Good morning. Non è un buongiorno per Hollywood: il 2016, che si dice abbia fatto strage di star, si porta via anche Debbie Reynolds. Il giorno dopo la morte di sua figlia Debbie Fisher, la star di Singin’ in the rain, attrice legata a quel ruolo per sempre, è morta di infarto come la principessa di Star Wars. Due superstar con una carriera cinematografica lunga e ricca, ma segnate indelebilmente, nel bene, da quei due personaggi. Fisher, che era anche scrittrice e sceneggiatrice, scrisse parte della sceneggiatura dei sequel di Star Wars, ai quali pure prese parte nel ruolo di Leila. Reynolds era quelle facce di Hollywood dei film del pomeriggio in Tv, colori sgargianti e commedie allegre, che raccontano i tempi in modo scanzonato. E ha continuato a lavorare in Tv, cinema e teatro fino a pochi anni fa.
Reynolds aveva 85 anni e avrebbe voluto «stare vicina a sua figlia», che è l’ultima cosa che ha detto prima di morire. Le due erano molto legate, la prima la sostenne dopo il matrimonio andato male, Eddie Fisher, il marito, la lasciò per la sua amica Elizabeth Taylor, e dopo quelli successivi finiti allo stesso modo. La seconda visse con sofferenza l’ombra della madre superstar, soffriva di disturbo bipolare ed era dipendente da antidolorifici e cocaina. Si aiutò scrivendo, anche libri autobiografici. Le due, insomma, si sono sostenute a vicenda e la morte a un giorno di distanza sembra quasi voluta.
In un tweet, Mia Farrow scrive: «Debbie sapeva recitare, ballare e cantare, Riposa in Pace non sembra la cosa adatta da dire. Spero siano da qualche parte a divertirsi».
Former Italian Prime Minister, Matteo Renzi, after his speech at the National Assembly of the Democratic Party in Rome, Italy, 18 December 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI
Il punto è che lui (e i suoi) sono soddisfatti, tutto sommato contenti dell’anno che si sta chiudendo. Certo la campagna campale, quella sul referendum, non è andata come doveva (o meglio: è andata come doveva andare ma non come avrebbe voluto lui), ma l’anno è stato emozionante e il morale, messe le mutande rosse, nuove, è alto. Anche se tocca stare per un po’ lontani da Roma, e farsi immortalare non più vicino a un carretto di gelati (Grom, si intende) nel mezzo del cortile di palazzo Chigi ma con un carrello pieno di panettoni (Bauli – e le marche raccontano molto del messaggio che si vuole mandare) nella corsia di una Coop.
Il morale è alto, e lo spirito quello di sempre, si diceva, tant’è che chi lo voleva un po’ cambiato (chi pensava che il ragazzo avesse potuto imparare qualcosa da questo finale dell’anno) si è dovuto ricredere subito. Il tempo di convocare una direzione del partito e – piazzato un governo che al momento si suppone di poter gestire per corrispondenza – la stoccata alla minoranza ha svelato la verità – offrendoci peraltro l’occasione per spiare uno dei libri che Renzi ha letto in questo 2016, anno di importanti passaggi referendari, di referendum, di dati sull’occupazione (con il boom dei voucher), di dimissioni.
Uno dei libri che Renzi ha sicuramente letto nel 2016 è Coraggio!di Gabriele Romagnoli, pubblicato da Feltrinelli. In libreria lo riconoscete perché ha una copertina color uovo di pettirosso, tinta unita, forte. La battuta “Lo stile è come il coraggio di Don Abbondio” è stata presa da lì, ispirata da quelle pagine (dove il coraggio di Don Abbondio, quello che “se uno non ce l’ha, non se lo può dare” è citato già nella quarta di copertina), e poi rivolta a chi nella minoranza, spesosi per il No, si è lasciato andare a festeggiamenti post 4 dicembre, giudicati indelicati e poco sportivi (immaginiamo che i renziani si sarebbero limitati ad abbracciare gli sconfitti – certo). Maleducati sono questi ex comunisti.
Per Matteo Renzi, insomma, quello del referendum è un incidente in un anno glorioso, che si chiude come si è conclusa la sua prima esperienza a palazzo Chigi. Ed è proprio pensando ai mille e rotti giorni nel suo complesso, che anche questi ultimi 365 diventano buoni. Perché – per dire – confermano che oltre lui non esista niente e nessuno – e che lui può persino permettersi il lusso di sbagliare – di sbagliare forte, come nel caso della personalizzazione referendaria – tanto nessuno verrà a insediarlo. La minoranza del suo partito non sa proprio come riorganizzarsi (anche se Speranza ha annunciato che mercoledì inizia un tour nazionale di preparazione al congresso), a sinistra non si muove granché, e i 5 stelle, sempre alti nei sondaggi, hanno avuto un anno pure peggio del suo, cominciato il 10 gennaio con l’esplosione del caso Quarto, con le indagini sull’amministrazione, le polemiche sulla responsabilità dell’allora “direttorio”, etc etc., e finito con Virginia Raggi che non passa indenne manco da una (civilissima) ordinanza sui botti di fine anno, e deve fare i conti con l’ingombrantissimo arresto di Raffaele Marra.
Per il resto è tutta una questione di punti di vista. Di gusti. Se pensi che le riforme fossero bellissime, per te il 20 gennaio 2016 non è il giorno in cui Verdini è entrato (tornato) nel governo del Pd, ma è il giorno in cui il Senato dà il terzo sì alla riforma costituzionale (con i voti fondamentali di Verdini, appunto, due dissidenti di Forza Italia e i tre senatori che fanno riferimento all’ex leghista Tosi). Senza di loro non ci sarebbe stata la maggioranza.
