Francesco Tonucci, ricercatore al CNR dal 1966, psico-pedagogista del CNR conosciuto con lo pseudonimo di Frato, è ideatore del progetto pedagogico e urbanistico “La città dei bambini”, che nel 2001 vide Roma come città capofila. Lo abbiamo incontrato in occasione del percorso “100 Rodari” che sabato 18 maggio fa la sua seconda tappa alla scuola primaria “Giorgio Perlasca” a Montecucco-Trullo (Roma). Insieme al nido “Loris Malaguzzi” e alla la scuola dell’infanzia “La Torta in Cielo”, la scuola Perlasca ha creato percorsi di continuità in cui bambine e bambini partecipano attivamente all’organizzazione della scuola.
Lei è stato insegnante prima che ricercatore, cosa ricorda di quegli anni tra i banchi come figura educante?
La mia esperienza come insegnate è avvenuta prima di entrare al Cnr, pensavo che l’insegnamento nella scuola sarebbe stata la mia professione. Avevo studiato alla Cattolica di Milano, nell’indirizzo di Pedagogia, anche se era essenzialmente una Facoltà con formazione molto forte in Filosofia classica.
La pedagogia veniva insegnata poco, attraverso testi ed esempi che avrebbero dovuto essere rinnovati; fu la filosofia ad appassionarmi, da li presi fonti di ricerche. Mi sembrò quindi naturale insegnare, e insegnai nelle seconde medie come professore di Lettere. Cercavo di essere un buon insegnante, avevo difficoltà a sentirmi preparato, ma cercavo di non manifestare le mie lacune agli alunni. Un altro aspetto fondamentale era incuriosirli, sollecitarli nella creatività, non farli annoiare come mi ero annoiato io a scuola, essere accogliente, dopo di che essere giusto, cioè, supporre di esserlo. A fine anno fare le valutazioni correttamente: premiare i meritevoli e non premiare invece chi non era stato tale, dunque, ritenere la bocciatura giusta come misura di giudizio.
Continuò a pensarla così negli anni o cambiò il suo modo di vedere la Scuola?
Nel ’66 entro al CNR, lavoravo con colleghi che si occupavano di ricerca sui bambini, ma ancora con ricerche tradizionali e quantitative, su campioni. Tra il ’67 e il ’68 tante cose cambiano nella mia vita e intorno a me, comincio ad avere un’idea diversa di cosa significasse l’insegnamento, e non pensare più la bocciatura giusta come misura di giudizio. Nel 1970 avviene un accadimento importantissimo che cambia il mio modo di vedere la scuola rispetto a prima, leggo “Il paese sbagliato” di Mario Lodi, era stato pubblicato da poco, scrivo subito all’autore con il desiderio di conoscerlo. Seguirò da quel momento l’esperienza di Lodi, soprattutto la sua ultima esperienza scolastica, andando a trovarlo varie volte a Vho di Piadena; divento abbonato di un giornalino quotidiano stampato a limògrafo, poi a ciclostile: questo giornalino, redatto con la sua classe, esce per cinque anni, tutti i giorni, unico caso nella storia pedagogica. Universale Laterza ne pubblica la raccolta in cinque volumi de “Il Mondo”, ogni libro un anno scolastico; chiedono a me di scrivere un sesto libro che doveva essere di aiuto alla lettura, un’analisi critica di questi giornalini “Guida al giornalino di classe”. Quindi la mia “conversione” definitiva all’idea del bambino protagonista con tutte le sue possibilità mi arriva chiaramente nel 1973, grazie alle parole di Mario che, solo dopo una settimana passata in classe coi bambini di prima elementare, scrive ai genitori di questi: “Dopo una settimana passata con i bambini posso affermare che essi sono tutti di normale intelligenza, pur rivelando evidenti differenziazioni di carattere, e diversi livelli di maturazione, dovuti in gran pare alle situazioni ambientali in cui ogni bambino è cresciuto. I bambini quindi, salvo imprevedibili fatti di eccezionale gravità, sono promossi sin da ora alla quinta elementare, con la garanzia del raggiungimento della preparazione minima richiesta dai programmi scolastici. Se questo non si verificherà la responsabilità sarà del maestro e della scuola, per non aver messo in atto le tecniche educative adatte per sviluppare al massimo le attitudini naturali e l’intelligenza del bambino” Ecco, questo è un riassunto che uso spesso per dire chi è per me un buon maestro, e cos’è per me la scuola. Mario aveva da sempre fatto la scelta di stare dalla parte dei bambini. Per questo siamo stati vicini e solidali. Le collaborazioni sono state diverse, come l’esperienza editoriale importante molto formativa della Biblioteca di Lavoro, e l’esser introdotto nel Movimento di Cooperazione Educativa, del quale faccio ancora parte.
