragile, comunicando un’idea di essere umano come oggetto e quindi come tale sostituibile e fungibile (uno vale l’altro), non realmente importante per la collettività. Un’idea di socialità animale in cui vince solo il più forte, quello che riesce a badare a sé stesso e a competere con gli altri. E chi non ce la fa? Dobbiamo fare attenzione al messaggio che passa con una sanità privatizzata.

Per questo è più che fondamentale che sia lo Stato, inteso come espressione di una collettività, a gestire la sanità. Perché questo propone un’idea di singolo essere umano importante a prescindere dall’identità sociale per cui lo Stato si occupa di tutti senza fare alcuna differenza nella malattia del ricco o del povero, del presidente della Repubblica e del fruttivendolo. Ovvero un’idea di essere umano e di collettività che esprime un rapporto di interesse verso il benessere degli altri. È un’idea semplice che si oppone totalmente all’individualismo proposto dalle teorie neoliberiste che ispirano le nuove oligarchie della destra internazionale. Penso che sia soprattutto per questo che le destre vogliono smontare la sanità pubblica: è una questione prima di tutto di pensiero sulla realtà degli esseri umani.

Se noi ripartiamo da queste idee fondamentali, ricostruiamo l’Europa a partire da questi principi cardine di centralità dell’essere umano nella sua interezza di bisogni materiali ed esigenze non materiali, ecco che potremo competere nel mondo non su una base strettamente economica ma sulla base di dare la possibilità a tutti di realizzare se stessi, in accordo con quello che stabilisce l’articolo 3 della nostra Costituzione.

La grande innovazione della Rivoluzione francese, il pensiero nuovo sull’essere umano che diventa forma dello Stato deve evolversi e svilupparsi e comprendere ciò che non era stato pensato in principio come umano perché non razionale. Il discorso è enorme ma intanto iniziamo da una delle più importanti politiche “irrazionali” che abbiamo già: una sanità pubblica, gratuita e di eccellenza per tutti.

Foto AS

Ustica non è un mistero, è una resa

Ci sono storie che il potere preferisce seppellire sotto il peso del tempo. La strage di Ustica è una di queste. La richiesta di archiviazione non cancella i fatti, ma certifica l’impotenza di uno Stato che ha scelto il silenzio come strategia politica.

Quarantacinque anni di menzogne, insabbiamenti, complicità internazionali. E oggi, ancora una volta, si chiude un fascicolo con la formula più vigliacca: non si può andare oltre per “mancanza di collaborazione”. Come se la verità fosse un bene di lusso concesso solo su gentile richiesta degli Stati alleati.

Le indagini hanno confermato quello che ormai è chiaro da decenni: la notte del 27 giugno 1980 nei cieli sopra Ustica si combatteva una guerra mai dichiarata. Il DC9 dell’Itavia non è esploso per un guasto o per una bomba interna, ma è stato abbattuto in un’operazione militare di cui l’Italia è stata vittima. I radar militari hanno registrato la presenza di caccia stranieri, le testimonianze si sono accumulate, le prove distrutte o sparite nel nulla. Eppure, nessun governo ha mai preteso risposte.

Cosa significa oggi archiviare Ustica? Significa inchinarsi, ancora una volta, al ricatto della “ragion di Stato”. Significa accettare che 81 persone siano morte in nome di un equilibrio geopolitico che ancora oggi non può essere scosso. Significa dire ai familiari delle vittime che la loro battaglia per la verità è stata vana.

Servirebbe un sussulto. Un governo che non lotta per la verità è un governo che accetta di essere irrilevante. E l’Italia ha già subito abbastanza umiliazioni.

Buon giovedì.

