Una immagine di Sandrine Bakayoko, la giovane donna ivoriana deceduta ieri all'interno del centro di accoglienza a Cona (Venezia).
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Voi che avete vomitato tutto ieri sul cadavere di Sandrine Bakayoko non ci siete mai entrati in un Centro di Prima Accoglienza, ne sono sicuro. Siete quelli che battono il tacco e sbuffano alla cassa del supermercato dietro l’anziana che cerca le monete; siete quelli che non vedete l’ora di mostrare agli amici come accuserete il cameriere di avervi portato la birra troppo calda; siete gli stessi che affilano gli insulti contro i calciatori e i politici strapagati e poi gonfiate il vostro rimborso chilometrico; siete quelli che ce l’hanno con le grandi evasioni fiscali degli altri e chiamate le vostre sopravvivenza; siete quelli che raccontano barzellette sui gay e poi la notte vi si ritrova a trans; siete quelli che non si sentono razzisti perché siete amichevoli con gli amichetti negri di vostro figlio; siete quelli che votano i salvini di destra o di sinistra perché il loro odio è la serotonina per i vostri fallimenti; siete quelli che abbaiate nei commenti e poi balbettate se vi si incrocia nella vita reale.
Voi non lo sapete dov’è morta Sandrine perché se vi capitasse di entrare in un Centro di Prima Accoglienza (peggio ancora in quello di Cona) vi verrebbe la paura fottuta che il mondo un giorno si inverta e vi possa capitare di doverci transitare; urlate e puntate il dito sulla rivolta dei migranti perché è l’unica parte di tutta questa storia che vi tranquillizza, spaventati come siete da una complessità del reale che vi metterebbe subito in fuori gioco.
A Cona Sandrine non è morta di morte naturale, no. Ai morti per usura non serve fare autopsie: muoiono per consunzione sfregando con le loro storie troppo spigolose contro un tempo che si illude di ridurre tutto e tutti al computo di “base per altezza” come in un tema alle scuole elementari. Sandrine è morta come muoiono gli anziani di solitudine, come muoiono i carcerati di embolo alla speranza, come muoiono i piccoli imprenditori che non intravedono più una soluzione o come muoiono tutti coloro che per eccesso di difesa si fanno isola e infine affondano. Morta per analfabetismo emotivo. Anche lei. E frollata dal salvinismo. Buona per essere mangiata, appunto.
Il fermo immagine mostra il leader del M5S, Beppe Grillo, durante il suo discorso di fine anno, 31 dicembre 2016.
ANSA/BLOG BEPPE GRILLO
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Rieccoci. In questo Paese tutte le grandi questioni di cui discutere si trasformano in bordate tra figure prominenti, titoli roboanti, polemiche e querele. Oggi sappiamo che Enrico Mentana querelerà Beppe Grillo per aver incluso il logo del TG da lui diretto nel post in cui parla di “spacciatori di notizie false” e tribunali del popolo. Peccato perché il tema di come, cosa sia una notizia e come trattarla è cruciale. Nel Web nasce e cresce una quantità impressionante di materiale vero, non vero, quasi vero, distorto.
Facciamo un esempio che non c’entra nulla con Grillo e poi torniamo al post del leader de facto dei 5 Stelle. E che non è nemmeno una notizia falsa. Ieri la Camera del Congresso Usa a guida repubblicana ha abolito una commissione etica interna che era incaricata di vigilare sui comportamenti e i conflitti di interesse. Lo ha fatto di notte nel primo giorno in cui il nuovo Congresso si è riunito. La notizia ha generato sdegno. E per questo, dopo qualche ora, il presidente entrante Donald Trump ha twittato: «Con tutto quel che c’è da fare, davvero il Congresso deve abolire il watchdog sull’etica?». Trump entra nella questione, non dice che i suoi hanno fatto una porcheria, ma sembra farlo, perché dice che è sbagliato. Un modo per non rompere con la sua maggioranza e per far commentare tutti che “Trump interviene nella questione”. Senza dire nulla. La dinamica della rete, la corsa a coprire la notizia, genera discussione pochi minuti dopo e il presidente eletto, così, sembra aver preso posizione senza averla presa. Un modo abile di esserci, far parlare di sé, creare una notizia senza fare nulla. Negli Usa, mentre la rete italiana discute di Mentana e Grillo, si discute dei tweet di Trump. Alla fine i rappresentanti repubblicani hanno fatto mezzo passo indietro, per lo sdegno suscitato dai media. La lettura immediata e prima che si sappia cosa è successo nel meeting è: Trump twitta, i repubblicani obbediscono. La verità è probabilmente diversa: lo sdegno suscitato per una decisione presa di soppiatto, ha reso necessario un passo indietro. E una nuova brutta figura.
