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Perché votare No al referendum costituzionale, spiegato in 10 mosse (più una)

Domenica 4 dicembre si vota per decidere se attuare la revisione costituzionale messa in campo dal governo. Prima di entrare nel dettaglio del perché votare no al referendum costituzionale, due premesse d’obbligo.

1. Il NO non è motivato dall’insofferenza che può suscitare il duo Boschi-Renzi che ha dato il nome alla Grande Revisione costituzionale. Noi preferiamo rimanere nel merito, cioè il contenuto della riforma.

2. Sempre per questo motivo, non teniamo in considerazione gli aggiustamenti e annunci fatti in corso d’opera. Si vota sul testo della revisione punto e basta. Quindi non valgono gli annunci di eventuali cambiamenti della legge elettorale né le ventilate ipotesi di fare in modo che i senatori non siano nominati ma eletti dal popolo. Non c’è nulla di scritto e dunque ci fermiamo al dato che l’Italicum è la legge elettorale in vigore.

 

Veniamo al perché votare NO
Se non lo avete già fatto, vi consigliamo di leggere lo speciale che Left ha predisposto per motivare la scelta di stare dalla parte del NO. Se intanto volete farvi un’idea, ecco “in 10 mosse più una” perché votare NO il 4 dicembre.

NO per il metodo. La Costituzione si cambia insieme alla minoranza. È un testo troppo importante perché sia espressione solo del punto di vista della maggioranza. Almeno questo è stato in passato. E quando non è stato così ne sono uscite modifiche pasticciate (vedi Titolo V). Perfino Massimo D’Alema – lo ha ricordato pochi giorni fa – si è fermato, quando Berlusconi è venuto meno al patto della Bicamerale. Invece in questo caso è successo di tutto: addirittura l’allontanamento dei dissenzienti nelle commissioni parlamentari. Il governo è andato dritto per la sua strada e le uniche modifiche sono state proposte all’interno dello stesso Pd.

NO perché non finisce il bicameralismo paritario. Ma anzi, inizia un bicameralismo pasticciato, ibrido che non significa velocità nel produrre leggi. Sarebbe stato meglio eliminare del tutto il Senato. Come sostenevano del resto personaggi della sinistra come Pietro Ingrao, che voleva mantenere però la centralità del Parlamento.

NO perché rappresenta un “mors tua vita mea”. Cioè il rafforzamento del Governo a scapito dei poteri del Parlamento e degli istituti di controllo e garanzia. La Repubblica si regge sul delicato equilibrio dei poteri. Se ne viene privilegiato uno a danno degli altri, si crea uno scompenso che può indebolire la democrazia. In presenza poi dell’attuale legge elettorale votata con la fiducia (i precedenti sono la legge Acerbo durante il fascismo e la legge truffa degli anni 50), la maggioranza ottiene uno strapotere che si manifesta anche nell’elezione del presidente della Repubblica e dei rappresentanti della Corte Costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura.

NO perché non è una questione di governabilità. Questa dipende dalla capacità e coesione delle forze politiche, non dai regolamenti o dall’iter legislativo. Né tantomeno dalla famigerata quanto ormai rara “navetta”, il “ping pong” tra le due Camere. Il passaggio tra Camera e Senato avviene infatti solo nel 20-25% dei casi. Se mai il problema è che il governo che non riesce ad attuare le leggi che emana (l’80% di quelle votate dalle Camere sono di matrice governativa). Prendiamo la Buona scuola: è stata approvata oltre un anno fa, ma ancora mancano dieci (10) leggi delega affidate per l’appunto al governo!

NO perché il nuovo Senato non rappresenterebbe le autonomie locali. Lo hanno spacciato come il Bundesrat tedesco, ma non è così. Il nuovo Senato sarà davvero un ibrido a cui partecipano senatori (consiglieri regionali e sindaci) eletti in modo diverso e in tempi diversi. Tutti tra l’altro con l’immunità parlamentare. I senatori sarebbero eletti (ancora non si sa come) dai consigli regionali. La frase che il comitato del Sì sbandiera per dire che l’elezione, dopo l’approvazione della riforma, sarà diretta è questa: “in conformità alle scelte espresse dagli elettori”. In realtà è stata aggiunta con un emendamento per tenersi buona la minoranza Dem e presa così, non significa nulla. Se avessero voluto l’elezione diretta avrebbero potuto scrivere a chiare lettere, per esempio: “Durante le elezioni regionali i cittadini hanno anche la possibilità di scegliere i senatori”. Perché non l’hanno fatto e hanno solo inserito questa frase criptica?

NO perché i poteri delle autonomie locali sono ridotti senza risolvere i problemi. Siamo tutti d’accordo che la riforma costituzionale del Titolo V del 2001 ha creato numerosi contenziosi tra Stato e Regioni in materia di legislazione concorrente, oltre che sprechi a non finire e il proliferare della corruzione. Ma non si risolve tutto riportando il potere al centro: gli enti e le comunità locali non avrebbero più voce in capitolo su questioni importanti per il destino delle stesse comunità.

NO perché i contenziosi Stato Regioni continueranno. Seppure le disposizioni generali e comuni in materia di istruzione, salute, beni culturali, turismo ecc. tornerebbero in capo allo Stato, alle Regioni rimarrebbero competenze non indifferenti. Prendiamo la salute. La programmazione e l’organizzazione dei servizi sanitari spetteranno ancora alle Regioni. Oppure prendiamo i beni culturali. La promozione sarà a carico ancora delle Regioni mentre la tutela e la valorizzazione a carico dello Stato. Vi immaginate quanti contrasti sfileranno di nuovo davanti alla Corte Costituzionale?

