La violenza contro le donne non è un destino ineluttabile
«Il 26 novembre a Roma io ci sarò e spero di incontrarvi tutte e tutti per la manifestazione nazionale contro la violenza sulle donne indetta da #nonunadimeno. Ve lo ricordo in anticipo, così non prendete impegni». Quella di Serena Dandini è una vera e propria chiamata alla partecipazione.
Serena, perché è importante essere in piazza il 26 novembre?
Intanto perché unisce tutte e questa è una cosa fondamentale. Al di là delle sigle, tutte importantissime, è finalmente una manifestazione globale, unitaria. In questo momento il fatto di essere unitarie è molto importante, al di là della manifestazione in sé.
Che non è certo la prima, in cosa è diversa dalle “solite” manifestazioni?
Sì, è come dici tu, ne abbiamo fatte duemila di manifestazioni. E io per le date e le ricorrenze ho un’allergia, sono stufa: l’8 marzo, il 25 novembre… Ma quello che è davvero importante stavolta è il lavoro di preparazione che c’è stato fin qui e l’assemblea del giorno dopo, quella del 27, dove le proposte programmatiche prenderanno forma e verranno presentate alla politica. È uno scatto importantissimo, c’è qualcosa in più, un’elaborazione che verrà poi portata alla luce.
Cos’è la parità di genere?
«La vera parità ci sarà il giorno in cui al potere avremo tante donne cretine quanti uomini cretini» (ride). Non è mia, ma di Simone Veil. Invece noi dobbiamo essere “super perfette”, l’unico modo per accedere a qualcosa è quello di essere iperpreparate, iperlaureate, iperperfette insomma. Ecco, io rivendico anche i difetti delle donne.
Non portate bandiere di partito o sindacato, si è detto. Ma questa volta dietro la richiesta c’è una maggiore consapevolezza del fatto che la politica e il sindacato sono parte attiva nella discriminazione di genere. Con leggi come il Jobs act o politiche che cristallizzano, o alimentano, le disuguaglianze, ti pare?
Tante volte siamo state strumentalizzate dalla politica. Sai, ci si cavalca facile… “le donne, pensiamo alle donne, gne gne” (fa il verso, ndr). Perciò mi sembra importante non lasciarci strumentalizzare per l’ennesima volta. Ci sono azioni importanti da compiere e le chiacchiere stanno a zero. Questo destino di violenza non è ineluttabile, nei Paesi in cui si portano avanti politiche virtuose le cose cambiano. Ecco, dovremmo ripetere spesso questa frase: si può cambiare. Non è un effetto collaterale, quasi “naturale”, della nostra società, non è un effetto collaterale della vita di coppia, non è così. E non è ineluttabile.
La questione femminile è una questione politica?
Sì, politica e culturale. Manca una visione globale, bisognerebbe cominciare dalle scuole a colpire questo “brodo colturale primordiale” che alimenta omofobia, razzismo, lo stesso che può culminare con il femminicidio. O si decide di agire nelle scuole con un’educazione al rispetto degli altri, ai sentimenti, all’educazione e all’amore, o non se ne esce.

L’intervista continua su Left in edicola dal 26 novembre
Abbiamo l’obbligo di realizzare un mondo che ci voglia joviales
La professoressa di francese le aveva chiesto di disegnarsi su una maglietta bianca e poi di descriversi. Sofia con un tratto nero ha disegnato il suo volto e sotto ha scritto “Je suis joviale”. Io sono “espansiva, estroversa, allegra…”, non so quale sia la traduzione migliore per il termine joviale ma conosco Sofia. E in effetti avrei detto che è espansiva… ma il fatto che lo abbia scritto lei di se stessa mi ha colpito. A 12 anni si sente joviale. Non male no? Ripenso a questi anni e a ogni singola “sottrazione” di violenza che abbiamo cercato di mettere in atto per la sua vita. Niente religione, niente croci e niente chiese, niente punizioni, niente assenze fisiche e ancor di più mentali… tutto quello che si poteva fare per evitarle carichi di “violenza” normalmente somministrate dalla società come fossero destini inesorabili è stato fatto. In più, qualunque opera potesse renderla joviale è stata intrapresa con grande investimento emotivo: libertà, affetti, musica, natura, viaggi, libri, storie, immagini… E così a 12 anni Sofia si disegna joviale.
