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85, bastano per tornare a discuterne?

Forse il giornalismo – quello che si promette di raccontare il suo tempo – oltre a sfrucugliare nel sacchetto dell’umido per darci in pasto i particolari macabri dalla bocca di Filippo Turetta potrebbe dirci dello squarcio nei figli di Eleonora Toci. Loro ieri hanno dovuto mostrare alla zia il cadavere della madre strangolata dal padre, con il telefono in mano. 

Oppure potrebbero concentrarsi sullo strazio di Maria Arcangela Turturo, 60 anni, che quattro giorni fa ha usato gli ultimi respiri per raccontare a sua figlia di essere stata bruciata e poi soffocata dal marito Giuseppe Lacarpia, 65 anni lì belli in mostra a smentire il testosterone come movente. 

Cinque giorni fa è stata ammazzata Letizia Girolami, 72 anni, trovata morta in un casolare spettrale. È stata uccisa dall’ex compagno della figlia, un altro uomo incapace di fare i conti con la fine di una relazione. 

Il 26 settembre il corpo senza vita di Maria Campai, 42 anni, è stato trovato a Viadana, un comune della provincia di Mantova.‍ Il ragazzo che l’ha uccisa si è lamentato per una prestazione sessuale che non valeva i soldi pattuiti. Quello stesso giorno a Tarzo, nei pressi di Treviso, è stata ammazzata Cesira Bianchet. 

Due ammazzate anche il giorno prima, il 25 settembre, Giusi e Martina Massetti erano madre e figlia. Roberto Gleboni, 52 anni, ha sparato a tutti i membri della sua famiglia prima di uccidersi. Morto anche il figlio Francesco e un vicino di casa. 

Tra il 22 e il 24 settembre ne sono state ammazzate tre: Loretta Levrini, Antonella Lopez e Rosa Nabi. Sono 85 donne uccise dall’inizio dell’anno, secondo il Viminale 65 sono femminicidi. Bastano per tornare a discuterne?

Buon giovedì. 

La Mare Jonio torna nel Mediterraneo, grazie all’aiuto concreto della Flai Cgil

Questo pomeriggio dal porto di Trapani è salpata la nave dell’ong di Mediterranea che alcune settimane fa aveva ricevuto l’ordine di sbarcare le attrezzature di soccorso. A sostenere la nuova missione, la Flai Cgil, che ha contribuito concretamente a spese legali, carburante ed equipaggiamento.

Erano le 14.55 di oggi quando dal porto di Trapani è salpata la nave Mare Jonio, della ong Mediterranea Saving Humans. Si tratta della sua diciannovesima missione nel Mediterraneo centrale. Questa volta, però, l’imbarcazione è dovuta partire senza avere a bordo i mezzi di soccorso. Alcune settimane fa, infatti, un’ispezione straordinaria ordinata dal ministero per i Trasporti guidato da Matteo Salvini si era conclusa con l’ordine di sbarcare le attrezzature per il salvataggio dei migranti in mare: i container per l’accoglienza delle persone soccorse, quello dell’infermeria, le docce, i bagni chimici e i due gommoni veloci rhib.

Non rispettare l’ordine impartito sarebbe stato rischioso per l’ong e avrebbe potuto portare al ritiro del certificato di idoneità, indispensabile per navigare. «Si tratta di un ordine del tutto illegittimo – dichiara Alessandro Metz, armatore sociale di Mediterranea, in una nota – un’imposizione il cui vero obiettivo è cercare di fermare una volta per tutte la nostra nave. Abbiamo attivato i nostri legali e stiamo facendo ricorso a ogni livello contro questo provvedimento ingiusto. Ma non possiamo sospendere le attività in attesa che un giudice si pronunci».

«Per questo motivo abbiamo ottemperato alla prescrizione delle Autorità, scaricando il materiale richiesto, per poter partire comunque e ritornare là dove la nostra presenza può fare la differenza», prosegue Sheila Melosu, capomissione a bordo della nave.

Mentre il governo continua tenere le ong nel mirino, c’è però anche chi le aiuta in modo concreto, affinché possano continuare a svolgere il proprio ruolo essenziale in mare. A sostenere questa nuova missione di Mediterranea, infatti, ci ha pensato la Flai Cgil, la categoria del sindacato che tutela i lavoratori dell’agroindustria. Flai ha scelto di contribuire alle spese legali dell’ong e a quelle per il carburante e l’equipaggiamento di bordo.

«Di fronte a una Fortezza Europa che chiude i suoi confini a chi è in fuga da guerre, miseria e stravolgimenti climatici, le navi di Mediterranea e di tutta la flotta civile rappresentano una delle pochissime ancore di salvezza per restare umani», dichiara il segretario generale della Flai Cgil Giovanni Mininni, commentando la collaborazione tra sindacato e ong .

«Siamo molto grati del sostegno della Flai, non solo in quanto vitale per le prossime missioni, ma anche perché sappiamo bene che la tutela dei diritti e della dignità delle persone che soccorriamo in mare non si esaurisce nel momento in cui raggiungono terra – aggiunge in una nota Laura Marmorale, presidente di Mediterranea Saving Humans -. Le leggi securitarie che governano l’immigrazione in questo Paese le espongono continuamente a condizioni di pericolo. Stringere un patto di alleanza e cooperazione con la Flai Cgil rappresenta per noi l’opportunità di tracciare una continuità di idea e azione fra mare e terra».