E poi. Il 2016 è pure l’anno in cui si dimette la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, chiamata in causa in alcune intercettazioni nell’ambito di un’inchiesta sui rifiuti petroliferi in Basilicata. Ma è anche l’anno in cui, dando indicazione per l’astensione (ma volendo far vincere il Sì), Renzi vince il referendum sulle Trivelle, fermatosi lontanissimo dal quorum. Il 2016 è stato l’anno delle Unioni civili, approvate seppur senza adozioni, e lontanissime – ancora – dal matrimonio egualitario. E per uno che sulle adozioni omosessuali ha sempre avuto dubbi, la vittoria è piena, celebrata in ogni dove.
E ancora, sì, è vero che non si è visto il “lanciafiamme” che Renzi aveva promesso di usare per distruggere le correnti interne ai dem che – a suo dire – hanno reso possibile il disastro delle amministrative, ma è anche vero che da giugno 2016 ad oggi il Pd è ancora più renzizzato, tanto che parlare di correnti fa ormai sorridere. E’ pure l’anno in cui si è completata l’invasione del sottogoverno, Rai compresa, con le attesissime nomine, arrivate il 4 agosto di quest’anno. E poi c’è stata la partita europea, dove Renzi è convinto di aver ottenuto ciò che si poteva ottenere (a cominciare dall’immagine un po’ tsiprarola, in contrasto con il revival sulla Terza via). E’ di settembre 2016 il vertice dei leader dell’Ue a Bratislava, quando il nostro ex presidente del Consiglio rinuncia alla conferenza stampa congiunta con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Francois Hollande, in disaccordo sulle conclusioni del documento finale in materia di economia e migranti. Il 2016 è l’anno dei decreti del jobs act (e del referendum che forse, zitti zitti, si riesce a evitare) ed è poi l’anno della cena con Obama (e questo per tutti, obiettivamente, sarebbe sufficiente per trasformare l’anno in memorabile).
Il 2016 è stato l’anno delle bufale, delle bugie, delle post verità. Lo sa bene Renzi che ha citato la post verità, le bufale del web, nel suo discorso di dimissioni, denunciandole. Lo sa bene anche perché ha pure lui la sua buona e comoda dose di post verità – di slogan, falsi miti, piccoli e grandi inganni (anche dire per mesi che il parlamento è lento, per dire, lo è). Trucchi che risultano comodi, e che hanno però l’effetto collaterale (da capire se grave o persino positivo): convincono pure chi li pratica, alla fine. Ci si convince, come si può fare sul giudizio sul 2016.
Non c’è un uomo solo o una donna dell’anno per noi di Left, ci sono uomini e donne dell’anno, tanti e sparsi nel mondo. Con quell’idea di umanità di cui scriviamo ogni numero. Un’umanità che non si concepisce se non insieme. Tutti sani, tutti salvi. “Si prega di non chiudere gli occhi” vi urliamo ancora una volta. I nostri eroi del 2016 sono civili, come noi, che salvano civili, come noi. Sono i Caschi Bianchi, 3.026 tra uomini e donne che, ad oggi, hanno tirato fuori dalle macerie dell’Olocausto siriano 72mila vite umane. «Sono un insegnante di inglese. Lo sono, lo ero. Quando ho cominciato a fare questo ho pensato: lo farò per un mese e finirà. Pensavo che sarei tornato al mio lavoro. Poi ho pensato: lo farò per sei mesi. Poi ho detto: durerà per un anno. Era tre anni fa». Così ci ha racconta Ammar, caposquadra dei Caschi Bianchi di Aleppo che ancora oggi, «insieme ad altri: avvocati, insegnanti, camerieri, fornai, barbieri, pompieri, gente che faceva qualsiasi tipo di lavoro, abbiamo scelto la defezione. Quando il regime ci ha chiamato a combattere, non siamo andati». Sono andati da Aleppo a Idlib, senza armi, sotto quei caschi bianchi. E non si sono più fermati.
C’è una poesia del turco Nazim Hikmet che parla e parlerà sempre dei Caschi Bianchi di oggi e di noi, di un’idea di umanità e di mondo che fa le cose per nulla e per tutti che vi dedichiamo in questo penultimo giorno del 2016 per raccontarvi del prossimo 2017. Che passeremo con il cuore sparso per l’intero mondo, perché:
«Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore, l’altra metà sta in Cina nella lunga marcia verso il Fiume Giallo. E poi ogni mattina, dottore, ogni mattina all’alba il mio cuore lo fucilano in Grecia. E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno quando gli ultimi passi si allontanano dall’infermeria il mio cuore se ne va, dottore, se ne va in una vecchia casa di legno, a Istanbul…»
Dal carcere raccontava ancora Hikmet al suo dottore:
«guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri
che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana».
Così anche il nostro di cuore. Sempre con la stella più lontana. Buon anno nuovo a tutti!
Martinsicuro – Era il quartier generale del giocattolo musicale. Così grande che gli operai lo attraversavano in bicicletta. A lavorare in quei trentaduemila metri quadri di stabilimento erano in tanti, oltre quattrocento, durante il boom della Bontempi. Per quarantuno anni, in Via del Lavoro 14 a Martinsicuro, comune di Teramo, uomini e donne alle macchine hanno dato vita “al mondo dei divertimenti”. Nel 2003, il fallimento e poi un tentativo di ripresa con la Bontempi spa. E ancora, a distanza di dieci anni, una nuova procedura di concordato che stravolge le vite degli ultimi cento lavoratori dell’azienda. Tra quelle mura, non solo macchine. Intere esistenze.
(Foto di Angela Zurzolo)
Lì dentro, c’era chi, a 24 anni, aveva conosciuto sua moglie e con i risparmi fatto studiare le due figlie, come Marcello, collaudatore. Ormai 54enne, non aveva di fronte che la cassa integrazione. Pierluigi, in fabbrica da trenta anni, a 55 perde per la seconda volta il posto e rivive un incubo: quello del fallimento, negli anni ’80, di un’altra impresa della provincia, un cantiere navale in cui lavorava come saldatore. A fallire nella zona sono in tanti. Del resto, dal 2008 al 2016, in tutto l’Abruzzo, il totale dei fallimenti è raddoppiato. Quest’anno si registra il crack di 10mila aziende, in calo del 6% rispetto al 2015 secondo l’Osservatorio Cerved. Ma c’è chi come Pierluigi non si rassegna a non poter essere padrone del suo destino.