Nel dizionario dei sinonimi, il contrario di “gioviale” è «triste, malinconico, serio, serioso, grave». Nulla di male a essere triste o serioso, ci sta. Sarà triste o seriosa per milioni di motivi nella sua vita. Esami, partenze, separazioni, cambiamenti, persino perdite. Difficoltà. La sola cosa che mi auguro, guardando il disegno del suo volto sulla maglietta, è che nessuna violenza la renda “grave”. Perché la violenza non è destino. «Non è un destino ineluttabile», dice Serena Dandini a Tiziana Barillà. E abbiamo l’obbligo di immaginare un mondo che ci voglia joviales. E non subumane, inferiori, contenitrici di vite altrui, mogli, madri, meno.
Ci occupiamo di donne e di violenza contro le donne anche quest’anno come tutti gli anni. Perché? Perché c’è la piazza di #nonunadimeno e perché è importante. Perché è importante? Perché abbiamo l’obbligo anche di realizzarlo quel mondo che ci vuole “espansive, estroverse, allegre…”. Un mondo che sente e vede la potenza di un’uguaglianza, quella delle donne, che è insieme diversità. «L’unica democrazia che conosce il mondo è la violenza contro le donne», dice sempre sarcastica Serena Dandini. Definirla democrazia è dura, ma se ci pensate dai tempi dei tempi (e Viola Brancatella ve lo racconta su questo numero) qualcuno ha deciso che saremmo dovute essere tutte Penelope o il nostro destino avrebbe oscillato tra la pazzia uxoricida di Clitemnestra a quella di Medea. Alla fine poi, siamo finite tutte Maria, lo sapete. Questo è il logos in Occidente, un lungo filo che va da Penelope a Maria e che ci descrive diverse, talvolta, ma mai ugualmente esseri umani. Sempre meno.
Come si costruisce allora un mondo che ci vuole autonome e realizzate? Gioviali, direbbe Sofia. Prova a raccontarvelo Tiziana Barillà: «Cosa accade se l’ostacolo non è “solo” un uomo – padre, marito o compagno – ma un intero sistema fatto di leggi?». Per dirvi che non c’è nessun destino ineluttabile riservato alle donne, semmai oggi ci sono politiche (economiche e sociali) sbagliate. Che azzoppano con violenza (di Stato) percorsi di autonomizzazione e realizzazione delle donne. Frutto di un “brodo culturale primordiale” che continuano a propinarci indisturbati e che non solo non funziona ma è “artefice” di quel mondo violento con le donne. Particolarmente violento con le donne. Serena Dandini conclude dicendo (sempre sarcastica): «L’unica costante che unisce tutto il mondo è la violenza contro le donne».
Allora io penso che nel mondo di Sofia la costante che unirà tutti sarà il rifiuto della violenza contro le donne. Ci vediamo in piazza.

Trovi questo editoriale su Left in edicola dal 26 novembre
Il talento schivo di Nick Drake. Un cult 40 anni dopo
Prima di Jeff Buckley, prima di David Sylvian, prima di molti altri c’era Nick Drake, talento schivo e sensibile, autore di testi poetici e di canzoni che richiedavano un accordo sempre diverso e, anche per questo, consone alla dimensione dal vivo. Ma lui, sguardo basso sul palco e un’intensità da brividi le cantava in locali fumosi, dove la gente parlava e rideva tre toni sopra la sua voce gentile, quasi un sussurro. Se ne andò poco più di quarant’anni fa, era Il 25 novembre del 1974, aveva 27 anni e non aveva conosciuto il successo che meritava. Ma poi i suoi brani allusivi, a volte criptici, densi di riferimenti letterari hanno incontrato un ampio pubblico di estimatori, ispirando più generazioni di musicisti. Per capire qualcosa di più del misterioso Nick Drake che ha attraversato come una meteoria il mondo della musica abbiamo chiesto a Stefano Pistolini di raccontarcelo mentre torna in libreria pubblicata da Elliot la sua storica biografia Le provenienze dell’amore.
Perché Nick Drake non fu capito negli anni Sessanta?