L’alleanza inaugurata tra sindacato e ong non terminerà oggi, ma proseguirà con una collaborazione concreta nei prossimi mesi. Attiviste e attivisti di Mediterranea si uniranno alle Brigate del lavoro della Flai, ossia ai gruppi di sindacalisti e delegati che partecipano alle attività di sindacato di strada, intercettando i lavoratori delle campagne direttamente nei campi dove si lavora la terra spesso in condizioni disumane, dove i permessi di soggiorno possono trasformarsi in arma di ricatto, dove la non conoscenza della lingua è un ulteriore fattore che rende ricattabili.

Una sfida per la Cyber Law: chi possiede i diritti dell’opera generata con l’IA?

Uomini, macchine e copyright: governare la creatività: un tema tutto da approfondire di fronte allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. È il focus dell’incontro della sessione Cyber law all’Internet festival di Pisa in programma domani 10 ottobre (ore 15, Scuola superiore Sant’Anna). Partecipano ospiti del mondo dell’accademia, delle istituzioni e delle professioni, tra cui il giurista Giuseppe Corasaniti, uno dei massimi esperti di diritto informatico che qui anticipa il suo intervento sul rapporto tra IA e diritto d’autore.

Il rapporto tra intelligenza artificiale (IA) e proprietà intellettuale (PI) solleva una serie di questioni complesse, soprattutto nel contesto della gestione di contenuti digitali, sia in termini di input che di output. L’avvento di modelli di IA generativa, come i modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) e le IA grafiche, musicali o videografiche, pone nuove criticità nel definire adeguatamente i confini tra creazione umana e creazione automatizzata, sollevando anche questioni fondamentali su diritti, responsabilità e trasparenza.
Uno dei principali problemi è la corretta dimensione dell’intervento dell’IA nella gestione dei contenuti. Da un lato, gli input dei modelli sono spesso costituiti da materiale che può essere protetto da diritti d’autore, il che solleva evidenti interrogativi sulla liceità dell’uso di tali contenuti per l’addestramento. Ma la questione appare ancora priva di una solida base normativa specifica a livello di convenzioni internazionali in materia. Dall’altro lato, la generazione di output da parte di questi modelli può portare alla creazione di opere artificiali che si avvicinano in tutto a creazioni originali umane, generando possibili incertezze sulla effettiva titolarità della proprietà intellettuale. Chi possiede i diritti sull’opera generata: l’autore del software, l’utilizzatore dell’IA o il creatore dei contenuti utilizzati per l’addestramento? La risposta a questa domanda varia, può dipendere sia dal funzionamento del modello come dalla modalità di acquisizione dei dataset e manca ancora di un quadro normativo univoco e condiviso.
L’approccio strettamente giuridico a queste questioni risulta ancora problematico. Un sistema causidico, fondato su contenziosi e dispute legali, rischia di essere inadeguato per affrontare la rapidità con cui la tecnologia avanza e per rispondere alle esigenze di tutte le parti coinvolte. Infatti, un processo tanto civile quanto persino penale può essere lungo, costoso e inadeguato a risolvere casi di ambiguità o di sovrapposizione tra le esigenze di autori, creatori di IA e utenti finali. Per questo motivo, si impone l’esigenza di un approccio più dinamico e flessibile, basato sulla mediazione continua tra effettivi diritti tutelabili e aspettative differenti. Un simile approccio potrebbe prevedere la creazione di strumenti di negoziazione collettiva e accordi preventivi, capaci di adattarsi continuamente e coerentemente alle nuove realtà tecnologiche in maniera più fluida rispetto al tradizionale ricorso al contenzioso legale.
La complessità della questione è evidente se si guarda alle esperienze concrete nell’ambito degli LLM e delle IA generative. Le IA linguistiche, ad esempio, possono elaborare enormi quantità di dati testuali, ma non sono in grado di spiegare pienamente il processo che porta alla creazione di un output specifico. Il che forse limita la possibilità di verificare se un testo generato sia una mera rielaborazione di contenuti preesistenti o una nuova creazione, rendendo difficile accertare eventuali violazioni di copyright. Lo stesso problema si pone per le IA generative grafiche, musicali e videografiche, che possono generare opere complesse, attraverso un campionamento innovativo apparentemente originali, ma potenzialmente derivate da un mix di input protetti da diritti.
In questo contesto emerge un’esigenza fondamentale: quella di pensare a soluzioni generali in anche termini di *spiegabilità* del processo di generazione dei contenuti. In caso di contestazione o rivendicazione di proprietà intellettuale, deve essere possibile ricostruire in modo chiaro il percorso creativo seguito dall’IA. Il che forse richiede anche strumenti di tracciabilità e di auditing condivisi che permettano di capire se e come un’opera generata sia stata influenzata da contenuti protetti.
Infine, vi è la necessità di garantire meccanismi dinamici e informali per la risoluzione delle controversie. In un ambiente in cui le tecnologie evolvono rapidamente, non è pensabile fare affidamento esclusivamente su soluzioni statiche e normative.
Un sistema di garanzie dinamiche potrebbe includere, ad esempio, piattaforme di certificazione automatica del rispetto dei diritti d’autore o strumenti di riconciliazione rapida tra le parti. In sintesi, la complessità della questione richiede un equilibrio tra esigenze tecnologiche, creative e legali, privilegiando sempre soluzioni adattive e flessibili.