NO perché non è stato risolto il problema dell’equità sociale. Lo si vede a proposito della sanità. È un punto messo bene in evidenza dall’avvocata Anna Falcone, vicepresidente del Comitato del No. Nella revisione non si tocca mai il tema dell’equità, a proposito di federalismo fiscale per cui le Regioni che si trovano con meno risorse, continueranno ad esserlo anche in futuro. E allora: va bene far pagare la stessa siringa in modo uguale da Milano a Palermo, ma se mi lasci le cose come sono e il cosiddetto fondo perequativo (per aiutare gli enti locali più deboli) non me lo tocchi, allora rimarrà ancora una disuguaglianza in Italia dal punto di vista della salute.

NO perché la riforma è scritta male ed è confusa. E non semplifica. Provate a leggere l’articolo 70, quello dell’iter di formazione delle leggi. Molti attori ci hanno provato con risultati esilaranti (Claudio Santamaria, per esempio). L’articolo è costituito da 432 parole, due pagine, sette commi. Dentro ci sono descritti almeno dieci tipi di procedure legislative. Non è solo un testo oscuro – che per i giuristi costituisce un vulnus perché impedisce l’osservanza della legge – ma è proprio l’opposto della semplificazione, altro concetto sbandierato durate la campagna referendaria.

NO perché non avvicina i cittadini alla partecipazione politica. È vero che il quorum dei referendum si abbassa (sulla base della maggioranza dei votanti alle ultime elezioni) ma si può indire solo se si raccolgono 800mila firme. Quindi solo soggetti forti e strutturati se lo possono permettere, altro che potenziamento della democrazia diretta! Stesso discorso per le leggi di iniziativa popolare: occorrono 150mila firme (invece delle attuali 50mila) anche se si prevede il “contentino” della discussione in aula, resa possibile, però, solo dai regolamenti parlamentari, tutti da fare… Ancora: nel nuovo articolo 71 sono previsti referendum propositivi e di indirizzo, una bella cosa, perché sarebbero davvero un tentativo di democrazia diretta. Peccato che per essere attuati occorre una legge di entrambe le Camere.

Consentiteci infine un’undicesima ragione. NO perché è stata sprecata un’occasione. Perché il cambiamento delle istituzioni è un’esigenza sentita in molte forze politiche che si sono schierate per il No. Anche in questo caso la chiusura e la blindatura da parte del Governo dimostra che manca l’effettiva capacità di vedere e sentire la realtà del Paese. Dove disoccupazione, disuguaglianza, povertà, gridano vendetta. Ma perché il Governo non promuove una campagna a tappeto contro la corruzione o l’evasione fiscale? La credibilità di un politico si vede da quello che fa. E certe “dimenticanze” fanno pensare.

Scarica qui la nostra guida al referendum costituzionale

Straight to help

Karawan Fest. Quando il cinema racconta le donne e i migranti

Lydia, Tina, Hamdiatu ed Esther sono giovani ghanesi destinate al matrimonio come tutte le loro coetanee, ma scelgono di diventare piloti di aereo e frequentano la scuola di aviazione AvTech gestita da un docente inglese. Le giovani, oltre a superare i limiti di una cultura (la propria) che le vorrebbe soltanto mogli e madri, si scontrano con i residui del pensiero coloniale, che tuttora alimenta pregiudizi reciproci tra africani ed europei.

Sonita è una giovane rapper afghana della periferia di Teheran che preferisce il canto al matrimonio, sfidando le leggi di Stato (in Iran cantare da solisti è proibito) e le leggi della famiglia, che la vorrebbe dare in sposa a “quello giusto” per 9000 dollari. Farah, invece, compie diciotto anni alcuni mesi prima della Primavera Araba tunisina e, invece di studiare medicina come vorrebbe la sua famiglia, canta in un gruppo musicale di protesta, mettendo in pericolo la sua vita e quella dei suoi cari.

Hong è una ragazza cinese, figlia del boom economico asiatico, che ama l’arte e vive a Roma condividendo la casa con una settantenne nata in Eritrea, con cui, nel tempo, costruisce un’amicizia inaspettata e piena di sorprese.

Una scena di "Girls don't fly"
Una scena di “Girls don’t fly”

Tutte queste donne sono le protagoniste dei film presentati al Karawan Fest di Roma, che aprirà i battenti il 24 novembre nel parco di Villa de Sanctis, a Tor Pignattara.
Il festival, che è alla sua quinta edizione, propone una rassegna annuale di film etnici ed è – citando la descrizione sul loro sito – «il primo (e unico) festival di cinema che affronta i temi della convivenza, dell’identità, dell’incontro tra culture in tono programmaticamente non drammatico», laddove «il sorriso è il terreno di incontro naturale tra le diverse culture del mondo, “il luogo” ideale in cui scompaiono le differenze e ci si riscopre umani». Il progetto Karawan prende avvio da un gruppo di promotori culturali di Tor Pignattara e vuole diventare, per i quattro giorni l’anno di proiezioni, il cinema di quartiere che manca. Tor Pignattara, infatti, oggi non ha né cinema, né biblioteche, né teatri ed è uno dei quartieri più popolosi della città, in continua trasformazione per la presenza di numerose comunità etniche sul territorio.