Tecnicamente perché non fu mai capace di promuovere il suo lavoro secondo quelli che erano i metodi del tempo, che imponevano una massacrante attività “live”, che lui, caratterialmente e psicologicamente era del tutto inadatto a sopportare. Fece un paio di concerti e se ne tornò a casa. Ma poi anche perché il periodo della sua attività discografica coincideva con un livello eccezionale delle uscite discografiche, in particolare in Gran Bretagna, e il mercato era estremamente selettivo verso l’alto. Per starci dentro bisognava spendersi senza requie ed essere sempre presenti in ogni forma promozione. Drake era il contrario: in tutta la vita fece una sola intervista e peraltro fu un disastro.
La forza di Nick Drake è l’ipirazione poetica, il tono malinconico. Ma anche la cura e l’originalità di ogni brano che richiedeva un accordo diverso?
E’ un artista complesso. Convoglia la sensibilità di un giovane poeta romantico inglese dell’Ottocento con i malesseri di un ragazzo borghese che si muove nella turbolenta Londra di fine anni Sessanta. La sua musica contiene grandi citazioni folk, rende omaggio ai suoi ascolti di Dylan, ma poi inventa una strada completamente personale. Le sue liriche provano a sintetizzare gli stati d’animo di quella esistenza, sempre sospesa tra paura ed eccitazione, con l’aggravante di essere un tremendo ipersensibile.
Che significato ha avuto nel tuo percorso di critico e scrittore?
E’ stato un arista fondamentale per la mia formazione, caratteriale prima che culturale. Intuivo qualche affinità e ammiravo il mondo che descriveva e rappresentava. In quegli anni l’Inghilterra per i ragazzi era una chimera lontana e desideratissima. C’era tutto quello che volevamo e per ciascuno quel desiderio avevano una declinazione che si adattava al suo carattere. Quando ho sentito le prime volte Nick, lui era là e per me rappresentava tutto ciò in cui avrei voluto immergermi.
La sua “leggenda” poco alla volta si è diradata, anche per il valoroso contributo di sua sorella Gabrielle, che di recente ha pubblicato i diari di famiglia e tanti altri reperti d’epoca che contribuiscono a fare chiarezza e ad avvicinarsi alla verità nella storia di Nick Drake. Man mano che se ne prende visione è come se la sua figura acquisisce normalità, e certamente umanità. Era un genio musicale, ma alla fine non era né un santo né un martire, ma un ragazzo disfunzionale come buona parte di noi.
Dike Drake ha ispirato anche un grande jazzista come Brad Mehldau. Che interpretazione ne ha data?
Valorosa, ma pur sempre una rilettura tecnicistica, che comporta l’appropriazione di un materiale artistico che, nel caso di Drake come di alcuni altri musicisti, è completamente privato, connesso intimamente con la sua persona, la sua voce, le sue atmosfere.
Chi sono oggi i musicisti più vicini alla sua musica?
Non si può fare un elenco sarebbe sterminato. Ormai la sua musica, soprattutto il suo approccio compositivo è un vero luogo comune del songwriting. La cosa interessante è che tutto ciò accade 42 anni dopo che è morto e 44 dopo la pubblicazione del suo ultimo album. Che del resto, se ascoltato da chi non lo sa, ha una prerogativa magica: sembra registrato ieri, non paga prezzi al tempo che passa. E’ quella che credo possa essere definita la dimensione del classico.
Che cosa hai scoperto mentre facevi le ricerche per questo libro?
Mediterraneo, mare di conflitti. Canfora ne indaga le radici storiche
Il Mare Nostrum oggi è il mare dei naufragi, un cimitero di migranti. Quello che stiamo vivendo è certamente uno dei punti più drammatici della sua millenaria storia, che purtroppo non è mai stata senza conflitti. L’idilliaca visione di un mare di incontri di culture, di pacifico scambio, suona piuttosto artificiosa se rilegge la storia. Fin da quella più antica. Sulla difficile storia del Mediterraneo in età classica Luciano Canfora ha scritto un sintetico saggio per l’editore Castelvecchi, rileggendo i testi antichi, a partire da Omero e Erodoto, arrivando poi a ricostruire il tentativo di Augusto di riunificare del Mediterraneo, proseguito sotto il vessillo della croce da Costantino e Teodosio che impose il cristianesimo come religione di Stato.