L’autore: Giuseppe Corasaniti è un giurista, professore ordinario  di Filosofia del diritto digitale e di informatica giuridica presso la Universitas Mercatorum di Roma e anche docente a contratto presso la Luiss Guido Carli di Roma

Internet Festival a Pisa

Dal 10 al 13 ottobre si svolge a Pisa la14esima edizione del festival che quest’anno ha come parola chiave #Generazione. Scienziati, creator digitali, insegnanti, artisti e giornalisti affronteranno i più svariati temi legati all’evoluzione informatica. Tra gli ospiti,
Maurizio Ferraris, Maristella Matera, Carola Frediani, Patrick Zaki, Elia Bombardelli, Norma Cerletti, Giulia Blasi, Victor Diamandis, Alex Braga, Stefano Da Empoli e molti altri. Da segnalare il fitto calendario dei T-Tour, le esperienze formative dedicate a bambini e ragazzi. Laboratori, workshop, conferenze interattive e tutorial declineranno il tema chiave del festival  proponendo percorsi didattici sia in presenza (tra giovedì 10 e domenica 13 ottobre) sia online (da ottobre a dicembre). Info programma qui

 

 

Il ministro tutto patina e distintivo

C7 della cultura a Pompei con il ministro Giuli

«Con la quarta rivoluzione epocale della storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare». E poi: «l’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della iper-tecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia». 

C’è da sperare che il testo con cui si è presentato il neo ministro alla Cultura Alessandro Giuli sia stato scritto da un suo fidato e scarso collaboratore. Avremmo almeno una spiegazione sul suo incespicare in un discorso che avrebbe voluto essere un manifesto culturale e invece si incaglia nel genere delle supercazzole. Il ministro avrebbe potuto, almeno, ripeterlo un paio di volte davanti a uno specchio nella sua camerata. Si sarebbe accorto dell’effetto tragico che fa l’ampollosità quando viene sfoderata per fingere di sapere. Si sarebbe accorto, forse, anche della citazione sbagliata su Hegel. 

Al di là del niente mischiato con il niente però Giuli ci fa sapere di essere perfettamente in linea con la premier nel neocolonialismo del cosiddetto Piano Mattei («mettere a disposizione dei Paesi africani le nostre capacità») e nel panpenalismo del Decreto Caivano («interessarsi delle periferie senza considerarle tali», dice). 

Il ministro tutto patina e distintivo è pronto per iniziare.

Buon mercoledì. 

“Un posto al sole” e… in chiesa. C’era una volta la soap tv popolare e laica

Non ho problemi a confessare il mio guilty pleasure: guardo Un posto al sole. Per chi non lo sapesse, la famosa soap opera inventata da Giovanni Minoli 28 anni fa, trasferisce su Rai 3 le storie di persone comuni inventate, mai bellocce, con impieghi e personalità verosimili: dal portiere chiacchierone all’avvocato opportunista, dal vigile fannullone alla dottoressa appassionata. Le vite dei protagonisti, molti dei quali cresciuti e invecchiati sotto i riflettori del Centro produzione Tv Rai di Napoli, sono raccontate attraverso le sfide familiari, sentimentali e lavorative che affrontano, insieme ai più noiosi siparietti domestici, funzionali però all’omogeneità e alla chiarezza del racconto.

Dialoghi semplici, fotografia e suono poco più che amatoriali, scenografie modeste, recitazione stereotipata, ma non importa: ogni sera, alle 21:10, circa 700mila telespettatori seguono le vicende di questi alter ego così credibili. Anzi: noi fan gli siamo affezionati e li percepiamo come autonomi. Li chiamiamo coi nomi dei protagonisti, trascurando il fatto che questi avatar siano frutto della fantasia degli autori e soprattutto il fatto che, lavorando per la televisione di Stato, gli sceneggiatori debbano rispondere alle indicazioni del governo di turno.

Le storie di Palazzo Palladini non sono dunque mai casuali. Anzi, con i costanti riferimenti all’attualità e attraverso gli esempi di vita che ci indicano come interpretarne la complessità, la narrazione è profondamente intrisa di politica – per non dire di propaganda – nella sua capacità di influenzare un pubblico emotivamente coinvolto e spesso acritico.

