#InstaLeft fra cinema e reportage. I paesaggi e i ritratti di Andrea Pirrello
A curare il profilo Instagram di Left questa settimana è Andrea Pirrello. Nato a Caltanissetta, Andrea presto si trasferisce a Roma dove inizia a studiare cinema al Dams di Roma 3, si dedica al reportage e lavora sui set di produzioni indipendenti nel reparto fotografia. Dopo la laurea si trasferisce a Barcellona. Qui lavora e frequenta un master in direzione della fotografia all’ESCAC, per due anni, dedicandosi ulteriormente al reportage fotografico e alla direzione della fotografia di corti, documentari, e spot. Attualmente alterna l’attività di fotografo a quella di operatore/dop, lavorando principalmente come fotografo di scena, in diversi set italiano. Tra i film ai quali ha partecipato Smetto quando voglio, Veloce come il vento e Era d’estate.

Questi i suoi scatti per Left
Progetto a cura di Francesca Fago
«Fermiamo Le Pen, salviamo la Repubblica». Un appello alla maggioranza silenziosa

La crescita dei populismi, culminata con la vittoria di Donald Trump, ha trovato l’Europa – e non solo – impreparata. Lasciandola stordita. Certi che una volta passato, il peggio, non possa tornare. Che l’uomo, dalla storia, impari. Ma proprio la Storia insegna che purtroppo, così non è. I populismi imperversano, e con loro, la componente razzista condita di nazionalismo gretto e violento.
Tuttavia, esiste ancora una fascia della popolazione pronta a opporvisi. Con un nazionalismo più pulito, senza frontiere discriminatorie ma a favore di una Repubblica di cui essere orgogliosi e degna di tale etimo.
È il caso della Francia, che in vista delle prossime presidenziali, primavera 2017, si trova ad affrontare la concreta possibilità di una vittoria di Marine Le Pen. Oltre al lei, il panorama francese, con una candidatura sempre più compromessa del presidente Hollande (il Partito socialista terrà le sue primarie a gennaio), si divide fra Francois Fillon, probabile candidato dei repubblicains neogollisti (al 44% dei consensi al primo turno delle primarie di centro destra, il secondo è previsto per il 27 novembre fra lui e Alain Juppé), e il 38enne ex ministro dell’Economia Emmanuel Macron per la sinistra moderata, dato al 38% dai sondaggi. E per l’appunto, lei, la presidente del Front national. Partito che grazie ai successi conseguiti alle europee, al Senato e alle elezioni regionali nel 2015 (dove il Fn ha moltiplicato i suoi eletti) ha la quasi certezza di andare al secondo turno.
E così, in vista di questo “appuntamento con la storia”, la Licra, (Ligue internationale contre le racisme et l’antisémitisme, Lega internazionale contro il razzismo e l’antisemitismo), chiama a raccolta i cittadini con un «appello in difesa della Repubblica e della Francia». Un appello da firmare, condividere, e distribuire, rivolto a tutti quelli che hanno a cuore le sorti del Paese. L’obiettivo, è quello di «risvegliare una maggioranza ampiamente silenziosa, che si oppone e rifiuta il fatalismo e la proliferazione degli estremismi politici e religiosi», e che giace «in uno stato di smarrimento dal quale c’è urgente bisogno che escano».
Partendo dal presupposto che «chi non combatte, ha già perso», l’appello è un invito alla resistenza e, soprattutto, alla mobilitazione.
«Ho meno timore degli estremisti che si esprimono, che non dei repubblicani che tacciono», ha spiegato Alain Jakubowicz, presidente della Licra. «Il montare dei populismi non è una fatalità, e c’è ancora tempo per gli uomini e le donne legati ai valori della Repubblica, di uscire dal loro silenzio». «Per permettere loro di esprimersi, superare la paure e avere la meglio sulla proliferazione dell’odio, io li invito a firmare l’appello», ha esortato. Il claim dell’appello, non poteva che essere Legalitè, Egalitè, Fraternitè – storico motto della Rivoluzione francese (al quale per altro si rifà l’acronimo della nostra testata).