Per arrivare poi all’attualità . E in particolare al difficile rapporto fra Turchia ed Europa. Dopo il tentato golpe, infatti, il Paese guidato da Erdogan mostra un volto sempre più autoritario, ragione per cui L’Unione Europa ha bloccato i negoziati per l’ingresso della Turchia in Europa.
Professor Canfora il Mare Nostrum è attraversato da lacerazioni fin dall’antica Grecia che, non a caso, concepì l’Iliade?
I conflitti nel Mediterraneo orientale ci sono noti dall’Iliade, da Erodoto, da Senofonte, da Demostene; i conflitti nel Mediterraneo occidentale soprattutto da Polibio. Nel corso dei secoli si è sostituita l’egemonia della repubblica imperiale romana all’egemonia dell’impero persiano, il cui erede fu l’impero di Alessandro Magno.
Qual è stato nell’antichità il ruolo della Sicilia, per metà greca, per metà cartaginese?
Non è esatto parlare di “ruolo della Sicilia”, direi piuttosto che il mondo punico aveva lì un avamposto con cui si scontrò l’insediamento coloniale greco, che fu all’origine di una grande potenza quale Siracusa. Siracusa sconfisse Atene nel 413 a.C. Due secoli dopo si alleò con Annibale ma la macchina militare romana riuscì a fiaccare anche il genio strategico del capo cartaginese, alle cui spalle s’era sfaldato il “fronte interno”.
Nel libro Mediterraneo una storia di conflitti arriva anche ad analizzare il presente. La drammatica sistuazione dei migranti, l’Europa che alza muri e la Turchia di Erdogan che apparentemente lotta contro il califfato e nei fatti attacca la minoranza curda. Dopo l’arresto del leader curdo Demirtaş ha spedito in carcere nove giornalisti del quotidiano Cumhuriet ed è stato chiesto l‘ergastolo per la scrittice Aly Erdogan. La situazione, dopo il tentato golpe, sta precipitando?
La situazione turca non sta affatto “precipitando” poiché è “precipitata” per così dire “da sempre” cioè dall’inizio della guerra fredda. Agli Stati Uniti e agli inservienti (cioè ai governi europei) la Turchia appare come il baluardo anti-russo, quale che sia il dittatore o non-dittatore che governa ad Ankara. La lotta di potenza antirussa continua: non importa chi governa a Mosca e quale sia il tipo di regime vigente in Russia. Oggi possiamo cogliere appieno il carattere disgustoso della propaganda “occidentale”.
Ecco il video della conferenza al Futura Festival dove il professor Canfora anticipava temi del libro, Mediterraneo, una storia di conflitti, ora pubblicato da Castelvecchi
Usa, la verde Jill Stein chiede il riconteggio delle schede in tre Stati. Potrebbe cambiare il risultato?

L’ultimo recount che ricordiamo è quello delle settimane del 2000 in cui il mondo aspettava di sapere come sarebbe finita tra George W. Bush e Al Gore. Quella volta le autorità dello Stato giocarono sporchino e i democratici scelsero di non aprire il finimondo e accettarono il verdetto sapendo che una “peaceful transition of power” (una passaggio dei poteri ordinato e pacifico) è alla base della tenuta di ogni sistema democratico: chi perde si fa da parte. Probabilmente sbagliarono allora, visti gli otto anni che il mondo ha dovuto subire a causa della reazione neocon agli attacchi dell’11 settembre. Su quella vicenda c’è un bel film HBO con Kevin Spacey che illumina sulla complessità dei processi, sul potere dei presidenti delle commissioni elettorali e sulla relativa astrusità del sistema elettorale Usa.