"Quando apro gli occhi" il film
La protagonista di “Appena apro gli occhi”

Il Karawan Fest, inoltre, si inscrive all’interno del progetto diffuso nel quartiere e nelle zone limitrofe di riappropiazione degli spazi pubblici, che sta coinvolgendo lo storico cinema Impero, l’Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros e il parco Villa de Sanctis, in cui si svolgerà il festival.
Il programma di quest’anno dà grande spazio al cinema etnico al femminile, sia per le storie raccontate, sia per la cospicua presenza di registe donne, e si associa alla campagna #NonUnaDiMeno cui dedicherà il 26 novembre il film Girls don’t fly della regista pluripremiata Monika Grassl.

La protagonista del film "Sonita"
La protagonista del film “Sonita”

Tra gli altri, saranno proiettati film di registe di fama internazionale come Leyla Bouzid, membro attivo dell’associazione dei giovani registi tunisini e figlia d’arte del regista tunisino Nouri Bouzid, che presenterà Appena apro gli occhi, il film sulla giovane cantante Farah. E Rokhsareh Ghaemmaghami, la regista iraniana vincitrice del Grand Jury Prize al Sundance Film Festival 2016 e del World Documentary Audience Award, che ha diretto Sonita, il film sulla rapper di Teheran.

All’interno della sezione “Making Heimat”, organizzata in collaborazione con il Goethe Institut di Roma, saranno proiettati numerosi film etnici tedeschi, che affrontano con ironia e lucidità le dinamiche sociali della Germania multiculturale di oggi. Oltre a Solino, che racconta le vicende di una famiglia italiana di migranti in Germania, verrà proiettato anche Kaddish for a friend, un film che trasferisce la questione palestinese a Berlino, dove Ali Messalam, un quattordicenne palestinese vissuto in un campo profughi con la sua famiglia, per essere accettato dai giovani arabi nella sua nuova città, vandalizza la casa di un anziano ebreo russo, che lo denuncia alla polizia. La necessità di evitare la deportazione sarà per Ali e per l’anziano signore un’occasione irripetibile per passare del tempo insieme e andare oltre la guerra ideologica.

Una scena del film Doris e Hong
Una scena del film “Doris&Hong”

Con Doris&Hong sarà presente in sala il regista Leonardo Cinieri Lombroso, che dal 2010 in poi ha scritto e diretto numerosi film e cortometraggi sulla migrazione e sulle culture asiatiche, come La città di Asterix, Through Korean Cinema e Southeast Asia Cinema – When the Rooster Crows.
Ospite d’eccezione sarà la graphic novelist Takoua Ben Mohamed, classe 91, nata in Tunisia e cresciuta in Italia, che rappresenta graficamente le difficoltà della G2 (la seconda generazione di immigrati) e al festival presenterà il suo libro Sotto il velo (edito da Becco Giallo) ed esporrà alcune tavole. Inoltre, in collaborazione con Civico Zero (il centro diurno per migranti minori di San Lorenzo), interverrà il fotografo ivoriano di fama internazionale Mohamed Keita, formatosi a Civico Zero, che esporrà il percorso espositivo di foto sui quartieri di Tor Pignattara e San Lorenzo dal titolo 2Il sole non cade mai, ma è l’uomo che si allontana”.

La graphic novelist Takoua Ben Mohamed
La graphic novelist Takoua Ben Mohamed

A un passo dal mausoleo di Elena e dalle catacombe di Marcellino e Pietro, per quattro giorni a partire da domani la Casa delle Culture di Villa de Sanctis accoglierà il pubblico, proponendo un fitto calendario di proiezioni intervallate da momenti di ristoro organizzati dal KarawanBistrot e tornerà ad essere, dopo un anno, il cinema che non c’è.

Qui il programma del festival, che abbiamo segnalato anche sul numero di Left di questa settimana.

Dall’operazione Cóndor a Che Guevara: la verità sulle dittature latinoamericane

Familiari dei desaparecidos manifestano per conoscere la verità

«È triste ricordare questi giorni oscuri della nostra storia. Per questo il ministero ha preso questa decisione perché, con il declassamento di questi documenti vogliamo recuperare la memoria storica degli eventi accaduti nei periodi delle dittature, che vogliono aiutarci a capire e svelare la verità delle azioni diplomatiche di allora». A parlare è il ministro degli Esteri boliviano David Choquehuanca. A inizio settimana, la Bolivia di Evo Morales ha annunciato che presto saranno desecretati i documenti relativi alle dittature militari del suo Paese nel periodo tra il 1966 e il 1979 e resi disponibili per una pubblica consultazione. Al loro interno: documenti diplomatici che dimostrano la collaborazione tra i governi militari latinoamericani dell’epoca, nell’ambito del Plan Cóndor, specialmente per quel che riguarda il governo di Hugo Bánzer (1971-1978). Poi, ci sono anche le carte del governo di René Barrientos (1964-1969), all’epoca dell’assassinio di Ernesto Che Guevara.

Il tornado che partirà da La Paz, non riguarderà solo la Bolivia. In quegli anni, ci fu un’intensa attività di scambio tra i governi militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, per combattere i movimenti politici di sinistra o i sindacati di opposizione, in quello che è stato chiamato Plan Cóndor. Sin da quando, il 3 settembre del 1973, in occasione della “Decima conferenza degli eserciti americani”, il generale brasiliano Breno Borges Fortes propone di estendere le collaborazioni tra i servizi segreti per combattere il comunismo e ogni proposito sovversivo. Un’alleanza patrocinata dagli Stati Uniti, con massicci aiuti economici, addestramento e forniture militari, e poi con la preparazione e l’organizzazione dell’Intelligence. È l’epoca degli Squadroni della morte, come la Tripla A argentina e Patria y Libertad cilena, entrambe finanziate dalla C.I.A. Tant’è che più d’uno è convinto che l’ordine del Plan partisse proprio da Whashington.