 

Il relitto dell’areo al Museo della memoria di Bologna, fonte della foto wikipedia

Morti sul lavoro. Secondo Fratelli d’Italia è colpa dei lavoratori

Un'opera di Laika dedicata ai morti sul lavoro

«Otto morti sul lavoro su dieci sono stati disattenti». A leggerle queste parole non ci si crede. Anche perché non sono dette in libertà a un Bar Sport. Sono state pronunciate da un parlamentare della Repubblica, il deputato di Fratelli d’Italia Marcello Coppo, a un incontro sul tema della sicurezza presso il polo universitario Astiss di Asti.

Se nel 2024 i morti sul lavoro sono stati 1.482 (stima dell’Osservatorio nazionale morti sul Lavoro di Carlo Soricelli), vuol dire che circa 1.200 sarebbero morti per una loro stessa disattenzione. La vittimizzazione secondaria fa un ulteriore passo in avanti.
Addossare la “colpa” alla vittima, scagionando allo stesso tempo il “carnefice”, è ormai sport in cui si diletta l’ultradestra nostrana.

Onorevole Coppo, è forse morta per disattenzione Luana D’Orazio quel maledetto 3 maggio 2021? Luana era un’operaia tessile. Giovanissima, aveva solo 22 anni e un figlio di 5. Lavorava in un’azienda a Montemurlo, in provincia di Pistoia. Luana è morta uccisa perché, come ha dichiarato la mamma, Emma Marrazzo, «è stata messa davanti a un’arma pronta a sparare. Era stata trasgredita ogni norma di sicurezza».
Sa cos’è successo onorevole Coppo? Luana è rimasta stritolata dall’orditoio su cui lavorava. È morta dopo lunghissimi 7 secondi di agonia. Morta per disattenzione? No. Luana è morta, anzi è stata uccisa perché gli imprenditori avevano manomesso le misure di sicurezza di quell’orditoio. Perché? Perché così si sarebbe potuto produrre di più e più rapidamente: un 8% in più all’anno. La vita di Luana è stata sacrificata sull’altare di un 8% in più di produzione, per qualche migliaio di euro di profitti di più all’anno. Luana è morta per il profitto, non per la disattenzione.

Onorevole Coppo, sono forse morti per disattenzione i 5 operai uccisi nel crollo del cantiere Esselunga a Firenze il 16 febbraio 2024? Luigi Coclite, 60 anni, Taoufik Haidar, 43 anni, Mohamed El Ferhane, 24 anni, Bouzekri Rahimi, 56 anni, Mohamed Toukabri, 54 anni: questi i loro nomi. Sa cos’è successo onorevole Coppo? Sono rimasti schiacciati dal crollo di una trave di 20 metri. Forse per un errore di calcolo nella progettazione, sarà un tribunale a dover stabilire la verità giudiziaria. Ma quello che si sa è che quello non era un semplice cantiere, ma una giungla. Una giungla di appalti e subappalti con decine di aziende coinvolte. Il segretario della Fiom di Firenze Calugi dichiarò che ai lavoratori uccisi «veniva applicato il contratto di metalmeccanici ma… non stavano svolgendo lavori da metalmeccanici ma lavori edili… Ci troveremmo di fronte al fatto che si utilizza un contratto che ha un costo minore per garantire poi la possibilità a chi prende il subappalto di risparmiare”. Luigi, Taoufik, Mohamed, Bouzekri, Mohamed sono morti per il profitto, non per la disattenzione.

Onorevole Coppo, è forse morto per disattenzione Patrizio Spasiano il 10 gennaio 2025?
Patrizio era un tirocinante. Giovanissimo, aveva solo 19 anni. Lavorava da pochissimo in un’impresa in provincia di Napoli. Avrebbe dovuto imparare il mestiere, formarsi e orientarsi come saldatore. Sa cos’è successo, onorevole Coppo? Patrizio è stato investito da una fuga di ammoniaca che non si è arrestata se non dopo ore. Qualcuno dovrà spiegare perché non abbia funzionato un sistema di arresto delle esalazioni pericolose. L’ammoniaca l’ha investito in pieno viso, mentre era su trabattello, da solo. Lì, in altezza, è rimasto incastrato, senza che gli fossero stati nemmeno forniti i più elementari dispositivi di protezione individuale. Patrizio guadagnava 500€ al mese, per 40 e più ore di lavoro a settimana. Perché se assumi un tirocinante puoi risparmiare su stipendio, contributi, busta paga. E poi chi controlla che effettivamente quello sia “orientamento e formazione” (definizione del tirocinio) e non lavoro vero e proprio? Patrizio è morto per il profitto, non per la disattenzione.