Che risultato può avere il riconteggio? Se Clinton dovesse aver vinto i tre Stati, il cambio di presidente. Sarebbe un risultato per certi aspetti paradossale: la candidata che ha fatto campagna per mesi dicendo che Trump o Clinton sono la stessa schifezza, contribuirebbe a far vincere la democratica. Il pericolo Trump e il fatto che nei due Stati in cui il margine di svantaggio di Hillary è inferiore ai voti presi da Stein, hanno contribuito al ripensamento. Un esito simile è comunque improbabile. I dubbi sulla legittimità del conteggio sono dovuti al fatto che il margine di vittoria di Trump, in Wisconsin, è molto più alto in tutte quelle contee in cui si votava con le macchine elettroniche invece che con la scheda. Il super esperto di numeri Nate Silver, indica però che se guardiamo a quelle contee e ne osserviamo la demografia scopriamo che hanno le caratteristiche dell’elettorato che vota Trump – a differenza di quelle dove si vota con la carta. Ciò detto, problemi con le macchine elettorali ce ne sono stati. Altro aspetto, sottolineato da alcuni esperti informatici è il possibile hackeraggio dei sistemi elettronici da parte di qualcuno. E cvisto che durante la campagna abbiamo avuto leak, mail rubate dagli hacker russi e passate a Wikileaks e altre cose di questo genere, contare a mano le schede anziché farle contare a una macchina, potrebbe essere utile.
I democratici e Clinton si trovano in una posizione ideale: non stanno ostacolando Trump, non hanno fatto ricorso, ma se si dovesse concretizzare la possibilità di una rivincita, avrebbero colto l’obbiettivo senza sporcarsi le mani.
Da ultimo, se Clinton vincesse in due Stati su tre e quindi il collegio elettorale si trovasse a essere ravvicinatissimo (una distanza di una decina di grandi elettori) le pressioni su coloro che dovranno eleggere il presidente, sarà enorme. La cosa complicherebbe il passaggio dei poteri ordinato. E poi altro che film con Kevin Spacey. Detto tutto questo, che ciò avvenga è del tutto improbabile.
Senza perdere la tenerezza. Lo sguardo di Letizia Battaglia

Dal 24 novembre 2016 al 17 aprile 2017 al MAXXI, Per pura passione, oltre 200 fotografie, provini e vintage print inediti di Letizia Battaglia, provenienti dall’archivio storico di questa grande autrice, insieme a riviste, pubblicazioni, film e interviste. E la presentazione di alcune foto stampate per la prima volta. In occasione della mostra romana ecco l’intervista di Left alla grande fotografa.
«Ce la fai con questa luce? Puoi fotografare quello che vuoi, essendo io fotografa non impedirò mai a nessuno di fotografare», dice Letizia Battaglia seduta in penombra a un tavolino del Caffè di Villa Medici, a Roma. «Non mi vorrai mica darmi del voi come al tempo dei fascisti? Dammi del tu. Lo sai, vero, che abbiamo poco tempo?». La sala conferenze dell’Accademia di Francia a Roma è già piena, tanti i giovani venuti ad ascoltare la grande fotografa italiana. A 82 anni Letizia non ha tempo da perdere e tanti progetti da realizzare, a cominciare dal Centro internazionale di fotografia a Palermo, che andrà a dirigere (gratis). La sua inaugurazione annunciata da tempo è stata, però, più volte rimandata. «Se non apre entro un mese mi trasferisco lì. Mi bastano una brandina, un po’ d’acqua e una tv», dice minacciando una pacifica occupazione. «Lavoro alla nascita di questo Centro da tre anni, ho sempre amato andare in giro a guardare il lavoro degli altri, dei giovani e poi dire la mia. Vorrei che diventasse un luogo dove ospitare le mostre di fotografi, di quelli grandi, non quelli solo famosi. Ci sarà una galleria di fotografi emergenti. Una parte di questi spazi disegnati dall’architetto Jolanda Lima sarà dedicata all’archivio della città di Palermo.
Quella dell’archivio è una parte che ti sta molto a cuore.
Mi eccita particolarmente. Chiederò alle famiglie, ai vecchi fotografi, ai grandi fotografi che sono passati da Palermo di regalare alla nostra città una parte del passato e del presente. Mi piacerebbe fossero ripercorsi 130 anni di fotografia. Ci sarà un bookshop perché voglio che la gente legga. Mi ruberanno i libri, ma non importa. E poi spazio per i corsi di fotografia. Tutto questo in un grande padiglione, sarà il più bello di Europa.
Sarà un archivio accessibile?
Sarà aperto a tutti. Purché con rispetto per la memoria di Palermo.
Tu hai raccontato la vita della città. Come sei riuscita a non perdere la tenerezza, la bellezza nello sguardo avendo tutti i giorni davanti agli occhi persone uccise dalla mafia?