In poco più di vent’anni, all’epoca, il continente è sprofondato in uno dei periodi più oscuri della storia, sotto i colpi di Stato:

  • 1954, Paraguay: il generale Alfredo Stroessner prende il potere.
  • 1964, Brasile: le forze armate rovesciano il governo democratico di João Goulart.
  • 1971, Bolivia: il generale Hugo Banzer prende il potere dopo una serie di colpi di Stato.
  • 1973, Cile: le forze leali al generale Augusto Pinochet assediano il palazzo presidenziale e rovesciano il     governo democratico di Salvardor Allende.
  • 1973, Uruguay: il presidente Bordaberry attua un colpo di Stato con i militari e scioglie il Parlamento.
  • 1976, Argentina: la giunta militare del generale Jorge Rafael Videla prende il potere

Alla fine si conteranno migliaia di morti, desaparecidos, detenuti ed esiliati. Quando nel 1992 il giudice paraguaiano José Augustín Fernández scopre gli Archivi del terrore in una stazione di polizia di Asunción, rivela la sorte di migliaia di latinoamericani rapiti, torturati e assassinati: 50mila assassinati, 30mila desaparecidos e 400mila incarcerati. L’attività del Cóndor si ritiene conclusa alla metà degli anni 80, anche se ci sono nuovi elementi di indagine che fanno pensare a un protrarsi fino al 1997. In Italia, davanti ai giudici della terza Corte d’Assise di Roma, nell’aula bunker di Rebibbia, a febbraio 2015 è iniziato il primo grado del processo sul Plan Cóndor. Dieci anni di indagini hanno condotto a una lista di 21 imputati tra cui ex autorità militari e di governo di Bolivia, Cile, Perù e Uruguay, accusati della scomparsa di 23 italiani tra il 1973 e il 1978.

«Abbiamo un obbligo di fronte alle future generazioni affinché conoscano la verità e sappiano come sono stati i tempi delle dittature», ha detto il cancelliere boliviano che ha così soddisfatto la richiesta dalle associazioni dei familiari vittime delle dittature. E i parenti dopo aver espresso soddisfazione hanno già annunciato che chiederanno una commissione per la verità.

Vaccini obbligatori per accedere al nido. In Emilia-Romagna è legge

Female Doctor vaccinating small girl.

Per accedere ai nidi, pubblici e privati, i bimbi dell’Emilia-Romagna dovranno essere vaccinati. Gli oltre 32.500 bimbi dai 0 ai 3 anni iscritti ai servizi sanitari regionali, dovranno aver ricevuto almeno quattro dei sei vaccini previsti dall’esavalente, ovvero l’antipolio, l’antidifterica, l’antitetanica e l’antiepatite B. La regione è la prima in Italia a imporre per legge l’obbligatorietà dell’immunizzazione. L’articolo che la introduce, il 6 comma 2, è contenuto nella Riforma dei servizi educativi per la prima infanzia approvata ieri dall’Assemblea regionale con i voti favorevoli di Pd, Sel, Fdi, Fi. Contrari i consiglieri del M5s, mentre la Lega nord si è astenuta.

«Riconosciamo la validità e l’efficacia dei vaccini – ha ammesso la consigliera regionale pentastellata Raffaella Sansoli – ma siamo contrari al metodo coercitivo». La Sansoli, che è relatrice di minoranza della legge e vicepresidente della commissione Sanità, è convinta che possa produrre «l’effetto opposto». Ora in Emilia Romagna l’effetto opposto significherebbe infrangere la legge. Oppure, la possibilità che resta ai genitori contrari ai vaccini, è astenersi dal mandare i propri figli al nido. D’altro canto, essendo gli asili – luoghi chiusi e ad altra concentrazione di bambini – luoghi con elevata possibilità di contagio, immunizzare tutti i bambini è l’unica possibilità per quelli più fragili (come per esempio gli immunodepressi, con gravi patologie croniche, o affetti da tumori) di poter accedere al nido e alla collettività.

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha stabilito che la percentuale di vaccinati debba essere del 95 per cento. Attualmente, in Emilia-Romagna la copertura è stata, nel 2015, del 93,4%, in calo rispetto al 2014. Molte, troppe, persone scelgono di astenersi seguendo false teorie, la cui infondatezza è sytata confermata anche nelle aule di giustizia. La legge, peraltro, specifica che (solo) in caso di pericoli concreti accertati per il bimbo, “in relazione a specifiche condizioni cliniche”, la vaccinazione deve essere omessa e differita.

Per mettersi in regola, c’è tempo fino a giugno 2017.

Nel frattempo, anche il presidente del Lazio Nicola Zingaretti si dice pronto a seguire la regione rossa.

