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La scoperta scientifica dell’anno

Le onde gravitazionali
Gravitational waves in the binary system

Per Nature, l’importante rivista scientifica inglese, non ci sono dubbi: quella delle onde gravitazionali rilevate dalla collaborazione internazionale tra gli americani di Ligo (che sta per Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) e gli italofrancesi di Virgo, e annunciata l’11 febbraio scorso, è la notizia scientifica dell’anno. Che batte, nell’ordine, l’editing genetico con la Crisp/Cas e la ratifica a settembre degli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici.

La scelta è più che giustificata. Perché quando l’11 febbraio la collaborazione tra Ligo e Virgo ha annunciato che i due rivelatori operativi in Louisiana e nello Stato di Washington avevano captato increspature dello spazio-tempo generate dalla titanica fusione di due buchi neri, l’emozione, tra i fisici di tutto il mondo, è stata davvero intensa. Su Left in edicola da venerdì 30 dicembre, vi spieghiamo nel dettaglio perché. Intanto, però, possiamo dirvi che le onde gravitazionali rilevate sono la conferma di una previsione effettuata da Albert Einstein nel 1917 sulla base della teoria della relatività generale elaborata alla fine del 1915.

Quella teoria – considerata uno dei due pilastri (l’altro è la meccanica quantistica) che reggono tutta la fisica contemporanea – prevede che le masse gravitazionali distorcano la geometria, altrimenti piatta, dello spaziotempo. Una conseguenza è che una grande variazione del campo gravitazionale dovuta, per esempio, a oggetti di massa gigantesca che si scontrano, produce delle increspature dello spaziotempo che si propagano proprio come le onde provocate da un sasso che cade in uno stagno. La scoperta del 2016 la conferma, e però la perfeziona, confermando che viviamo in un universo evolutivo che si espande a velocità crescente.

Left è in edicola dal 30 dicembre con questo e altri articoli

 

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La rete solidale che non abbandona i terremotati

Gli effetti del terremoto (foto di Daniele Molajoli)
foto di Daniele Molajoli

No, non è il racconto rituale di un Natale fra le macerie. E nemmeno una delle mille esperienze di volontariato e altruismo. È una costellazione di storie di autorganizzazione, resistenza e militanza, quella delle Brigate di solidarietà attiva (Bsa), che vi raccontiamo sul numero di Left in edicola da venerdì 30 dicembre.

«Contro un mondo che ci vorrebbe tutti individui in lotta tra di loro per la sopravvivenza, facciamo vivere la forza della solidarietà», ripete Giuseppe Grimolizi, pescarese, papà fra meno di un mese, che gira dal 24 agosto per le montagne a cavallo tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Lì dove la terra ha tremato violentemente, facendo strage di vite e di vissuti. Trentott’anni, insegnante negli istituti tecnici, Giuseppe è uno dei promotori delle Bsa, nate a L’Aquila nel 2009, cresciute nel sisma emiliano del 2012, e prima ancora nell’alluvione di Genova e nella masseria di Nardò, lì dove partì lo sciopero dal basso dei braccianti, schiavi della filiera dell’“oro rosso”.

Giuseppe è uno degli attivisti che abbiamo conosciuto, e che vi raccontiamo, mostrandovi le loro facce, le loro storie, raccontandovi come stanno garantendo spazi di socialità, viveri, case, attività. Un po’ di normalità a chi non finito sulle coste, negli alberghi a troppi chilometri da casa.

Vi presentiamo Lucia, Maria Grazia, Elisa, Francesco. E tanti altri. Che da mesi si danno il turno, occupandosi di magazzini, spacci, cucine, progettazione. Come a Acquasanta Terme, che ha meno di 3mila abitanti disseminati per oltre trenta frazioni. E proprio le frazioni, spesso, hanno pagato il prezzo più alto, senza aiuti per giorni, con strade bloccate da frane. Due giorni dopo il sisma di agosto, invece, le brigate erano già qui con una cucina per 150 persone. «Poi ci hanno chiamato per iniziare progetti in altri paesi», ci raccontano: «Nelle nostre ricognizioni abbiamo incontrato sindaci e popolazioni diffidenti con la Protezione civile. Abbiamo imparato a essere pratici, utili, solidali». A Ussita, nel maceratese, dove duemila anni fa si rifugiò una tribù sannita, i superstiti del primo terremoto avevano trovato rifugio nei bungalow del villaggio turistico. La Protezione civile non saliva in paese. Sono state le Bsa a portare viveri e vestiti per bambini, fino alle scosse di fine ottobre che hanno fatto scappare tutti.