L’effetto è simile con Grillo: il post è un’invettiva, non una proposta vera. È un modo come un altro di dire «noi contro loro» dove i “loro” sono i media, tutti, che lavorano per frenare l’avanzata trionfale dei Cinque Stelle. Di fronte alle difficoltà oggettive incontrate dalla giunta Raggi – e all’oggettiva crociata di alcuni giornali e media contro di essa, per carità – Grillo decide che è il momento di tornare a prendersela con i media e a difendere la rete. Ora, è pur vero che nei giorni scorsi ci è stato spiegato (dal presidente dell’Antitrust Pitruzzella) che forse lo Stato dovrebbe punire chi pubblica notizie false e decidere cosa è vero. Una nozione sbagliata e fuori tempo massimo. L’autorevolezza del giornalista sopra le parti non esiste più. Ci sono figure che erano più o meno vissute come imparziali e autorevoli, oppure parziali, ma autorevoli nonostante la propria partigianeria. Non è più il momento. L’idea che sia lo Stato a decidere cosa e come, poi…
Come spesso capita nel discorso populista, Grillo (ma anche Pitruzzella, a dire il vero) mescola cose diverse ma serve a indicare il nemico. Un conto è dare notizie palesemente false che chi scrive sa essere tali, altro è fare uno scoop per scoprire che si tratta di un errore, altro ancora è stiracchiare una notizia con un titolo e delle allusioni, ma senza dire nulla di palesemente non vero. Sfumature di grigio e non buon giornalismo comunque, ma cose diverse. Ovvero: l’ossessione e spesso l’enfasi data alle notizie su Roma e sui guai della Giunta Raggi – che è la stessa usata con Marino, anche dai 5 Stelle – sono chiaramente figlie della volontà di danneggiarne l’operato. Ma hanno un fondamento di verità. Invece capita che ci siano notizie sul blog di Beppe Grillo o dei 5 Stelle che sono palesemente, clamorosamente false e che rimangono dove sono, per fare clickbait o per vendere idee false alla gente. Citiamo un caso minore di cui abbiamo parlato: c’è un articolo su George Soros presunto finanziatore delle manifestazioni anti Trump di cui parliamo qui ripreso da Linkiesta (altra pratica discutibile) che finanzia le manifestazioni anti-Trump dove notizie vere e false si mescolano, dove cose note e vecchie di anni prendono forma di rivelazione e il contesto scompare. L’articolo riporta cose false, ma mentre scriviamo è ancora online. Ecco, entrambe le cose sono un pessimo servizio, e non è la rete da difendere, ma c’è un lavoro enorme da fare per fare in modo che le persone imparino a distinguere, a informarsi meglio, a criticare non le cose con le quali non sono d’accordo, ma quelle palesemente fatte male.