Il M5s a Bologna non è così virtuoso. Ecco i nomi dei 4 indagati per firme false

E dopo Palermo, anche nella virtuosa Bologna spuntano i nomi di 4 indagati del Movimento 5 Stelle. Tra loro, il consigliere comunale e vicepresidente del consiglio Marco Piazza, al secondo mandato e spalla di Massimo Bugani, anche lui al secondo e ultimo mandato. Il reato ipotizzato è la violazione della legge elettorale; le elezioni in questione, le Regionali del 2014 in Emilia-Romagna. Un’indagine durata due anni, con centinaia di persone sentite, e partita dall’esposto di due ex attivisti dell’Appennino, Stefano Adani e Paolo Pasquino. La contestazione del fascicolo del pm Michela Guidi, quella di aver autenticato firme non apposte in presenza dei certificatori oppure in luogo diverso rispetto al requisito di territorialità o in mancanza della qualità del pubblico ufficiale.

Il Movimento 5 Stelle, si era trovato a dover raccogliere firme in fretta e furia, a causa della esclusione dalle candidature (e poi della cacciata) del capogruppo regionale uscente Andrea Defranceschi. Motivo? Risultava indagato per le spese del gruppo consiliare. Indagine poi svoltata in suo favore, con l’assoluzione e la conferma della Procura che confermava “l’oculatezza delle spese”. Un bel paradosso, quello che ora i Cinquestelle duri e puri si troveranno a sbrogliare. Proprio i consiglieri comunali, infatti, si erano trovati a volere l’esclusione e a gridare all’onestà.

Il leader del M5S, Beppe Grillo, durante il suo comizio a Bologna, 10 maggio 2014. In quest'occasione, sospese il capogruppo regionale Andrea Defranceschi, ai tempi indagato e poi assolto. ANSA/GIORGIO BENVENUTI
Il leader del M5S, Beppe Grillo, durante il suo comizio a Bologna, il 10 maggio 2014. In quest’occasione, sospese il capogruppo regionale Andrea Defranceschi, ai tempi indagato e poi assolto. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Marco Piazza, dunque, dicevamo. Per chi conosce il Movimento bolognese, sa che è lui il lavoratore della situazione, una specie di tuttofare, che con grande impegno copre tutti i buchi del capogruppo, troppo intento a presentare eventi (come Imola5Stelle) o a scrivere sul blog. Non stupisce dunque, che nell’indagine della Procura di Bologna per firme false, spunti il suo nome. Assieme a lui, un altro fedelissimo, Stefano Negroni, dipendente comunale e afferente al gruppo in Comune, l’attivista Tania Fiorini e un’altra dipendente regionale.

Tra i quattro episodi denunciati, la raccolta firme per le regionali effettuata durante Italia a 5 Stelle al Circo Massimo a Roma (10-12 ottobre 2014). Firme raccolte dunque decisamente fuori dal territorio di pertinenza. Violazioni testimoniate da foto, prontamente allegate all’esposto depositato. Sulla questione, il 10 e il 12 ottobre scorso, Mara Mucci e Aris Prodani, entrambi deputati ex pentastellati, hanno presentato un’interrogazione ai ministri della Giustizia e dell’Interno per avere risposte sulla vicenda.

Gli altri tre episodi riguarderebbero l’assenza del pubblico ufficiale che ha il compito di certificare la veridicità e l’autenticità delle sottoscrizioni: due sarebbero accaduti a Bologna (nel circolo Mazzini e durante il ‘Firma Day’), mentre l’ultimo si sarebbe verificato durante una raccolta firme a Vergato. Durante le raccolte firma a Bologna, i due certificatori erano Massimo Bugani e il suo collega in Comune, Marco Piazza. Bugani, che aveva persino minacciato querela nei confronti dei depositari dell’esposto, ha sempre assicurato di essere stato presente in ogni momento per certificare le firme e che non ci sono state irregolarità di nessun tipo. A quanto pare però, la magistratura non la pensa come lui.

E anche stando alle prove portate, Bugani sembrerebbe più che informato. In questo post, si parla della raccolta firme in questione. un attivista scrive “già firmato al circo Massimo” e il consigliere gli dedica un bel like.

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Ci si aspetterebbe un grido di onestà e trasparenza, ora. Invece, come ormai da abitudine Cinquestelle, il capogruppo comunale, al tempo feroce accusatore dei due consiglieri regionali e capo della battaglia per la loro espulsione, usa due pesi e due misure, e ora minimizza: «fessacchioni», li chiama, dichiarando che se c’è qualcuno che «ha preso firme a Roma, si dimostrerà che sono firme vere poi portate a un banchetto e infilate dentro agli altri moduli. Se l’errore è grave o no, vedremo – prosegue, e aggiunge che «se l’errore è questo è risibile». Non tanto, in realtà, dato che senza quelle firme, non sarebbero presentato una lista e oggi il Movimento 5 Stelle non avrebbe rappresentanti in Consiglio regionale.

Non un dettaglio da poco.

 

Il candidato per il Movimento 5 Stelle Massimo Bugani, accompagna il fratello Fulvio al voto nel seggio di via Finelli, Bologna, 5 giugno 2016. ANSA/GIORGIO BENVENUTI
Il candidato per il Movimento 5 Stelle Massimo Bugani ai seggi, Bologna, 5 giugno 2016. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Le vie del diavolo sono infinite: il punto sul Labour di Corbyn

epa05629642 British Prime Minister Theresa May (R) and Jeremy Corbyn Leader of the Labour Party (L) and former British Prime Minister Sir John Major (C) during the Remembrance Sunday ceremony at the Cenotaph in London, Britain, 13 November 2016. Remembrance Day observed in Commonwealth of Nations member states since the end of the First World War to remember the members of their armed forces who have died in the line of duty. EPA/WILL OLIVER

Dopo aver vinto per la seconda volta le primarie del Labour a settembre, Jeremy Corbyn non sembra avere rivali in grado di insediare la sua leadership. Eppure, a leggere una recente analisi di Alex Spence (Politico), verrebbe da dire che le “vie degli alleati sono infinite”.