«Mai, dall’inizio della Quinta Repubblica, l’esito di uno scrutinio potrà essere così gravido di conseguenze come in questo caso; così come i valori democratici minacciati dalla convergenza di tre estremismi che si nutrono e rafforzano a vicenda: il razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo». Sembra, a leggere l’appello, di essere tornati sui libri universitari: sui testi di Rosa Luxemburg o degli appelli antifascisti degli anni ’30. E questo la dice lunga sulla lontananza delle persone da ciò che realmente si sta muovendo sotto i nostri occhi, da un passato che non ha evidentemente nulla di prescritto. E infatti, scrivono, «sono fenomeni che abbiamo conosciuto e che sappiamo essere storicamente esplosivi e contagiosi».
In effetti, in Francia, è dal 1940 che la destra non è così vicina a prendere il potere: il padre di Marine arrivò a sorpresa al ballottaggio contro Chirac nel 2002, ottenendo il 17% delle preferenze al primo turno. Con Marine alla guida, due anni fa, il Front National arriva al 24%. E benché tutti abbiano comprensibilmente gli occhi puntati sull’Eliseo, «l’entrata di rappresentanti dell’estrema destra nell’Assemblea nazionale non comporta un rischio meno rilevante». Perché, a prescindere da quale sarà l’esito delle urne, la destra ha già ottenuto la sua vittoria: che la paura dell’altro sia al centro di ogni discussione e dibattito politico, diventando ago della bilancia di chi aspira a governare il Paese.
Certo non aiutano l’ala terrorista dell’islam, che con i suoi attentati incoraggia il Paese alla difensiva e, naturalmente, scatena l’odio; né quella sinistra estrema e complottista, che appoggia l’islam radicale e soprattutto vede nello Stato un nemico razzista e oppressore. Insomma, «la pace civile è minacciata e restare in silenzio significa essere complici».
Che la gente si mobiliti dunque: nelle università, a lavoro, in caffetteria o in fabbrica, dalla stampa, passando per i social network fino alle urne. Che vada a votare, e che si metta in moto con tutti gli strumenti che la democrazia possiede, per difendere i valori della Repubblica.
Da rottami a pezzi di design. I robot creativi di Massimo Sirelli
I robot e la quarta rivoluzione industriale sono un po’ l’ossessione di quest’anno. Negli ultimi mesi giornali e tv ci hanno raccontato di come intelligenze artificiali e automi cambieranno il nostro modo di vivere da qui ai prossimi anni. Lontano dal rigore di ingegneri e programmatori informatici impegnati a plasmare il futuro tecnologico, c’è però anche chi trasforma l’ ossessione per il mondo dei robot in opera d’arte e oggetto di design. È il caso di Massimo Sirelli, poliedrico art e creative director che assemblando materiali di scarto, orfani del progresso industriale, raccolti in giro per il mondo, dà vita a “robot da compagnia” che sembrano usciti dalle pagine di Isaac Asimov.

Quella di Sirelli non è solo un’escursione nel mondo dell’upcycling ma un vero e proprio progetto che sviluppa un dialogo con il pubblico. Ogni robot infatti è caratterizzato da un nome proprio e da una forte identità estetica e può essere adottato sul sito adottaunrobot.com che lo stesso artista definisce “la prima casa adozioni di robot da compagnia del mondo”.

È così che un barattolo di caffè, ingranaggi vecchi, pezzi di radio o lattine di pomodoro riacquistano un nuovo spazio e un nuovo valore. Lo scopo di tutto questo, oltre che estetico, è anche sociale e punta a diffondere quanto più possibile la cultura del riuso (anche con workshop per bambini) e l’idea che il bello possa nascere anche da qualcosa che era stato considerato uno scarto o un rottame. Al processo produttivo tradizionale Massimo Sirelli oppone un processo creativo che ridà vita e anima a oggetti e pezzi dismessi.