(foto di Angela Zurzolo)
Per questo 34 ex dipendenti della Bontempi hanno scelto di dar vita a un workers buyout, procedura che ha consentito agli ex dipendenti di acquistare l’azienda e di salvare parte della produzione. Da operai a imprenditori, hanno creato una cooperativa. Si definiscono “imprenditori veri” e “non prenditori come tanti”. Industria Abruzzo oggi occupa 18mila metri quadri su 32mila dello stabilimento. Molte delle macchine della Bontempi che producevano giocattoli, pianole e organi,sono ferme. Delle 30 dedicate allo stampaggio, più della metà sono inutilizzate. Ma per garantire stabilità alla cooperativa, si pensa di voler diversificare la produzione, tentare con nuovi materiali plastici per assumere altri ex dipendenti.
Oggi l’azienda produce prevalentemente strumenti a fiato e percussione, per un totale di circa 50mila articoli al mese. Esclusivamente giocattoli, dunque.«Niente più elettronica» dicono con rimpianto gli operai che ricordano che dal 1984 al 1998, si era arrivati a produrre persino pianoforti. Perché Bontempi aveva acquisito e salvato la Farfisa, azienda piegata dalla concorrenza dei giapponesi, posta in liquidazione dalla Lear Siegler e finita con 279 addetti in cassa integrazione su 649. A produrre ed esportare anche in Italia quegli stessi strumenti, da tempo, ormai, è la Corea. Ma oggi è la Cina la vera minaccia per lo stabilimento di Martinsicuro. Impossibile competere con i costi del lavoro del Dragone.
(foto di Angela Zurzolo)
Addio per sempre perciò alla produzione di tastiere musicali a 61 tasti e di piani digitali made in Italy. «Nel 2013, dopo la liquidazione, a Potenza Picena, dove c’era l’altro polo della Bontempi, hanno pensato di costituire una società per commercializzare i prodotti di importazione» spiega Giancarlo Pieroni, presidente della Industria Abruzzo coop. «Analizzando i preventivi cinesi abbiamo capito che in fatto di giocattoli tradizionali c’era ancora la possibilità di competere. Sono voluminosi e il costo del trasporto incide molto sul prezzo finale. Da qui l’idea di formare una cooperativa e salvare parte della produzione vendendo giocattoli alla commerciale che oggi esporta i nostri prodotti in 70 Paesi del mondo».
(foto di Angela Zurzolo)
Con 250mila euro, chiusasi la procedura di concordato, la cooperativa acquista le macchine. Tante le difficoltà per l’accesso al credito. I soci sono costretti a firmare fideiussioni. Poi ottengono un finanziamento di 180mila euro: “Cfi, società che promuove le imprese cooperative, entra nel capitale sociale con 40mila euro, mentre il fondo mutualistico Coopfond interviene con una partecipazione di 130mila euro” spiega il presidente della cooperativa. Dei cento lavoratori dell’azienda, però, solo 34 hanno potuto far parte dell’impresa perché continuare a produrre strumenti elettronici era impossibile. «Il nostro obiettivo è quello di assumere gli ex colleghi, come stiamo facendo nel periodo di alta produttività» spiega Livio, socio della cooperativa. «Guardare un collega e sapere che domani non verrà più a lavoro è difficile e doloroso» racconta Marco, un impiegato. Ma la concorrenza e le condizioni imposte dal mercato per ora sembrano non consentire di fare altrimenti.
epa05574317 An undated handout picture made available by the Syria Civil Defence volunteer organization on 07 October 2016 showing volunteers searching through the rubble of a destroyed building, in an unknown location, Syria. Syria Civil Defence is a volunteer group, also known as the White Helmets, that consists of over three thousand local volunteers spread across areas of conflict around Syria. In the past three years they saved over 62 thousand Syrian lives, while losing 145 volunteer during airstrikes and 430 others injured. EPA/SYRIA CIVIL DEFENCE / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES
Qualcuno mi sente? C’è qualcuno laggiù? L’indirizzo skype è quello della linea delle emergenze e questa chat non si dovrebbe usare per richiedere interviste, né per spedire punti interrogativi senza dover risolvere questioni vitali. Perciò lui dietro lo schermo, dall’altra parte, in Siria, dopo due giorni scrive: «Hello, non posso aiutarti. Non c’è nessuno che possa rispondere alle tue domande». La Siria è la storia di chi non risponde. La verità è questa: che non risponde più nessuno ad Aleppo. Era quello che c’era scritto sul foglio e così sarebbe iniziato un altro articolo, un altro elenco di vittime a fine anno 2016. Sarebbe stato schifosamente impreciso e fallace, perché, prima degli altri, dovresti essere tu laggiù a raccontare. Ma non ci sei. E intanto, la morte marcia. Non c’è niente di nuovo da scrivere, da aggiungere, se non che la morte marcia, da Castello Road a Nord, al distretto al Zahraa, ai distretti di Sukkari, Ramussah e Salahhedin a Est mentre un mucchio di veti all’Onu, un numero di polemiche e inerzie sfidano per cifra solo il numero dei missili che cadono da cinque anni sulla Siria. «E va bene, I trust you e ti help. Questo è il numero del capo squadra dei Caschi Bianchi». Chiunque tu sia, dietro lo schermo, grazie e rimani vivo. «Anche tu» dice per salutare l’uomo senza nome di Skype. Poi la Siria è qua dentro, cliccando sull’icona a forma di telefono sulla chat di Whatsapp. Uno squillo solo, forte, veloce come una fucilata.