Infine l’idea-provocazione di Grillo: istituire «una giuria popolare che determini la veridicità delle notizie pubblicate dai media. Cittadini scelti a sorte a cui vengono sottoposti gli articoli dei giornali e i servizi dei telegiornali. Se una notizia viene dichiarata falsa il direttore della testata, a capo chino, deve fare pubbliche scuse e riportare la versione corretta dandole la massima evidenza in apertura del telegiornale o in prima pagina se cartaceo». L’idea fa spavento ed è fatta per far parlare e rafforzare le convinzioni degli elettori dei 5 Stelle che i media siano intrinsecamente al soldo di qualcuno. Come dicono anche Trump e Nigel Farage. Il Minculpop ma popolare non è la soluzione, così come non lo è il controllo pubblico. E nemmeno il ritorno ai bei tempi in cui i giornali e i Tg mediavano tra le cose che accadevano e la cose che tutti dovevamo sapere. Ma il problema delle bufale online esiste. È un grande tema dei nostri tempi e qualche idea bisognerà trovarla. Aprire una grande e seria discussione sarebbe utile. Come spesso accade, invece, oggi e domani faremo il tifo per le giurie popolari o per la querela di Mentana e contro il Grillo-Robespierre (come lo definisce un tweet del Pd). Peccato.
È tornato nelle librerie l’anno scorso il Mein Kampf di Adolf Hitler e non senza suscitare polemiche. Duemila pagine, 5mila note a margine, un prezzo di copertina di 59 euro, a pubblicare l’edizione “critica” del manifesto dell’ideologia nazista era stato l’Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera (IfZ), sfruttando il fatto che, essendo passati 70 anni dalla morte dell’autore (Hitler si suicidò a Berlino il 30 aprile 1945 per evitare la cattura). L’obiettivo secondo l’istituto era fare i conti con il passato del popolo tedesco e decostruire la propaganda del dittatore in maniera duratura. La notizia un anno dopo è che le copie vendute sono state 85mila, facendo del libro, a quanto sostiene l’editore in Germania, un vero e proprio bestseller. Le ristampe della prima riedizione dal dopo guerra sono andate esaurite in pochissimo tanto che, dopo una prima tiratura di 4mila copie l’IfZ ha provveduto a produrre altre ristampe, ad un anno esatto siamo giunti addirittura alla sesta.
Mala riedizione del Mein Kampf ha contribuito a fare tornare in voga l’ideologia nazista?
A quanto pare no, anzi. L’Istituto, ben lontano dal desiderio di promuovere l’estremismo politico di destra, ha anche organizzato nel corso dell’anno una serie di presentazioni, in Germania e in Europa, per spiegare il senso dell’operazione e un’analisi critica del testo di Hitler. «L’idea che ripubblicare il libro avrebbe promosso l’ideologia del dittatore o reso anche solo più socialmente accettabili le sue sue tesi dando ai neo-nazisti nuovo spazio di propaganda si è dimostrata del tutto infondata» ha spiegato Andreas Wirsching, direttore dell’istituto di Storia Contemporanea di Monaco, al The Guardian. «Al contrario – ha continuato Wirsching – il dibattito che si è sviluppato attorno alla visione del mondo promossa da Hitler nel Mein Kampf e il suo approccio alla propaganda offrono l’opportunità di riflettere sulle cause e sulle conseguenze delle ideologie totalitarie in un periodo storico in cui visioni politiche autoritarie e slogan estremisti di destra sembrano prendere di nuovo piede».
«Si tratta di un’occasione per riflettere sulle cause e sulle conseguenze delle ideologie totalitarie in un periodo storico in cui visioni politiche autoritarie e slogan estremisti di destra sembrano prendere di nuovo piede»
Anche i dati di vendita forniti dai librai sembrano confermare la tesi del direttore dell’IfZ. Chi compra il Mein Kampf infatti è generalmente un cliente interessato a temi storici e politici e ben istruito, non un un reazionario, radicale di destra. Può sembrare banale, ma in tempi in cui il fascismo più o meno camuffato sembra fare di nuovo la sua comparsa nel mondo, avere una chiara conoscenza del “nemico” (quello vero antidemocratico e antiliberale, non quello su cui i populisti puntano il dito per far piacere alla pancia del Paese) e di quello che hanno significato e innescato storicamente determinate affermazioni e visioni del mondo, può essere una via efficace per non ricadere negli errori del passato.