Chi è. Le creazioni di Massimo Sirelli sono state in mostra presso Museo L. Castel di Pont St.Martin, Temporary Museum di Torino, Triennale di Milano, Villa Reale di Monza, e in moltissime esposizioni e mostre in tutta Italia. I suoi lavori sono stati pubblicati su alcuni dei più importanti libri di grafica e web design al mondo (Taschen, Gestalten, PepinPress). Sirelli è anche docente di Tecniche di presentazione e Portfolio presso lo IED di Torino e di Como.

Dalla Norvegia ad Atene passando per l’Ungheria, continuano le strette sui migranti
Viktor Orban continua a fare la voce grossa con Bruxelles sulla questione migratoria: «Non accettiamo diktat da Bruxelles», ha detto il Primo ministro ungherese in occasione di una sua visita in Serbia. Proprio lungo il confine con questo Paese, il governo ungherese ha appena finito di costruire una seconda barriera anti-migranti, impiegando forza lavoro proveniente dalle prigioni dello Stato.
Come ha riportato Euronews, il Primo ministro avrebbe anche affermato che «l’arrivo in massa di migranti cambia lo stile di vita che le persone conducono nel proprio Paese. Un giorno, i nostri figli e nipoti ci chiederanno: perché avete permesso questi cambiamenti? Perché avete permesso che l’Europa cambiasse?».
Al di là delle parole, Orban sta in realtà incassando una serie di sconfitte importanti sulla questione: a inizio ottobre ha perso la scommessa del referendum mentre qualche settimana fa è addirittura uscito sconfitto dal Parlamento: il partito neo-nazista, Jobbik, si è opposto al tentativo del Primo ministro di modificare la Costituzioni per evitare il trasferimento di rifugiati sul territorio ungherese. Ben inteso, Jobbik ha bocciato la proposta perché troppo solidale con i rifugiati, non certo per uno slancio di affetto verso i migranti.
Intanto, anche il Primo ministro norvegese, Erna Solberg – la quale agli inizi degli anni 2000 si era meritata l’appellativo di “Erna di ferro” per le sue posizioni conservatrici sull’immigrazione – ha parlato ai microfoni di Euronews. Soberg ha sottolineato che è estremamente importante implementare «politiche educative che spieghino ai cittadini dei Paesi di accoglienza il motivo delle migrazioni». Allo stesso tempo, il Primo ministro norvegese ha ribadito che ci sono doveri anche per i rifugiati che raggiungo l’Europa, soprattutto sul fronte del rispetto dei diritti civili e politici di donne e uomini.
Nel frattempo, continua a fare notizia la gestione dei migranti sulle isole greche nell’Egeo. Il Ministro per le migrazioni, Yiannis Mouzalas, ha accusato le autorità locali di non seguire le direttive del governo. Atene aveva ordinato la costruzione di nuovi centri di detenzione per isolare i migranti che non rispettano la legge.
Leggi anche:
Spagna – Euronews – La crescita dell’export permette al Paese iberico di diminuire il proprio deficit di bilancio
Regno Unito – Politico – 90 deputati del Labour avvertono Theresa May: l’uscita dal Mercato unico europeo avrebbe conseguenze devastanti per la classe media
Germania – Handelsblatt – Il Segretario generale della Spd, Sigmar Gabriel, chiede al suo partito di mantenere il sangue freddo dopo la candidatura di Angela Merkel per le elezioni del 2017
Alt-right: al grido di “Heil Trump” i neonazisti sbarcano a Washington
Erano poche centinaia, ma sono una specie di avanguardia della cosa peggiore che si sia vista a Washington da molto tempo. I suprematisiti bianchi con simpatie naziste di alt-right (alternative right) hanno celebrato la vittoria di Donald Trump nella capitale federale, con slogan e idee che fano venire i brividi.