Così nasce la nostra intervista a Ammar Al Salmo, casco bianco, eroe tra gli eroi dell’anno: «Noi non siamo professionisti, siamo volontari», ci spiega, «non abbiamo un vero training e abbiamo anche poca attrezzatura». Ma salvano un sacco di vite, «esattamente non so la cifra adesso, ma i Caschi Bianchi hanno salvato oltre 72mila persone, in 120 città». In Siria, tra le bombe e le macerie.
Gli eroi erano 20 nel 2013, ma oggi, che comincia il 2017, Ammar deve rispondere e parlare per mille, anzi 3.000. Anzi: con precisione 3.026. E deve raccontarci che più di 150 Caschi Bianchi sono stati uccisi in the line of duty.
Su Left in edicola da venerdì 30 dicembre, insomma, vi raccontiamo ciò che vedrete anche nel documentario diretto da Orlando von Einsiedel e prodotto da Netflix, il lavoro di questi uomini e donne in tre terribili anni di guerra. Il documentario è candidato all’Oscar e George Clooney sta lavorando per capire se, da quel lavoro, si può trarre un film. L’idea, secondo l’attore, è quella di fare qualcosa per far capire meglio il conflitto in Siria. Ci proviamo anche noi. Dedicandogli la nostra ultima copertina del 2016.
Il dialogo Picasso-Giacometti a Parigi, Caravaggio a Londra , Alberto Burri a Città di Castello, Anish Kapoor a Roma, Ai WeiWei a Firenze, Yves Klein a Liverpool, e molto altro. Le mostre da vedere durante le feste, aperte anche l’ultimo dell’anno. Ecco un carnet ricco di proposte:
Giacometti e Picasso
Picasso e Giacometti a Parigi Il Museo Picasso fa dialogare le proprompenti opere di Pablo Picasso (1881-1973) con quelle tormentate ed essenziali di Alberto Giacometti (1901-1966), due protagonisti del Novecento che hanno approfondito il tema della rappresentazione cercando l’invisibile, la realtà interiore dei soggetti che nelle loro pitture e sculture non è più riconoscibile come fisionomia cosciente, ma assume un senso più profondo e, in questo modo, universale. Il piano piano terra e il primo piano del Musèe Picasso diventano così teatro per oltre 200 opere dei due maestri provenienti dalla Fondazione Giacometti, dall’enorme collezione picassiana del museo parigino e da collezioni private, che offrono opere raramente viste. Durante il lavoro di ricerca per la preparazione di questa esposizione sono emersi documenti inediti, schizzi, taccuini che illuminano il raporto non solo formale, fra lo schivo Giacometti e il meno rriservato Picasso di vent’anni più grande. la mostra approfondisce vari aspetti delle loro diversissime personalità mettendo in luce la loro grande libertà di ricerca e di invenzione. Ma anche il gusto per la dialettica e il confronto che fra loro si snodò, dai primi anni Trenta intorno al tema del ritorno al realismo che segnava quegli anni per proseguire poi nel confronto con il surrealismo, che per Picasso fu un interesse fugace e che non portò buoni frutti. Nelle otto sezioni, seguendo un filo cronologico e tematico, la mostra invita a uno stimolante confronto fra le loro rispettive creazioni individuano corrispondenze inedite e comuni passioni come quella per le arti non occidentali. Cosi al paffuto Paul in veste di Arlecchino di Picasso fa eco il filiforme Pinocchio di Giacometti, alla , Donna seduta in poltrona rossa (1932, in foto) corrisponde dialetticamente The Goat (1950) dello scultore svizzero . E ancora Donna (1933-1934) e Male camminare (1960) e molto altro fra disegni, sculture, dipinti e bozzetti. Fino al 5 febbraio 2017
Restando in Italia si segnalano altre due interessanti occasioni per vedere opere di Picasso dal vivo. All’Ara Pacis, fino al 19 febbraio,Picasso Images mentre l’Arena Museo Opera di Verona (AMO), fino al 12 marzo propone Picasso figure 1906-71 un’opera per ogni anno della vita di Pablo Picasso lungo un arco temporale che va dal 1906 fino all’inizio degli anni ‘70. In mostra circa novanta opere del pittore spagnolo fra le quali Nudo seduto (da Les Demoiselles d’Avignon del 1907), Il bacio (1931), La Femme qui pleure e il Portrait de Marie-Thérèse entrambe del 1937 e molte altre opere approfondite nel catalogo Skira.
Beyond Caravaggio
Beyond Caravaggio è la mostra dell’anno a Londra ed è la prima esposizione inglese che propone di esplorare l’influenza del rivoluzionario realismo di Caravaggio sulla pittura del suo tempo. Non solo fra i suoi seguaci più diretti, perché la fama del Merisi si sparse presto per l’Europa e maggiori artisti del Seicento accorsero a Roma per vedere i suoi capolavori, cercando di emulare il suo crudo e intenso naturalismo, e i suoi drammatici chiaro scuri, di cui tuttavia restarono nella maggior parte dei casi solo deigli imitatori. Lo stile caravaggesco diventò un must anche nel nord Europa, salvo poi tramontare nei secoli successivi che videro Caravaggio precipitare nell’oblio ( fino alla sua riscoperta novecentesca grazie a Roberto Longhi). In questa mostra, in parte esemplata su quella presentata fino all’estate scorsa a Madrid, sono raccolte opere preziose di caravaggio come Amor vicit omnia e questo corrucciato San Giovanno battista proveniente da . E poi la cattura di Cristo del 1602 e accanto ad opere di Orazio Gentileschi, Valentin de Boulogne, Jusepe de Ribera e Gerrit van Honthorst e altri maestri spagnoli, fiamminghi e olandesi. Fino al 15 gennaio 2017.
