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Lotti: il ministro (per sport) che sussurra ai pm

Luca Lotti arriva al Nazareno durante la riunione dei segretari regionali e provinciali del PD, Roma, 21 dicembre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

È cronaca patinata: il ministro per sport dopo essersi catapultato a Roma qualche giorno fa per “vederci chiaro” sull’indagine che aveva smentito (con tanto di post da libro Cuore in cui lamentava di aver dovuto lasciare gli affetti per “partire subito”, tanto per segnare ancora una volta la distanza con il mondo reale di turnisti, trasfertisti e disoccupati) oggi è stato interrogato. Quindi: l’indagine c’era (e allora Lotti esattamente cosa aveva smentito?) e la cronaca dell’incontro di ieri con il magistrato è affidata all’avvocato di Luca Lotti. “Ha negato tutte le accuse” ha detto il legale.

E in molti subito a scrivere paginoni per dire che è tutto a posto. Va bene così. Lotti ha detto che non ne sa niente e tutti a casa per prepararsi al capodanno. Attenzione: il magistrato non ha detto nulla ma la versione “vera” è quella del ministro.

Ora: sinceramente mi viene difficile pensare che un sottosegretario (ai tempi Lotti era sottosegretario all Presidenza del Consiglio) e un Generale dei Carabinieri possano avvisare un indagato per dirgli di controllare eventuali cimici che, guarda caso, vengono controllate, trovate e bonificate ma che la cronaca dell’indagine sia in gran parte delegata alla difesa dell’imputato mi procura una strana sensazione. Sapete quelle gite a Loreto a 1 euro in cui per tutto il viaggio ti regalano pasta e pomodoro e provano a venderti pentole? Ecco, una sensazione così.

Buon mercoledì.

I migliori libri del 2016 scelti dai media internazionali

Quali sono stati i romanzi e i saggi più interessanti pubblicati nel 2016? Quelli assolutamente da non perdere? Ecco i libri consigliati dalle maggiori testate internazionali dal New York Times, al Guardian, da El Pais al New Yorker, dall’Express a Buzzfeed a molti altri. Buona lettura.

Zadie Smith
Zadie Smith

 Swing Time di Zadie Smith. Il nuovo libro della scrittrice inglese arriva  a tre anni da NW (Mondadori, 2013), dove raccontava la vita in quartiere nel nord ovest di Londra, (lei stessa è cresciuta in quella zona). Il nuovo Swing time, in cui l’elemento di fantasia è maggiore, ha avuto recensioni entusiaste e in Gran Bretagna già si parla di un suo prossimo adattamento cinematografico.  L’autrice di Denti bianchi (Mondadori, 2001), che fu un caso letterario in tutto il mondo ha scritto un romanzo forte e convincente, che in maniera sotterranea, ma non per questo meno penetrante, parla del razzismo che ancora si respira perfino nella multietnica Londra. Il titolo fa riferimento agli anni Trenta e alle performances al cinema di  Fred Astaire e Ginger Rogers, di cui le due protagoniste, ballerine di tip tap, vanno matte. Ne esce un romanzo di formazione molto cinematagrafico ambientato in parte nella capitale britannica, in parte in Africa e altrove. Siamo tra gli anni Ottanta e Novanta e la storia racconta  i sogni di due ragazzine di colore cresciute in case popolari: una ha talento e sfrontatezza, l’altra è timida e tende a vivere di luce riflessa, per entrambe sarà una partita senza esclusione di colpi.  Nella traduzione di Silvia Pareschi e con il titolo Follie d’inverno il libro uscirà in Italia per Mondadori il 29 agosto 2017 ( Swing time è fra i best boooks 2016 del NYTimes,  BBC, The Atlantic, Washington post, Esquire, The Guardian).

 

Safran Foer
Safran Foer

 Eccomi  di Jonathan Safran Foer. Pubblicato in Italia da Guanda, è il romanzo con cui lo scrittore americano si è ripresentato al pubblico dopo un lungo silenzio durato undici anni. Marco Missiroli sul Corsera lo ha definito «opera-mondo che si insinua nelle fondamenta della società, e nei nostri amori»Eccomi fa incontrare la piccola realtà quotidiana di una famiglia di origini ebraiche a Washington con l’ampio scenario del Medio Oriente e dei conflitti che lo attraversano. Veniamo così catapultati nella vita di Nathan Englander, dei fratelli Singer, Isaac Bashevis e Israel Joshua. Le cose di ogni giorno – fra crisi adolescenziali, i tradimenti coniugali, liti, scontri – tratteggiano il progressivo sgretolamento di una famiglia a cui fa eco il collasso dello Stato ebraico.  «Questo non è un libro autobiografico, anche se è il mio romanzo più personale», ha detto Foer presentando il romanzo in Italia. E forse ha ragione, benché il protagonista sia fortemente radicato in una certa cultura ebraica americana,è un uomo qualunque che d’un tratto costretto a confrontarsi con la Storia. Ed è questo dramma, questa dinamica, a dare un respiro universale a questa saga familiare, di cui altrimenti avremmo anche potuto fare a meno. (Fra i miglior libri del 2016 per  Time, The Guardian, New York Times).

Colson Whitehead
Colson Whitehead

Underground Railroad  di Colson Whitehead. Con una sapiente combinazione di fiction e documentazione Whitehead riesce a ricostruire un pezzo di storia che gli americani con grande facilità tendono a “dimenticare”. Lo scrittore narra la vicenda di alcuni schiavi  fra i quali la quindicenne Cora, che cercano una via di fuga da una piantagione di cotone della Georgia puntando a nord attraverso una ferrovia sotterranea. Termine che allude alla rete di rapporti solidali che gli schiavi utilizzavano per uscire dalle condizioni disumane in cui erano costretti dai latifondisti. Con un piccolo slittamento di prospettiva, il romanzo (che ha vinto il  National Book Award per la fiction) guida il lettore in una realtà mai vista prima nella letteratura che tratta il tema della segregazione razziale. Whitehead si è documentato su fonti storiche come Edward Baptist, Eric Foner e Michelle Alexander, ma per raccontare non solo i nudi fatti. Mostrando che lo sfruttamento dei neri è la voragine su cui poggia tutta la storia statunitense e che la storia degli schiavi è stata sottratta a chi l’ha subita essendo stata scritta da altri, nella versione imposta dalla supremazia bianca. (Segnalato da The Independent, The Guardian, NY Times, Washington post, Esquire).