Il movimento di estrema destra molto attivo in rete e sui social network, sdoganato dal nuovo stratega della Casa Bianca Steve Bannon, ha tenuto una specie di convegno durante il quale hanno parlato una serie di figure prominenti e concluso dal suo leader Richard Spencer. Nel suo discorso il 38enne direttore del National Policy Institute (il think tank che produce idee per il gruppo), ha parlato dei “figli del sole” il cui destino è riprendersi l’America da quella gente «di cui non abbiamo bisogno».

Spencer, che per fortuna non ha affatto la capacità retorica o la statura del leader (lo vedete nel suo discorso qui sotto, ripreso da The Atlantic, che sta preparando un documentario sul movimento), si è anche chiesto se gli ebrei siano “un popolo o dei golem senz’anima”. Al termine del discorso i giovani che affollavano la sala salutavano a braccio teso gridando «Heil Trump».
Il video di The Atlantic dal raduno neonazista di alt-right
Trump annuncia l’agenda dei 100 giorni. E fa paura

La destra si è impossessata della Casa Bianca e se non ve ne foste accorti, Donald Trump ve lo ha ricordato con il suo primo messaggio alla nazione, via You Tube. Il presidente eletto mette in fila alcune cose su commercio internazionale, immigrazione, ambiente, regole e non si discosta dalle promesse fatte in campagna elettorale. Pessima notizia. Usando lo strumento del dialogo diretto con i cittadini e con il formato di uno spot – il presidente eletto ha incontrato la stampa e attaccato le Tv all news dicendo che lo hanno maltrattato – Trump ha anche fatto capire che come cercano di fare i leader populisti di questi tempi, aggirerà la mediazione dei canali di informazione.
Nel testo di due minuti Trump dice, in sintesi:
«La mia agenda è semplice: prima l’America. Per questo ho chiesto al team che lavora alla transizione di scrivere degli ordini esecutivi che possano essere firmati nel primo giorno di presidenza. Sul commercio: notificherò la nostra volontà di uscire dalla Trans-Pacific Partnership e avvierò negoziati bilaterali con ciascun Paese che ne fa parte, eliminerò le regole ambientali che limitano la produzione di energia in maniera da poter ridare slancio all’estrazione di gas attraverso il fracking e riavviare la produzione di carbone pulito e emanerò un ordine per cui, per ogni nuova regola imposta, se ne debbano abolire due, sull’immigrazione avvieremo una inchiesta sulle infrazioni al sistema di visti che tanto penalizzano i lavoratori americani, in materia di etica, imporremo un bando di 5 anni per i funzionari che lasciano il lavoro e vogliono diventare lobbyisti».
Partiamo dal commercio internazionale e dall’uscita dai trattati. Da un lato questo è la ratifica di una morte annunciata, quella del TTIP tra America ed Europa. Una buona notizia, per le caratteristiche che quel trattato stava prendendo (poche regole, libertà di azione per le multinazionali e loro possibilità di portare in giudizio gli Stati), con un limite. Gli Stati Uniti non avviano una fase negoziale con Paesi asiatici con i quali hanno trattato per anni un accordo che hanno appena firmato. Semplicemente si ritirano. Una scelta che va a enorme potenziale vantaggio della Cina, un comportamento scorretto che li farà apparire ai partner asiatici come poco credibili (un po’ l’accusa fatta da Usa e Europa a Putin sulla Siria) e, infine, una strada verso la protezione delle merci nazionali che fatta in maniera unilaterale rischia di scatenare guerre commerciali pericolose. La globalizzazione andrebbe ridimensionata e regolata includendo clausole ambientali e regole sociali, tornare ai nazionalismi protezionisti non è un bel messaggio.