A Roma, intanto, oltre a poter vedere dal vivo alcune delle opere più importanti di Caravaggio, si può vedere la Canestra dell’Ambrosiana con cui il Merisi rivoluzionò la tradizione della natura morta, dando pari dignità alla rappresentazione di figure umane e oggetti, che dalle sue mani acquistano un senso trasfigurato e umanissimo. Dipingendo pere, mele, fichi, uva con acini ammaccati Caravaggio raccontava altro e in questo modo rivendicò l’autonomia della pittura, come realtà parallela e potenziata che nulla a che fare con ripetitività e i rigidi canoni della pittura di genere. Lo racconta la mostra L’origine della natura morta in italia che nella Galleria Borghese, accanto alla Canestra, espone l’autoritratto come Bacco (Bacchino malato), il Ragazzo con cesta di frutta, il Suonatore di liuto e la Cena in Emmaus Mattei. Curata da Anna Coliva con Davide Dotti e accompagnata da un catologo Skira, è aperta fino al 19 febbraio. Da non perdere l’appassionata e colta monografia su Caravaggio che lo storico dell’arte Tomaso Montanari presenta su Rai 5. Con il titolo La vera natura di Caravaggio, prodotta da Land comunicazioni, offre un’occasione di approfondimento puntuale, non scontata e conivolgente. Venerdì prossimo andrà in onda la terza puntata. Chi avesse perso le precedenti può rivederle su Rai replay
Alberto Burri
Burri a Città di Castello. Qualcosa di caravaggesco potremmo scovare anche in Alberto Burri, nei suoi toni ombrosi e nei contrasti fra brulicante nero e rosso vivo. Nella carnalità della pittura che, benché astratta, ci parla di umanissimi drammi. Dopo la grande mostra al Guggenheim per il centenario della nascita dell’artista umbro è la sua Città di Castello a rendergli omaggio, con una mostra curata da Bruno Corà. Con il titolo, Alberto Burri: lo Spazio di Materia – tra Europa e U.S.A, negli Ex Seccatoi del Tabacco, indaga i rapporti fra il maestro dei cretti, dei sacchi, delle compustioni con filoni come il New Dada, il Noveau Réalisme e l’Arte Povera , di cui lui fu indiretto ispiratore. Direttore della Fondazione Burri e fra i più fini interpreti della sua opera, Bruno Corà mette in luce l’invenzione linguistica scaturita dal suo lavoro. “Nell’impiego diretto e pressoché esclusivo della materia ne ha ottenuto una spazialità inedita all’insegna di un “controllo dell’imprevisto” e di un magistrale equilibrio che ne ha qualificato le forme” scrive Corà . Accanto ad un nucleo scelto di una ventina di opere di Burri – dai catrami alle muffe, dai sacchi ai gobbi, dai legni alle combustioni, dai ferri alle plastiche, dai cretti ai cellotex fino al “nero e oro” – sono esposte opere di Pollock, Motherwell, Hartung, De Kooning, Wols, Calder, Marca-Relli, Scarpitta, Matta, Nicholson, Tàpies, Colla, Rauschenberg, Twombly, Johns, Fontana, Manzoni, Castellani, Uncini,, Klein, Rotella,, Kounellis, Calzolari, Pistoletto, Pascali, Scialoja, Mannucci, Leoncillo,, Afro, Capogrossi, Kiefer, Miró e molti altri artisti del secondo Novecento assonanti con la ricerca di Burri. Fino al 6 gennaio 2017.
Frida Khalo a BolognaNon solo Frida, ma anche opere di artisti che furono amanti, amici e sodali dell’artista messicana. In mostra a Bologna si possono vedere opere di Diego Rivera che fu anche suo compagno di vita in una tormentata relazione durata molti anni. Organizzata da Arthemisia (catalogo Skira) questa esposizione presenta opere della Collezione Gelman, una delle più importanti raccolte d’arte messicana del XX secolo. Oltre ai quadri di Kahlo, Rivera, RufinoTamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Ángel Zárraga si possono vedere fotografie, documenti, bozzetti, mmagini iconiche, abiti e gioielli, proponendo così vari percorsi all’interno della “Rinascita messicana” (1920-1960) e delle vicende, non sempre facili, dei suoi protagonisti. La Collezione Gelman è nata nel 1941, quando Jacques Gelman e Natasha Zahalkaha, emigrati dall’Est Europa, si incontrarono a Città del Messico. All’inizio raccolse le opere di artisti messicani già affermati, tra cui Maria Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Rufino Tamayo e Angel Zarraga, succcessivamente entrarono anche quelle di Frida Kahlo e Diego Rivera. Parte del ricavato della mostra sarà devoluto ai terremotati. Fino al 26 marzo 2017
Yves Klein
Yves Klein alla Tate Gallery di LiverpoolNoto soprattutto per i suoi monocromi blu oltremare, Yves Klein è stato il geniale folletto dell’arte francese del Novento, purtroppo scomparso troppo presto. La Tate Gallery di Liverpool lo omaggia con una affascinante retrospettiva, in cui sfilano molte delle migliori invenzioni, sculture e opere pittoriche astratte, ma spesso realizzate a partire da modelle in carne in ossa. Come le sue Antropomotrie, realizzate invitando modelle nude a bagnarsi nel colore per poi lasciare fuggevoli impronte su grandi tele stese per terra. L’aspetto ludico, e una infinità curiosità verso culture diverse da quella occidentale, a cominciare da quella giapponese, sono i fili che attraversano sotteraneamente tutta l’opera di questo poliedrico artista francese che attraverso l’astrattismo una nuova spazialità che non fosse solo fisica. E che, affascinato dall’opera di Lucio Fontana, cercò di seguirne la strada come raccontava una bella mostra Klein Fontana Milano Parigi 1957- 1962 al Museo del Novecento a Milano. Fino al 5 marzo 2017.