Questo è Kafka
Questo è Kafka

Questo è Kafka? di Reiner Stach. Fra biografia, storia, racconto,  ciò che Stach racconta di Kafka, con grande fluidità narrativa,  è minuziosamente documentato. Il biografo tedesco ha trascorso diciotto anni sulle tracce dello scrittore ceco tuffandosi nel suo mondo, cercando di fare proprio il suo stile letterario, di capire la psicologia dell’autore de Il Processo e di tanti altri capolavori. Riuscendo così a tratteggiare un Franz Kafka fresco e umano; lontano da interpretazioni accademiche. Il tetntativo, scrive l’autore, era  di liberarlo da «un’immagine stereotipata, che riduce Kafka a una sorta di essere alieno: … un uomo inquietante che suscita cose inquietanti». Questo suo immane lavoro ha dato nuova vita a questo enigmatico e fondamentale scrittore del XX secolo. Reiner Stach ne ripercorre la vicenda attraverso novantanove “reperti” che corrispondono ad altrettanti momenti ed episodi raccontati attraverso testimonianze compresa quella della fidanzata Milena ( che alla morte dello scrittore annotò: «La sua era una coscienza tanto scrupolosa da rimanere vigile anche là dove gli altri, i sordi, già si sentivano al sicuro». Da questa monumentale opera emergono molti aspetti poco noti  di Kafka, come le sue frequentazioni in casinò e bordelli, le risate che non tratteneva di fronte a ingessati e prepotenti superiori. Torna qui la prima Lettera al padre, che cominciava con«Cari genitori» e momenti di vita vissuta come la pubblica lettura della Colonia penale in una galleria di Monaco, dove il pubblico non resse e  se ne andò, ma anche momenti tenerissimi come quando lo scrittore s’inventa una storia bellissima per consolare una bambina che, nel parco, piange a dirotto. (Segnalato da El Pais).

Elizabeth Strout
Elizabeth Strout

Mi chiamo Lucy Barton di Elizabeth Strout  Il precdente romanzo della scrittrice americana accennava a un rapporto difficile, scostante fra madre e figlia, in cui la figlia ad un certo punto dice fra sé e sé: «Nessuno conosce mai veramente qualcuno».  In certo modo  I ragazzi Burgess apriva la strada a questo nuovo romanzo della scrittrice statunitense basato sulle memorie d’infanzia che emergono nella protagonista mentre va a trovare la madre, da cui è da tempo lontana, in un ospedale a  Manhattan, quasi nell’imbarazzo di incontrare un’estranea. «Quegli imbarazzi che si creano perché è più facile non affrontare il passato irrisolto – ha scritto Paolo Giordano sul Corriere recensendo questo libro -. I rapporti umani inciampano sull’invisibile, s’incastrano, e molte volte ciò accade a dispetto delle migliori intenzioni». Ma è proprio da quelle vaghe memorie di bambina nell’Illinois povero e rurale che si apriranno nuove porte .«Strout si conferma una narratrice grandiosa di sfumate vicende famigliari, capace di tessere arazzi carichi di saggezza, compassione, profondità. Se non l’avesse già vinto con Olive Kitteridge, il Pulitzer dovrebbe essere suo per questo nuovo romanzo», scrive Hannah Beckerman, del Guardian. Anche questo nuovo romanzo di Strout è uscito in Italia nei Coralli di Einaudi (Fra i migliori libri del 2016 per The Spectator, BBC, Time, The Guardian).

tejuIl punto d’ombra di Teju Cole è una straordinaria e, per certi versi, inaspettata raccolta di saggi pubblicata da Contrasto. Non una comune raccolta di saggi, ma un libro d’arte, caratterizzato da una raffinata impaginazione di testi letterari e fotografie, evocative, poetiche, quanto la prosa. L’intensità, l’attenzione che lo scrittore americano  di origini nigeriane mette in ciò che guarda  rende la pagina “radiante”. In questa raccolta, più di quanto accadesse nei suoi precedenti romanzi – Open City  e Every Day Is for the Thief – Cole si lascia andare, segue il filo di una narrazione interiore, apparentemente divagando come un moderno  flâneur, fra fotografia, musica e geopolitica.  Nelle tre sezioni del libro intitolate Reading Things, Seeing Things e Being There, Teju Cole intreccia riflessioni, denuncia, abbozzando scenari possibili, nuove idee. “Death in the Browser Tab”, in particolare, ci parla della brutalità della polizia verso le persone di colore, denunciando episodi di razzismo neanche troppo mascherato.  Ma non  c’è rabbia, semmai l’urgenza di cambiare le cose, mista una struggente nostalgia e un pathos contagioso. (Nella top ten di The Atlantic e BBC)

Il Ritorno di Matar
Il Ritorno di Matar

Il ritorno di Hisham Matar. Dopo libri toccanti e profondi come Anatomia di una scomparsa e Nessuno al mondo (pubblicati  in Italia da Einaudi, come The return di prossima uscita in Italia) lo scrittore libanese racconta il  viaggio di ritorno nel Paese dove è nato e dal quale lo separano 33 anni di esilio. La sua famiglia aveva lasciato Tripoli nel 1979 . Suo padre, Jaballa Matar, è stato l’ eroe della Resistenza all’occupazione italiana, ma anche un uomo molto vicino a re Idris, tanto che nel 1969  dopo il colpo di Stato di Gheddafi è rientrato da Londra per lottare contro il regime, ma è stato sequestrato  e ucciso dopo una lunga prigionia. «Quando Gheddafi ha preso mio padre», scrive Matar (che all’epoca aveva venticinque anni mente Jaballa cinquantasette), «mi ha confinato a un luogo non molto più grande della sua cella. Per anni ho camminato avanti e indietro, rabbia in una direzione, odio nell’altra». Poi la rabbia si è trasformata in disperazione e in un attivismo forsennato, con organizzazioni che lottano per i diritti umani, cercando al contempo di liberare gli zii e i cugini imprigionati per più di vent’anni anni ad Abu Salim, e scampati per miracolo al massacro del giugno 1996, quando 1.270 prigionieri furono trucidati in poche ore. Di suo padre, Hisham Matar non ha saputo nulla se non che è stato ucciso proprio mentre lui era alla National Gallery di Londra e guardava l’assassinio dell’imperatore Massimiliano dipinto da Manet, lo stesso che ora campeggia in copertina de Il ritorno. (Segnalato da NW times e Time, Financial Time, Washington post, Newstatesman).

 

 bernieOur revolution di Bernie Sanders è il libro da leggere per conoscere più da vicino i contenuti che hanno innervato la campagnia di questo insolito democratico che ha osato candidarsi alla Casa Bianca dicendosi socialista. Ma in Italia circolano anche il suo Quando è troppo è troppo pubblicato da Castelvecchi e Un socialista alla Casa Bianca?  edito da Jaca Book, con uno scritto di Marco D’Eramo. Come è noto,”Bernie” è stato il primo candidato nella storia Usa a rifiutare i finanziamenti dei grandi donatori, delle lobby e di Wall Street, presentando un programma di cambiamento radicale, stando dalla parte dei giovani, dei disoccupati, dei lavoratori, della classe media impoverita dalla crisi. Nel libro, attraverso una selezione dei suoi maggiori discorsi, si ritrova, con chiarezza, il suo pensiero politico. (Consigliato da The Independent).