Un momento della protesta nel centro di prima accoglienza di Cona (Venezia), 3 Gennaio 2016. Dopo la manifestazione della notte scorsa, la situazione appare sotto controllo ma continua la protesta dei pasti, a causa del blocco operato da una cinquantina di migranti ivoriani che ha impedito la consegna del pranzo agli ospiti della struttura. ANSA/ MICHELE GALVAN
È probabile che, se avete fatto click su questo articolo, nel corso della giornata ne abbiate fatto uno o più d’uno su quanto accaduto a Cona. L’hashtag #Cona in queste ore è diventato virale al punto da raggiungere la vetta dei trending topic su twitter. Avrete letto dell’assurda morte di Sandrine, e della protesta dei suoi compagni del centro di accoglienza che hanno trattenuto gli operatori fino a notte fonda. Questa mattina, il commissariato e il comando di Chioggia hanno reso noto che, nella notte, carabinieri e polizia sono intervenuti al centro di prima accoglienza di Cona, in provincia di Venezia. Perché i migranti in rivolta hanno bloccato 25 operatori all’interno della struttura fino alle 2 della notte. Le immagini della protesta fanno il giro della rete, tra insulti e sgomento. Ma perché questa rivolta?
In quel centro di accoglienza è morta Sandrine Bakayoko. Aveva 25 anni, era arrivata in Italia il 30 agosto dalla Costa d’Avorio insieme al fidanzato, dopo aver affrontato il Mediterraneo su un barcone partito dalla Libia. Era nell’hub in attesa di ricevere una risposta alla sua richiesta d’asilo. L’hanno trovata priva di conoscenza in uno dei bagni del centro, un’ex base missilistica che ospita oggi quasi 1.500 migranti. Sandrine è morta di trombosi polmonare, molte ore dopo i primi malesseri. E lo dice l’autopsia. Ha avuto un malore mentre si faceva la doccia, e l’ambulanza è arrivata dopo 8 ore, perché Sandrine si era sentita male intorno alle 7.00 ma la richiesta di intervento dal centro è arrivata solo alle 12,48, è a quell’ora che il 118 di Padova afferma di aver ricevuto la chiamata. Così Sandrine non ce l’ha fatta. Per questo nel centro è scoppiata una rivolta. Per questo quei migranti hanno deciso di scioperare e impedire agli operatori di uscire dalla base. Fino alle 2 di notte, fin all’intervento delle forze dell’ordine.
«Una tendopoli nel nulla. Alle tende si alternano casolari con letti a castello in stanze stracolme. Il centro – che neanche la prefettura sa come inquadrare dato che i Comuni non accettano migranti – ospita attualmente 620 persone, 80 in più del numero massimo di quante previste, appartenenti ad oltre 25 diverse nazionalità. Molti gli eritrei che non hanno neanche un mediatore nella loro lingua. La visita è durata un ora, serrata e blindatissima, non è stato permesso di avere contatti con gli ospiti se non sotto la stretta osservazione del responsabile della prefettura e di alcuni operatori e responsabili dell’ente gestore. I mediatori presenti, in varie occasioni, hanno fatto intendere ai migranti che gli attivisti della delegazione erano “carabinieri”. Alla richiesta di ricevere dati certi sui tempi di permanenza nel centro e sui passaggi alla seconda accoglienza, il responsabile si è impegnato a fornirci quanto prima i dati richiesti».
Non c’è protesta che si infiammi senza che qualcuno dia fuoco alla miccia. In queste ore gli ospiti del centro continuano a denunciare il ritardo nei soccorsi: «È stata anche colpa della negligenza della cooperativa, l’ambulanza è arrivata solo 8 ore dopo», riporta il Corriere del Veneto. E non c’è “rumore” o viralità che possa silenziare queste voci. Dovere del giornalista è evitare il sensazionalismo e non stravolgere la realtà.
