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Almaviva contact, i retroscena della trattativa che ha mandato a casa 1.660 lavoratori

Un momento della manifestazione dei lavoratori di ''Almaviva'' davanti al Ministero dello Sviluppo Economico, a Roma, 19 dicembre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Una brutta storia quella di Almaviva Contact. Ed è stata scritta tutta in una notte, tra il 21 e il 22 dicembre. La vertenza della più importante azienda italiana di call center – 2.511 licenziamenti previsti tra Roma e Napoli – è piombata come un fulmine a ciel sereno a ridosso delle feste di Natale. Alle 3 di notte del 22 presso il ministero dello Sviluppo economico la trattativa – difficile, visti anche i precedenti – tra i sindacati e l’azienda si è interrotta bruscamente. I sindacati della sede di Napoli firmano l’accordo proposto dal Mise, quelli di Roma no. Le lettere di licenziamento, 1.660 per la precisione, sono in arrivo.

Il giorno dopo i servizi televisivi ci hanno mostrato i lavoratori disperati che si scagliano contro i sindacalisti, mentre nella notte il viceministro Teresa Bellanova comunica in un tweet: «Raggiunta intesa transitoria per evitare i licenziamenti. Rsu Napoli firmano e lavoriamo per intesa duratura. Roma scelgono di no». A Roma le Rsu hanno cercato subito di reagire, la Cgil lanciando un referendum, e la Cisl e la Uil raccogliendo firme. Ma non è servito a nulla. L’azienda, irremovibile, ha respinto qualsiasi ipotesi di riapertura della trattativa. Le lettere di licenziamento sono arrivate il 27 dicembre. Intanto la polemica infuriava sui social con un post di Luigi di Maio che si scagliava contro la Cgil a cui ha replicato Massimo Cestaro della Slc Cgil: «Non sa di che cosa parla». Cestaro ha anche denunciato la responsabilità dell’azienda definendo «un’operazione di vero e proprio sciacallaggio» il tentativo di addossare la colpa ai lavoratori e ai loro rappresentanti.

Ma cosa è avvenuto?  Dal racconto mediatico davvero sembra che la responsabilità sia dei sindacati, un modus operandi troppo facile per raccontare una vicenda intricata il cui epilogo è stato scritto in quella fatidica notte di dicembre. Va detto infatti che a maggio i sindacati dopo una mobilitazione durissima erano riusciti a impedire circa 3mila licenziamenti in alcune sedi del gruppo Roma (918 persone), Napoli (fino a 400 persone) e Palermo (1.670 persone). Ma a ottobre nonostante i lavoratori avessero accettato contratti di solidarietà penalizzanti (anche al 45%) su salari che spesso sono part-time e quindi da miseria (anche 500 euro), di nuovo l’azienda ha comunicato ai sindacati la procedura di riduzione del personale. Di nuovo tutto da rifare, dunque, stavolta però con più sfiducia da parte degli stessi lavoratori, usciti sfibrati dagli scioperi della primavera e dalle notizie di delocalizzazioni in Romania da parte del gruppo italiano.

Il sindacato su cui è stata maggiormante scaricata la responsabilità della rottura della trattativa è la Cgil, presente con sette rappresentanti all’interno della Rsu. Massimiliano Montesi è uno dei 7 e ci racconta cosa è successo. «Fino al 21 pomeriggio avevamo anche da parte di tutte le strutture nazionali, Cgil, Cisl, Uil e Ugl una piattaforma in cui non si doveva toccare il salario, perché parliamo di salari che stanno già sotto i 600 euro per il 70%, essendo part-time di 4 ore, e che non si sarebbe dovuto toccare per una singola azienda il capitolo relativo all’articolo 4, cioè il controllo individuale a distanza della prestazione. Su questo punto, si sarebbe dovuto intervenire all’interno del contratto nazionale, con delle linee guida valide per tutti, per evitare che l’articolo 4 diventasse uno strumento di dumping tra azienda e azienda». Questo il quadro di partenza. Poi, accade che il governo chiede ai segretari generali di rivedere la propria linea e «si prendono per buoni tutti i punti che prima erano definiti intrattatabili dalle organizzazioni sindacali», dice Montesi. «E cioè abbassamento delle retribuzioni e controllo individuale delle prestazioni e soprattutto la richiesta di strumenti per far diventare più produttivi i siti di Napoli e Roma», spiega il rappresentante Rsu.