image The Association of Small Bombs di Karan Mahajan. Nell’affollatissimo mercato di Lajpat Nagar, a New Delhi devono fare una commissione e tornare a casa. D’un tratto un’esplosione,  una bomba  li uccide sul colpo.  Il romanzo di Karan Mahajan racconta gli effetti devastanti di quella “piccola” bomba sulle vite di chi resta.  Raccontando come quell’attentato cambia per sempre le vicende, non solo dei genitori dei ragazzi uccisi, ma anche di  Mansoor, che dall’attentato si è salvato per un soffio. In parallelo racconta del terrorista Shockie, attivista per l’indipendenza del Kashmir, che alla causa della regione montuosa contesa da India e Pakistan ha sacrificato tutto. La forza dell’affabulazione, l’ntrospezione dei personaggi, l’abilità nel costruire l’intreccio fanno di questo nuovo lavoro di Karan Mahajan un piccolo grande capolavoro secondo i critici del New York Times. Facendo  entrare il lettore all’interno le loro contraddizioni. Al contempo l’autore obbliga ad  esaminare il”fascino” pericoloso che possono esercitare gli estremismi su fasce di persone giovani, in un aree del mondo oppresse.  Nato negli Stati Uniti dove attualmente vive, dopo essere cresciuto a New Delhi, Mahajan  esce – dopo il successo de La moglie sbagliata  -con un’opera ancora più matura.  The Association of Small Bombs sarà pubblicato il 26 gennaio 2017  in italia da Garzanti ( come il suo precedente romanzo) con il titolo Erano solo ragazzi . (Fra i migliori libri del 2016 per il  NY Times, Financial Times, Time, Esquire, Guardian)

 

 

Paul Beatty, Man Booker Prize 2016
Paul Beatty, Man Booker Prize 2016

Lo schiavista di Paul Beatty. Se ne è parlato molto anche in Italia, non solo perché con questo romanzo lo scrittore Paul beatty ha vinto il Men Booker Prize, per la prima volta nella storia del prestigioso premio inglese assegnato a uno scrittore americano. Ma perché questo romanzo utilizza uno spiazzante ribaltamento per far riemergere una tremenda verità della storia statunitense. Beatty indaga l’eredità profonda dello schiavismo che ancora intossica la cultura americana. Mette alla gogna il razzismo costruendo una satira imprevedibile in cui un nero, dopo una vita di vessazioni, iniziate da ragazzino, impazzisce, diventando come i bianchi che pensano che sia giusto segregare, sfruttare, opprimere altri esseri umani, perché hanno un diverso colore della pelle.  Così decide di recintare un intero quartiere per ristabilire una forma di segregazione. E lo fa con successo. Ma non si tratta solo di un romanzo che porta il lettore, non senza una certa dose di humour , sul terreno di una distopia magistrale, la forza de Lo schiavista risiede soprattutto nel suo sapiente alludere al presente. Diventato presto un best seller ha avuto anche il merito di segnalare il lavoro creativo e di scouting di case editrici americane che non sono dei colossi editoriali. In Italia è pubblicato da Fazi. (segnalato fra i migliori romanzi del 2016 da The Guardian, Financial Times, New York times). Qui l’intervista di Left

Julian Barnes
Julian Barnes

Il rumore del tempo di Julian Barnes.  «Venivano sempre a prenderti nel cuore della notte. E, dunque, piuttosto che farsi trascinare fuori dall’appartemento in pigiama, o essere costretto a vestirsi sotto lo sguardo sprezzante e imperturbabile di un agente della Nkvd preferiva coricarsi vestito sopra le coperte con la  valigetta pronta». Così la voce narrante di questo nuovo romanzo di Barnes racconta la vita di Dmitrij Šostakovič , dopo che – il 29 gennaio del 1936 – la Pravda l’aveva attaccato definendo  la sua Lady Macbeth nel distretto di Mcensk  «un caos anziché musica». L’autore de Il pappagallo di Flaubert e del toccante Il senso di una fine  traccia un elegante ritratto del compositore russo sotto Stalin. «Un capolavoro intenso che tratteggia la vita di un uomo attraverso la lotta della sua coscienza e della sua arte con le pretese impossibili del totalitarismo», ha  scritto Alex Preston sul Guardian, che lo consiglia fra i libri dell’anno, insieme alla redazione della BBC.

 

Sarah Bakewell
Sarah Bakewell

Il caffè degli esistenzialisti di Sarah Bakewell. Già autrice di una biografia di Montaigne che aveva il dono della leggerezza, senza perdere di profondità, Bakewell ha compiuto un’altra impresa, riuscendo ad affrescare una biografia collettiva, polifonica e insieme limpidissima della generazione degli esistenzialisti francesi, a cominciare da Sartre e Beauvoir, raccontando come l’insoddisfazione di studenti obbligati a studiare l’idealismo di Hegel e a confromarsi alle fredde geometrie kantiane, fra un aperitivo e l’altro, scoprirono una nuova maniera di fare filosofia, rendendola più vicina alla vita. Ad aprire loro gli occhi, racconta Sarah Bakewell (che viene da studi filosofici), fu in particolare la fenomenologia di Husserl. Sartre, Beauvoir, Camus, Aragon, Merleau-Ponty ne furono profondamente influenzati. La scrittrice inglese racconta il formarsi del loro pensiero, mescolando biografia, storia, riflessioni. Lo fa in maniera coinvolgente e insieme lucida. Lasciando emergere dalla trama quasi romanzesca degli eventi, le contraddizioni che minavano alla base l’esistenzialismo sartriano, basato sull'”essere per la morte” di Martin Heidegger. Tanto che l’autore de La nausea decise di lasciare Parigi per trasferirsi in Germania in un anno fatidico, il 1933, quando Hitler prendeva il potere e Heidegger pronunciava il famigerato discorso all’università tedesca in cui faceva aperta professione di nazismo. (Segnalato fra i migliori libri dell’anno dal New york Yimes e The Telegraph. Qui l’intervista di Left a Bakewell)

 

Elena Ferrante
Elena Ferrante

La trilogia di Elena Ferrante  ha avuto un successo senza pari nei  Paesi anglosassoni e in Francia, tanto che la prestigiosa rivista Lire, che assegna venti palmarès scegliendo fra i libri dell’anno,  segnala in vetta  i suoi romanzi pubblicati Oltralpe da Gallimard. Il settimanale L’express  accenna che forse gli ultimi lavori non entusiasmano come L’amore molesto ma definisce irresistibile tutta questa saga di lungo corso, in cui  emergono soprattutto i personaggi di Lila ed Elena, le due bambine della periferia popolare  napoletana che resistono alle durezze della vita con una disperata, disarmante, vitalità.  Il settimanale francesecritica apertamente i media italiani che nel 2016 hanno cercato di violare la scelta di anonimato dell’autrice e omaggia la scelta di Elena Ferrante riconoscendole di  voler così rivendicare una assoluta libertà nell’esplorare anche in modo crudo, senza infingimenti, la complessità dei sentimenti delle sue protagoniste. Intanto in Italia le Edizioni e/o che l’hanno scoperta pubblicano La frantumaglia  in cui Ferrante racconta la propria esperienza di scrittrice (segnalato da L’express e dal Guardian).