Ci mancherà il suo sguardo di fuoco, appassionato e lucido. Ci mancherà il suo slancio idealista, il suo talento di outsider nel leggere le opere d’arte in modo profondo, mettendo a valore una competenza eclettica e multidisciplinare. L’ anno nuovo è cominciato con una grande perdita, se ne è andato John Berger, critico, poeta, giornalista, sceneggiatore, disegnatore, storyteller (di sé diceva: «sono un narratore perché so ascoltare»). Non amava le interviste, ma parlare sì. E fino a quando la malattia non glielo ha impedito, anche alla soglia dei novant’anni, generosamente ha partecipato a incontri e festival ( indimenticabili i suoi interventi al Festivaletteratura di Mantova e a quello di Internazionale), complice Maria Nadotti che ha avuto il merito di farlo conoscere al pubblico italiano.
E soprattutto ha scritto moltissimo, non solo su arte e fotografia (Capire una fotografia), di politica, contro le dittature, compresa quella del capitalismo (Contro i nuovi tiranni). E poi inaspettati e potenti romanzi come quello uscito in Italia per i tipi di Neri Pozza, dal laconico titoloG(con gli valse il Man Booker Prize nel 1972) e poi scritti su temi quotidiani, apparentemente banali, come il fumo, che nella sua visione diventa una metafora della solitudine. Proprio a questo tema è dedicato il suo ultimo libro, pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri. Mentre il Saggiatore ha da poco ripubblicato Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia e quotidianaità che ripropone i testi della serie televisiva realizzata con la BBC. Al centro di tutta l’opera di Berger c’è la riflessione sul guardare, sullo statuto dell’immagine, sulla percezione visiva – attività che il critico e scrittore londinese non considerava solo dal punto di vista fisico e intellettuale, ma anche dal punto di vista emotivo -, sullo statuto dell’immagine, per il rapporto che si crea tra chi narra attraverso le immagini, ciò che da esse è narrato e chi ne fruisce. È questo uno dei campi tematici a lui più cari che ha a lungo indagato; molti dei testi raccolti in Del guardare risalgono agli anni Sessanta e Settanta, eppure sono oggi attualissimi. Accanto alla sua attività saggistica, narrativa, poetica, giornalistica, di autore teatrale e sceneggiatore cinematografico (collaborò anche con il regista Alain Tanner), da non dimenticare, è anche la sua opera grafica, da abile disegnatore. Il disegno è era per lui una forma di attenzione ulteriore alla realtà, un’altra ricognizione del mondo. Quasi sempre in Berger la meditazione sull’arte si fa critica del presente e della politica e il suo Taccuino di Bento è anche una requisitoria, violentissima, contro l’omologazione che è arrivata insieme alla globalizzazione. Da attento lettore di Marx, John Berger ha scritto pagine corrosive sul potere informe, senza volto, del capitalismo, al quale contrappone la rivolta della scrittura, un linguaggio ribelle alle compartimentazioni, agli steccati, che limitano lo sguardo. I suoi libri nascono da un profondo «rifiuto di lasciarsi azzerare e ridurre a un silenzio forzato». La sua opposizione all’ideologia iper capitalista in cui l’Occidente è immerso si tradusse nella scelta di andare a vivere in paesaggi intonsi e lontani. Da più di trent’anni Berger aveva lasciato l’Inghilterra e viveva in un villaggio sulle montagne del Giura francese. Una scelta di vita e filosofica. Per potersi dedicare al disegno e della scrittura come pratica sovversiva, cercando un rapporto diverso con il tempo e con lo spazio diverso da quello imposto dal produrre e consumare.
Bruce Springsteen riceve la Medal of Honor da Obama
Mancano poco più di quindici giorni all’inaugurazione di Donald Trump e ieri il futuro presidente degli Stati Uniti ha spiegato, come al solito con un tweet, che la Corea del Nord non concluderà il suo progetto per la costruzione di un missile nucleare. «Semplicemente, non succederà!» recita il tweet che risponde all’annuncio di inzio anno di Kim Jong Il che spiegava a sua volta che Pyongyang è a un passo dal raggiungere questo risultato.
Cosa questo voglia dire non è chiaro: bombardare la Corea a tappeto? Infettarne i computer e far saltare il progetto? Aspettare che il regime collassi? Oppure niente di tutto questo e solo un annuncio come un altro. Uno dei tanti fatti in queste settimane, in maniera più o meno avventata o improbabile.