Non ho perso la tenerezza, ma ho perso la testa. Questa voglia di bellezza è tenace in me. Nonostante tutto. C’è nella mia natura. Anche negli anni più duri. Magari era successo qualcosa di molto grave, un uomo giaceva per terra insanguinato, ma poi capitava di incontrare per caso una bambina con gli occhi innocenti e la giornata non era solo il morto ammazzato, c’era tutta la vita della città. Io non ne posso più di essere considerata la fotografa della mafia.
Dopo l’assassinio di Paolo Borsellino hai smesso di fotografare stragi. Hai cercato poi di superare quel momento drammatico anche inventando una drammaturgia per le tue foto storiche, provando a pensarle in nuovi contesti?
Il teatro l’ho praticato sempre. Intorno ai quarant’anni ho anche frequentato una scuola di regia. Alla mia età, non potendo più inseguire la cronaca, faccio altro. C’è stato un periodo in cui sognavo di bruciare i negativi perché mi ricordavano quegli anni terribili, pazzeschi, della mattanza. Realizzai un piccolo film in cui davo fuoco alle foto, ma non è bastato. Così ho pensato di usare quelle immagini come uno scenario e accanto mettevo dei nudi femminili, delle bambine, dei fiori, cose positive che spostano l’attenzione dal morto ammazzato.
Poi sono arrivati gli Invincibili?
Ne ho scelti quattordici. Non sono tanto dei riferimenti letterari, quanto autori e persone che sono state importanti per la mia vita. Fra loro c’è James Joyce. Che c’entra con me? C’è quel monologo di Molly Bloom che trovo straordinario, mi piace quella donna, l’ho fatto mio. E poi c’è Marguerite Yourcenar, non l’ho mai incontrata ma ha scritto Memorie di Adriano. Diceva io sono Adriano, come io dico: io sono Palermo. E poi Che Guevara e Rosa Parks. Sul mio comodino ci sono tutti, dormono insieme a me.
Sei sempre stata attenta al lavoro delle fotografe. Hanno uno sguardo in qualche modo diverso?
Dipende dalle donne. Se è la Tatcher che fotografa, lo fa come un uomo. Gli uomini lo sanno come siamo: un poco complicate. Comunque c’è qualcosa. Nei reportage lo riconosci subito. Nella fotografia creativa, non so. Certo se penso a Francesca Woodman lo vedi che è una povera ragazza, meravigliosa, piena di talento e donna.
Perché si distinguono nei reportage?
Mi sembra di vedere una differenza. Nelle foto di guerra meno. Riconosco come donna Marion Lamarque, Sully Man e Jane Atwood che faceva la postina per guadagnarsi il pane. In Italia non saprei. Mi piace soprattutto la fotografia americana. Non quella francese, neanche Cartier Bresson, ma adoro Depardon. Una volta amavo Diane Arbus, oggi sempre di meno. Mi sono staccata. Negli anni Settanta era considerata maestra di fotografia.
Diane Arbus è molto dura, feroce talvolta. C’è bisogno di immagini forti per scuotere?
C’è bisogno di verità. L’autrice di quella foto in cui si vede il bambino morto sulla spiaggia è una meravigliosa fotografa che io vorrei incontrare. Ha detto: io forse sono nata per fare quella foto. È una foto importante indicativa di una crisi gravissima, di un periodo, ha scosso le coscienze, speriamo. Si tratta di fare in modo che cose così terribili non accadano, ma non si può non denunciare.
C’è verità nelle foto che si vedono sui media?
Ho visto le foto dell’anno 2015. Erano belle, forti, andavano nel profondo. Ma i direttori non spendono più soldi per i fotografi, non li sostengono, non li mandano a fare i reportage, questi ragazzi come fanno a campare se non c’è spazio sui giornali per le belle foto? E anche quando ci sono foto che hanno una buona composizione, sono messe male, piccole, nere. Se aprivi Il mondo di Pannunzio vedevi delle grandi foto. Anche L’Espresso all’inizio era così. Negli ultimi anni ho visto tanti talenti morire. Dappertutto. In Francia hanno chiuso due grandi agenzie e quattrocento fotografi sono finiti in mezzo a una strada.