Sugli immigrati è il messaggio che è spaventoso: mettiamo mano al sistema dei visti per proteggere i lavoratori americani a cui gli stranieri rubano il lavoro. A quando “rubano le nostre donne”? Chi è immigrato, chi è clandestino (11 milioni, spesso in famiglie a metà regolari), vive nel terrore. È un pezzo importante di società americana. Non solo, domenica Trump ha incontrato il procuratore generale del Kansas, Kobach, che potrebbe entrare a far parte della sua squadra. Nella foto che li ritrare assieme, Kobach ha dei fogli in mano, ingrandendoli, si scorgono i dettagli di un piano per istituire il registro dei musulmani – quello degli ebrei lo istituirono i nazisti. Per fortuna ci sono Stati, comuni e dipartimenti di polizia che hanno già detto che si ribelleranno e disobbediranno alle regole imposte da Washington. Per anni lo hanno fatto i governatori repubblicani, ora è la volta dei democratici di fare ostruzionismo. Non è un bel segnale sul funzionamento della democrazia, ma sembra l’unica strada.
Sulle regole ambientali, il segnale è ancora più brutto: significa più o meno che gli Stati Uniti tornano a ignorare il fatto che c’è un problema di riscaldamento globale e che, di nuovo, hanno appena firmato un trattato globale, quello di Parigi, che impone regole per fermare il cambiamento climatico. «Riapriremo le miniere» aveva detto Trump in West Virginia. È improbabile che ciò accada (il carbone cinese costa comunque meno, se se ne vuole usare uno perché non quello?), ma l’effetto propaganda c’è.
L’ordine esecutivo sulle regole è tanto grottesco quanto spaventoso: l’automatismo per cui se si impone un limite occorre cancellarne due è pura demagogia. Ma potrebbe generare una deregolamentazione di un mercato, quello americano, già piuttosto libero, che può far male ad ambiente, diritti delle persone, dei consumatori e dei lavoratori.
Se a questi annunci di programma associamo il fatto che le prima nomine sono pessime e appaiono come colpi all’America dei diritti civili e delle minoranze (razzisti, persone che approvano la tortura, ecc.) il quadro si fa più scuro.
Infine, per rendere allegra la giornata (della festa dell’estrema destra di alt-right parliamo altrove), Trump suggerisce a Theresa May, la premier britannica, di nominare Nigel Farage ambasciatore negli Stati Uniti via twitter. Tre cose: un presidente non suggerisce a un governo straniero quali ambasciatori nominare, se proprio lo fa non lo fa via twitter, l’idea stessa che il leader del nazionalismo populista e anti immigrati britannico sia la prima scelta di Trump, ci racconta qualcosa della sua presidenza. Ma anche del suo carattere: se qualcuno gli sta simpatico o gli è fedele alleato, Trump lo premierà e terrà vicino. Non è la qualità il criterio di scelta della nuova amministrazione, ma piuttosto la volontà di sedersi all’ombra del presidente.
Many people would like to see @Nigel_Farage represent Great Britain as their Ambassador to the United States. He would do a great job!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 22 novembre 2016
Le avventure e le imprese letterarie di Jack London
Jack London resta nella nostra memoria lo scrittore di ardite avventure e imprese nelle regioni artiche, il cantore di un paesaggio avverso e possente, della rivolta individuale, che finisce per diventare fuga nella vita solitaria, che venature conservatrici nel vagheggiare il ritorno alla natura e ai suoi immutabili cicli. Ma lo scrittore americano di cui il 22 novembre ricorre il centenario dalla morte fu simpatizzante socialista e addirittura della prima privoluzione russa del 1905, tifando per i bolscevichi contro retrivi conservatori come gli zar, a differenza della maggior parte degli americani. L’anarchia degli anni giovanili che gli costò anche la prigione per vagabandaggio maturò nella consapevolezza della forza che gli operai sfruttati potevano trovare nel lottare insieme ( nacquero così romanzi come Il tallone di ferro), ma la contraddizione in lui restò sempre aperta, così come la spinta a tentare imprese folli. Come quella intrapresa nel 1907 che lo portò una notte di dicembre a veleggiare in mare aperto, costretto poi a cercare riparo nella laguna di Bora-Bora. Con lui c’era Charmian Kittredge, la donna per la quale aveva lasciato la famiglia, la prima moglie dalle aspirazioni molti borghesi, ma anche le due figlie. Con Charmain intraprese un viaggio di otto mesi sull’Oceano Pacifico pensando di poter raggiungere dalle Hawaii, le isole Marchesi e poi le Fiji, la Nuova Zelanda e oltre.