I sindacati sono arrivati all’incontro al Mise con un mandato ben preciso da parte dei lavoratori, dopo ben quattro assemblee. «Dal 14 al 21 dicembre siamo andati a trattare con il mandato della stragrande maggioranza delle persone e cioè che quei temi non si sarebbero dovuti toccare. Nessuna firma». La notte del 22 la Rsu hanno chiesto a tutti di fermarsi per 24-12 ore per consultare di nuovo i lavoratori «per verificare se avevamo un mandato diverso da quello uscito in assemblea», continua Montesi. «Non ci è stato consentito. La sospensiva l’abbiamo proposta noi, non il governo, ma ce l’hanno bocciata. L’abbiamo chiesta come Rsu, come segreteria territoriale e segretaria di Roma e Lazio».

«Questo accordo è brutto, è allucinante quello che è stato firmato. Comunque tu vai a legittimare dei licenziamenti se non cambi determinate cose. Che ci può anche stare – continua Massimiliano Montesi – ma a quel punto tutte le sigle sindacali dovremmo avere il coraggio di dire ai nostri colleghi qual è oggi il nostro ruolo, ossia quello di notaio per tentare di fermare la crisi in qualche modo e discutere con le aziende di abbassamento di salari e diritti per fronteggiare la globalizzazione». Parole amare che riflettono la difficoltà di una trattativa che a Roma ha portato al  muro invalicabile da parte dell’azienda che costa 1.660 persone licenziate. Per i lavoratori di Napoli ci sono tre mesi di ammortizzatori sociali, un periodo durante il quale però si deve trovare un accordo su abbassamento del costo lavoro, modalità di controllo a distanza e recupero efficienza e produttività. «Se non avviene l’azienda è libera di licenziare». A Napoli, spiega Montesi, la firma è stata possibile perché il mandato dei lavoratori era più “libero” rispetto alle assemblee di Roma.

I dipendenti di Almaviva Contact della Capitale avevano detto un chiaro no, anche se tanti di quei dipendenti che protestavano davanti alle telecamere dei tg alle assemblee però non si erano visti, continua il rappresentante Rsu. E comunque al referendum promosso dalla Cgil se i sì erano stati 590 per il no si erano comunque espressi in 490. E adesso? Si andrà per vie legali. Almaviva Contact, ricordiamo, è solo una parte del colosso italiano dell’innovazione tecnologica con 45mila persone impiegate in tutto il mondo. Le Rsu di Almaviva Spa, che, come informatici fanno parte dei metalmeccanici, ricordano come in questo momento in cui ci sono opportunità di ripresa per il settore – dopo una crisi che l’aveva investito nel 2013 – la pioggia di ricorsi legali «determinerebbe una situazione di incertezza» proprio in un momento in cui Almaviva avrebbe bisogno invece di stabilità. «Un gesto di responsabilità da parte dell’azienda – si legge nel loro comunicato – sarebbe utile anche a restituire un po’ di credibilità e di rispetto al nome di Almaviva che non era mai caduto così in basso».

Dove, quando e perché si vota nel 2017. Gli appuntamenti europei

epaselect epa05260103 German chancellor Angela Merkel (CDU) holds a speech regarding the scandal surrounding TV host Jan Boehmermann at the Federal Chancellery in Berlin, Germany, 15 April 2016. Merkel announced that the German government will allow the German justice system to prosecute Boehmermann for his offensive poem about Turkish President Erdogan. EPA/GREGOR FISCHER