Con i tempi che corrono, oggi più che mai la soap opera campana, giunta alla 27esima stagione, sembra veicolare messaggi reazionari, tradizionalisti e con un forte sottotesto religioso e i personaggi con le loro travagliate, ma comprensibili scelte, sono i principali latori di questa deriva. Alcuni esempi: di Viola, nella serie un’insegnante separata che è tornata a vivere in famiglia, si ignora la precarietà lavorativa, nonostante questa rifletta la frustrante realtà di migliaia di docenti in Italia, preparati e formati eppure inseriti in graduatorie infinite. Portavoce dello Stato e dell’idea di giustizia sono poliziotti coraggiosi e magistrati integerrimi, benché sia poi il prete dei Quartieri Spagnoli il vero eroe contro le mafie e vicino agli ultimi. Mentre Guido e Mariella affrontano un matrimonio in crisi con tanto di corna chiacchierate, gli amici Michele e Silvia difendono la famiglia tradizionale spronandoli, per una decina di puntate, a tornare insieme nel nome del figlio… e dello spirito santo. A tal proposito, va fatto notare che ogni nuovo nato viene battezzato e che ogni matrimonio avviene solo in chiesa, rafforzando ulteriormente, qualora non fosse sufficiente, la visione confessionale della vita familiare. Dall’altra parte, la redenzione di personaggi malvagi come Lara, che da cattivissima diventa buonissima solo quando si fa suora, sembra passare obbligatoriamente attraverso la fede, confermando l’idea che non esista etica fuori dal pensiero religioso.

E, se non sorprende l’assenza di riferimenti alla laicità, grande assente della televisione italiana, serve un po’ più di attenzione per notare anche la mancanza da questa narrazione del rispetto delle libertà individuali e all’autodeterminazione, temi fondamentali in una società sempre più plurale, eppure completamente esclusi da un dibattito in cui non si affrontano mai il diritto di scegliere per sé stessi o il rispetto per le scelte altrui. I personaggi omosessuali sono ridotti a buffe macchiette e la donna dallo stile di vita libertino è in vero una narcisista scollata dalla realtà, che riesce a intrattenersi tra saune e palestra grazie ai soldi del mantenimento che l’ex marito le versa. In questa serie capace di penetrare emotivamente un pubblico variegatissimo per fasce di età si percepisce un’inclinazione a rafforzare modelli rigidi: servizio pubblico e propaganda sono finemente intrecciati in una dinamica ben consolidata, in una sorta di gioco di equilibrio tra intrattenimento e influenza.

Anche le vicende dei ricchi e dei cattivi di Un posto al sole sono storie che toccano corde personali e intime e gli spettatori, che hanno sviluppato anche con loro un legame affettuoso ed empatico lo capiscono: anche i ricchi piangono.

Il suggerimento di modelli familiari accettabili e normali, inoltre, arriva ai telespettatori all’ora di cena, quando ci si rilassa a tavola dopo una dura giornata di lavoro. L’appuntamento con gli amici di Palazzo Palladini diventa così una coccola serale che allontana i pensieri dalle preoccupazioni, dalle ambizioni di cambiamento, dalle inquietudini e dal desiderio di contestare il sistema e le sue ingiustizie. Del resto, è più facile guardare la Tv che lottare per un mondo migliore, e la meglio parola è chella ca nun sa dice.

 L’autrice: Irene Tartaglia è coordinatrice Circolo UAAR di Roma

Nella foto: i principali protagonisti della storica soap “Un posto al sole” (dalla pagina facebook)

Berlusconi santo subito? La verità affoga nel Mediterraneo

Il corrispondente di Radio radicale Sergio Scandura ha il brutto vizio di avere la memoria lunga. Abituato a tenere gli occhi fissi sul Mediterraneo che in molti vorrebbero sguarnito ieri ha piantato un chiodo nella memoria dell’aberrante percorso che ci ha portato al processo Open arms contro Matteo Salvini, a Cutro e alle nefandezze giuridiche di questo governo. 

Lo spunto è la doppia manovra di Forza Italia che punta a ripassare il fondotinta liberale sul partito e contemporaneamente a santificare (per assolvere) la figura del suo fondatore Silvio Berlusconi. “Berlusconi non avrebbe commesso una brutalità” come quella di Salvini con Open Arms, ha detto in un’intervista a La Stampa Francesca Pascale.

E invece è falso. Nel 2009, ricorda Scandura, Berlusconi fu precursore dei respingimenti illegali consegnando con navi italiane 200 naufraghi tra le fauci del colonnello Gheddafi. Fu una delle nove operazioni di restituzione all’inferno che condannarono l’Italia come fiancheggiatrice degli orrori libici.

Furono senza dubbio i prodromi dei sanguinari accordi con la Libia del ministro Minniti e poi a scendere fino al sabotaggio dei salvataggi in mare. La greve situazione attuali ha molti padri e converrebbe ricordarseli tutti. C’è quel Luigi Di Maio che oggi annuncia il suo possibile ritorno in politica, colui che nel 2017 parlò di “taxi del mare”. Ci sono ministri e governi di ogni colore. Piantedosi è solo il risultato di una lunga e dolorosa involuzione politica a cui hanno partecipato diversi attori, incluso “l’amante delle libertà” Silvio Berlusconi. 

Buon martedì. 