Onorevole Coppo, voglio però venirle incontro. Mettiamo il caso che in alcune situazioni si muoia effettivamente “per disattenzione”. Cos’è che provoca questa disattenzione? Saprà bene che la soglia dell’attenzione fisiologicamente cala col procedere delle ore di lavoro. Più ore di lavoro consecutive si traducono in meno attenzione. Quindi, anche in quel caso, la causa ultima sono gli orari di lavoro troppo lunghi, i carichi troppo pesanti, lo scarso riposo, magari le pause insufficienti o addirittura inesistenti.

Onorevole Coppo, per le imprese la sicurezza è un costo e vogliono abbatterlo. Per i lavoratori e le lavoratrici, invece, la sicurezza è vita e vogliono tutelarla.
Per lei, per il governo Meloni che sostiene e per le opposizioni parlamentari che nulla hanno fatto in merito, la domanda è semplice: valgono più le nostre vite o i loro profitti?

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo

In apertura un’opera dell’artista Laika sul tema dei morti sul lavoro

Il cavallo di Troia della separazione delle carriere

Ci sono obiettivi inconfessabili dietro la cosiddetta “riforma della giustizia”, pomposa e ingannevole espressione usata dalla propaganda governativa nell’indicare il Ddl costituzionale attualmente in discussione al Senato; discussione del tutto inesistente in prima lettura alla Camera, dove il provvedimento lo scorso gennaio è passato intonso alla votazione dei deputati, senza alcuna possibilità di emendarne financo le virgole.
L’uso fraudolento delle parole è una costante dell’esecutivo Meloni.
Il Ddl diretto a scardinare in un solo colpo i principi della separazione dei poteri, dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e dell’autonomia e indipendenza della magistratura è denominato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”; un titolo di poco aiuto alla comprensione e dunque la traduzione ad uso dell’opinione pubblica è diventata “separazione delle carriere”, cui seguono i seguenti corollari: i pubblici ministeri e i giudici vanno separati in due diversi ordini, ognuno con il suo Csm, entrambi – unico momento di apparente unità – sottoposti ad un’Alta Corte che ne disciplina i comportamenti.
Il cittadino si domanda: perché separare le carriere dei magistrati?
Questa, in prima battuta, è stata la risposta dei promotori: si realizzeranno efficienza della giustizia, rapidità dei giudizi, certezza della pena e a seguire un profluvio di più o meno alti concetti che tuttavia pare non abbiano convincente presa tra il pubblico.
Anche il più disinformato dei cittadini, infatti, cercato invano il legame logico tra la separazione delle carriere in magistratura e l’efficienza della macchina burocratica, sommessamente potrebbe suggerire che, senza scomodare la Costituzione, sia sufficiente fornire mezzi, strumenti e personale necessari per riavviare il settore Giustizia inceppato da anni, per ciò solo incapace di dare risposte alla domanda di giustizia.
Visti i rischi, la propaganda governativa ha confezionato una seconda risposta, apparentemente più raffinata, se non altro per acrobazia discorsiva: con la riforma cesserà il condizionamento del giudice da parte del pubblico ministero, avrà fine la sottomissione del primo al volere del secondo nel momento della decisione, che così realmente svolgerà funzione di organo terzo e imparziale nel solco del principio del “giusto processo” tra parti uguali (Pm e imputato), unica garanzia di eguaglianza per i cittadini nel perseguimento di una giustizia più giusta.