Svetalana Aleksievic
Svetalana Aleksievic

Tempo di seconda mano di Svetlana Alexievich, che in Italia è stato pubblicato nel 2013  da Bompiani,  è stato pubblicato nel 2016 nei Paesi anglosassoni. Anche in questo caso il merito va alle Edizioni e/o che hanno scelto coraggiosamente di pubblicare i libri della giornalista russa già nei primi anni Novanta e soprattutto ha avuto il merito di tenerli in catalogo nonostante le scarsissime vendite, che poi hanno avuto un’impennata nel 2015 quando Svetlana Alexievich ha vinto il premio Nobel. In questo libro, che nella traduzione inglese s’intitola Secondhand Time, la scrittrice racconta il crollo dell’Urss, attraverso interviste e testimonianze orchestrate in maniera narrativa. Ne emerge un impressionante affresco, costruito sulla storia orale e coraggiosamente lontano dalla retorica di regime. ( Consigliato da Buzzfeed, BBC, Time).

 Hanya Yanagihara
Hanya Yanagihara

A Little Life di Hanya Yanagihara. Negli Stati Uniti è stato uno dei casi editoriali dell’anno ed ha avuto riscontri anche in Italia dove il romanzo è stato pubblicato da Sellerio, con il titolo Una vita come tante, grazie a uno dei migliori editor e traduttori dall’americano in circolazione, Luca Briasco ( ha scoperto anche Le ragazze di Emma Cline). L’intreccio dei percorsi di quattro amici che si sono conosciuti al College e il modo in cui reagiscono alla disperazione in cui cade uno di loro è alla base di questo corposo romanzo che racconta in chiave intimista dolorosi spaccati di vita della nostra epoca. Negli Stati Uniti ha venduto molto e raccolto molti premi. Un esordio di alta qualità letteraria, così è stato definito da The Atlantic, che lo segnala insieme a The Literary Hub.

 

rawimage The way to the Spring. Life and Death in Palestine di Ben Ehrenreich. Attraverso la storia di una famiglia palestinese, Ehrenreich racconta quel che accade oggi. All’indomani della presa di posizione degli Usa contro gli insediamenti dei coloni israeliani, che Obama lascia in eredità al nuovo presidente Trump, questo libro inchiesta aiuta a capire cosa accade quotidianamente nelle zone di maggiore tensione, raccontando le dinamiche che fomentano la rabbia e il modo in cui l’esercito israeliano  provoca reazioni violente. Emblematica, per esempio, la conversazione che l’autore riporta nel libro, in cui l’ex soldato israeliano Eran Efrati gli permette di capire come funziona l’occupazione. Ehrenreich lo incontrò a Gerusalemme «all’inizio di una guerra su Gaza che avrebbe lasciato più di 2.000 Palestinesi morti». Efrati aveva lasciato l’esercito da tempo ed era diventato un attivista contro l’occupazione, ma aveva passato la maggior parte degli anni 2006 e 2007 prestando servizio nella città di Hebron nella Cisgiordania meridionale. «Aveva 19 anni quando arrivò, e all’epoca non vedeva motivi per mettere in questione la presenza militare di Israele nella città. Alla sua prima sessione di istruzione, ricorda che un ufficiale chiese ai soldati che cosa avrebbero fatto se avessero visto un Palestinese attaccare un colono con un coltello. Naturalmente la risposta fu che gli avrebbero sparato addosso. Poi l’ufficiale pose la domanda al contrario: e se fosse il colono ad avere il coltello? “E la risposta fu che non puoi fare nulla. Il più che puoi fare è chiamare la polizia, ma non hai il diritto di toccare i coloni. Dal primo giorno l’ordine fu: “non puoi toccare i coloni”. Questo mi sembrò sensato, disse Efrati. I Palestinesi erano il nemico. I coloni sembravano un po’ matti, ma erano ebrei». Un brano di Ben Ehrenreich si può leggere su Assopacepalestina . (Segnalato fra i migliori libri dell’anno dall‘Economist)

delilloZero K di Don DeLillo, last but not least segnaliamo l’ultimo romanzo dell’autore di Underworld, Rumore bianco e Cosmopolis, pubblicato da Einaudi nella traduzione di Federica Aceto. Zero K è uscito negli Stati Uniti lo scorso maggio ed è il sedicesimo romanzo di DeLillo, che insieme a Thomas Pynchon ha saputo raccontare la deriva dell’America postmoderna, fra solitudini abissali e miraggi di felicità  fabbricati dal consumismo. Il titolo di Zero K è preso in prestito dallo 0 kelvin, lo zero assoluto, la temperatura più bassa che si possa ottenere. I due protagonisti  credono che facendo congelare e conservare a i propri corpi, in futuro potranno tornare a vivere, grazie a nuove scoperte scientifiche. Positivismo e religione si scambiano le parti in questa nuova opera di DeLillo che non manca di rimarcare che anche l’eternità costa e solo i pochi se la possono permettere. (Segnalato dal Guardian).

Per continuare il viaggio:

The books we loved in 2016 New Yorker

tutti i libri segnalati dal New York Times ,

Ten books that will make you a better person in 2017, The Independent

The best fiction 2016 The Guardian

Los 10 mejores libros de 2016 El Pais

The best books of 2016  The Economist

Hera are the best books of 2016 so far Time

Les 20 meilleurs livres de 2016 L’Express

The ten best books  BBC

Chi ha lavorato e chi no. Il bilancio di fine anno dei parlamentari

Paola Binetti e Rocco Buttiglione durante l'esame della nota di aggiornamento del documento di economia e finanza 2015 in aula della Camera, Roma, 8 ottobre 2015. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Come ogni anno, alla fine dell’anno, l’associazione Open Polis traccia un bilancio dell’attività del nostro Parlamento e dei nostri parlamentari. Pezzo fondamentale del bilancio è il dossier sulla produttività, indice ottenuto assegnando un punteggio per ogni atto parlamentare presentato (e per il suo stato di avanzamento: presentare atti che non vengono mai iscritti all’ordine del giorno o montagne interrogazioni a cui non risponde nessuno, serve effettivamente a poco).

Il lavoro di Open Polis (lavoro possibile grazie alle donazioni) offre un bel ritratto di Camera e Senato, spiegando ad esempio che fondamentale, per incidere, è ricoprire un ruolo di vertice, a capo di una commissione. I parlamentari, ricorda infatti Open Polis, “sono in tutto 950, ma solo una manciata riesce a essere determinante. Nell’indice di produttività la stragrande maggioranza degli eletti ottiene un punteggio basso, raggiungibile anche solo con le presenze. Appena il 5% riesce ad avere un’influenza sui lavori dell’aula”. Tra questi ci sono i presidenti delle Commissioni (come Anna Finocchiario, prima al Senato tra i deputati eletti in Puglia, ad esempio), e tra gli improduttivi, invece, ci sono i parlamentari con incarichi o ruoli più politici, tipo Pier Luigi Bersani. Chi si dedica all’organizzazione politica o alla vita del partito, è giusto che venga considerato improduttivo? Non è detto, ma l’indice è appunto dichiaratamente parziale.

Con i suoi limiti, il monitoraggio di Openpolis, però, offre alcuni dati interessanti, soprattutto ora che il Partito democratico ha rilanciato il Mattarellum (dopo averci regalato una legge che tutta Europa avrebbe dovuto invidiarci – Renzi dixit – ma che è invece destinata alla bocciatura della Corte costituzionale ed è stata già bocciata dagli elettori, immaginata per appaiarsi alla riforma costituzionale). Il meccanismo dei collegi della legge che porta il nome del presidente della Repubblica, infatti, legherebbe nuovamente i parlamentari a un territorio, aumentando, almeno, il potenziale controllo dell’elettore.