Canfora non sarà trascinato in tribunale, Meloni ritira la querela

L’inizio del processo era previsto per il 7 ottobre. Ma il processo non ci sarà e Luciano Canfora, 82 anni, intellettuale di chiara fama nel panorama culturale italiano e internazionale, non rischierà di essere trascinato un’altra volta in tribunale e minacciato di dover pagare i 20mila euro richiesti da Giorgia Meloni a risarcimento di una sua presunta diffamazione aggravata.
La denuncia della presidente del Consiglio era stata avanzata il 16 aprile scorso e il giudice monocratico della prima sezione del tribunale di Bari, Antonietta Guerra, su richiesta della Procura della Repubblica, al termine dell’udienza pre dibattimentale, lo aveva rinviato a giudizio davanti al giudice preposto. Lui l’aveva definita «nazista nell’anima» e lei gli aveva risposto.
Ma vediamo come sono andate le cose. I fatti risalgono al 2022, quanto la leader di Fratelli d’Italia non era ancora premier, ma una parlamentare a capo del partito di opposizione. Il professore, docente emerito all’università di Bari nel corso di un incontro, svolto al liceo scientifico Fermi del capoluogo pugliese, l’aveva così appellata, mentre parlava della guerra in Ucraina e dei neonazisti di quel Paese. Di lei aveva aggiunto a commento come fosse «una poveretta», mentre «è trattata come una pericolosissima».
La premier aveva chiesto al docente un risarcimento di 20mila euro.
L’accusa era aggravata dal fatto di aver pronunciato queste frasi contro un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni. La difesa aveva chiesto nella passata primavera il non luogo a procedere «perché il fatto non sussiste, o perché non costituisce reato o perché non punibile per esercizio del diritto di critica, in particolare del diritto di critica politica». La premier, parte civile, aveva chiesto invece all’intellettuale un risarcimento danni di 20 mila euro.
Canfora, assistito dall’avvocato Michele Laforgia, era presente in aula; al suo arrivo aveva trovato un gruppo di sostenitori di Anpi, Cgil, Cambiare Rotta e Link. L’accusa è stata sostenuta dal pm Giuseppe Dentamaro. In aula anche il procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa e l’avvocato di parte civile per la parte offesa Luca Libbra.
A esprimersi sulla scelta recente della premier arriva quindi il post su X di un altro querelato, lo scrittore Roberto Saviano: «Luciano Canfora definì Giorgia Meloni ‘neonazista nell’animo’. La presidente del Consiglio querelò Canfora per queste parole. Ma a pochi giorni dall’inizio del processo, Meloni cerca di ridurre il peso delle sue intimidazioni ritirando la querela contro Canfora. Io sono fiero di essere stato portato a processo da questo governo banditesco e di aver, con il corpo, testimoniato il mio pensiero critico verso la ferocia delle sue politiche xenofobe».
Oggi il discredito della politica dilaga.
«C’erano una volta i partiti politici. Costituivano – come fu detto – ‘la democrazia che si organizza» secondo Canfora, che prosegue: «L’articolo 49 della nostra Carta ne scolpisce il ruolo vitale. Ora ne è rimasta soltanto l’ombra, e il discredito della politica dilaga. Dunque la conoscenza critica e storica della realtà politica si impone come esigenza ineludibile».
Sono le parole che della quarta di copertina del suo ultimo libro, Dizionario politico minimo, pubblicato da Fazi Editore, curato da Antonio Di Siena che utilizza la formula di una (lunga) intervista al professore. Si tratta di un lessico essenziale in cinquanta voci per comprendere le grandi questioni politiche del nostro tempo. Un volume di 230 pagine, organizzato per lemmi in ordine alfabetico, schietto e diretto un po’ come un manuale di politica che spiega cosa significhino “Antifascismo”, “Capitalismo”, “Costituzione”, “Democrazia”, “Guerra”, “Libertà”, “Occidente”, “Populismo”, “Potere”, “Propaganda”, “Sovranità” e così via.
Sono alcuni dei 50 termini che compongono il saggio, in cui lo storico spazia dall’antichità al mondo contemporaneo, dalla politica alla storia, dalla filosofia alla cultura, per aiutare il lettore a capire la complessità di vocaboli di cui si dà troppo spesso per scontato il significato. E, per il tramite di quelle, approfondire le principali questioni politiche dei giorni nostri. Con la lucidità, competenza e chiarezza che lo distingue, Canfora condensa oltre mezzo secolo di riflessione storico-politica, offrendo tanto ai suoi molti estimatori quanto ai neofiti, un prezioso strumento di comprensione critica della realtà.
Un testo destinato a essere un punto di riferimento nel dibattito intellettuale
In alcune voci parla il raffinato ed erudito accademico, in altre l’uomo, pungente osservatore del mondo che non ha ancora smesso di interrogarsi su di esso. In tutte emerge, con forza, un pensiero disincantato, sempre fuori dagli schemi, capace – anche grazie al costante richiamo al passato e alla conoscenza del mondo antico – di fornire una lettura alternativa del presente. Piccolo breviario laico contro il diffuso analfabetismo politico, dunque, il Dizionario è un testo destinato a diventare un punto di riferimento nel dibattito intellettuale.
Ma, intanto, sarà tempo di applicarsi a un Dizionario di politica minima, probabilmente. Perché «Il peggior analfabeta è l’analfabeta politico. Non ascolta, non parla e non prende parte agli avvenimenti politici». Uno «stupido che si vanta e gonfia il petto dicendo che odia la politica». Un «idiota» che non sa «che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il bambino abbandonato, il ladro e il peggiore di tutti i banditi: il politico imbroglione, corrotto, lacchè delle imprese nazionali e multinazionali». Autore della poesia, Bertold Brecht, forse. O forse no, sottolinea nell’introduzione Di Siena, strizzandoci l’occhio.