Secondo Spence, la schiera dei laburisti moderati starebbe ripiegando verso altri centri di potere per insediare, da un lato, la leadership di Corbyn e, dall’altro, il governo conservatore di Theresa May. Ma di quali centri di potere stiamo parlando?

Soprattutto delle amministrazioni locali del nord del Regno Unito. Nello specifico, Spence si sofferma sul caso di Andy Burnham, ex-ministro dei governi Blair e Brown, che aveva perso le primarie del 2015 proprio contro Corbyn. Burnham sta preparando la sua campagna elettorale per le elezioni amministrative di Manchester. Come riporta Spence, durante un incontro organizzato a Manchester in una scuola, Burnham avrebbe affermato: «Sono sempre più frustrato da Westminster […] La cultura politica deve cambiare e per questo motivo voglio fare il sindaco. Il Nord deve avere una voce più forte nel dibattito nazionale. Il modo migliore per riuscirci è fare il sindaco di una grande città». La probabile vittoria di Burnham a Manchester farebbe il paio con l’elezione di Sadiq Khan a Londra. Entrambi rappresentano un Labour moderato: quello che Corbyn ha spazzato via a colpi di primarie.

Ma perché i moderati del Labour non riescono a scendere a patti con la leadership di Corbyn? In primo luogo, c’è un dato indiscutibile che pesa come un macigno sulla leadership di Corbyn. Secondo i sondaggi, nonostante il governo di Theresa May brancoli nel buio sulla Brexit – come scrive Sean O’Grady, l’uscita dall’Ue è sempre meno sicura –, il Labour non riesce a imporsi nelle preferenze degli elettori britannici.

A ottobre, il partito di Corbyn era dato a più di 15 punti percentuali di distanza dai conservatori. E come se non bastasse, il partito liberal-democratico (LibDem) sta risuscitando dalle ceneri proprio a causa del vuoto lasciato dal Labour sulla questione europea.

In secondo luogo, Corbyn, dopo il successo indiscutibile di settembre, è venuto meno a una serie di promesse fatte ai suoi colleghi durante la campagna delle primarie. Da un parte, aveva affermato di voler aprire la porta ai propri colleghi di partito nella definizione delle politiche alternative di governo. Dall’altra, aveva fatto intendere di voler comporre il governo ombra tramite una votazione interna al partito.

Secondo Rob Merrick, la svolta di Corbyn sarebbe legata alla previsione di una caduta del governo di Theresa May in Primavera, a causa della mancata attivazione dell’articolo 50 valido per l’uscita del Regno Unito dall’Ue. Insomma, la stessa macchina elettorale che ha permesso a Corbyn di diventare leader di partito, si starebbe preparando a una campagna elettorale nazionale anticipata.

PortogalloEl Pais Il Portogallo rimborsa in anticipo il Fondo monetario internazionale, ma il debito sale al 133 per cento

Regno UnitoThe IndependentSecondo David Davis il ricorso di Theresa May alla Corte suprema non serve a nulla: il Parlamento inglese dovrà votare sull’articolo 50

EuropaHandelsblatt Guida agli stipendi degli istituti finanziari pubblici d’Europa: i presidenti delle banche centrali di Belgio, Italia e Germania guadagnano più di Draghi  

SpagnaEl PaisRajoy: «Non possiamo diminuire il debito, abbassare le tasse e aumentare la spesa»

Nuovi accordi tra Santos e Le Farc. La Colombia ci riprova

epa05629178 A person reacts during celebrations of the new agreement between the Colombian Government and Colombian FARC rebel group at Plaza de Bolivar in Bogota, Colombia, 12 November 2016. EPA/LEONARDO MUNOZ

È prevista per domani, giovedì 24 novembre, la firma del nuovo accordo tra il governo colombiano e i ribelli delle Farc. Dopo lo stop arrivato con il referendum del 2 ottobre scorso ai precedenti accordi, il presidente Juan Manuel Santos e i leader ex guerriglieri hanno ripreso le trattative e sono giunti a un punto soddisfacente per entrambi, con 57 modifiche che vanno incontro alle richieste dei conservatori guidati dall’ex presidente Alvaro Uribe, strenuo oppositore dell’esito della trattativa.

Questa volta l’accordo (che peraltro non sarà più inserito in Costituzione come previsto in precedenza) non sarà sottoposto al giudizio degli elettori, ma la ratifica dovrà darla il Congresso, dove la coalizione di governo conta su una solida maggioranza (alla Camera il partito di Santos è addirittura autosufficiente) . Alla tv colombiana Santos ha fatto appello alla memoria dei suoi connazionali ricordando i 52 anni di lutti e i milioni di cittadini coinvolti nella guerra interna tra Farc e forze governative. «Abbiamo l’opportunità unica di chiudere questo doloroso capitolo della nostra storia» ha detto il presidente, la cui immagine pubblica si è rafforzata dopo l’attribuzione del premio Nobel per la Pace, che gli sarà consegnato il 10 dicembre.