Ecco allora le utilissime – per cominciare a farsi un’idea – classifiche regionale, sulla produttività degli onorevoli. Ve ne consigliamo la lettura, perché alcune cose potrebbero non piacervi troppo.

Qualche esempio? Con le tabelle di Openpolis, per dire, si può scoprire che nel Lazio, dopo la dem Donatella Ferranti, la più deputata più produttiva è Paola Binetti, dato che non stupisce i cronisti parlamentari (abituati a ricevere decine di suoi comunicati stampa, sulla densa attività d’aula) ma che può aiutare a capire come la produttività da sola non sia – ovviamente – l’unico elemento per giudicare un deputato: tocca vedere che ci fai con tutta questa energia. Per il Senato, invece, va già meglio, e la più attiva è la capogruppo di Sinistra Italiana Loredana De Petris, che è anche terza nella classifica nazionale. Tra i nomi noti, Monica Cirinnà segue al terzo posto, sempre al Senato, mentre il primo 5 stelle è Paola Taverna in settima posizione.

Leggendo la classifica toscana, invece, scopriamo che Edoardo Nesi, scrittore portato alla Camera da Mario Monti, ma rapidamente diventato renziano, si conferma poco dedito, penultimo nella sua regione e al posto 603 della classifica nazionale. Subito sopra di lui c’è Luca Lotti, il cui indice però paga il fatto che Lotti, oltre che parlamentare, era sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Renzi, ed è ora ministro, con Paolo Gentiloni. Denis Verdini è il meno produttivo dei senatori – dato che ancora una volta, però, dimostra la parzialità della classifica, perché Verdini è senza dubbio (a modo suo) parlamentare attivissimo, anche se preferisce il lavorio “diplomatico” alla noia degli atti burocratici.

Sandro Bondi è invece il senatore meno attivo per la Lombardia (e lui non ha neanche altri particolari meriti, avendo anche rallentato con la produzione poetica), mentre il meno produttivo alla Camera, sempre in Lombardia, è Antonio Angelucci, superato di un soffio da Daniela Santanché, posizione 623 nella classifica nazionale. Lasciando a voi il resto della lettura, interessante è però segnalare come maluccio vada anche Matteo Colaninno, il dem prestato dall’impresa alla politica, fermo al 93esimo posto (su 101 deputati regionali) giusto sopra Lorenzo Guerini, che però è vice segretario del Pd è ha altro a cui pensare. Eleggere un manager, insomma, non è garanzia di produttività.

Mps, stop dalla Bundesbank: no all’utilizzo di fondi pubblici per salvare banche già in perdita

La sede del Monte dei Paschi di Siena in via Manzoni, a Milano, dove si è riunito il cda della banca, 19 dicembre 2016. ANSA/MATTEO BAZZI

Il Presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, è intervenuto nel dibattito sul salvataggio del Monte dei Paschi di Siena (Mps), tramite un’intervista rilasciata per il tabloid tedesco Bild.

Menzionando la regolamentazione finanziaria europea, Weidmann ha affermato che «l’utilizzo di denaro pubblico [per il salvataggio di istituti finanziari] deve rappresentare l’ultimo strumento utile» per la politica.

Inoltre, ha aggiunto che «le misure annunciate [finora] dal Governo italiano sono adeguate per un istituto che ha sani fondamenti economici … L’intervento pubblico non deve servire a coprire perdite già previste».

Weidmann ha poi messo in relazione il salvataggio di Mps con la discussione sul debito pubblico italiano: «A causa dell’alto livello di debito, qualsiasi utilizzo di risorse pubbliche dovrebbe prevedere coperture adeguate».

Il Presidente della Bundesbank ha anche ricordato che, in seguito alla crisi economico-finanziaria, l’Unione europea ha previsto nuove regole volte a tutelare il contribuente pubblico. «In primo luogo dovrebbero intervenire gli investitori dell’istituto finanziario coinvolto in un salvataggio».

Come riporta Handelsblatt, secondo le regole previste dalla regolamentazione europea, sarebbero circa 40mila i correntisti che verrebbero chiamati in causa per il salvataggio.

Regno UnitoThe IndependentUno studio della London School of Economics cerca di spiegare le ragioni dell’infelicità delle perssone: l’assenza di relazioni interpersonali è la causa numero uno e viene prima delle povertà

EuropaEuractiv Secondo un nuovo sondaggio Eurobarometro, i cittadini europei non vogliono “più Europa”, ma “maggiore uguaglianza sociale”. E la disoccupazione rappresenta la principale preoccupazione degli intervistati

Netanyahu accusa Obama, Trump attacca l’Onu per la risoluzione sugli insediamenti israeliani

epa05556041 A handout photo provided by the Israeli Government Press Office (GPO) of US Republican presidential candidate Donald Trump (L) shaking hands with Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu at Trump Tower in New York, New York, USA on 25 September 2016. EPA/KOBI GIDEON/GPO/ HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Se c’è qualcuno al mondo felice della vittoria di Donald Trump alle presidenziali del 2016, questi è il premier israeliano Bibi Netanyahu. Con Obama non è mai andato d’accordo, anzi, ha fatto di tutto per dargli noia, tenendo discorsi duri contro l’amministrazione, prendendolo a schiaffi metaforici ogni volta che ha potuto e infischiandosene degli sforzi, moderati, per rimettere israeliani e palestinesi a un tavolo. Netanyahu ha spesso giocato di sponda con i repubblicani e, oggi, sono i repubblicani a giocare di sponda con lui.

L’ultimo oggetto del contendere, il più duro in otto anni di relazioni burrascose tra Obama e il premier israeliano, è la risoluzione Onu che chiede lo stop agli insediamenti nei Territori, sulla quale, con una mossa del tutto inusuale, gli Stati Uniti si sono astenuti e, non usando il potere di veto, ne hanno consentito l’approvazione. La risoluzione parla di insediamenti illegali in palese violazione delle leggi internazionali e ostacolo alla soluzione del conflitto israelo-palestinese. È la prima dal 1979 a usare toni simili.

Bibi è andato su tutte le furie, ha convocato l’ambasciatore e sostenuto pubblicamente che dietro al testo approvato in consiglio di sicurezza ci sia Obama in persona, «le informazioni che abbiamo indicano come il presidente abbia seguito il processo e lavorato al testo», ha detto Netanyahu. La Casa Bianca nega e, francamente, è improbabile che il presidente Usa, che di Medio Oriente non si intende, abbia lavorato al testo.  Quel che è sicuro è che la decisione a sorpresa e in rottura con la prassi, di astenersi, sia venuta da Obama. Un dispetto a Bibi e a Trump, che ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, un avvocato di estrema destra che finanzia gli insediamenti,  e che ha promesso di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme – un passo controverso e uno schiaffo ai palestinesi: le ambasciate sono tutte a Tel Aviv, a Gerusalemme ci sono consolati. Un segnale tardivo della visione di questa amministrazione, che non si è data granché da fare per trovare una strada diplomatica in una fase nella quale il Medio Oriente prendeva fuoco e il governo israeliano faceva di tutto per soffocare l’idea dei “due popoli-due Stati”.