L’autrice: Rossella Guadagnini è giornalista e attivista

In foto Luciano Canfora, foto di Di Antonio Pignato – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=119203361

Zincone:«Regaliamo una undicesima vita a Matteotti»

La moglie Velia lo chiama «signor dieci vite». Perché è questo che lui desidera, avere dieci vite. E, in qualche modo, le vive per davvero. È proprietario terriero, sindacalista, amministratore locale, soldato antimilitarista, giurista brillante e polemista raffinato, deputato socialista, segretario di partito, primo degli antifascisti, nonché padre e marito, per quanto un po’ assente. Nel centenario del suo omicidio, Vittorio Zincone, giornalista e autore di Piazzapulita, in una biografia puntuale e appassionata, Matteotti dieci vite (Neri Pozza, che viene presentata il 7 ottobre alla Casa della Memoria a Milano) restituisce la figura di un uomo – prima ancora che un politico – curioso, puntiglioso, inarrestabile, la cui voce e le cui idee riemergono salde e commoventi attraverso gli avvenimenti pubblici e privati, i carteggi con la moglie, gli articoli sferzanti, i discorsi parlamentari. 

Zincone, partiamo dall’epilogo: l’omicidio.

La cronaca è nota: il 10 giugno del 1924, alle 16.30, la Ceka fascista attende Matteotti sul lungotevere Arnaldo Da Brescia. Lo carica in macchina, lo accoltella e lo scarica nel bosco della Quartarella, dove il corpo viene ritrovato il 16 agosto. Ancora oggi non mancano speculazioni folli, se non manipolatorie, sul mandante dell’assassinio. Mussolini il 3 gennaio del ’25 ne rivendica la responsabilità morale e politica, ma non quella penale. Eppure basta fare qualche passo indietro: nel gennaio del ’24 Matteotti pubblica un opuscolo dal titolo Un anno di dominazione fascista. Vi si legge: «I numeri, i fatti e i documenti dimostrano… che mai tanto come nell’anno fascista, l’arbitrio si è sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la nazione in due ordini: dominatori e sudditi». A questo punto della sua vita (o delle sue vite) di antifascita, Matteotti è già stato aggredito, rapito, seviziato, allontanato per sempre da casa e minacciato di «ritrovarsi con la testa rotta (ma proprio rotta)». Sa bene che cosa rischia, e non si ferma. Alla Camera dei deputati, il 30 maggio 1924, contesta le elezioni del 6 aprile, elencando le violenze commesse dai fascisti. Quindi, al compagno a fianco, dice: «Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Serve altro per capire chi sia il mandante?

A Matteotti sono intitolate vie e piazze. Si è immortalato l’eroe, ma l’uomo e il pensiero politico sono stati ignorati per decenni. Eppure le sue idee, per esempio sulla scuola, sono di un’attualità sconcertante.

Ho voluto toglierlo dal piedistallo e raccontare l’uomo nella sua interezza. Matteotti non è uno che si fa amare: è pedante, intransigente. Anche con Velia, nonostante si amino, è poco presente e a tratti scostante, quasi crudele. Ma come politico è straordinario, perché dice e fa sempre le cose giuste, e nel modo giusto. Mi piace pensare che possa essere un esempio raggiungibile. È un socialista riformista, ma radicalissimo. Crede in un cambiamento graduale che parta dal basso, attraverso riforme sociali e investimenti nell’istruzione. Ha una chiara visione di cosa dovrebbe essere la scuola, cioè «qualche cosa per cui almeno per quattro o cinque anni la gente del popolo… impari qualcosa che sia fuori del lavoro immediato, impari anche delle astrazioni. Vogliamo che questo insegnamento sia libero, poetico, astratto, perché ne godano per una piccola parte di tempo e ne portino con sé il ricordo per qualche anno». Oggi che ci ritroviamo con l’alternanza scuola-lavoro, e i nostri ragazzi trattati come polli da batteria, risultano modernissime queste parole pronunciate 105 anni fa.

È antimilitarista: un’altra delle sue avventurose vite?

Nel 1914, Mussolini, allora dirigente del Psi e direttore dell’Avanti, cambia posizione sulla guerra e invita i socialisti ad abbandonare il neutralismo. Matteotti non è che un giovane consigliere locale, ma ha già una vis polemica straordinaria. Scrive un articolo intitolato “Mussoliniana”, e denuncia la doppiezza paracula del futuro duce: «Quando un uomo arriva a comporre un manifesto per la neutralità assoluta, a lanciarlo per tutta Italia come segno di un partito, e venti giorni dopo ne parla come di un puro esercizio dialettico di propaganda, dal quale l’azione deve essere diversa, anzi opposta, il giudizio è chiaro…». E nel “maggio radioso” del 1915 scrive un altro articolo, “L’ultima vergogna”, in cui smaschera i meccanismi  della propaganda: «Doveva finire così. Cioè, doveva cominciare così: la povera bestia (il popolo) doveva andare al mattatoio gridando gioiosa, le bandierine multicolori infisse sul capo…. Prepariamoci ormai a vedere dilagare la menzogna; prepariamoci a leggere vittorie sopra vittorie…. Orsù lavoratori, che fate, levatevi il cappello, passa la patria, e ormai più non ci sono i socialisti, passa la rovina, passa la guerra, e voi date ancora la vostra carne martoriata». L’estate dello stesso anno si ammala ai polmoni. Viene riformato. A gennaio del ’16 sposa Velia. Potrebbe partire in viaggio di nozze, avere una bella vita. Invece durante una seduta del Consiglio provinciale di Rovigo  si scaglia così duramente contro la guerra che viene denunciato per sedizione, processato e condannato. Non finisce qui. L’esercito lo ripesca, non importa che sia riformato: lo spediscono in Sicilia, per trenta mesi. Nel 1919 viene eletto deputato e arriviamo al 1921: divampa la violenza fascista e Matteotti comincia a denunciare il pericolo di una dittatura. 