Il 2017 si apre con l’elezione del nuovo presidente del Parlamento europeo, dopo che Martin Schultz, che ha lasciato in anticipo la carica per candidarsi alla guida dei socialdemocratici tedeschi.
Tutti italiani i principali candidati. Il 17 gennaio gli eurodeputati dovranno scegliere a chi dare il mandato di un anno e mezzo tra Gianni Pittella, l’ex deputato di Forza Italia Antonio Tajani per i popolari europei, Eleonora Forenza per la Sinistra e Piernicola Pedicini per il gruppo Efdd, formato da Movimento 5 stelle e dalla destra radicale britannica dell’Ukip. L’ultimo italiano a ricoprire questa carica fu Emilio Colombo, eletto nel 1977 e rimasto in carica per due anni. Da tempo, l’elezione del presidente dell’Europarlamento è figlia di un accordo tra popolari e socialisti che – in nome della “grande coalizione” – si alternano alla presidenza. In nome di questo accordo, quindi, la carica dovrebbe andare al popolare Tajani. Gianni Pittella, però, sembra avere tutte le intenzioni di sfidare questi accordi. Durante la sessione plenaria del 16-19 gennaio, poi, saranno scelti anche i 14 vicepresidenti e altre cariche del Parlamento, capigruppo e presidenti delle commissioni parlamentari.

Elezioni politiche in Francia, Germania e Paesi Bassi.
Saranno certo un banco di prova per la destra euroscettica europea, le prossime tornate elettorali.
A maggio i francesi sceglieranno il successore di François Hollande. Tanti i candidati, soprattutto a sinistra: la destra socialista di Manuel Valls, la sinistra socialista di Arnaud Montebourg, la sinistra-sinistra di Benoît Hamon, la continuità hollandiana di Vincent Peillon (hollandista di ferro), l’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon e il movimento «né di destra, né di sinistra» di Emmanuel Macron, l’ex ministro dell’Economia di Hollande. Per molti, però, i francesi finiranno per dover scegliere tra due destre: quella gaullista di François Fillon e quella euroscettica di Marine Le Pen, leader del partito euroscettico e antimmigrazione Front National.
In autunno l’attenzione si sposterà in Germania dove Angela Merkel – in carica dal 2005 – cercherà di ottenere il suo quarto mandato. Martin Schulz, nonostante abbia lasciato la presidenza dell’Europarlamento per tornare in patria e nonostante sia il candidato con le maggiori chance, sul finire dell’anno annuncia che rinuncia a sfidare Merkel, lasciando la strada spianata al presidente del suo partito, Sigmar Gabriel. Il nome dei socialdemocratici, comunque, lo sapremo alla fine del mese di gennaio. Mentre è certo che il partito euroscettico Alternative fur Deutschland, registra una crescita nelle ultime tornate.
È nei Paesi bassi che la destra euroscettica e anti immigrazione può contare sul favore die sondaggi. Il 15 marzo in Olanda – che è il quinto paese più grande della zona euro e uno dei sei fondatori dell’Ue – il Partito della Libertà di Geert Wilders potrebbe fare il colpaccio.
Ad aprile si voterà anche per le presidenziali in Serbia, dove il Partito progressista serbo (Sns) non ha ancora deciso chi sarà il candidato. Dovrebbe ricandidarsi l’attuale presidente Tomislav Nikolic, anche se non è escluso che il premier e leader dell’Sns, Aleksandar Vucic, e Vaselj Seselj del Partito radicale serbo. Infine, si voterà anche in Norvegia dove si affronteranno le due coalizioni: i conservatori (uscenti) del premier Erna Solberg e i progressisti.
Non è da escludere, infine, che si voti anche in Italia dove le elezioni ufficialmente in programma nel 2018 potrebbero svolgersi anticipatamente nel 2017. Con l’Italicum inservibile, dipenderà dal destino della legge elettorale.

Due probabili referendum
Il suo svolgimento è da anni al centro di dispute tra il governo regionale e la Corte costituzionale spagnola, ma il 2017 potrebbe essere l’anno buono per il referendum per l’indipendenza della Catalogna. Il governo catalano, composto da indipendentisti, ha dichiarato l’intenzione di volerlo portare avanti, potrebbe svolgersi nel settembre del 2017.

Nell’aprile 2017 anche la Turchia di Recep Tayyip Erdogan potrebbe tornare al voto per un referendum. Dopo il tentato golpe del 15 luglio 2016, il presidente vuole cambiare la Costituzione, la nuova Carta accentrerebbe ancora di più il potere sul presidente della Repubblica.

Ultimo referendum per l’Italia, quello promosso dalla Cgil per abrogare le recenti norme sul lavoro: Jobs act, subappalti e voucher. Dovrà tenersi in primavera, ma il suo destino è legato alle elezioni anticipate: se le Camere venissero sciolte anche solo un giorno prima del voto, il referendum slitterà di un anno almeno.