Un postulato impegnativo. Che però, tradotto con esempi concreti, non brilla per chiarezza: in difesa di questa “riforma” si è detto che verranno cancellati i sospetti sulla innaturale “comunanza” tra Pm e giudice di un qualunque tribunale, avvezzi tra un’udienza e l’altra a consumare insieme un caffè al bar sotto il Palazzo di giustizia; si è detto che anche la composizione delle aule di Cassazione, dove la figura del procuratore generale, collocato su scranno elevato rispetto alla difesa e quasi affiancato al collegio giudicante, sia sinonimo della suddetta innaturale “comunanza”.
Anche il più informato dei cittadini potrebbe a questo punto provare un senso di disorientamento: in che modo il Pm condiziona il giudice? Il processo penale in Italia si svolge con giudici sottomessi alla volontà dei Pm? In concreto, come vanno separati? E cosa cambierebbe in termini di garanzia per il cittadino?
Di fronte a risposte indimostrabili, disinformazione e disorientamento rimangono: è proprio ciò a cui mira il governo della destra che, non a caso, definisce epocale questa “riforma”.
La Costituzione del nostro Paese, unico esempio nell’Occidente democratico, pone a garanzia dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini l’indipendenza e l’autonomia della magistratura: è il principio dell’unità della giurisdizione a cui appartengono l’organo inquirente e l’organo giudicante, formati nella stessa cultura che vuole la magistratura soggetta soltanto alla legge, non ad altri poteri.
Pm e giudice hanno lo stesso compito: accertare la verità. Il Pm, che non è più l’organo inquisitorio di epoca anteriore al 1989, ha il dovere di acquisire anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non può tacere al giudice l’esistenza di fatti a favore dell’imputato: è l’accusa che – in autonomia e indipendenza – deve ricercare a 360° ogni elemento necessario a stabilire se esercitare l’azione penale.
L’uguaglianza delle “parti” nel processo è uno specchietto per le allodole. Accusa pubblica e difesa dell’imputato non difendono gli stessi interessi: il PM è chiamato a tutelare l’interesse pubblico, incluso quello della vittima del reato – figura pervicacemente dimenticata dalla propaganda governativa; la difesa dell’imputato tutela l’interesse del privato cittadino che assiste. La Costituzione è esplicita, non parla di parti uguali ma di parità delle parti nel contraddittorio avanti un Giudice terzo e imparziale.
E’ questi a garantire l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge ed è questo che accade nei processi penali in Italia: d’altra parte, come perfettamente sanno i promotori della riforma, esiste un complesso sistema di garanzie che consente ad ogni cittadino che sia parte nel processo – in tutti i casi di supposti condizionamenti del Giudice – di ricusarne la figura, di denunciarne l’operato anche ai fini disciplinari, di rilevare le anomalie della sua decisione nei vari gradi di impugnazione.
L’indimostrata connivenza tra Pm e giudice, l’indimostrato condizionamento del Giudice da parte del PM – smentiti da dati statistici che, da soli, demoliscono la fraudolenta operazione del governo – rivelano la vera ragione di una riforma diretta alla separazione delle magistrature, non delle carriere.
L’inconfessabile motivo ha una lunga e oscura storia alle spalle, è una frenesia che da 40 anni periodicamente emerge nella vita politica italiana e trova tra i suoi originari promotori anche quel Licio Gelli che nel suo “piano di rinascita” della Loggia P2 dedicò ampie riflessioni alla magistratura italiana.