Perché è importante, oggi, recuperare il pensiero e la figura di Matteotti?

Oggi una parte della classe dirigente tenta di riscrivere la storia. Il presidente del Senato dice che a via Rasella c’era una banda di musicisti pensionati e non dei nazisti in armi. Il presidente del Consiglio dichiara che alle Fosse Ardeatine sono stati massacrati degli italiani, e non degli antifascisti e degli ebrei. Serpeggia un abbaglio storico, secondo cui il fascismo sarebbe diventato cattivo dal ’38 con le leggi razziali, o dal ’40 con l’entrata in guerra, lasciando intendere che ci sia stato un buon Mussolini, poi traviato da Hitler. Matteotti denuncia alla Camera la natura violenta e corrotta del fascismo già nel gennaio del 1921, diciotto mesi prima della Marcia su Roma e quattro anni prima delle leggi fascistissime. Un mese prima dell’omicidio, a un professore universitario che lo invita a lasciare la politica, risponde: «Non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso». Nell’Italia di Mussolini, “il posto più pericoloso” è quello di deputato del Regno. Matteotti è un guastafeste, un “rompipalle” che non arretra davanti a nulla. I suoi allarmi non vengono ascoltati. La sua biografia è anche la triste storia di uno Stato liberale che si arrende in silenzio. Oggi, nel vuoto di radicalismo e di proposte profondamente riformiste, i discorsi di Matteotti risuonano incredibilmente attuali e potenti. Dobbiamo rileggerlo, sempre e ovunque, e soprattutto nelle scuole. Dobbiamo regalargli… un’undicesima vita.

Trump ha cambiato idea sulle auto elettriche

Impegnato nella sua focosa campagna presidenziale negli Usa Donald Trump è stato il più grande mistificatore delle auto elettriche, assurte a male assoluto dell’Occidente. Per Trump i veicoli elettrici sarebbero stati il simbolo della decadenza occidentale – non si è mai capito perché – e tra le sue squinternate proposte c’è stata a lungo anche quella di “vietare i veicoli elettrici”. 

I suoi elettori ovviamente hanno esultato. La politica di Trump, come quella dei gaglioffi sovranisti che popolano questo tempo, si contraddistingue per lo sconsiderato amore per i divieti. I suoi sostenitori, come quelli degli altri sovranisti, non vedono l’ora di vedere capitalizzati i loro voti per suggellare un nuovo divieto. Sono regressisti nell’animo, intimamente reazionari, convinti che sia affascinante tornare all’età del ferro per editto presidenziale. 

Per questo da mesi il faccione di Trump era l’amuleto dei negazionisti climatici, quelli che negano l’impatto dell’inquinamento ma poi snocciolano – a caso –  l’inquinamento prodotto dalle tecnologie che avversano. È la solita triste solfa: riconoscono solo i danni delle tecnologie che combattono resi servi dalle lobby mentre vorrebbero combattere i poteri forti. 

Ora Trump ha cambiato idea. “Sono favorevole alle auto elettriche. Devo esserlo perché Elon mi ha dato un grande supporto. Quindi non ho scelta”, ha detto qualche tempo fa. Trump si è spinto perfino a consigliare all’amico Musk di produrre almeno qualche auto ibrido, almeno per toglierlo dall’imbarazzo. La politica comunque ora è più chiara: non avere idee, coltivare solo amicizie. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame del video, Donald Trump e Elon Musk, Butler, 5 ottobre 2024

Cronaca dalla manifestazione pacifica di oggi pro Palestina

Sulla manifestazione pro Palestina che si è svolta il 5 ottobre sarà necessario fare un ragionamento più approfondito nei prossimi giorni, ma a caldo alcuni punti sono, ad avviso di chi scrive, fondamentali, da chiarire subito. Il primo riguarda ciò che sta accadendo a Gaza: oltre 40mila civili sono stati uccisi dalle milizie israeliane. Molti di loro sono minorenni e bambini. Sacrosanto manifestare contro tutto questo pacificamente. Lo garantisce la Costituzione. Ma oggi si è tentato di annullare gli spazi democratici in Italia. Il ministro Piantedosi si era assunto la responsabilità di vietare la piazza, utilizzando non esplicati problemi di ordine pubblico che sarebbero potuti insorgere. La decisione era politica: in prossimità dell’anniversario della strage di civili compiuta da Hamas il 7 ottobre, e anche per le prese di posizione di alcuni fra i promotori della manifestazione, la decisione presa al Viminale è stata quella di impedire la mobilitazione. Col risultato che, al di là del comitato promotore, in molte e molti, hanno deciso di scendere egualmente in piazza sfidando il divieto, ritenendo violato uno dei principi cardine della democrazia, la libertà di esprimere le proprie opinioni. Arci Roma, Non una di Meno, la Rete “No Bavaglio”, Rifondazione Comunista, ed altre/i a titolo collettivo o individuale, hanno scelto di esserci. E piazzale Ostiense, totalmente accerchiata dalle forze dell’ordine presenti in maniera massiccia, è stata, dalle prime ore del pomeriggio, un luogo in cui manifestanti di ogni età e di diversa appartenenza, nonostante l’iniziale pioggia battente, hanno cominciato ad affluire. Le frasi, gli striscioni, i cartelli parlavano di solidarietà verso i popoli del Medio Oriente, non solo quello palestinese, ma anche in Libano, in Yemen.