Il Movimento cambia idea sugli indagati. Lo fa per Raggi. Ma è una buona notizia

Grillo durante il suo discorso di fine anno
Il fermo immagine mostra il leader del M5S, Beppe Grillo, durante il suo discorso di fine anno, 31 dicembre 2016. ANSA/BLOG BEPPE GRILLO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

Gli attacchi sono arrivati subito, con i dem, soprattutto, pronti a segnalare l’ennesima giravolta del Movimento 5 stelle, che ha reso pubblico il nuovo “Codice di comportamento in caso di coinvolgimento in vicende giudiziarie“, regolamento a cui, scrivono sul blog, “ogni eletto del Movimento 5 Stelle sarà tenuto ad attenersi”.

Un regolamento, è il punto, che (oltre a dare ampi poteri alla discrezionalità del Garante del Movimento e al Collegio dei Probiviri che potranno muoversi a prescindere dall’esistenza di un procedimento penale) stabilisce ora che un avviso di garanzia non è più motivo sufficiente per le dimissioni, non comportando “alcuna automatica valutazione di gravità dei comportamenti potenzialmente tenuti dal portavoce stesso”. Non è, insomma, una sentenza che – già di primo grado – resterà invece per il Movimento “grave ed incompatibile con il mantenimento di una carica elettiva”. Questo – ovviamente – se il regolamento sarà approvato dagli iscritti, che lo voteranno domani.

Dicono i dem (e notano molti cronisti e commentatori) che così, il Movimento, dopo il caso di Quarto, Parma e Livorno, si prepara ad eventuali e ulteriori sviluppi delle indagini romane, che hanno già visto l’allontanamento di un assessore, Paola Muraro, indagata, e l’arresto di uno stretto collaboratore della sindaca, il capo del dipartimento del personale, Raffaele Marra. È sicuramente così. Ma, in fondo, è una buona notizia.

Lo dice pure il deputato dem, renzianissimo, Andrea Marcucci. «Alla fine Grillo scoprirà la Costituzione». Ed è proprio questa la bella notizia. La prima vera esperienza al governo – quella romana – sta facendo crescere il Movimento, che magari non saprà ancora scegliere i collaboratori (supposto che di errore si tratti, come dice Raggi, la scelta di Marra, e non di una scelta politica, come sarebbe stata considerata dagli stessi grillini se a farla fosse stato qualcun altro), non sa scrivere una delibera a prova di Tar, ma impara i limiti del giustizialismo. È già qualcosa. Un pezzo della normalizzazione dei 5 stelle, che non può far che bene a tutti. Soprattuto perché con Grillo, i limiti del giustizialismo, li imparerà di nuovo anche il Partito democratico e tutti quelli che negli ultimi anni da Grillo si sono fatti dettare l’agenda, anche e soprattutto, come sui costi della politica, sulla gestione delle diverse indagini.

C’è da esser contenti, insomma, come dice a Dire un democristiano di lungo corso, Cirino Pomicino. «Io sono un cattolico, coltivo la virtù cristiana della speranza», dice Pomicino, con ironia da Prima Repubblica, «e ho sempre sperato che Grillo, come tutti i folli, prima o poi si ravvedesse. È accaduto, ed è un bene per il Paese». Anche se dovesse servire a salvare la sindaca Raggi, sì: «Le vie della provvidenza possono essere molte», continua Pomicino sempre biblico, «se questo è lo strumento per riportare Grillo sulla via di Damasco, ben venga».

Juncker ha ostacolato l’approvazione di regole per frenare l’elusione fiscale in Europa

Jean Claude Juncker
epa05674070 President of the European Commission Jean-Claude Juncker speaks before the signing the Joint Declaration on the EU's legislative priorities for 2017 during the plenary session at the European Parliament in Strasbourg, France, 13 December 2016. The presidents of the EU Parliament, Council, and Commission will sign the first-ever joint declaration on a common set of key policy areas where they pledge to make substantial progress next year to achieve tangible results for EU citizens. EPA/PATRICK SEEGER

Un nuovo scandalo si abbatte sul presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che negli anni in cui è stato premier del Lussemburgo ha fatto quel che poteva per ostacolare gli sforzi dell’Unione per colpire l’elusione fiscale da parte delle grandi multinazionali. A rivelarlo è il Guardian che ha ottenuto una serie di cablogrammi confidenziali interni alla diplomazia tedesca, passati al quotidiano britannico dalla NDR, gruppo radiofonico che opera in Germania.