Le donne di tutto il mondo si sono unite. È nata l’Internazionale femminista. Ci vediamo a Roma il 26 novembre

Ci siamo. Mancano poche ore e – il 25 e 26 novembre – le donne di 22 Paesi del mondo manifesteranno, ognuna a suo modo: assemblee, scioperi, cortei, lezioni. In Italia, a Roma, con un corteo che attraverserà la Capitale a partire dalle ore 14 di sabato e domenica con un’assemblea per scrivere insieme un Piano antiviolenza nazionale. La chiamata italiana – #NonUnaDiMeno – è figlia di un percorso tra diverse realtà femminili e femministe, promosso dalla rete romana Io Decido, dall’Udi e dalla rete Dire, e che ha registrato migliaia di adesioni da tutta Italia..
È nata la prima Internazionale Femminista. Le donne di 22 Paesi del mondo si uniscono al grido di #NiUnaMenos
Il 25 novembre noi donne rivendicheremo il nostro tempo, smetteremo di fare ciò che ci viene imposto per dedicarci a quel che desideriamo fare: incontrarci, pensare assieme, prendere parola, occupare le strade, le piazze, appropriarci dello spazio pubblico e trasformarlo in uno spazio di accoglienza e di libertà di movimento per tutte. Metteremo in pratica la nostra utopia antipatriarcale. Per scongiurare la paura, per rendere visibile ciò che non siamo più disposte a sopportare e potenziare la nostra forza in ogni territorio. Per creare legami di solidarietà, reti di autotutela e cura tra di noi. Non vediamo nell’altra accanto a noi una rivale, come vorrebbe il patriarcato, ma piuttosto una compagna: diventiamo complici l’un l’altra creando una insolita alleanza.
Noi ci organizziamo: per questo il 25 novembre, qui e in tutto il mondo, ci riuniremo ed organizzeremo in molteplici e differenti forme: assemblee popolari, radio aperte, escraches, lezioni pubbliche, interruzione delle attività nei luoghi di lavoro, interventi artistici e politici nello spazio urbano.
Noi ci organizziamo e la nostra organizzazione è globale. Il 25 novembre confluiremo tutte assieme in una mobilitazione che connette Ciudad Juarez con Mosca, Guayaquil con Belfast, Buenos Aires con Seul e Roma. Questa articolazione nasce con lo sciopero delle donne, inaugura il nostro ottobre rivoluzionario e si proietta verso lo sciopero globale delle donne del prossimo 8 marzo.
Intrecciando lingue e superando frontiere, come fanno le donne migranti che sfidano l’illegalizzazione della nostra mobilità, emerge la ribellione contro la violenza, contro la femminilizzazione della povertà, contro il razzismo, contro l’assenza di rappresentazione politica, contro il tentativo di confinare le donne e le ragazze nello spazio domestico, contro i dogmi religiosi che si appropriano dei nostri corpi e delle nostre vite, contro la maternità come obbligo e contro la criminalizzazione dell’aborto, contro le nuove forme di sfruttamento capitalistico e la precarizzazione delle nostre esistenze. Contro le spoliazioni che avvengono su molteplici livelli, perché né la terra né i nostri corpi sono territorio di conquista.
In tutto il mondo, ci organizziamo con uno slogan comune: #NiUnaMenos #VivasNosQueremos #NosMueveElDeseo
Martin Schulz, il libraio di Aquisgrana che mancherà a Jean Claude Juncker

Martin Schulz lascerà il Parlamento europeo per cercare di cambiare la politica tedesca. L’annuncio ufficiale arriverà in giornata. Ma la conferma delle indiscrezioni – che circolavano da settimane -, risale a questa notte, quando, dopo una breve intervista telefonica, il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung ha diffuso la notizia
Martin Schulz, membro del partito socialdemocratico tedesco (Spd) fin dagli anni ’70, è stato sindaco della città di Aquisgrana, al confine tra Germania, Olanda e Belgio, dal 1987 al 1998. Uomo di cultura – di professione era libraio – e amante dello sport – da giovane sognava di fare il calciatore -, è ben visto nel partito come uomo dalla grande passione politica. Non da ultimo, Schulz padroneggia ben 5 lingue oltre il tedesco. Tra queste c’è anche l’italiano.