Restano però le resistenze dell’opposizione, che parlano di un maquillage non in grado di incidere sui punti oggetto delle loro critiche. Uribe cavalca la protesta chiedendo di incontrare i dirigenti delle Farc e che si indica un nuovo referendum, ma Santos chiarisce che non ci sono più margini di trattativa e conta sulla voglia di pacificazione diffusa nel Paese. Dopo lo stop referendario, infatti, in Colombia ci sono anche state manifestazioni a sostegno del primo accordo, giunto dopo quattro anni di colloqui a L’Avana, e le Farc – come ha confermato il leader Timochenko nell’intervista esclusiva su Left in edicola – hanno accettato ulteriori limitazioni alla loro libertà di movimento pur di vedere attuato il trattato di pace. «Questi accordi sono definitivi» ha detto il capo delle Farc.

Il punto più delicato della nuova trattativa è senza dubbio il ritorno alla vita civile degli ex guerriglieri, per i quali parte dell’opposizione chiedeva comunque pene detentive. La detenzione non è ricompresa tra le restrizioni cui saranno sovrapposti, ma secondo i nuovi accordi gli appartenenti alle Farc potranno lasciare le aree in cui saranno dislocati soltanto nelle fasce orarie e nei termini stabiliti dai Tribunali speciali della pace – composti da giudici colombiani e con osservatori stranieri (è stata esclusa la presenza di giudici stranieri) – che opereranno per 10 anni aprendo le indagini entri i primi due. Il giudice che assegna loro la residenza potrà mantenere la restrizione per un periodo che va dai 5 agli 8 anni.

Il nuovo accordo ha anche escluso la possibilità dei membri delle Farc di candidarsi nelle aree più calde del conflitto, venendo così incontro ai timori di chi lasciava presagire il rischio di “ricatti” ai danni della popolazione locale, ma conferma che gli ex guerriglieri avranno 10 seggi al Congresso, 5 per ogni ramo del Parlamento, garantendo presumibilmente l’immunità ai leader del movimento. Inoltre, ha ribadito Santos alla tv colombiana, le Farc dovranno presentare un inventario completo dei loro beni da destinare come compensazione alle vittime e fornire informazioni sul loro coinvolgimento nel narcotraffico. Sullo sfondo restano i timori legati al ruolo dei paramilitari e alle possibili violenze una volta che sarà effettivo il “ritorno alla vita civile” degli ex guerriglieri, che – ha confermato Timochenko a Left – intendono rinunciare alle armi, ma non alla lotta politica.

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L’intervista esclusiva a Timochenko su Left in edicola

 

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Con il New York Times, Trump sceglie i toni moderati. Ci si può fidare?

Donald Trump lascia l'edificio del new York Times
epa05642718 US President-elect Donald Trump leaves the New York Times offices after a meeting in New York, New York, USA, on 22 November 2016. EPA/ANDREW GOMBERT

Non c’è giorno che Donald Trump non ci regali una sorpresa. Ieri (nella sera italiana) è stata la volta dell’annuncio fatto durante un’intervista con il New York Times che non cercherà di mandare il galera Hillary Clinton «Perché ha già tanto sofferto» e che «È aperto all’idea di non dismettere gli accordi di Parigi». Due promesse fatte in campagna elettorale, con la gente ai comizi urlava «lock her up, rinchiudetela» e lui che incitava.

Nell’intervista il presidente eletto si lamenta anche del trattamento ricevuto dai media, prende le distanze da Alt-Right, che il giorno prima aveva festeggiato la sua vittoria al grido di «Heil Trump» e giura che il suo capo stratega, Steve Bannon non è razzista «che altrimenti non lo avrei scelto».

Se non avessimo vissuto 20 anni con Silvio Berlusconi – che piangeva disperato dopo una strage di albanesi in mare e poi stava al governo con la Lega – non sapremmo come interpretare questi slalom contradditori. Che in fondo contraddittori non sono. L’idea resta la stessa: far ascoltare alla gente quel che la gente vuol sentire, usare canali diversi per rivolgersi a gente diversa.

La stessa intervista è una specie di colpo di teatro: a metà pomeriggio Trump twitta “dovevo incontrarmi con il fallimentare New York Times, ma hanno cambiato le condizioni del meeting all’utimo minuto». L’intervista poi c’è stata e, appunto, Trump ha assunto un tono moderato.  Ma l’account twitter non parla di quella intervista e non la rilancia nemmeno. E le persone che hanno votato Trump non leggono il New York Times né visitano il sito. Il neopresidente, alle domande, “pensa che Bannon sia un razzista?” e “Prende le distanze da quelli che oggi gridavano Heil Trump” non poteva che rispondere come ha risposto. È un abile populista, non il leader del partito nazista e suprematista bianco. Sa  che quello è stato un pezzo utile per portarlo alla Casa Bianca, non la sua base elettorale. Sul web (sui social dove si vive di nickname come Reddit o 4chan) i sostenitori del movimento si dicono delusi ma anche ribadiscono «Non è il nostro uomo su cavallo bianco, solo concorda con alcune delle nostre idee».

Quanto agli Accordi di Parigi, sa che farli saltare gli metterebbe una pressione internazionale furibonda addosso. Non solo, Trump non ha detto: «intendo applicare con rigore gli accordi di Parigi», ma «ci guarderò bene dentro». Meglio di niente, ma nessuna certezza. L’unica posizione inequivoca Trump l’ha presa sulla tortura: il generale Matis, figura quasi certamente scelta per guidare il Pentagono «mi ha detto che non è mai stata utile a nulla e dunque ho cambiato idea». Non è un ripudio della tortura – venduta come utile in campagna elettorale – ma l’ammissione che non serve a nulla. E comunque la sua scalta alla CIA, Pompeo, è un difensore del waterboarding.