Ora la relazione continua durante le assemblee popolari che, spesso, si svolgono negli alberghi dove in molti provano a sottrarsi alla condizione di “ospedalizzazione”.

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Viaggio per immagini lungo il 2016

Un'immagine dei migranti e rifugiati intrappolati in Grecia e costretti a vivere in condizioni degradanti a causa dell'accordo Ue-Turchia, che rischiano la vita con l'arrivo dell'inverno e del freddo, 14 dicembre 2016. ANSA / oxfam +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

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Ma Renzi, ad esempio, ha investito in MPS come ci consigliava di fare?

La sede del Monte dei Paschi di Siena in via Manzoni, a Milano, dove si è riunito il cda della banca, 19 dicembre 2016. ANSA/MATTEO BAZZI

22 gennaio. Titolo de Il Sole 24 Ore: “Mps è rianata, ora investire è un affare.” All’interno del pezzo Matteo Renzi, al tempo Presidente del Consiglio dichiara: «Noi studiamo una soluzione, Padoan sta facendo un ottimo lavoro ma il dato è meno grave di quanto percepito dai mercati che comunque fanno il loro gioco». La sera stessa, ospita de Bruno Vespa, Renzi ha aggiunto: l’Italia «non è sotto attacco» e anzi «le turbolenze possono essere un’opportunità». Come nel caso di Mps: «Oggi la banca è risanata, e investire è un affare».

Novembre. Matteo Renzi ospite di “Faccia a Faccia” il conduttore Giovanni Minoli chiede: «il 22 gennaio lei diceva che la banca era risanata e che investire era un affare». Renzi risponde convinto: «Lo penso tutt’ora e credo che se ci sia un investitore italiano o straniero che voglia investire nella banca sia un affare».

Ecco, visto come sta andando a finire con Mps (in un Paese che si intenerisce di fronte a una banca come se fosse un neonato orfano) la curiosità che mi piacerebbe soddisfare è quella di sapere se Renzi (come tutti gli altri ottimisti per professione) abbia investito in Mps. O se un suo famigliare (o un suo caro amico) abbia seguito il suo consiglio. Sono curioso. Davvero.

Buon venerdì.

«Regeni l’ho denunciato io». La confessione del capo del sindacato egiziano

Participants in the torchlight to remember Giulio Regeni, an Italian student murdered in Cairo (Egypt), in front of the Pantheon, in the centre of Rome, Italy, 25 July 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Faceva troppe domande. «E’ normale, ogni buon egiziano avrebbe fatto lo stesso. Faceva troppe domande». Dice proprio così, Mohamed Abdallah, con orgoglio, in un’intervista all’edizione araba dell’Huffington Post. Il capo del sindacato degli ambulanti, indicato già a marzo scorso da un’amica di Regeni (Hoda Kamel, dell’Egyptian Center for Economic and social rights) come un informatore dei servizi segreti, confessa tranquillamente il suo operato a un giornale. Sarebbe stato lui a consegnare il ricercatore Giulio Regeni, ucciso e torturato. «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni». E dunque ad Al Sisi. E’ la cosa più normale del mondo, sembra dire.
«Siamo noi che collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro. Quando viene un poliziotto a festeggiare con noi a un nostro matrimonio, mi dà più prestigio nella mia zona».
Chi ha ucciso Giulio? «Probabilmente chi lo ha mandato qui», dice nell’intervista riportata dall’Espresso. «Quando io l’ho segnalato ai servizi di sicurezza, facendo saltare la sua copertura, lo avranno ucciso». Risponde l’uomo che non a caso Regeni nei suoi appunti definiva “una miseria umana”.

Regeni si occupava, per conto dell’Università di Cambridge, proprio del mondo sindacale egiziano. Giulio, «un ragazzo straniero che faceva domande strane e stava con gli ambulanti per le strade, interrogandoli su questioni che riguardano la sicurezza nazionale – prosegue – . L’ultima volta che l’ho sentito al telefono è stato il 22 gennaio, ho registrato la chiamata e l’ho spedita agli Interni». Ovvero solo tre giorni prima del sequestro del ricercatore italiano, avvenuto il 25 gennaio del 2016.
Il corpo, rinvenuto il 3 febbraio lungo una strada del Cairo, porta con sé gli evidenti segni di torture ripetute. Ferite riconducibili a interrogatori, perché ripetute ogni 10-14 ore.
E’ quasi un anno che la famiglia di Giulio chiede con forza e coraggio, verità sulla morte del figlio.