E’ una pura e semplice scelta politica; inconfessabile, perché nulla ha a che vedere con l’ostentata tutela dei diritti dei cittadini e perché si riassume in un elementare concetto: separato il Pm dalla magistratura giudicante, si apre la strada al suo controllo da parte del potere esecutivo, notoriamente ostile al controllo giurisdizionale che realizza l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di cui la magistratura è espressione di garanzia.
Non è un caso – come segnalano molti giuristi – che l’opera distruttiva di cui è portatore questo DDL cominci con una modifica costituzionale quando sarebbe bastata una legge ordinaria: previsti in Costituzione due ordini separati, il Pm si trasformerebbe in un poliziotto, estraneo alla figura che oggi garantisce l’autonomia dell’accusa; si ridurrebbe a promuovere azioni penali solo per alcuni reati e non per altri, rispondendo del suo operato al potere politico di turno. E il giudice, affidato il Pm alle amorevoli cure del potere esecutivo, si ridurrebbe a mero burocrate indirizzato ad emettere sentenze destinate, queste sì, a sfociare in provvedimenti più aderenti alla tesi accusatoria, con buona pace del principio che ne vuole organo terzo e imparziale.
Ad essere indigesto all’attuale governo della destra è il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge: i soli cittadini di cui ha a cuore il destino processuale, al punto da non esitare nel sovvertire la Carta costituzionale, sono funzionari pubblici, parlamentari, ministri, politici e via dicendo.
Non sono i destini dei comuni cittadini ad inquietarlo: a loro difesa, quando si imbattono in un’indagine penale, mai innalza la bandiera del cosiddetto “garantismo” – altra truffaldina espressione riservata solo ai potenti incappati nelle maglie di qualche Pubblico Ministero per reati che ledono disciplina e onore a cui sono soggetti nell’esercizio delle funzioni pubbliche.
Gli scopi inconfessabili sono chiari: indebolire e limitare il potere giudiziario; controllarne l’operato per evitare che controlli l’operato del potere politico e perché da questo riceva le opportune direttive; eliminare il controllo di legalità – odioso ostacolo – che solo un’autonoma e indipendente magistratura è in grado di svolgere.
La cosiddetta “riforma della giustizia” pronta a disgregare l’ordinamento giurisdizionale è l’emblema del complessivo progetto politico – diretto a spezzare l’unità del Paese con l’autonomia differenziata e a frantumare l’ordinamento repubblicano con il premierato – che ha come unico scopo la sostituzione della Costituzione repubblicana e antifascista con altro testo estraneo alla democrazia di questo Paese.
Come è stato detto dal presidente del Tribunale di Bologna nel corso dello sciopero dell’ANM dello scorso 27 febbraio, “mai come in questo momento va detto che il potere deve rendere ragione ai principi costituzionali che ne fondano la sua legittimazione”.
La legittimazione del potere politico viene dai principi costituzionali e a questi il potere politico eletto deve rendere conto: non ad una volontà popolare che, ancora una volta all’insegna della manipolazione, viene raffigurata come unica fonte di un incostituzionale incontrollato esercizio di governo, sapendo perfettamente che anche la sovranità popolare va esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Nella Fattoria degli animali George Orwell aveva avvistato il pericolo: la manipolazione della realtà comincia con la corruzione del linguaggio e il successivo passaggio è l’autoritarismo.
E’ quello a cui oggi si sta assistendo, i cittadini vanno informati perché spetterà a loro nel prossimo referendum scongiurare l’archiviazione di principi e di diritti che rappresentano i valori fondanti della nostra democrazia costituzionale.