Molti hanno poi fatto notare che nel video in cui il neoeletto presidente annuncia il piano per i cento giorni non ci siano il muro con il Messico e la fine di Obamacare. La prima misura implica una spesa – a meno che davvero qualcuno non creda che i messicani lo pagheranno – e nel messaggio Trump sembra parlare solo di misure realizzabili con ordini esecutivi che non vanno discussi con il Congresso. Le spese sono invece competenza dell’Assemblea legislativa. Quanto all’assicurazione sanitaria obbligatoria, Trump ha già detto che non la smonterà del tutto e, comunque, per cambiare un meccanimso delicato come quello che regola la Sanità deve prima cercare di capire come fare senza far saltare in aria il sistema.

C’è poi il problema del conflitto di interessi negato. Il presidente eletto ritiene che la legge non gli imponga di prendere le distanze dal suo business e dice che presto metterà tutto nelle mani dei figli, ma al contempo spiega che suo genero Jarod Kushner probabilmente avrà un ruolo nell’amministrazione. Trump, insomma spiega di essere oltre e sopra la legge. E gli effetti già si vedono: ai diplomatici stranieri vengono offerti prezi speciali nelle suite degli alberghi di proprietà del presidente a Washington, questi accettano per stabilire reazioni. Non solo: lo stesso Trump ammette che il suo brand è cresciuto grazie alla elezione.

La legge in effetti non impone di lasciare le sue proprietà: presidente, vice e giudici federali sono esenti dall’obbligo, chissà perché. Ma un conto è quel che è legale, un conto è quel che è giusto e responsabile fare quando si è eletti presidente di un Paese.

Infine: oggi verranno altri annunci di nomine. Si dice che Nikki Halley, 44enne governatrice della South Carolina di origini indiane, sarà ambasciatrice Onu. Halley è una moderata che ha molto criticato Trump. Un segnale che potrebbe voler dire due cose: il presidente sceglierà una diplomazia moderata con la coppia Halley-Romney. Oppure l’incontro con il miliardario mormone ed ex candidato presidenziale è stato propedeutico alla nomina di Halley (molto vicina a Romney) e avremo un Segretario di Stato diverso. In ogni caso una nomina pensata solo per calmare le acque con i moderati, perché di politica estera, Halley, non sa nulla.

Alla sanità potrebbe andare l’ex chirurgo afroamericano Ben Carson e la cosa, nonostante il prescelto sia un profilo professionalmente adeguato, sarebbe una scelta molto conservatrice. Carson era infatti il religioso più bigotto della schiera dei candidati alle primarie e il Dipartimento della salute regola ovviamente tutte le questioni relative alla riproduzione e alla ricerca medica – tradotto: ulteriore restringimento del diritto di scelta per le donne. Halley e Carson potranno infine consentire di dire che l’amministrazione non è fatta solo di maschi bianchi.

 

 

Dopo l’Italicum il Cuperlum: tutti insieme per il meno peggio

Gianni Cuperlo arriva nella sede del Pd per la riunone di direzione con il presidente del consiglio Matteo Renzi, Roma 22 gennaio 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

Nuova fazione in vista: oltre al fronte del sì, del no e del ni ora c’è la schiera del “sì nonostante Renzi in nome del meno peggio”. Dentro ci sono nomi che contano: Gad Lerner (che teme l’arrivo del M5S e quindi decide di arrotolare la Costituzione per tappare il lavandino), Santoro (mica un ononimo, proprio lui, che dice sì nonostante Renzi perchè ha scoperto che se la Costituzione non viene modificata non si rafforzano i diritti), Parisi (ah, Parisi, quanto tempo) e Gianni Cuperlo, il re dell’inconsistenza politica che nasce per fare opposizione e poi diventa soprammobile del renzismo.

In pratica ci dicono i prodi (minuscolo) equilibristi che il “meno peggio” e “nonostante Renzi” siano elementi validi per appoggiare la riforma Boschi-Renzi. Dicono che la Clinton, leggendo l’intervista, abbia pianto per ore: il meno peggio che finisce per aprire la strada al peggio è una delle lezioni più dimenticate nello scenario politico. Dico, vi ricordate il voto utile? Ogni volta che veniva pronunciato da qualche parte si formava immediatamente una brigata di rivoluzionari. Dico, vi ricordate quando ci dicevano che un candidato moderato (uno qualsiasi dei tiepidini che il PD ha proposto in questi ultimi dieci anni) fosse meglio di niente e poi si riusciva a perdere anche nelle città più rosse? Ecco. Siamo ancora lì. Allo stesso punto.

Nel merito della riforma Cuperlo (ora Cuperlum per la sua nuova effige da salvatore della legge elettorale) elenca tutti i “nonostante” e poi sorride sornione. Lo spessore delle argomentazioni per ora evidentemente non conta. Ma il vero colpo di teatro arriva dal filosofo Cacciari che, dopo aver dichiarato qualche mese fa che questa riforma l’avrebbe votata nonostante sia una “schifezza”, ieri ci ha anche detto che “la sinistra che fa la destra poi alla fine perde”. Ora gli manca un “Venezia è bella ma non andrei mai a viverci”, un “cielo a pecorelle pioggia a catinelle” e un “si stava meglio quando si stava peggio” per meritarsi un posto nell’olimpo dei pensatori del sì. Di quelli che “basta un sì” nonostante lo schifo tutti intorno. Lui e Cuperlum.

Buon mercoledì.