I lavoratori bianchi che hanno fatto in modo di eleggere Trump, scrive il premio Nobel per l’economia, vogliono tariffe commerciali per far tornare le fabbriche nei confini. Improbabile e complicato, l’economia mondiale funziona per filiere produttive internazionalizzate e il rischio è quello che alzando le tariffe altre fabbriche chiudano.
Chi di lavoratori bianchi e delle loro sofferenze se ne intende è Bruce Springsteen. Ha cantato le loro storie, il declino della Rust Belt, la sofferenza della mancanza di lavoro. E conta milioni di fan tra quei lavoratori che hanno votato Trump. Fu lui a cantare per Obama nel 2012 in Ohio, accanto a Bill Clinton (che all’epoca era ancora amato tra i blue collars) per convincerne qualcuno a schierarsi con il presidente nero. A garantire per lui, in qualche modo. E a novembre, assieme a Jon Bob Jovi, ha cantato per Hillary a Philadelphia. Due cantanti bianchi che raccontano storie che la gente conosce. Stavolta non ha funzionato.
Proprio Bruce Springsteen in un’intervista radiofonica con Marc Maron, ha parlato dei suoi timori sulla presidenza Trump. Alla domanda, hai paura? «Ho provato disgusto prima per la politica, ma mai il tipo di paura che provo ora», ha detto Springsteen parlando dell’amministrazione entrante. «Non è una questione ideologica, non è solo che non sono d’accordo, la domanda è queste persone sono abbastanza competenti, sono in grado di fare questo lavoro?».
«Capisco come sia successo che sia stato eletto, conosco gente che lo ha votato: la deindustrializzazione, le tecnologie, la globalizzazione e qualcuno ti promette “Ehi, non vi preoccupate, faccio tornare tutti i posti di lavoro, siete preoccupati dell’America meno bianca? Faccio un muro”...sono risposte che semplificano, sono bugie, non succederanno, ma se hai fatto fatica per gli ultimi 30 anni…un po’ il centro, il tema della mia produzione artistica, e ti senti tradito….quel discorso parla ai tuoi demoni peggiori…a te che dici, io mi spezzo ancora la schiena…e se qualcuno ti offre qualcosa di diverso, è una scelta che può convincere» conclude Springsteen. La promessa del ritorno delle ciminiere, delle fornaci e delle miniere di carbone ha funzionato. In molti sono preoccupati, ma in Ohio, Michigan, Pennsylvania, hanno comprato le promesse. Sono una minoranza degli americani, ma tra quindici giorni cominceremo a vedere gli effetti del loro voto.
Bruce Springsteen canta Youngstown a Youngstown, Ohio
Intanto Rebecca Ferguson, che è diventata famosa con X Factor nel 2010 e che ha inciso un album di cover di Billie Holiday, è stata invitata a cantare all’inaugurazione. La risposta della cantante è: «Si può fare, ma voglio cantare Strange Fruit», la canzone incisa dalla cantante afroamericana e che mette in musica i versi del professore di scuola e poeta Abel Meeropol, e che parla degli afroamericani linciati e impiccati agli alberi. Il brano venne rifiutato dalla Columbia per paura della reazione al Sud e, inciso per la Commodore, fu il disco di Billie Holiday che vendette più copie. Vedremo se Trump accetterà l’idea, che sarebbe un calcio sui denti a una parte dei suoi elettori del Sud – o al suo prossimo Segretario alla Giustizia, Jeff Sessions, che ha fatto diverse gaffe razziste e condotto azioni discutibili in materia di discriminazione razziale. Ad oggi, lo spettacolo inaugurale sarà piuttosto moscio: Justin Timberlake, Elton John, Celine Dion, Andrea Boccelli e diversi altri si sono rifiutati di cantare. Confermate le Rockettes, corpo di ballo un po’ Sixties, la piccola celebrità, seconda ad America’s got talent, la sedicenne Jackie Evancko e il Mormon Tabernacle Choir, che diversi membri hanno lasciato dopo aver saputo di essere stati arruolati con Trump. Per uno a cui piace dare spettacolo, un pessimo risultato. Il clima sarà quello da gara di ballo anni ’50, come l’America che qualcuno sogna possa tornare.