 

L’autrice: Silvia Manderino, avvocato del Foro di Venezia.

Da leggere anche:

Giustizia sottomessa, vulnus per i cittadini di Andrea Natale (Magistratura democratica)

 

 

Meloni, il riarmo e il solito equilibrismo: dire e non dire, esserci e non esserci

Giorgia Meloni, di fronte al piano ReArm Europe, non prende posizione. O meglio, fa il possibile per non farlo. Sa che sfilarsi sarebbe impossibile, ma sposarlo apertamente significherebbe mettersi in rotta di collisione con Matteo Salvini, con la retorica sovranista americana e con un’opinione pubblica italiana che sul riarmo è tutt’altro che entusiasta. Così la presidente del Consiglio resta in bilico: evita di esprimere entusiasmo per il piano della Commissione, ma allo stesso tempo lo sostiene, pretendendo però ritocchi che diano l’illusione di una negoziazione.

La sua vera preoccupazione non è la difesa europea, ma la partita politica interna. Da un lato, vuole blindare l’alleanza con gli atlantisti di Forza Italia e garantire a Guido Crosetto il suo spazio sulla scena internazionale. Dall’altro, teme che la Lega possa cavalcare il tema del “debito per le armi” per rosicchiarle consensi. Così, tra un attacco a Salvini e una dichiarazione strategica sul rischio di avvantaggiare l’industria bellica francese, Meloni costruisce la sua solita narrativa: presente ma distante, ferma ma flessibile. In realtà, prigioniera di se stessa.

 

Buon mercoledì.

Questione Curda: L’appello di Ocalan per salvare il confederalismo democratico

Il messaggio di Ocalan che, per la libertà e l’autodeterminazione del popolo curdo ha scelto la soluzione politica, proponendo lo scioglimento del Pkk e la fine della lotta armata, è un coraggioso e lucido atto rivoluzionario. Quale è stato, a mio avviso, l’appello di Ocalan il Gramsci contemporaneo, che ha saputo indirizzare e dirigere la commovente resistenza del popolo curdo anche dal tremendo carcere di Imrali, in cui è rinchiuso in condizione di totale isolamento da 25 anni. L’obiettivo, di importanza storica e emotivamente forte, è la salvezza delle magnifiche esperienze di Kobane, del Rojava (con il ruolo delle donne contro il capitale e il patriarcato), delle esperienze rivoluzionarie, importanti per tutto il Medio Oriente e anche per noi europei, ispirate dal pensiero del confederalismo democratico, di autogoverno nel Nord Est della Siria.

Nonostante l’inaudita condizione carceraria, ogni appello alla società di Ocalan ha avuto incidenza e creato una forte reazione popolare. Tanto più questo appello. Si tenga conto che il Pkk, per il popolo curdo, non è solo un partito, ma l’organizzazione della connessione sentimentale. La richiesta del suo scioglimento scuote, quindi, il popolo curdo: si accavallano, si inseguono, a volte si contrappongono entusiasmo per la pace e timore per le condizioni che verranno da Erdogan imposte. Un ruolo importante sta svolgendo il partito Dem, una forte e diffusa sinistra turco/curda, che ha un importante insediamento istituzionale e governa centinaia di Comuni, con tanti sindaci che, spesso, subiscono repressione, destituzione da parte del governo turco. È decisivo, quindi, che il Dem consideri l’appello di Ocalan una “opportunità storica per la pace.

La nostra prospettiva fondamentale nel prossimo periodo si concentrerà sull’espansione dei poteri delle amministrazioni locali; sull’assicurazione di garanzie costituzionali per la lingua madre, l’identità e i diritti religiosi; sul rilascio dei prigionieri politici e l’attuazione di riforme legali”. Bisogna, ora, fare i conti con le contraddizioni interne al sistema politico e militare turco. Finora il governo turco prende tempo, senza i necessari, precisi impegni. Giustamente il Pkk, accettando l’appello di Ocalan, ritiene urgente rimuovere gli ostacoli che impediscono ad Ocalan di essere parte centrale del processo di pace. Dalle montagne della resistenza curda, il Pkk dichiara un cessate il fuoco “per aprire la strada all’attuazione dell’appello del leader Apo per la pace e una società democratica. Siamo pronti a convocare il congresso.