Quello che abbiamo visto  con i nostri occhi oggi in piazza  è uno stare in piazza pacifico, non violento, di uomini e donne indignate che chiedevano soprattutto il cessate il fuoco ed una soluzione ad un conflitto che dura da ormai 76 anni.

In mattinata era giunta, informalmente l’autorizzazione ad un presidio stanziale in piazzale Ostiense. Le stesse dichiarazioni rese dal nuovo questore di Roma, giovedì 3 ottobre e il cauto segnale dello stesso Piantedosi, perfino lasciavano ben sperare. Ma la limitazione della presenza in piazza era già stata predisposta ai più alti livelli: pullman fermati ai caselli autostradali e rimandati indietro, circa 40 fogli di via emanati verso persone che si apprestavano a venire a Roma, posti di blocco ed identificazioni in tutta la città, ad oggi circa 1600 le persone di fatto schedate senza che a nessuno di loro potessero essere imputati reati quali il possesso di armi improprie o altri elementi in grado di nuocere alla sicurezza nazionale. Ad alcuni pullman è stato impedito di partire, ad uno, proveniente dalla Versilia e noleggiato da ragazzi dei centri sociali, è stato letteralmente imposto di tornare indietro. E ci vengono segnalati molti casi simili. Fra i tanti episodi da segnalare quello di un pullman di linea – sono stati fermati anche quelli – proveniente da Napoli, da cui è stato fatto scendere dopo i controlli un ragazzo che aveva come unico “neo” quello di avere un nome e cognome arabo. Nessuna altra ragione, è stato appurato, ha condotto a tale provvedimento di chiara impronta razzista. Verso le 16, al momento di massimo afflusso, almeno 8000 persone erano presenti ed in maniera tranquilla.

Il comitato promotore ha provato a trattare con le forze dell’ordine la possibilità di fare un corteo e ad un certo punto si era anche diffusa la voce che si sarebbe potuto svolgere. Così non è stato. Per oltre un’ora i manifestanti hanno improvvisato un corteo all’interno della piazza con striscioni e slogan, mentre, soprattutto la polizia, si preparava in modalità antisommossa.

La tensione saliva ma, vuoi la stanchezza, vuoi il fatto che chi era venuto per protestare contro il divieto di manifestazione e contro l’imminente approvazione in Senato – alla Camera è già passato – del ddl 1660, in molte e molti hanno lasciato la piazza. È iniziato allora un curioso corteo attorno al perimetro della piazza in cui sembrava si cercasse il pertugio da cui poter uscire in massa. Lo scontro fra un gruppo di giovanissimi manifestanti e agenti della Guardia di finanza, ha dato il la al lancio di lacrimogeni e all’utilizzo di idranti che hanno colpito molte e molti di coloro che erano rimasti, pacificamente nella piazza. Mentre scriviamo si contano almeno 5 manifestanti fermati durante gli scontri, uno dei quali sarà processato per direttissima. Almeno 3 quelli feriti, ma in numerosi hanno rifiutato di recarsi in strutture ospedaliere per non rischiare l’arresto. Le forze dell’ordine denunciano invece che una trentina di agenti avrebbero riportato contusioni, effetto che stupisce guardando anche le riprese degli scontri. Sempre fra i manifestanti il tam tam in tutta Italia racconta di fermi, ulteriori fogli di via e di sanzioni rivolte soprattutto a ragazzi di origine araba.

Le forze della destra cercano già di strumentalizzare quanto avvenuto e che certamente andava evitato. Certo che il confronto con l’immensa mobilitazione londinese, oltre 200 mila persone, per la pace in Palestina, dovrebbe costringere a comprendere come si debba lavorare per la costruzione di un ampio schieramento pacifista. La piazza romana sarà riconvocata sabato prossimo dalla Comunità palestinese di Roma e del Lazio che non ha condiviso la piattaforma del 5 ottobre ed ha scelto di definire un proprio manifesto su cui aggregare più forze. Il movimento pacifista sta ragionando per una giornata nazionale – le cui modalità andranno definite ma che non confluiranno in una scadenza nazionale – che si terrà il 26 ottobre, come primo passo per la ricostruzione. C’è insomma da lavorare e il tempo stringe perché nel frattempo, il rischio di un ulteriore allargamento del conflitto in Medio Oriente sembra sempre più vicino.

L’autore: Stefano Galieni è giornalista, politico attivista Prc ed esperto di politiche della migrazione