Più nel dettaglio, l’agenzia governativa responsabile per i servizi sociali ha selezionato un campione di 2mila disoccupati assegnando ad ognuno un reddito pari a 560 euro, invariante rispetto ad eventuali futuri percorsi lavorativi. Detto altrimenti: anche se i cittadini disoccupati del campione dovessero trovare un lavoro, riceverebbero comunque il reddito governativo.
Certo, si tratta soltanto di un esperimento – il reddito universale di cittadinanza dovrebbe in teoria essere erogato a chiunque, indipendentemente dallo status occupazionale -, ma il governo di centro destra del Primo ministro Juha Sipila, avrebbe già annunciato di voler allargare la base dei potenziali beneficiari ad altre categorie: autonomi e part-time in primo luogo.
Il partito di governo nazionale, lo Scottish National Party (Snp) di Nicola Sturgeon, aveva già dato il suo beneplacito riguardo le nuove politiche sociali l’anno scorso. In ultimo, anche il Labour inglese di Jeremy Corbyn starebbe considerando se inserire il reddito universale di cittadinanza tra i punti programmatici del nuovo manifesto del partito.
Icarda è una sigla che sta per International Center for Agricultural Research in the Dry Areas (Centro per la ricerca agricola nelle zone secche) ed è uno dei principali centri di ricerca agricola del mondo, dotato di una banca dei semi che conta circa 150mila campioni. Un vero patrimonio. Ma c’è di più, per oltre 4 anni infatti il quartiere generale dell’Icarda aveva sede a Tal Hadya, città siriana occupata dai gruppi di ribelli anti-Assad di al-Nusra e Ahrar al-Sham, a circa 19 chilometri a sud di Aleppo. Con l’arrivo della guerra civile la situazione si è fatta ovviamente complessa così come preservare i semi custoditi dall’istituto di ricerca. Ciò nonostante, mentre assistevamo alla distruzione di città, alla morte di migliaia di persone, alla fuga di milioni, la banca che custodiva i semi in qualche modo ha continuato ad operare.
Gli stessi ribelli che occupavano Tal Hadya avevano dato il permesso a uno staff di ricercatori siriani di mantenere attiva e funzionale la struttura. Da un lato la questione era meramente pratica, in guerra, soprattutto in questi tempi, l’energia elettrica è fondamentale, la banca che raccoglie i semi dell’ Icarda è sostanzialmente costutuita da una serie di cellette refrigerate che devono mantenere una temperatura costante di -20 gradi celsius, soprattutto per mantenere i semi al sicuro non può permettersi cali energetici (molto diffusi in tutta la regione anche prima della guerra) questo ha fatto sì che l’istituto diventasse un punto sicuro di approvvigionamento energetico per i ribelli convincendoli a mantenere in vita e funzionale la struttura nonostante la guerra.
Ma non è solo per questo che la struttura è rimasta attiva. Dopo che i vertici dell’Icarda hanno ordinato il trasferimento di tutto lo staff fuori dalla Siria a causa della guerra, molti ricercatori, manager e tecnici siriani sono comunque rimasti in patria continuando a lavorare negoziando giorno per giorno l’accesso alla struttura per mantenere attive le attività di raccolta dati e di controllo della banca dei semi. Nel frattempo l’erbario, una collezione di circa 16mila piante, cereali selvatici e legumi provenienti dalla regione fertile della Siria, del Libano, della Giordania, della Turchia e dell’Iran che erano custoditi a Tal Hadya erano stati impacchettati in una casa sicura nel centro di Aleppo (attualmente non si sa se effettivamente si sia riuscito a salvare qualcosa di questo patrimonio).