Tecnicamente, il Presidente del Parlamento europeo sarà capolista nel Land (regione, tdr.)Nord Reno Westfalia, ma è evidente che a questo punto nella Spd si aprirà un grande dibattito su chi dovrà correre per la posizione di Cancelliere. Sarà proprio Martin Schulz, o il Segretario generale Sigmar Gabriel a sfidare Angela Merkel? Intanto, rimane vacante anche la posizione di Ministro degli affari esteri. Il 54 per cento dei tedeschi vedrebbero bene Schulz nel ruolo.
In realtà, la partenza di Schulz dal Parlamento europeo rientra nel quadro di un accordo tra i due principali gruppi parlamentari di Bruxelles siglato dopo le scorse elezioni europee del 2014. Al tempo, socialdemocratici e popolari si erano accordati per un biennio a testa alla guida dell’istituzione. Probabilmente sarà Manfred Weber a prendere il posto di Schulz al Parlamento. Per ora abbiamo la candidatura di Alain Lamassure, vicepresidente francese della delegazione popolare.
Una settimana fa, Der Spiegel aveva anche fatto circolare la notizia che Jean Claude Juncker sarebbe tentato dalle dimissioni nell’ottica di un Parlamento europeo orfano di Schulz. Lunedì scorso però, un portavoce di Juncker ha smentito la notizia. Ma la fuga di indiscrezioni conferma l’importanza di Schulz negli equilibri istituzionali di Bruxelles e Strasburgo.
Intanto, mercoledì Jean Claude Juncker ha rilasciato una lunga intervista a Contexte. Il Presidente della Commissione europea ha parlato delle primarie francesi, dei conflitti tra i vari stati membri europei, degli scandali legati al nuovo incarico di Barroso presso Goldman Sachs e alle trasferte del Commissario Oettinger. Infine, Juncker ha parlato dell’importanza delle persone che parlano in termini positivi dell’Europa: «Difficile credere a qualcuno che si spende a favore di un progetto politico; è molto più facile seguire coloro che criticano». Con la partenza di Schulz, Juncker perde un alleato in questo senso. Ma forse, in questo momento storico, il libraio di Aquisgrana serve di più in Germania. In fondo, tutti hanno la sensazione che il destino dell’Europa dipende soprattutto da Berlino.
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L’omicidio di identità e le donne da ascoltare
Domani si celebra la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e sarà tutto il giorno una buriana di articolesse, editoriali, specialoni e promesse e celebrazioni. Sarà pieno di uomini che, al solito, si sentiranno investiti del ruolo salvifico, puntando sulla compassione espressa alle vittime e limitandosi a qualche formula di sconcerto sugli aggressori, sulla loro atipicità e di conseguenza condonandosi in quanto maschi. E via.
Mi sono detto, stamattina, che forse sarebbe il caso anche di ascoltarle le donne. Le donne che parlano di donne ad esempio oppure ascoltare le vittime, senza le solite mediazioni. Carla Caiazzo, ad esempio, oggi dà una lezione di politica a questo Paese che s’atteggia riformista: Carla è la donna sfigurata dal suo ex compagno Paolo Pietropaolo che ha pensato di darle fuoco per punirla dopo essere stato lasciato e ieri dopo la sentenza di condanna al suo aggressore (e dopo decine di operazioni) ha chiesto al Presidente della Repubblica Mattarella di valutare la possibilità di inserire nel codice penale “l’omicidio di identità” perché, dice Carla, “sfigurare è uccidere”.
L’idea è di una potenza e semplicità enorme: un reato è tale quando una legge ne definisce la colpa e sfigurare una donna è un attentato alla femminilità senza nemmeno bisogno di uccidere una femmina. L’avvocato di Carla racconta di aver ricevuto molte lettere di uomini che contestano l’inutilità di creare un reato specifico: il femminicidio, secondo loro, basta celebrarlo una volta all’anno. Tutto qui.
(A proposito: se siete a Roma giovedì, che è domani, alla fermata Piramide l’Atac celebra il suo decimo bookcrossing con libri scritti da donne e sulle donne. Perchè viaggino le idee oltre alle metropolitane. E leggendo dell’iniziativa mi sono detto che sarebbe bello istituire un servizio pubblico di buone idee, anche. Che poi sarebbe la politica. Appunto.)
Buon giovedì.