Israele annuncia che mostrerà le prove dell’intervento di Obama, come se il voto fosse qualcosa di simile a un attentato terroristico o a un’azione di guerra. La verità è che Netanyahu “mostrando le prove” non farà altro che alimentare la teoria del complotto di qualcuno della destra americana, che Obama si in realtà un musulmano travestito. Un modo per rasserenare il clima e far tornare la questione degli insediamenti nell’alveo della razionalità.

Dal 20 gennaio  l’inquilino della Casa Bianca sarà tutt’altro che una persona razionale e Bibi fa conto proprio su questo. La reazione di Trump al non voto americano è infatti affidata, come al solito, a twitter. Il tweet qui sotto recita: «L’Onu ha gran potenziale ma è diventato un posto dove si parla e ce la si spassa. Triste!». In un altro tweet ha aggiunto: dopo il 20 gennaio le cose saranno diverse all’Onu!.

Il voto Onu arriva tardi e contiene anche alcune frasi ambigue: è il frutto di un testo scritto dall’Egitto e portato al voto da quattro Paesi non amici di Israele – per usare un eufemismo. Ma non è la prima volta che gli Usa si astengono. Quel che è nuovo è l’impegno del presidente eletto per influenzare il voto Onu: Trump ha fatto pressioni sull’Egitto che ha accettato di non mettere il testo al voto.

New building in Ramat Shlomo settlement outside Jerusalem

L’urgenza di una risoluzione, si segnala nel testo, riguarda il pericolo dell’insostenibilità dello status quo, con gli insediamenti che continuano a crescere e Gerusalemme est (la parte araba della città) che comincia a essere circondata da nuovi quartieri. L’idea dei due Stati, lo dicono tutti gli esperti, è quasi morta. E gli insediamenti, non fanno che renderla più impraticabile che mai. L’idea venduta dal governo israeliano che ogni nuova casa costruita sia parte di Israele stessa, rende sempre più difficile accettare i nuovi insediamenti. E il fatto che alcuni politici di primo piano come il destrorso ministro della Difesa Avigdor Lieberman,  giochino la carta interna degli insediamenti, vivendoci, è politica interna da strapazzo, aiuta a prendere voti, ma non aiuta gli altri a migliorare la situazione.

L’unico vero argomento a sostegno dell’indignazione israeliana è il fatto che il consiglio, grazie all’astensione Usa, abbia votato un testo sulla questione israelo-palestinese, dopo che per anni non è riuscito a votare quattro righe di condanna per le stragi in Siria.

 

 

Un vietcong a Los Angeles. Incontro con Viet Thanh Nguyen

Il simpatizzante con cui Viet Thanh Nguyen ha vinto il premio Pulitzer 2016, fa rivivere gli ultimi giorni di Saigon da un punto di vista inedito, quello di una spia vietnamita, addestrata nel Nord comunista e infiltrata nell’esercito americano. Un punto di vista doppio, affascinante e inquietante al tempo stesso, perché «il Capitano» è un doppiogiochista disposto a tutto, ma riesce a farci vedere tutta la violenza che si annida nel pregiudizio, nel razzismo, nell’abuso che i colonialisti francesi prima e gli americani poi hanno perpetrato sulla popolazione vietnamita. Il protagonista stesso di questo potente romanzo di Thanh Nguyen, pubblicato in Italia da Neri Pozza, è figlio illegittimo di un prete francese e di una giovanissima vietnamita e porta tutti i segni di quella violenza. «Sono un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce», dice di sé, mentre guarda con astio quegli aerei Usa che proiettano sul terreno ombre a forma di croci, simbolo di una religione di morte.

La rivolta del protagonista, apparentemente ligio al servizio de «Il Generale» (un americano che crede in dio, nella patria, nella famiglia) ribolle nel suo sguardo spregiudicato, dissacrante, a tratti sarcastico, che non ammette infingimenti. Anche da qui siamo partiti per la nostra conversazione con l’autore di questo romanzo in cui risuonano Conrad e Le Carré, Greene e Orwell, pur non assomigliando a nessuna delle loro opere. Un romanzo dove si racconta come gli americani hanno reso il Vietnam una terra desolata con una guerra sleale e feroce in cui usavano il napalm, non riuscendo a spezzare la resistenza vitale di un popolo pagano che si racconta nato dai draghi e dalle fate.

Di fronte a guerre devastanti come quella americana in Vietnam, che solo nel Nord del Paese causò un milione e centomila morti, mancano le parole. L’uso del paradosso e della satira le sono serviti per uscire da quest’impasse e affrontare la verità?
Esistono già molti libri che testimoniano il dolore di questa e di altre guerre, in modo serio, drammatico carico di malinconia. Avrei potuto scrivere un altro di quei libri, e in effetti ho fatto qualcosa del genere. Ma è accaduto un fatto curioso. Ad un certo punto ho creato un personaggio che è serio, drammatico e malinconico, ma è anche sarcastico, cinico e ironico. Il romanzo ha assunto la sua voce, è cambiato il tono che è diventato sferzante, a tratti perfino comico. Raccontare barzellette su questioni terribilmente gravi può essere un modo per riportare l’attenzione su realtà che non vogliamo affrontare, per renderle più facili da affrontare. È una via d’uscita e un modo per dire la verità, come accennava lei.

Il simpatizzante
Il simpatizzante

Il protagonista racconta così la propria infanzia: «Potevo essere definito “figlio naturale”, mentre in tutti gli altri Paesi che conosco la legge mi qualifica piuttosto come figlio illegittimo. Mia madre mi chiamava il figlio dell’amore, ma su questo non mi piace soffermarmi. Alla fine era stato mio padre, ad avere ragione piú di tutti. Lui, non mi aveva mai chiamato in nessun modo». Anche per questo il Capitano odia suo padre, prete cattolico e francese, rifugiandosi nei valori di sua madre, giovane vietnamita. Ma non del tutto?
Il protagonista ha una visione doppia e dicotomica sulla maggior parte delle cose. Vede suo padre come colonizzatore francese e prete pedofilo, mentre sua madre è il volto buono, la vietnamita innocente e colonizzata. Muore giovane e diventa un’immagine idealizzata. Per lui incarna il sacrificio, la resistenza, la generosità. In effetti è l’unico essere umano ad interessarsi davvero di lui mentre per il padre sacerdote e per molti altri è solo un figlio bastardo. Perciò lui la adora. Anche se gli sembra una di quelle figure mitologiche di cui la Bibbia dice che erediteranno la terra (ma non nelle loro vite terrene!). Il suo sacrificio silenzioso e la sua nobile resistenza sono ciò che la Chiesa cattolica e la tradizione vietnamita affibbiano alle donne, un ruolo che gli suscita sensazioni contrastanti, lo venera e lo respinge, anche per se stesso. Ecco perché si rivolge alla resistenza laica del marxismo, che vuole trasformare il mondo dal basso. Così il mio protagonista rifiuta la narrazione cattolica e abbraccia quella comunista, per scoprire poi che in fondo ha in comune con la religione un’idea di sacrificio e “martirio”. Dice la voce narrante ad un certo punto: «Lo zio Ho afferma che “non esiste niente di piú prezioso dell’indipendenza e della libertà”. Erano parole per le quali eravamo pronti a morire».