Mentre i lettori che l’avevano scoperto con romanzi e racconti ambientati nella natura più selvaggia e ostile si aspettavano che scrivesse un grande romanzo americano, lui si mise a costruire una barca a vela per trasformare la propria biografia in letteratura. Marinaio, cacciatore di foche, spalatore di carbone in miniera, scaricatore di porto, cercatore d’oro, prima di diventare famoso con romanzi come Zanna bianca prima, Il richiamo della foresta (best seller nel 1904 in Usa e Canada) e Martin Eden, Jack London, era il figlio infelice di un mago ciarlatano che comunicava coi morti e di una razzista fanatica. Cresciuto dalla figlia del patrigno, nonostante tutto, si mise a studiare da solo, da lettore onnivoro, autodidatta, contraddittorio. Spaziando da Marx a Spencer, passando per Nietzsche. Attraverso i romanzi storici inglesi era stato profondamente colpito dal movimento dei distruttori di macchine, i luddisti.

Aveva letto tutto quello che aveva trovato sulla Comune di Parigi, a cui si sarebbe ispirato per raccontare la sua comune di Chicago. I suoi modelli erano Balzac e Maupassant, non i precedenti scrittori americani. Dopo il carcere aderì al socialismo, denunciando le condizioni disumane in cui vivevano e lavoravano gli operai, condizioni che lui stesso aveva sperimentato sulla propria pelle. L’epoca in cui Jack London scrisse i suoi capolavori era quella dell’ascesa del capitalismo e dell’imperialismo statunitense, che si reggeva sullo sfruttamento della classe lavoratrice, mentre la piccola borghesia serrava i ranghi, cercando di segnare la distanza dai vituperati operai, come gli schiavi, essenziali al funzionamento della “democrazia” americana nonostante la retorica del self made man. Erano gli anni in cui i trust agrari, stroncavano i contadini americani come e più dei vecchi proprietari terrieri. Così London provò a misurarsi con il romanzo sociale, cercando di superare la lacerazione che lo dilaniava. Più i suoi primi romanzi dei cicli dedicati ala natura avevano successo, più lui tendeva ad isolarsi. Più i diritti fruttavano, più lui si sentiva in crisi come scrittore, incapace di rispondere alle pressioni del mercato editoriale e alle richieste del suo editore che lo vedeva come una gallina dalle uova d’oro, da sfruttare. Il risultato fu che la sua carriera si esaurì nell’arco di una decena di anni. Lui stesso aveva fatto il vuoto intorno a sé e quella perdita di contatto con l’umano portò anche anche a perdere la fantasia, come ci dicono i suoi ultimi libri. Intanto era finita l’epoca degli avventurieri e dei cercatori d’oro, di cui London aveva provato ad essere il cantore epico. San Francisco non era più una cittadina di commerci ma era diventata centro industriale e porto militare e l’odio razziale infuocava le coste del Pacifico. «L’immaginazione creativa è più vera della voce stessa della vita». aveva scritto Jack London. Ma prima di arrivare a Tahiti si buttò dall’oblò. Era il 22 novembre 1916. Aveva appena quarant’anni. Il referto medico parlò di una colica renale.
Da ascoltare: per la rassena TuttoEsaurito: dalle parole di Jack London,alle 22,30. un racconto sonoro realizzato dalla compagnia Muta Imago. Qui
Da leggere: Martin Eden e Il vagabondo delle stelle (Adelphi) nella traduzione di un grande anglista e studioso di Shakespeare come Stefano Manferlotti. E poi un romanzo distopico come La peste scarlatta, nell’edizione Adelphi uscita nel 2009, a cura di Ottavio Fatica, in cui London immagina che nel 2013 il mondo fosse dominato dal Consiglio dei magnati dell’industria, quando scoppia un’epidemia che cancella la specie umana, ma una persona anziana sopravvive, non tutto è perduto. E ancora: la biografia di Jack London edita da Castelvecchi firmata da Irving Stone e M. Reggia. E i la bella edizione illustrata de Il richiamo della foresta, appena pubblicata da Orecchio Acerbo con le illustrazioni di M. A.Quarello nella traduzione di Davide Sapienza.