Per Youtube, è Mélenchon il candidato ideale per l’Eliseo

epa05389638 Leader of the French party Front de Gauche, Jean-Luc Mélenchon arrives at the Elysee Palace for a meeting with French President Francois Hollande (unseen) in Paris, France, 25 June 2016. Britons in a referendum on 23 June have voted by a narrow margin to leave the European Union (EU). Media reports on early 24 June indicate that 51.9 per cent voted in favour of leaving the EU while only 48.1 per cent voted for remaining in. arrives at the Elysee Palace for a meeting with French President Francois Hollande (unseen) in Paris, France, 25 June 2016. Britons in a referendum on 23 June have voted by a narrow margin to leave the European Union (EU). Media reports on early 24 June indicate that 51.9 per cent voted in favour of leaving the EU while only 48.1 per cent voted for remaining in. EPA/CHRISTOPHE SAIDI

Immaginarsi Jean-Luc Mélenchon Presidente della Repubblica francese nel 2017? Difficile, se non impossibile: ammettiamolo. Ma intanto, il candidato della sinistra radicale, sta vendendo cara la propria pelle, almeno su Youtube: Mélenchon è infatti, di gran lunga, il politico francese più seguito sul popolare social media di video-posting di Google.

Con ben 140mila abbonati raggiunti nel mese di dicembre, Mélenchon si afferma come il candidato che riesce a utilizzare, meglio degli altri, uno dei canali di comunicazione più importanti del mondo digitale contemporaneo. E considerando che a ottobre del 2016 gli abbonati erano soltanto 40mila, la progressione di Jean-Luc ha veramente dell’incredibile.

Come sottolineano Damien Leloup e Raphaelle Besse Desmoulières su Le Monde, il numero dei così detti “subscribers” (“abbonati”) è triplicato in tre mesi, portando il politico francese vicino ai numeri di altre star di Youtube in Francia che però non si occupano esclusivamente di politica.

Ma qual è il segreto di Mélenchon? Secondo uno dei profili di Youtube più seguiti in Francia, MisterJDay, il candidato della sinistra francese ha compreso alla perfezione «il linguaggio» della piattaforma: «Mélenchon fa spesso riferimento ai commenti ai propri video» e interagisce con il suo pubblico.

Secondo il direttore della campagna di Mélenchon, Manuel Bompard, «[Youtube] rappresenta un media dove si possono esporre le proprie posizioni senza subire le deformazioni dovute alle pratiche giornalistiche che, spesso, non sono all’altezza della situazione… Per noi, [Youtube] non è mai stato un gadget per essere alla moda, ma uno strumento che offre delle opportunità per fare politica».

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Israele-Palestina, il lungo addio di John Kerry

epa05690216 US Secretary of State John Kerry delivers remarks outlining the Obama administration's vision for a Middle East Peace deal at the State Department in Washington, DC, USA, 28 December 2016. EPA/SHAWN THEW

I suoi collaboratori dicono che John Kerry avrebbe voluto tenere questo tipo di discorso già un paio di anni fa. Quando c’era ancora del tempo, per lui e la amministrazione Obama, di lavorare davvero a un piano che riportasse israeliani e palestinesi a un vero tavolo delle trattative. Il disinteresse di tutti lo ha fatto desistere: la vicenda è talmente controversa e spinosa per chiunque, che senza una forte volontà del presidente non c’è piano che tenga – a dire il vero con il Medio Oriente in fiamme e Netanyahu al governo è difficile pensare che un piano avrebbe potuto funzionare comunque.

Il discorso che il veterano della diplomazia Usa ha tenuto ieri era diretto soprattutto a Israele perché «agli amici si dicono delle verità» ed era per spiegare che no, l’astensione in consiglio di sicurezza non aveva nulla a che vedere con un colpo basso. Kerry ha detto quello che tutti sanno: la soluzione due popoli due Stati è a un passo dal diventare storia del passato. Anche, ma non solo, a causa della politica degli insediamenti israeliani che accerchiano e dividono quella che dovrebbe e potrebbe essere l’integrità territoriale del futuro Stato palestinese. Il riconoscimento degli insediamenti, anche quelli costruiti illegalmente da parte dei sostenitori della Grade Israele in luoghi scelti apposta per spezzare la giurisdizione dell’Anp, rende sempre meno possibile la costituzione di uno Stato.