Lei è nato nel 1971 in Vietnam. Rifugiato di seconda generazione, oggi insegna English and American Studies alla Ucla, l’università della California. Da giovane vietnamita, cresciuto negli Stati Uniti, quale realtà ha vissuto?
Ero un americano in famiglia, agli occhi dei miei genitori, e un vietnamita nel mondo fuori da quella casa. Ho imparato ad essere un attento osservatore, ovunque mi trovi. Quella sensazione di “estraneità”, di non appartenenza, mi è tornata utile per costruire il protagonista de Il simpatizzante. Vivere non sentendomi mai a casa a volte è scomodo, ma ci sono cresciuto. E mi regala un punto di vista originale, forse unico, su entrambe le culture, americana e vietnamita.

In questo quadro, essere il primo vietnamita a vincere il Pulitzer cosa ha significato per lei?
Questo premio ha reso orgogliosi tanti vietnamiti che vivono negli Usa, compresi i miei genitori. Sono molto felice per loro. Quanto a me, ho avuto maggiore visibilità, più attenzione della gente per ciò che ho da dire, anche se quello che ho da dire che non è diverso da quello che avevo da dire prima di vincere il Pulitzer. Approfitto di questi nuovi riflettori per far arrivare il mio punto di vista ad pubblico più vasto, nelle interviste, negli articoli che scrivo sui giornali, cerco di esprimere la mia visione per un mondo più giusto e un’arte più impegnata.

La letteratura della diaspora vietnamita è cresciuta molto. Quali autori trova più interessanti?
È un fenomeno in grande crescita, la verità è che li trovo tutti interessanti!

The refuges
The refuges

Il suo nuovo libro s’intitola Rifugiati. Come nasce questo lavoro?
Prima de Il simpatizzante avevo scritto alcuni racconti su questo tema. Sono storie di rifugiati vietnamiti e sulle persone che incontrano negli Stati Uniti. Parlo di profughi ma anche di americani che tornano in Vietnam. Volevo scrivere storie che parlano della complessità della vita vietnamita e di tutte le sue sfumature: una realtà poco conosciuta fuori dal Paese dove sono nato e dalle comunità della diaspora. Con questo titolo, I rifugiati, vorrei mettere in primo piano la loro esperienza. Credo che la disseminazione del popolo vietnamita abbia anticipato l’attuale crisi globale dei rifugiati. Ma c’è anche qualcosa di più personale. Ero e rimango un rifugiato, non sono un immigrato. I rifugiati sono esseri umani uguali agli altri, oggi va detto e ripetuto più che mai. I vietnamiti sono persone che si sono inserite con successo in molti Paesi, il che porta i loro nuovi concittadini a dimenticare che erano profughi. Annullando questo passato le persone guardano con sospetto ai nuovi profughi, come se fossero fondamentalmente diversi dai vietnamiti che hanno conosciuto un tempo.

La campagna elettorale di Trump è stata intrisa di razzismo, misoginia, slogan che rimandano al suprematismo bianco. Come immagina il futuro delle minoranze negli Usa con lui presidente?
È un futuro che assomiglia ad un brutto passato. Lo abbiamo già visto. Xenofobia, misoginia, suprematismo bianco sono stati i valori imperanti per secoli negli Usa. Solo negli ultimi decenni abbiamo avuto un po’ di respiro, come risultato di una lunga, aspra, lotta politica. Ci sono con tutta evidenza persone che vogliono riportare in auge un capitalismo senza freni (che oggi va oltre nello sfruttamento della classe operaia puntando a distruggerla e a sostituirla con l’automazione); c’è chi vuole restaurare il dominio e il controllo degli uomini sulle donne, c’è chi vuole chiudere le frontiere alle persone che non sono di razza bianca, c’è chi vorrebbe i campi di concentramento per presunti dissidenti, che di solito non sono bianchi. Non dimentichiamo che Franklin Delano Roosevelt ha usato il termine «campi di concentramento» per i giapponesi americani durante la seconda guerra mondiale, prima che diventasse una parola impronunciabile perché nazista. Se pensiamo che tutto questo sia profondamente ingiusto dobbiamo unirci e lottare. L’aspetto positivo è che avendo vissuto un decennio di speranza, abbiamo anche memoria di momenti migliori e questo ci aiuta a stare in guardia e ci dà una motivazione forte. Detto questo, purtroppo, ci aspettano quattro anni difficili e forse anche di più. Non solo per le donne o per le classi più povere e senza lavoro, non solo per le minoranze di ogni tipo. Il mondo che Donald Trump vuole porta con sé guerre e catastrofi climatiche. Lottare contro Trump, non significa solo combattere per noi stessi. Significa proteggere l’ambiente e la società dove vivono anche Trump e i suoi sostenitori. Lottiamo anche per salvare da se stessi i nostri nemici.

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Favoreggiamento ecclesiastico alla mafia

"Il parroco, don Michele Delle Foglie, spiritualmente unito ai famigliari residenti in Canada e con il figlio Franco venuto in visita nella nostra cittadina, invita la comunità dei fedeli alla celebrazione di una santa messa in memoria del loro congiunto". E' quanto si legge su alcuni manifesti funebri affissi per le strade di Grumo Appula (Bari) con i quali si invitano i fedeli (domani alle 18:30) alla messa in suffragio del pugliese Rocco Sollecito, boss della 'ndrangheta ucciso nel maggio scorso a Montreal, 26 dicembre 2016. ANSA/ ANNAMARIA LOCONSOLE

Per finire bene l’anno Don Michele Delle Foglie, sacerdote della chiesa madre di Grumo Appula, in provincia di Bari, ha pensato bene di indire una messa a suffragio di Rocco Sollecito, boss di ‘Ndrangheta ucciso in Canada.

I manifesti mortuari affissi in giro per il paese sono chiari:

“Il parroco, don Michele Delle Foglie, spiritualmente unito ai famigliari residenti in Canada e con il figlio Franco venuto in visita nella nostra cittadina, invita la comunità dei fedeli alla celebrazione di una santa messa in memoria del loro congiunto» si legge su alcuni manifesti funebri affissi per le strade di Grumo Appula con i quali si invitano i fedeli (martedì 27 dicembre alle 18:30) alla messa in suffragio”.

E fa niente che Rocco Sollecito sia  rimasto ucciso da colpi da fuoco dentro la sua bavosa BMW bianca a Montreal perché guappo del clan Rizzato. Fa niente che sollecito sia una delle tante croste che pascolano in quell’orrida famiglia che si fa chiamare ‘Ndrangheta. Don Michele ha pensato bene di sfruttare gli ultimi giorni dell’anno per genuflettersi servile di fronte al potere del male convinto di potersi meritare un briciolo di gratitudine terrena dai prepotenti. Un vigliacco travestito da prete che s’atteggia da picciotto in nome di dio.