L’Icarda ha dunque continuato a funzionare grazie all’impegno al rischio della vita di chi lavorava nell’istituto. La storia di questo centro è in realtà una storia di resistenza umana e biologica alla guerra. Nell’Icarda infatti erano già confluiti i semi superstiti alla guerra in Afghanistan del 2002 durante la quale era stata distrutta la banca nazionale dei semi di Kabul e quelli tratti in salvo dalla banca nazionale irachena di Abu Ghraib. Certo, le banche dei semi non sono delle istituzioni magiche che potranno a fine guerra riportare alla prosperità un paese, ma costituiscono comunque una ricchezza e una speranza per lo sviluppo alla fine del conflitto. In un’area sempre più minacciata dal cambiamento climatico come quella mediorientale preservare la biodiversità diventa un atto eroico che ha la possibilità di garantire un futuro alle economie rurali locali soprattutto perché Icarda si è occupata in questi anni di duplicare i materiali biologici in suo possesso e spedirli in centri sicuri in Turchia, in Libano e in Norvegia per preservarli dalla scomparsa. Sarebbe difficile per i contadini vessati dalla guerra pensare di ricostruire un paese e garantirsi una sussistenza senza la possibilità di coltivare la terra con dei semi adatti al territorio. Per quanto possa sembrare paradossale in un panorama in cui ad andare perdute sono migliaia di vite umane, anche riuscire a preservare un seme può in futuro garantire la sopravvivenza.
Federico Pizzarotti durante la conferenza stampa nella sede del municipio di Parma, 3 ottobe 2016.
ANSA/ SANDRO CAPATTI
Mi succede di tanto in tanto e ieri sera mi è capitato ancora: a sera tarda dopo avere finito di scrivere e di leggere mi viene da pensare a Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, uno dei primi sindaci del Movimento 5 Stelle quando la compagine grillina era ancora una gioiosa macchina da guerra che poteva permettersi di promettere di non avere i problemi degli altri.
Mi sforzo (socchiudo anche gli occhi quando mi sforzo, come i non più giovani quando giocano a flipper) di ricordarmi perché Pizzarotti sia stato espulso dal M5S. Ricordo quel suo stare nel limbo tra i sospesi come quei compagni di classe al liceo che non sospendevano per non dargli il piacere di poter rimanere a casa e che rimanevano tra la classe, il corridoio e il cesso a vagare senza un posto in cui stare. Me lo ricordo Pizzarotti, la faccia buona e preparata del M5S mentre rilasciava interviste in cui chiedeva di poter parlare con Grillo, Di Maio, Di Battista, con qualcuno. Un politico che si fa intervistare dalla stampa per parlare ai suoi compagni di partito mi è sempre sembrata una cosa così vecchia e già vista. Ma si sa, la politica qui da noi si fa anche così.
Poi l’hanno espulso, Pizzarotti. Finalmente, verrebbe da dire: almeno è successo qualcosa. E quando l’hanno espulso si sono rifatti a un regolamento interno che diceva che gli indagati andavano espulsi (anche se qualcuno s’era già salvato, tipo a Livorno). E vabbè. Se c’è scritto nel regolamento non si può mica fare niente, no? E me lo ricordo Pizzarotti che rispondeva ai suoi detrattori dicendo che un avviso di garanzia non poteva essere un giudizio politico. È ingiusto, diceva Pizzarotti. E quegli altri: “indagato!”. E via.
Ecco ieri sera, prima di addormentarmi, ho pensato a cosa avrà pensato Pizzarotti ora che nel Movimento 5 Stelle qualcuno ha deciso (perché, mi si perdoni, non è politica decidere cosa mettere in votazione sulla piattaforma del movimento? E chi lo decide?) che forse l’avviso di garanzia in effetti non può essere da solo discriminatorio per l’appartenenza al Movimento. E quindi? E tutti i Pizzarotti d’Italia (del M5S o “nemici” del M5S) che si sono presi dei ladri o dei delinquenti per un avviso di garanzia? Che gli si dice? Che si fa? Dico: tutta quella bile versata, a che pro?