Dalle comunicazioni interne scopriamo del ruolo giocato da Juncker – e non solo da lui – nel Gruppo per un codice di condotta della tassazione delle imprese, un gruppo semi-sconosciuto interno alle istituzioni comunitarie nato diciannove anni fa per verificare che i Paesi aderenti all’Unione non utilizzassero le proprie regole fiscali per farsi concorrenza sleale. Le carte segnalano come una serie di regole che l’Unione aveva intenzione di darsi siano state bloccate dagli sforzi congiunti di Lussemburgo, talvolta Olanda e qualche altro Paese membro. E siccome il comitato funziona all’unanimità, bastava il piccolo Granducato, noto per essere un paradiso fiscale, a impedire l’approvazione di regole capaci di impedire alle multinazionali di utilizzare regimi fiscali diversi e trucchi contabili per evitare di pagare tasse ai Paesi dove fanno profitti.

Negli ultimi anni il Lussemburgo sembra aver attenuato questa intransigenza e la volontà di preservare il proprio ruolo di hub europeo per le sedi fiscali delle multinazionali, ma resiste comunque all’idea – avanzata nel comitato – di rimuovere il meccanismo dell’unanimità come metodo per approvare riforme, come richiesto da Germania, Francia e Svezia. Ovvero il Paese di 560mila abitanti con il Pil pro capite più alto del continente vuole comunque garantirsi il potere di veto.

Tra le regole che il Lussemburgo ha impedito di approvare c’è l’idea di sottoporre a revisione tutti gli accordi fiscali tra singoli Stati nazionali e corporations (ovvero benefici fiscali in cambio di investimenti), un’indagine transfrontaliera che verificasse le strategie di elusione fiscale utilizzate dalle multinazionali per pagare meno tasse e la creazione di un sistema automatico di condivisione dell’informazioni.

La vicenda sarà un nuovo colpo per l’immagine del presidente della Commissione, già messo in difficoltà dai dati sull’elusione fiscale garantita nel suo Paese negli anni in cui era alla guida del Granducato. E questo nonostante l’Europa, protagonista la commissaria alla concorrenza, la danese Margarete Vestager, stia prendendo misure concrete e multando le multinazionali per la loro elusione: il caso Apple, richiesta di pagare 13 miliardi arretrati all’Irlanda è il più clamoroso e indagini vengono portate avanti anche su Amazon, McDonald’s, Engie (ex GDF-Suez), Google. Alcuni sono gruppi americani e potrebbero aprire scontri furibondi con la amministrazione Trump.

 


 

Da sapere

Il Gruppo per un codice di condotta della tassazione delle imprese ha individuato una serie di sistemi utilizzati dai singoli Stati per far pagare meno tasse. Ci sono i meccanismi più semplici come adottare un regime fiscale particolarmente conveniente per un determinato settore, benefici fiscali speciali per i non residenti (o per i residenti come è il caso della Gran Bretagna), incentivi per attività che non hanno alcun impatto sulla base imponibile nazionale; la concessione di vantaggi fiscali, anche in assenza di una vera e propria attività economica; la base di determinazione dei profitti per le aziende in un gruppo multinazionale si discosta dalle regole accettate a livello internazionale, in particolare quelle approvate dall’OCSE; mancanza di trasparenza.

In un rapporto del novembre 1999 il Gruppo ha anche segnalato 66 misure fiscali con caratteristiche nocive –  40 negli Stati membri dell’Ue, 3 a Gibilterra e 23 nei territori dipendenti o associati (in genere ex-colonie o territori di Sua Maestà la regina d’Inghilterra).