Kirchner
L’espressionismo al Man di NuoroLa loro grafica tellurica, le immagini scheggiate, l’uso antinaturalistico del colore fecero dell’espressionismo un movimento che immediatamente segnava una differenza da tutta l’arte precedente, non solo da quella polverosamente accademica. Mentre in Francia germinava il movimento Fauve grazie a Matisse, in quello stesso anno, il 1905, a Dresda nasceva Die Brücke, provando a gettare un ponte fra la modernità metropolitana e la tradizione nordica improntata a un gusto del primitivo, del paesaggio selvaggio, letto in chiave spritualista. La mostra Soggettivo primordiale, aperta al MAN di Nuoro fino al 5 febbraio, ripercorre la storia dell’espressionismo tedesco attraverso una selezione di oltre cento opere provenienti dalla collezione dall’Osthaus Museum di Hagen. E nel catalogo edito da Magonza i due curatori, Tayfun Belgin e Lorenzo Giusti, mettono bene a fuoco questa discrasia intrinseca all’estetica espressionista. Tanto che pittori come Kirchner, come Nolde e persino artisti dichiaratamente di sinistra come Grosz potevano essere facilmente equivocati nella loro ricerca di “autenticità” e rifiuto del filisteismo borghese. Mentre il vitalismo, la critica degli aspetti disumani del nascente capitalismo e la trasformazione del popolo in massa amorfa e atomizzata, rappresentati nella loro pittura, furono addirittura cavalcati in una prima fase dal nascente nazionalsocialismo. Così il culto del nord, certo romanticismo esoterico, la grafica galvanica di Kirchner, Heckel e compagni diventarono il segno ambiguo che poteva essere letto e fatto proprio anche delle destre. Gli espressionisti si fecero sismografi di qualcosa di terribile che si stava profilando all’orizzonte, artisti come Grosz, che poi sarebbe fuggito negli Stati Uniti, rappresentavano questo clima plumbeo con volti ghignanti, profili aguzzi, ambienti sghembi, che sembrano precipitare. Il nazismo cercò di pervertire il senso dell’espressionismo, cercando di appropriarsene. Quando Hitler prese il potere nel 1933, quegli stessi elementi diventarono il segno, lo stigma, il motivo per cui l’arte espressionista fu bollata come degenerata ed esposta al pubblico ludibrio nella mostra del 1937, fra cartelli di insulti e disegni di malati di mente. fino al 5 febbraio 2017
Kirkeby
Kirkeby a Mendrisio (Mi) Non solo artista e poeta, ma anche geologo, Per Kirkeby si è spesso occupato del «grande e continuo movimento che giace sotto la superficie del globo, sotto le nostre vite, che si esprime in salti, in fratture, in ciò che i geologi leggono come faglie»; è questo movimento tellurico a percorrere in maniera carsica l’universo pittorico di quest’artista (classe 1938), forse meno conosciuto di Anselm Kiefer a cui talvolta viene accostato, ma che ha alle spalle un percorso ricchissimo e affascinante. Essendosi dedicato anche alla scultura e a interventi in spazi architettonici aprendoli al cielo, al verde, alla natura, come quello realizzato anni fa per la città di Torino. Negli anni Settanta del Novecento è stato vicino al neo espressionismo di Markus Lüpertz e Georg Baselitz. Ma si è sempre distinto per una sua vena poetica, lontana dall’aggressività materica dei cosiddetti neo selvaggi tedeschi. Per scoprire il suo universo pittorico si può andare a vedere la personale che,gli dedica il Museo d’arte di Mendrisio, poco lontano da Milano. Il percorso espositivo, curato da Simone Soldini, è incentrato sul periodo che va dal 1983 al 2012, particolarmente fertile, forse il più maturo, in cui il talento di Kirkeby si è espresso in tele di grandi dimensioni che invitano ad addentrarsi in una fitta foresta di forme astratte, con una tavolozza di verdi profondi, attraversati dalla luce e poi delicate opere su carta, acquerelli fatti durante esplorazioni in Groenlandia. Completano il percorso sei sculture realizzate per la scenografia di spettacoli del Teatro Reale di Copenaghen e il New York City Ballet. Ma vorremmo ancora soffermarci un momento sui dipinti. Non solo perché invitano a “vedere” che la quiete apparente della crosta sulla quale appoggiamo è perennemente instabile e che il suo movimento genera un palinsesto di nuovi “fogli” per l’artista. Ma soprattutto perché l’invito di Kirkeby a «posare lo sguardo», poeticamente su ciò che ci circonda ha come fine la creazione di immagini nuove, senza sudditanza servile alla realtà cosciente. Scienziato e insieme artista, proseguendo sulla strada aperta da Cézanne con la serie di vedute della Saint Victoire, Kirkeby invita a diffidare di chi propone figure di frattali e colori sintetici come nuova visione. Il postmoderno in questo senso non segna un positivo salto di paradigma e svia dalla ricerca sulle immagini. Il nuovo in pittura non può essere la trascrizione meccanica di scoperte della fisica, pur importantissime. L’artista danese sviluppa questo suo discorso teorico in un saggio che si può ora leggere nel catalogo della mostra pubblicato da Mendrisio Museo d’arte. Fino al 29 gennaio 2017,
Signac