Il festival: Il 22 novembre si alza il sipario sul Jack London tribute, la rassegna che fino al 24 novembre al teatro Miela di Trieste invita a rileggere l’opera dello scrittore americano e i suoi temi, lo sconfinato e selvaggio “grande nord” (Zanna Bianca, Il richiamo della foresta), le conseguenze nefaste del capitalismo (Rivoluzione), le sopraffazioni del Potere (Il Tallone di Ferro), lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (Come sono diventato socialista), le grandi migrazioni nell’evoluzione dell’Umanità (Il Flusso Umano). Nel centenario della morte e a 140 anni dalla nascita, una tre-giorni curata dal regista e autore Massimo Navone ( già direttore per oltre un decennio della Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano) e da Davide Sapienza, scrittore e traduttore di London. con reading, spettacoli, e testimonianze. E all’ora dell’aperitivo il Jack London Drink, reading di brani da John Barleycorn, memorie alcoliche‘ e altri racconti.
Una riforma accozzaglia simile a quella di Berlusconi. Lo dice Napolitano.
Eccolo il Presidente emerito. Il centunesimo senatore del Senato che potrebbe essere (eh già, il Presidente emerito oltre ai cento senatori e quel maledetto “centouno” che ritorna ancora) corre a sedersi sulla poltrona di Bruno Vespa (che appare giovanissimo al di là di ogni annuncio di rottamazione e cambiamento) e si erge in difesa della riforma costituzionale. «Votate sì» dice Napolitano, da sempre allergico a qualsiasi dovere di funzione di garanzia: del resto quale testimone migliore della campagna “anti casta” di Renzi uno che, come lui, ha sulle spalle qualcosa come tredici legislature, in effetti.
Così, tutto preso dalla smania di propagandare, l’ex Presidente della Repubblica ci svela che questa riforma è “simile a quelle precedenti, compresa quella di Berlusconi“ proprio mentre il premier e i suoi uomini di governo spingono l’acceleratore sulla varietà del fronte del No (colpevole di essere unito nell’osteggiare una riforma che invece lui, Renzi, ha copiato dal centrodestra) e in più ci permette di sapere che “la riforma non serve a tagliare le poltrone“ – parola del presidente emerito – nonostante questo sia il punto forte delle gigantesche affissioni pagate dal gruppo parlamentare del PD.
Così senza volerlo l’endorsement di Napolitano svela tutt’a un tratto le incongruenze di chi sventola slogan smontati dai suoi stessi testimonial. Per carità, non c’è nulla di male nel cambiare idea su una riforma costituzionale che, ai tempi di Silvio Berlusconi, venne definita autoritaria, pericolosa e offensiva nei confronti dello spirito dell’assemblea costituente ma almeno che non si millanti come “nuovo” un tentativo di cambiamento che è già stato osteggiato.
Dice Napolitano che in questa riforma è anche “funzionale alla democrazia che i poteri locali possano essere rappresentati ai vertici delle istituzioni. Oggi – aggiunge – non c’è quasi più in Europa un Senato che sia eletto dalla totalità degli aventi diritto al voto” dimenticandosi però che in Europa i “senatori” siano diretta espressione del governo locale (e con vincolo di mandato) e quindi ben diversi per natura e per funzioni da questi ipotizzati nella riforma Boschi-Renzi.
Insomma il solito Napolitano che si sbilancia e in più sbilancia il piatto con il suo solito entusiasmo di chi non riesce a nascondere il disegno generale. Meglio così: in mezzo alla marmaglia spuntano gli elementi perché ognuno possa decidere. Avanti così.
Buon martedì.