Tuttavia, affinché ciò accada, è necessario creare un ambiente di sicurezza adeguato e il leader Apo deve guidare e gestire personalmente il congresso affinché abbia successo”. Il governo turco è diviso; il potere militare turco intende continuare la guerra, schiacciare la resistenza curda. Mentre, intanto, si intensificano gli attacchi militari contro la Siria del Nord Est, mentre l’artiglieria pesante delle milizie islamiste filoturche e i raid aerei attaccano la diga di Tishreen, che è la faglia di resistenza eroica dell’Amministrazione autonoma, che è curda ma rappresenta anche altre etnie importanti che vivono in pace. Un esperimento politico, istituzionale, umano che è temuto dalle oligarchie e dai califfati mediorientali. Per questo motivo tentano di distruggerlo, perché potrebbe aprire gli occhi ai popoli mediorientali. Siamo, insomma, sul filo di un’aspra trattativa. L’appello di Ocalan ha aperto un orizzonte storico di pacificazione. Il suo fallimento, per responsabilità del governo turco, aprirebbe il baratro di una guerra ancora più distruttiva. Possibile che l’Europa continui a tacere, appoggiando, nei fatti, Erdogan? E il governo e il Parlamento italiano perché fingono di non ricordare che il Tribunale di Roma ha concesso ad Ocalan l’asilo in Italia?

L’autore: Giovanni Russo Spena è costituzionalista e attivista politico

In foto WP una manifestazione pro Ocalan, a Londra 

L’appuntamento:

 

Similes cum similibus facillime congregantur

Dice qualsiasi vocabolario o enciclopedia che la diplomazia è quell’arte che si esercita attraverso la conduzione di negoziati, partendo dal principio del riconoscimento diplomatico di Stati, individui e gruppi. Non esiste diplomazia che non parta dal riconoscere la legittimità di chi si ha di fronte, dal riconoscerne la dignità, anche nelle sue colpe.

Il presidente Trump ha aperto un canale diplomatico con Vladimir Putin, riabilitandolo sulla scena internazionale, ma non sta conducendo alcun tipo di diplomazia con il presidente ucraino Zelensky. Molti osservatori definiscono quella con il presidente ucraino una trattativa, con ingiustificato ottimismo: non viene riconosciuto nella sua dignità politica, ma interpellato come portatore di merce.

Anche la trattativa, però, pretende uno scambio di proposte e controproposte che preludono alla conclusione di un accordo. In questo caso c’è solo una proposta sul tavolo: accettare un’invasione economica nordamericana delle proprie terre per fermare l’invasione militare russa. Vi sono, insomma, tutti i connotati di un’usura. Ci vuole molta fantasia per chiamare tutto questo pace.

Il Cremlino ha fatto sapere che “la politica estera degli Stati Uniti adesso coincide” con la loro. Anche qui c’è un evidente svarione: l’uso della forza non è politica, ma imperialismo. C’è chi lo fa con i carri armati e chi lo attua con lo strozzinaggio. Uno la chiama “operazione speciale”, l’altro la chiama “pace”. E non è un caso che si assista al riallineamento politico: chi segretamente amava l’uno, ora può pubblicamente dichiarare l’amore per l’altro.

Buon martedì.

Oscar. Premiato No other land, sulla lotta dei palestinesi di Mesafer Yatta

Nel 2022, dopo una battaglia legale durata vent’anni, l’Alta Corte israeliana ordina all’esercito di procedere con l’espulsione forzata di circa 1800 palestinesi e di distruggere i loro villaggi al fine di utilizzare il territorio come campo di addestramento militare. No Other Land, girato da un collettivo palestinese-israeliano, si pone in prima linea nel restituire la strenua resistenza di una comunità impegnata in una lotta non violenta per rivendicare il diritto ad abitare le proprie terre. Scenario della protesta è Masafer Yatta, una regione montuosa della Cisgiordania meridionale, costituita da venti villaggi palestinesi e conosciuta per le antiche strutture di pietra e grotte, in molte delle quali vivono gli abitanti della zona, in maggioranza agricoltori. E nonostante i loro insediamenti compaiano sulle mappe dal XIX secolo, l’esercito israeliano non ne ha mai riconosciuto l’esistenza. È all’interno della comunità di Masafer Yatta che è nato e cresciuto Basel Adra, avvocato e giornalista, e regista del film insieme a Hamdan Ballal (fotografo e agricoltore palestinese), a Yuval Abraham (giornalista israeliano) e a Rachel Szor (direttrice della fotografia e montatrice israeliana).