Con un problema: se salta l’ipotesi dei sue Stati, «Israele deve scegliere se essere uno Stato ebraico, oppure uno Stato democratico». Già, perché se gli Stati sono due, i palestinesi avranno diritto di voto in Palestina, se lo Stato è uno solo, occorre concedere loro il voto, per rimanere democratici – e quindi diventare potenzialmente minoranza alla Knesset e nelle istituzioni – oppure non concederlo e decidere che milioni di cittadini, non sono tali.

Un discorso duro, qullo di Kerry, che ha ricordato come la coalizione al governo sia la più a destra di sempre, dove piccoli partiti hanno un enorme potere di veto. E risentito: Netanyahu ha sempre maltrattato gli Usa di Obama nonostante Israele abbia ricevuto sostegno tecnologico e militare come non mai nella storia dei rapporti bilaterali. E nonostante gli Usa abbiano usato il potere di veto all’Onu solo per impedire votazioni contro lo Stato ebraico.

Il problema del discorso di Kerry è che arriva troppo tardi. E che Netanyahu può rispondere con toni raramente usati da un leader israeliano nei confronti degli americani. «Kerry si è inchinato alla campagna terroristica dei palestinesi», il discorso non era «equilibrato» e l’unico problema è che «i palestinesi non riconoscono il diritto di Israele ad esistere». Falso: Kerry ha parlato del terrorismo, ha detto che la violenza non si giustifica mai e anche altre frasi così. Ma non conta: Netanyahu è un altro dei politici che usa la tattica del noi e loro. Loro sono i palestinesi, sono gli Usa di Obama, e tutto quanto non siamo noi, è contro di noi. Chi ci critica è un nemico. E chi se ne infischia se nei Territori il rischio è quello di una ulteriore radicalizzazione, una che farebbe rimpiangere Hamas. Netanyahu oggi può contare sul fatto che Putin, in funzione anti americana, gli è vicino e che il prossimo presidente Usa gli ha già detto di non preoccuparsi: «tenete duro, mancano 20 giorni», ha twittato Trump.

Per tutte queste semplici ragioni, il discorso di Kerry non è altro che un addio, la volontà di segnalare che lui un’idea e una volontà di lavorare alla pace ce l’aveva. Ma il disinteresse di Obama e una situazione pessima sul campo hanno remato contro. Non sono serviti i viaggi, centinaia di incontri, pressioni e promesse. Alla fine del discorso Kerry ha ricevuto un lungo applauso. Come quelli che si fanno aglo Oscar alla carriera.

Ma chi vuole il Jobs Act?

Il tweet con cui Matteo Renzi ha commentato i dati Istat sull'occupazione, il 29 luglio 2016. ANSA/ TWITTER MATTEO RENZI +++ NO SALES - EDITORIAL USE ONLY +++

Ricapitoliamo: ieri su La Stampa (e poi più o meno su tutti i quotidiani) si scriveva che la Corte Costituzionale potrebbe dichiarare illegittimo il referendum sull’articolo 18. Dappertutto si legge (anche nei giornali più vicini al governo) che un eventuale referendum vedrebbe una larga vittoria del sì (quindi una larga maggioranza contraria al jobs act) e fioccano storie di precarizzazione selvaggia.

A proposito: dopo che il governo Renzi ha “corretto” il jobs act il ministro Poletti annunciava felice una maggiore tracciabilità dei voucher come soluzione a tutti i mali. Peccato che a smentirlo sia un suo coinquilino al Ministero, Paolo Pennisi direttore dell’Ispettorato nazionale del lavoro che ha dichiarato che “questo tipo di tracciabilità non solo non risolve in alcun modo il problema dell’esplosione dell’uso dei voucher, ma non è efficace neppure per prevenire gli abusi. Perché potessimo verificare che il numero di ore pagate a voucher sia effettivamente quella comunicata tramite sms dai committenti, ci sarebbe bisogno – dice Pennesi – di controlli in tempo reale. Ma il numero esorbitante di tagliandi staccati ogni giorno c’impedisce di farli. E così per le aziende diventa sin troppo facile truccare i conti”.

Insomma: hanno fatto ciò che sognava Berlusconi, hanno detto che era la legge che avrebbe rilanciato l’occupazione, poi sono stati smentiti dai numeri poi sono stati smentiti dai lavoratori, poi sono smentiti dai loro stessi controllori, sanno di essere in assoluta minoranza nel Paese in caso di referendum. Ma chi lo vuole il jobs act?

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