Se Don Michele fosse un dipendente pubblico, un politico o un giornalista, un dentista, un avvocato o qualcosa di simile sarebbe sospeso e probabilmente licenziato. Che si dice invece lì dalle parti della Chiesa?

Buon martedì.

Talenti di frontiera

È un noir ironico, drammatico e spiazzante l’ultimo libro di Murakami pubblicato da Einaudi, Gli assalti alle panetterie. Composto da due racconti scritti in epoche diverse «è un lavoro molto complicato da illustrare» racconta Igor Tuveri, in arte Igort, che ha appena compiuto l’impresa. «Gli assalti alle panetterie, dal punto di vista visivo, non sono esattamente eventi epici», dice da illustratore. «Dovevo trovare una chiave tutta da inventare. Allora ho pensato di restituire le atmosfere noir di film gangster anni 50 ed è nato il filo narrativo che, immagine dopo immagine, corre parallelo alle situazioni che Murakami evoca». Ma soprattutto è emersa una tensione poetica nuova con atmosfere in bianco e nero realizzate con gli acquerelli. «Per farli ho impiegato dei mesi», ammette. «Ti devi far attraversare dalle storie. Ad un certo punto ho pensato che il libro non fosse illustrabile e sono entrato in crisi. Fortunatamente a Murakami il risultato finale è piaciuto. C’era anche il rischio che lui non le approvasse…».

Con le tue tavole il racconto acquista una particolare tridimensionalità drammatica, amplificando i riferimenti di Murakami ai Demoni di Dostoevskij. Un autore che appartiene anche al tuo percorso?

Murakami cita spesso Dostoevskij. È un riferimento serio, importante. Anche per me. La cultura russa è parte della mia formazione. Per giunta mi chiamo Igor. Qui mi ha aiutato a uscire dall’idea di un Giappone lunare che c’è in altri miei lavori. Come accennavi è emersa una certa tensione, che ha determinato scelte estreme da un punto di vista grafico e nelle inquadrature. La nuova stagione del romanzo illustrato è affascinante perché mette in contatto mondi che sono apparentemente distanti. Lavorando su questo testo ho pensato di chiedere a Murakami di scrivere qualcosa per me. Si aprono possibili incroci, sovrapposizioni. L’idea del meticciato mi piace molto, alimenta il mio mondo. In questo caso è stata una collaborazione in differita, sono due vecchi racconti di Murakami che ho reinventato visivamente, ma non escludo che possano nascere nuovi lavori assieme.

Rispetto a tutto ciò, My generation, pubblicato da Chiarelettere, rappresenta un nuovo esperimento. La parola si prende la scena in questa autobiografia scritta in modo icastico?

Non la definirei un’autobiografia, io non sono nessuno, non sono Marlon Brando. Parlo della mia generazione, uso me stesso per raccontare una parte della vita, ma soprattutto una scena culturale. Quando nasce un libro non conosci mai le vere ragioni, poi rifletti. A posteriori direi che il motivo è politico: volevo dire che la contro-cultura ad un certo punto si è auto organizzata diventando una valida alternativa al mainstream. È accaduto con David Bowie, con il punk, con i Talking Heads e la New Wave, che è venuta dopo, passando per il nuovo cinema tedesco o certo cinema italiano  di cui ripercorro le prime mosse.

L’intervista continua su Left in edicola dal 23 dicembre

 

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Il Movimento 5 stelle, la sinistra da costruire e un Paese in crisi

M5S leader Beppe Grillo between Luigi Di Maio and Rome's Mayor Virginia Raggi at the end of the demonstration staged by the anti-establishment Five-Star Movement (M5S) to support 'No' at next December 4 Constitutional reform referendum, Rome, Italy, 26 November 2016. ANSA/ CLAUDIO PERI

Il referendum costituzionale ha sollevato il velo su un’Italia che sta male, un Paese che è in crisi economica e sociale. I circa 20 milioni di cittadini che hanno votato No al progetto di revisione costituzionale di Matteo Renzi chiedono un cambiamento vero. A dare una prova di questo profondo disagio c’è il rapporto Bes 2016 (Rapporto benessere equo e sostenibile) dell’Istat. Cifre, grafici che forniscono la vera fotografia dell’Italia, non quella edulcorata della narrazione renziana. Di questo parliamo nella cover di Left in uscita, questa settimana, il 23 dicembre. Ma se il Paese è in crisi, mai come in questo periodo, anche la politica dimostra di non star bene. Si avverte la solitudine di chi si è impegnato nella campagna, come scrive Nadia Urbinati. «Un risvegliarsi nel vuoto della vita pubblica». Inutile aspettarsi qualcosa dal Pd, che recuperi « la sua natura di partito di partecipazione, di critica e di governo». Ma d’altro canto «non meno irrealistico è sperare nel M5s, un non-partito della cui pochezza non solo organizzativa, ma soprattutto ideale, purtroppo le conseguenze sono sotto i nostri occhi», scrive la politologa. Logico che in questo periodo – segnato dalla vicenda Campidoglio, ampiamente ricostruita nelle nostre pagine – l’attenzione si concentri sui Cinque stelle. E su Roma, come l’ex sindaco Ignazio Marino in una lunga intervista, in cui denuncia il consociativismo di destra e Pd che lui aveva tentato di spezzare e che rivede oggi, con la giunta Raggi. Di Cinque stelle parla anche Emanuele Ferragina il quale sostiene che sì, è vero, il Movimento di Grillo e Casaleggio «ha compiuto un’operazione straordinaria, portando alla ribalta alcune istanze della “maggioranza invisibile”». Ma anche Ferragina sostiene che il Movimento «sembra incapace» di dare concretezza al voto, occorrono competenze e idee credibili. Per il giurista Ugo Mattei, tra i primi a lavorare sui Beni comuni insieme a Stefano Rodotà, il problema è che gli italiani proprio non vogliono sentir parlare di un nuovo voto. Dicendo No al progetto costituzionale di Renzi, non hanno detto automaticamente di volere nuove elezioni. Del resto, come testimonia il Rapporto Bes, nel Paese è diffusa una grande sfiducia nei confronti dei partiti. Che però, secondo Roberto Biorcio, sociologo che ha studiato sia i populismi, il M5s e l’associazionismo in Italia, non significa «apatia o disinteresse». Anzi, come ha dimostrato il referendum, i cittadini hanno una gran voglia di partecipare. Una partecipazione diversa, è stata quella dell’assemblea nazionale che si è svolta a Bologna il 18 dicembre. “Costruire l’alternativa” il tema della giornata convocata non tanto dai Vip della sinistra a sinistra del Pd, ma dalle “seconde file” dai militanti che  si sono impegnati nella campagna referendaria e ancora prima di conoscere il risultato del voto, il 3 dicembre, avevano convocato questo appuntamento per non disperdere le energie. Perché un obiettivo, come si racconta su Left, c’è: presentarsi come “quarto polo” alle prossime elezioni.

Leggi gli articoli su Left in edicola dal 23 dicembre

 

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