Un rapporto di una rete di organizzazioni della società civile del 2016 segnala invece che gli accordi speciali con le multinazionali da parte di Paesi europei stanno conoscendo un boom. Nonostante lo scandalo dei Luxembourg papers abbia aperto uno squarcio su queste modalità. Tra le cose che i grandi gruppi fanno c’è il trasferimento di profitti tra una società e l’altra – esempio: la mia compagnia che si trova in Italia dove pagherebbe molte tasse sui profitti, fa una commessa a una, dello stesso gruppo, che si trova in Irlanda, dove ne paga un terzo; la prima così va in pareggio e non paga tasse, la seconda fa profitti, ma ne paga poche a causa del regime fiscale privilegiato.

Il rapporto ricorda come gli accordi tra singoli Paesi e multinazionali sia passato da 547 nel 2013, a 972 nel 2014, per raggiungere  i 1444 a fine 2015 –  un aumento di oltre 160 per cento tra il 2013 e il 2015 (e di quasi il 50 per cento tra 2014 e 2015). Secondo il Parlamento europeo l’elusione fiscale delle multinazionali che adottano questi sistemi per non pagare le tasse, costano alle casse pubbliche dei 28, circa 70 miliardi l’anno di risorse non raccolte. I Paesi europei stipulano anche accordi commerciali con Paesi in via di sviluppo ottenendo concessioni sui regimi fiscali per i proprio investimenti (che vuol dire che le imprese dei singoli Paesi fanno profitti in Africa o Asia lasciando poco alle casse statali di quei Paesi).


 

Grecia, sanità pubblica al collasso: quando l’austerity uccide

Secondo alcuni nuovi dati rilasciati dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (CEPCM), il 10 per cento cittadini greci ricoverati negli ospedali rischia di sviluppare infezioni all’interno delle strutture mediche stesse, mentre 3mila decessi sono già stati ascritti a questa causa.

A riguardo, parole pesanti sono state pronunciate da Michalis Giannakos, il Segretario della Federazione ellenica degli impiegati pubblici del settore ospedaliero: «Pazienti che sarebbero potuti sopravvivere, hanno perso la vita nel nome del raggiungimento dei target di bilancio […] I nostri ospedali sono diventati zone di guerra».

Insomma, l’Austerity uccide. E non è un modo di dire. Sebbene i dati del CEPCM facciano riferimento al biennio 2011-2012, secondo Giannakos il quadro si sarebbe addirittura «aggravato».

I sintomi dell’emergenza ospedaliera in Grecia? Mancanza di personale, infrastrutture fatiscenti, assenza di prodotti sanitari adeguati: «In media, abbiamo a disposizione un’infermiera ogni 40 pazienti», ha rincarato Giannakos, intervistato da Helena Smith per il The Guardian.

Dal 2009, secondo dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il budget dedicato alla sanità pubblica è stato tagliato di un terzo e 25 mila impiegati sono stati licenziati. Nel 2016, sotto al governo Syriza, i tagli sarebbero arrivati a 350 milioni di euro.

Intanto, i dottori greci continuano a emigrare all’estero, aggravando di fatto la situazione della sanità pubblica e privata nel Paese ellenico. In pratica, le cattive condizioni del sistema sanitario creano un’ulteriore incentivo per cercare lavoro altrove. Con buona pace dei pazienti.

Leggi anche:

GermaniaHandlesblatt – Dopo Stiglitz, anche il capo-economista dell’Istituto per la ricerca economica di Monaco di Baviera (Ifo), Clemens Fuest, prevede l’uscita dall’Eurozona per l’Italia

Spagna El Pais – Il Ministro dell’economia e delle finanze spagnolo, Luis de Guindos: «La riforma del lavoro approvata dal precedente governo Rajoy non si tocca»

 

 

Turchia terra di confine, simbolo del 2017 che ci aspetta

epa05694099 Relatives and friends mourn at the coffin during the funeral of Ayhan Arik, one of the 39 victims of the gun attack on the Reina, a popular night club in Istanbul near by the Bosphorus river, in Istanbul, Turkey, 01 January 2017. At least 39 people were killed and 65 others were wounded in the attack, local media reported. EPA/SEDAT SUNA