Paul Signac a Lugano Estroverso, amante dei viaggi e allergico alla disciplina troppo rigida. Ma anche lettore curioso e attento alle novità, soprattutto di ambito scientifico, Paul Signac non visse soltanto la stagione post impressionista, dove lo confinano i manuali. Ma navigò a vele spiegate nel mondo delle avanguardie seguendo una propria rotta. Sviluppando una ricerca sulle potenzialità espressive del colore. Fino ad abbandonare completamente le fugaci e pallide visioni dell’impressionismo e il freddo pointillisme post impressionista – che egli stesso aveva contribuito a inventare – per avvicinarsi a un uso del tutto libero, irrazionale del colore, alla maniera dei Fauves e dal primissimo Henri Matisse.Diversamente dall’amico e sodale Georges Seraut, con il quale condivise gli studi di ottica e l’interesse per la fotografia, Signac non accettava di buon grado di stare rinchiuso nel proprio studio a dipingere paesaggi costruiti meticolosamente a furia di puntini. All’inizio si era entusiasmato all’idea di provare ad emulare il meccanismo della visione, che prende forma e si compone a partire da macchie separate, ma non era così ossessivo da passare intere giornate in quell’esercizio. Come ricostruisce la curatrice Marina Ferretti Bocquillon nel catalogo Skira della mostra Signac riflessi sull’acqua al Masi-Lugano, il pittore francese ben presto sostituì l’evanescente puntinismo con pennellate di colore più larghe, poi cercò di trovare una nuova strada attraverso l’acquerello che gli offriva la possibilità di dipingere in modo più libero e appassionato, senza la rigida maschera di una tecnica “a mosaico”. Nascono così evocative e sfrangiate vedute di Venezia (in mostra a Lugano con altre 140 opere di Signac); una Venezia dipinta nel 1904 all’imbrunire, con vibranti tocchi di bluette che – azzardiamo – sembrano anticipare le antropometrie di Yves Klein. Un anno dopo, con La place des Lices a Saint Tropez, Paul Signac era già oltre, sperimentava con acquerello, penna e inchiostro, guardando ad Oriente, emulando Van Gogh e il suo interesse per le stampe giapponesi. Fino alla fine Signac (1863-1935) non smise di cercare un modo per reiventare la pittura, andando oltre la mimesis e la riproduzione della realtà basata sulla visione retinica. Lo cercò dipingendo en plein air e nel proprio atelier dove poteva giocare con la fantasia. Ma anche impegnandosi a sviluppare la riflessione teorica, in un’ampia produzione saggistica. Il suo libro su Delacroix e la luce, in particolare, circolò molto anche fra i pittori più giovani, molti andavano a trovarlo in Costa Azzurra dove talora potevano incontrare anche a Matisse. Fino all’8 gennaio 2017
epa05677467 Labour Party leader Jeremy Corbyn delivers a speech at a Labour 'Care for National Health Service (NHS)' Rally in Central London, Britain, 15 December 2016. EPA/WILL OLIVER
Il destino del partito laburista britannico è legato, a filo stretto, al futuro di Unite, il principale sindacato dei lavoratori nel Regno Unito e in Irlanda. Le elezioni del Segretario generale di Unite, previste per la primavera del 2017, giocheranno quindi un ruolo fondamentale per il proseguo della leadership di Jeremy Corbyn.
Len McCluskey, il Segretario generale in carica di Unite, è un fervido sostenitore di Corbyn e rappresenta l’alleato più solido in vista di qualsiasi campagna politica a livello nazionale.
Ma alcuni documenti in mano al The Independent, dimostrerebbero come, proprio all’interno di Unite, si sia aperto un fronte che cerca di scalzare McCluskey dalla sua posizione di guida. Il nome di riferimento dei riottosi interni al sindacato è quello di Gerard Coyne, membro attivo in Unite da più di 20 anni.
Cosa ci sia in ballo lo descrive bene Joe Watts sul The Independent: «[Le prossime elezioni sindacali] determineranno chi avrà il controllo su un grande network di strutture e attivisti politici che, finora, sono stati mobilitati per la causa di Jeremy Corbyn». In altri termini, l’appoggio di Unite è stato fondamentale per consolidare la leadership di Corbyn sul territorio nazionale, soprattutto alla luce di un Labour che, a livello di classe dirigente, rimane diviso tra chi ama e odia il leader originario di Chippenham.
Ma perché si è creata una spaccatura all’interno di Unite? Secondo il documento in mano alla stampa britannica, McCluskey è contestato per la sua “ossessione” per Corbyn e la politica “londinese”. Lo sfidante Coyne, vorrebbe invece una leadership più concentrata sulle questioni sindacali di base: salari, sicurezza sul lavoro e discriminazioni di genere.
Il paradosso di tutto ciò? I temi posti all’attenzione della base del sindacato da Coyne sono elementi centrali nel progetto politico di Jeremy Corbyn. Secondo Joe Watts, «la candidatura di Coyne sarà vista come l’ennesimo attacco politico alla leadership del Labour».
epa05580142 Russian President Vladimir Putin (L) and Turkey's President Recep Tayyip Erdogan (R) arrive for a joint press conference following their talks on the sidelines of the 23rd World Energy Congress, in Istanbul, Turkey, 10 October 2016. EPA/ALEXEI DRUZHININ / SPUTNIK / KREMLIN POOL MANDATORY CREDIT
Turchia e Russia hanno concordato un piano di cessate il fuoco per la Siria, che dovrebbe entrare in vigore a mezzanotte. Questa la notizia rilanciata dall’agenzia di stampa Anadolu.
Il piano mira a espandere a tutto il Paese un cessate il fuoco concordato ad Aleppo all’inizio del mese per consentire l’evacuazione dei civili. Come i piani precedenti che erano stati negoziati dagli Stati Uniti e da Mosca, anche questo stop alle ostilità esclude i gruppi di terroristi.
In caso di successo, il piano sarà la base dei prossimi negoziati tra il regime e l’opposizione sotto l’egida russo-turca nella capitale kazaka Astana. Una parte dei ribelli chiede però di riprendere i negoziati a Ginevra.
Non è ancora chiaro come e dove il piano sia stato concordato, ma di certo sono stati contatti tra la Turchia, la Russia e rappresentanti siriani dell’opposizione con base ad Ankara. Ankare e Mosca, schierati su fronti opposti nella guerra civile siriana, hanno iniziato a cooperare dopo la riapertura dei canalio diplomatici in estate – interrotti a causa dell’abbattimento di un jet russo da parte turca.
Ankara ha lasciato fare le truppe di Assad ad Aleppo, il che è un segnale di buona volontà. Resta da vedere che fine faranno i curdi in questa partita: sono un nemico di Assad, ma anche di Ankara e rischiano di finire schiacciati. Grandi assenti e più isolati che mai in questa partita restano Stati Uniti ed Europa.