In sala dallo scorso 16 gennaio con Wanted, No Other Land è stato presentato, nel 2024, a numerosi festival ricevendo, tra gli altri, il premio come miglior film e il premio del pubblico nella sezione Panorama alla Berlinale, e quello come miglior documentario e miglior film all’European Film Award (Efa). Ha inaugurato, inoltre, la terza edizione del Rome International Documentary Festival (Ridf) che si è tenuto a Roma, al Nuovo Cinema Aquila, lo scorso dicembre.

«Ho iniziato a filmare quando è cominciata la nostra fine», dichiara Basel Adra, figlio di genitori attivisti, che, all’età di cinque anni, ricorda di aver assistito al primo arresto di suo padre: «la realtà mi ha spinto a essere un attivista, non credo sia stata davvero una scelta. […] A sette anni ricordo che dormivo con le scarpe addosso per prepararmi a un’eventuale irruzione dei soldati in casa dopo le proteste. […] Se non lottavamo, saremmo stati sfrattati dalla nostra terra e avremmo perso la nostra comunità. L’inevitabilità della nostra lotta, in qualche modo, aiutava a gestire la paura».

Il vissuto personale della comunità di Masafer Yatta fa eco a una questione più grande, inserendosi all’interno del conflitto israelo-palestinese che sarebbe scoppiato nell’ottobre del 2023, poco dopo la fine delle riprese del film. No Other Land rappresenta una fondamentale testimonianza dei soprusi e delle discriminazioni in seno a un mondo diviso tra «uomini con le targhe gialle e uomini con le targhe verdi», dove ai primi – gli israeliani – è concesso di spostarsi liberamente, mentre agli altri – i palestinesi – è fatto divieto di lasciare il Paese. E accanto alle drammatiche immagini della demolizione di case e scuole, della privazione di acqua e attrezzi di lavoro, vi sono quelle di una comunità che resiste, unita, nella lotta, affinché non muoia, insieme al coraggio, anche la speranza di «un modo alternativo in cui israeliani e palestinesi possano vivere in piena uguaglianza».

L’autrice: Giusi De Santis è critica cinematografica e saggista. Questa recensione è tratta dal numero di Left di febbraio 2025

Missione fallita

Dicevano che l’Ucraina avrebbe potuto sconfiggere l’esercito di Putin. Quando gli è stato fatto notare la follia del loro proposito, hanno risposto che una mancata difesa avrebbe piallato l’Ucraina – ed è vero – e che si trattava solo di guadagnare con le armi un’agevole posizione per trattare. Missione fallita.

Dicevano che gli Usa fossero stati e sarebbero stati il faro dell’Occidente, che l’Europa aveva come unico imperativo quello di stargli in scia, che ci avrebbero pensato loro. A chi faceva notare che la strategia dell’Unione europea cameriera dei desideri americani avrebbe portato all’irrilevanza, rispondevano che il patto atlantico (e la Nato) era inossidabile. Missione fallita.

Dicevano che la guerra in Ucraina avrebbe rafforzato l’Europa. Missione fallita. Dicevano che con Putin non bisognava trattare, al diavolo lui, le sue richieste e al diavolo tutti i russi del presente e del passato. Dicevano che bisognava combattere chiunque dialogasse con Putin. Missione fallita.

Dicevano che non era tempo di attivare la diplomazia con voce più alta delle armi perché sarebbe arrivato il momento buono, il momento giusto. Missione fallita. Dicevano che i sacrifici dei cittadini per le armi avrebbero garantito la solidità del multilateralismo e della democrazia occidentale. Missione fallita.

Molti di loro sono gli stessi che leccavano Putin, che sorridevano del suo lettone regalato a Silvio. Sono gli stessi che ora leccano Trump, perché riconoscono lo stesso odore. Hanno fallito su tutto, ora propongono di ripiegare sulle armi.

Buon lunedì.

In apertura, disegno di Marilena Nardi