39 morti, più di 60 feriti. Sono questi i numeri del Capodanno a Istanbul dopo l’attentato dell’altra notte al Club Reina, una delle discoteche più in voga della città, un simbolo della Istanbul europea e cosmopolita, situato proprio lì sul Bosforo, sull’eterno confine fra Oriente e Occidente. Un confine che oggi e in quest’anno appena trascorso la Turchia simboleggia alla perfezione, lo fa da sempre, da quando Istanbul era Bisanzio o Costantinopoli avamposto dell’impero romano in Oriente o del cristianesimo impegnato nelle sue crociate. Per anni il dibattito sull’ammissione o meno della Turchia in Europa è stato acceso e la questione è proprio questa: la penisola Anatolica, lì protesa in mezzo al Mediterraneo, è est o ovest? Si sono scomodati anche i geografi dicendoci che a ben guardare placche e morfologia terrestre, i confini dell’Europa vanno dagli Urali alla catena montuosa di cui fa parte il monte Arat, nella Turchia orientale.
L’attentato ancora non è stato rivendicato, ma molti elementi fanno pensare a Isis.

Il presunto killer. Prima di sparare avrebbe urlato: «Allah Akbar»
Il presunto killer. Prima di sparare avrebbe urlato: «Allah Akbar»

Ciò che è certo è che è avvenuto sul confine, lì dove è più facile estendere il “contagio”, rosicchiare terreno alle porte dell’Europa e aumentare il caos che in Turchia è già tanto, viste le premure del presidente Erdogan per far fuori dal gioco i propri oppositori e mettere a tacere la scomoda minoranza curda.
Nel 2016 la Turchia è stata vittima, oltre che di un finto golpe, di molti altri attentati, gli ultimi poche settimane fa, il 10 dicembre, quando una bomba piazzata pare da un gruppo estremista curdo fuori dallo stadio di Istanbul aveva ucciso 44 persone, e poi con l’assassinio in diretta dell’ambasciatore russo. Ma anche quando era esplosa una bomba durante una manifestazione pacifista o quest’estate un attacco bomba probabilmente di matrice jihadista durante un matrimonio aveva fatto almeno 30 vittime. O il 28 giugno di nuovo Isis con la bomba all’aeroporto Ataturk, i morti furono 41.

D’altronde nei periodi di instabilità è questo il destino delle terre di confine. In Turchia il terrorismo è la nuova normalità come ha dichiarato Zeynep Ozman, fratello di un superstite ferito nell’attentato del 31 sera: «Non so cosa dire, non voglio dire nulla di politico, ma non possiamo accettare che questa sia diventata ormai la regola. Il terrorismo è ovunque nel Paese e il governo non ha controllo. Ad Istanbul non si vive più»

Istanbul in lutto, fiori per le vittime del massacro al Club Reina
Istanbul in lutto, fiori per le vittime del massacro al Club Reina

Alle mire geopolitiche dello stesso Erdogan, della minoranza curda e di Daesh si aggiungono ovviamente la crisi dei migranti e la delicata questione siriana. E anche qui, sulla Siria la posizione turca è oscillata da un lato all’altro della barricata (sempre sul limite fedele solo al suo essere confine) prima supportando gruppi anti-Assad e poi schierandosi dalla parte di Russia e Iran al fianco del dittatore.

E mentre ancora si cerca di fare chiarezza sulla matrice del massacro del Club Reina e in Turchia è caccia all’uomo per cercare di catturare l’attentatore, quello che emerge con forza è il tema del confine, inteso anche come limite di un progetto europeo occidentale che sembra aver perso di forza all’esterno e all’interno, assediato com’è dai nuovi venti populisti.

Come ricorda il sociologo Zygmunt Bauman: «I confini dividono lo spazio; ma non sono pure e semplici barriere. Sono anche interfacce tra i luoghi che separano. In quanto tali, sono soggetti a pressioni contrapposte e sono perciò fonti potenziali di conflitti e tensioni». Questo è il nostro caso. La Turchia ne è, oggi più che mai, il simbolo.

Imprenditori pericolosamente naturali

Se date a dei bambini alcune caramelle la prima cosa che faranno sarà quella di contarle e poi contarsi per decidere quante ne spettano ad ognuno di loro. Accade in modo lineare, senza complicate trattative o accordi, quasi naturale se è vero che in tempi di abbondanza (e di scarsità) la sensazione è generale.