Visitors observe the statue of the elected President of the United States of America, Donald Trump, at the Wax Museum, in Rome, 09 December 2016. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI
Questo pomeriggio il Segretario di Stato John Kerry terrà un discorso nel quale cercherà di delineare una strategia diplomatica per la ripresa dei colloqui israelo-palestinesi. Un discorso tardivo, come l’astensione al consiglio di sicurezza Onu, che prova a indicare una strada e, forse, a mettere qualche limite alle scelte della futura amministrazione Trump in materia. I critici sostengono che le ultime mosse di Obama e dei suoi siano un rischio proprio per le scelte future: il nuovo presidente, che ha già annunciato lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme e nominato un ambasciatore finanziatore di insediamenti, potrebbe scegliere di rompere con ogni passo fatto da Obama proprio ed esclusivamente perché lo ha fatto Obama.
Il premier Netanyahu ha promesso di mostrare al team Trump le prove secondo le quali il presidente Obama ha partecipato direttamente alla scrittura della risoluzione, compiendo così un atto diplomatico ostile nei confronti di Israele. Ora, a parte che non ci sarebbe nulal di grave se gli Usa partecipassero alla scrittura di una risoluzione che condanna Israele, magari per contenerne i toni, il fatto incredibile sono le accuse fatte da Bibi come sse si trattasse di un atto terroristico. E l’annuncio irrituale di voler parlare non con il presidente, ma con quello eletto. E, infine, l’agitare prove che forse non avremo mai. O che Trump rilancerà in maniera esagerata e distorta.
La crisi tra Usa e Israele sull’astensione all’Onu ci aiuta insomma a ricordare come il 2016, l’ultima parte in particolare, sia l’anno in cui i presidenti e i leader di Paesi importanti hanno usato in maniera aperta le voci, le teorie del complotto o si sono lanciati accuse molto dure senza produrre prove – o sostenendo di averne, senza per ora mostrarle. O hanno, come Donald Trump dal suo account twitter, disseminato notizie vere a metà, interpretato, torto la realtà a proprio piacimento. O infine, sono caduti vittima di fake news e ad esse hanno risposto.
Nei giorni intorno a natale il ministro degli Esteri pakistano, Khawaja Asif dopo aver letto su internet che Israele minacciava di «distruggere il Pakistan con un attacco nucleare» nel caso il Paese asiatico avesse mandato truppe in Siria, rispondeva: «Israele dimentica che siamo anche noi una potenza nucleare». Spaventoso. Peccato che il ministro della Difesa israeliano non avesse mai pronunciato la frase attribuitagli.
Peggio ha fatto il generale Flynn, il consigliere per la sicurezza nazionale del futuro presidente Trump, che ha usato il suo account twitter per rilanciare notizie e teorie del complotto quali: la campagna Clinton si prepara a lanciare un “crociata” contro la chiesa cattolica, Obama è uno jihadista che fa riciclaggio di denaro sporco per i terroristi, John Podesta (il capo della campagna Clinton) partecipa a rituali nei quali si consuma sangue umano. Tra le notizie rilaciate anche quella secondo cui in una pizzeria di Washington si svolgevano rituali con bambini e che questi fossero legati alla campagna della candidata democratica. Qualche settimana dopo un uomo è entrato armato nella pizzeria per fare giustizia.
Poi c’è l’uso politico-diplomatico. Nei prossimi giorni vedremo se le prove di Netanyahu esistono. Intanto sappiamo che gli Usa si preparano a colpire Mosca con sanzioni a causa del presunto intervento nella campagna elettorale americana. In questo caso abbiamo molti elementi per dire che l’intervento ci sia stato, ma fino a quando non avremo il rapporto del Congresso o quello del team messo su da Obama, non avremo certezze. Eppure la vicenda ha aperto una crisi diplomatica senza precedenti e i toni tra Mosca e Washington non sono stati così aspri da decenni. Ieri il ministero della Difesa russo ha spiegato che la fornitura americana di armi ai ribelli siriani deliberata in questi giorni è «un atto ostile contro la Russia». La fornitura non è una fake news, ma i toni sono sopra le righe, distorcono un po’ la realtà delle cose: americani e russi sono da tempo impegnati nel sostegno a ribelli, gli uni, e ad Assad, gli altri.
Così come lo sono quelli usati dal presidente turco Erdogan, che dopo aver fatto passare sul suo territorio armi e ribelli per anni ora accusa Washington di fornire armi e sostegno all’Isis. Erdogan parla di “prove” ma non le mostra. Gli Usa rispondono che si tratta di una falsità. In entrambi i casi, i toni sono aspri, segnalano una rottura senza precedenti, ma non abbiamo fatti. La notizia, statene certi, rimbalzerà per mesi su internet. Le accuse di aver lasciato fare l’Isis, specie contro i curdi sono state molte, alcune potrebbero a loro volta essere notizie fatte circolare contro Erdogan. Un’alleanza indiretta, c’è però indubbiamente stata, specie nei mesi dell’assedio di Kobane. Erdogan poi mette sullo stesso piano l’aiuto all’Ypg curdo – quello dichiarato dagli Usa – e quello all’Isis.
Esempi ce ne sarebbero mille altri e magari alcune delle accuse lanciate in questi giorni sono vere, ma il tema è il modo in ci siamo abituati a usare e mischiare fatti e voci o l’uso politico di numeri falsi – quelli sugli immigrati e sul loro costo per il sistema sanitario nazionale della campagna a favore del Brexit o le notizie distorte provenienti dalla Siria, che cambiano di 360 gradi a seconda del sito dove le leggiamo (i caschi bianchi sono eroi degni del premio Nobel per la pace o jihadisti e sgozzatori travestiti?). Del 2016 ci resta una certezza: c’è un clima tossico in giro e i leader di molti Paesi e partiti politici usano in maniera spregiudicata – o stupidamente inconsapevole – internet come uno strumento di propaganda. E la cosa dovrebbe preoccuparci molto.