Così se succede (com’è successo nei giorni scorsi) che un’azienda chiuda l’anno con un fatturato addirittura triplicato rispetto ai dodici mesi precedenti risulta naturale che il presidente dell’azienda decida di dividere l’inaspettato successo con i propri lavoratori. Giuseppe Moro, presidente e fondatore della romana Convert, ha deciso di aggiungere due mensilità ai suoi lavoratori per condividere il successo, anche economico.

Così come qualche anno fa aveva deciso di pagare l’Imu ai propri lavoratori; Imu prima casa (esclusi i dirigenti) con priorità a chi avesse figli a carico. Semplice, lineare, come le caramelle dei bambini. Eppure la notizia è rara e nettamente in controtendenza con chi oggi ci vorrebbe convincere che il lavoro sia un privilegio che bisogna tenersi stretto senza preoccuparsi di diritti o di sicurezze o di futuro.

«I dipendenti – ha detto Moro – sono la nostra vera ricchezza e asset strategico, se chiediamo il loro impegno per raggiungere determinati obiettivi e li raggiungiamo trovo naturale che vadano ricambiati». Naturale, ha detto. Naturale. Proprio così.

Buon lunedì. E buon anno.

Sul comodino dei politici

Books and eyeglasses on shelf by window with vintage look.

Sono meglio i politici colti, umanisti, amanti delle belle arti, e perfino loro stessi scrittori e poeti, o i politici rozzi, semi-analfabeti, di scarse letture ma fedeli al loro ruolo di civil servant, di umili e probi servitori dello Stato?
Va bene, perché non cercare una via di mezzo? Però è un fatto che dittatori, tiranni e autocrati sono irresistibilmente attratti dalla letteratura. L’imperatore Nerone non amava tanto la politica quanto la musica, il teatro e la poesia. Si esercitava tutto il giorno nel canto, per il quale non era portato, ma veniva assecondato da maestri terrorizzati e untuosi cortigiani..

Left è in edicola dal 30 dicembre con questo e altri articoli

 

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La Tunisia tra l’Isis e i fantasmi del passato

epa02528902 Protesters show a banner saying 'Liar, you didn' t cease fire' during a protest against Tunisian President Zine El Abidine Ben Ali , in Tunis, Tunisia, 14 January 2011, after Tunisian President Zine El Abidine Ben Ali's address to the nation. According to media reports, Tunisia President Ben Ali said, in his 13 January evening address to the nation, that he would not seek another term in office. He also admitted that he had mishandled a spreading wave of unrest and promised democratic reforms. He added that security forces should no longer use lethal force against demonstrators and that they were ordered so, after rights groups said at least 66 people had been killed. EPA/LUCAS DOLEGA

Anis Amri aveva passato diversi anni in un carcere italiano ed era in quel luogo che si era radicalizzato. È una storia che si ripete spesso: in Francia e Gran Bretagna esistono esperti, programmi e progetti di lavoro nelle prigioni proprio per monitorare quanto accade e lavorare con i detenuti a programmi di formazione e reinserimento.

Il Paese che ha dato il via alla Primavera araba cerca di far luce sulle morti e le torture nelle carceri di Ben Ali. In tv sfilano vittime e testimoni, ed è la prima volta che accade. Mentre si tenta di contrastare le frange jihadiste che fanno proseliti tra i giovani

I foreign fighters che rientrano in Tunisia rischiano l’arresto immediato e il governo non permette loro alcun tipo di riscatto sociale. Alcune associazioni stanno intervenendo per prevenire e arginare il fenomeno. Una di queste è Rescue association for Tunisians trapped abroad, che sostiene le famiglie dei tunisini arruolatisi nelle fila di movimenti islamici radicali in Siria, Iraq e Libia, e che si occupa della reintegrazione dei combattenti che decidono di tornare. L’ha fondata Mohammed Ikbal Ben Rejeb, dopo che il fratello Hamza era fuggito per arruolarsi. 

Su Left in edicola un reportage dalla Tunisia che racconta del lavoro delle associazioni in questo senso e per fare luce sulle vittime di tortura della dittatura deposta con la prima delle primavere arabe. L’unica che si possa dire vittoriosa.

La storia delle associazioni che lavorano nelle carceri tunisine è su Left in edicola dal 30 dicembre 

 

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