Pensa che i diritti dei bambini vengano rispettati come si dovrebbe?
Si tenga conto che nella Convezione dei diritti del Bambino, che quest’anno compie trent’anni, ma che continua ad essere sostanzialmente sconosciuta, nell’Art.29 si parla del Diritto all’educazione, inizia così: Gli Stati parti convengono che l’educazione del fanciullo deve avere come finalità: a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità.
Anche solo con queste righe capiamo che i programmi e i libri di testo scolastici c’entrano ben poco con l’educazione. La Scuola, come ente formativo dovrebbe, insieme alla famiglia, essere capace di promuovere le capacità dei bambini. Quindi dietro questo discorso c’è un pensiero fondamentale, quello che tutti i bambini hanno delle capacità.
Sono importanti le materie artistiche nell’infanzia?
Certamente, nell’educazione in generale e nella scuola, che ha uno scopo: quello di sviluppare le naturali capacità degli allievi. I bambini sono predisposti alle attività artistiche, bisogna aiutarli a scoprirlo, icoraggiarli, non sono così radicale da pensare di doversi dedicare solo a quello che più piace, ma prevalentemente, specialmente, si, è la strada per un’educazione corretta, per sentirsi realizzati, per sviluppare al meglio delle attitudini. La scuola ha come obbligo quello di promuovere, e non perché sono bravi gli alunni, ma perché è brava la scuola come dice Lodi, brava a trovare le tecniche adeguate in modo che ogni bambino possa sviluppare al meglio le sue capacità.
C’è la possibilità di creare nella scuola nuove proposte e anche nuovi ambienti per fare in modo che questo accada?
Sì. Una scuola completamente diversa, dove si rinuncia all’aula e si hanno laboratori, in cui la conoscenza e la pratica scolastica siano un viaggio, un percorso dove i bambini vivano un’esperienza in quello spazio perchè è creato per quella esperienza e da quello spazio si spostano in un altro spazio che ha in sé competenze diverse; questi dovrebbero essere luoghi dove si sviluppano certamente le materie come: la matematica, la scienza, la geografia, l’italiano, ma anche il teatro, la danza, la pittura, l’orto, l’officina. Dove si possono sviluppare i diversi linguaggi e le diverse intelligenze.
Come nasce la sua ricerca approfondita sull’infanzia e sulla pedagogia?
Osservandola. La mia esperienza pedagogica è di una persona che è stata dentro le scuole con ruoli diversi. Sono stato responsabile della formazione della scuola sperimentale di Corea di Livorno per lungo tempo, e da qui è nato un libro “A tre anni si fa ricerca”, poi come educatore, ricercatore in diverse sedi scolastiche anche della campagna romana. Ho avuto la fortuna di essere molto vicino, anche come amico, a Loris Malaguzzi e poter seguire grazie a lui tutta l’esperienza delle scuole reggiane. E anche grazie al rapporto coi miei figli che sono arrivato a capire chi è un bambino. I bambini prima di tre anni sanno molte cose, anche in maniera inconsapevole, e sbagliando ci dicono tanto. Nelle mie proposte agli insegnanti suggerisco sempre di fare molta attenzione agli errori. L’errore è un elemento importante, una finestra aperta sui bambini per capire fin dove arrivano, perché a far bene basta imparare; la correttezza a volte è frutto di un adeguamento, di una convenzionalità, ma a sbagliare bisogna farlo da soli, scoprendo così, attraverso l’”errore”, delle cose, delle particolarità, che sono di quel bambino. E molti errori visti e sentiti li cito nei miei libri, come per esempio quelli grafici, nelle irregolarità delle prospettive, comuni da trovare nei loro disegni. Il disegno del bambino non è percettivo, ma cognitivo, nel disegno il bambino non disegna quello che vede, disegna molto di più, disegna quello che sa!
Come dovrebbero guardare all’infanzia le insegnati e gli educatori?
Dovrebbero volere una scuola che preveda i primi anni di sviluppo come importanti ed esplosivi della creatività. Pensare al bambino non come un essere da custodire e tutelare in funzione al fatto che diventerà importante solo dopo e quindi l’idea dei bambini tutti uguali, l’idea del futuro cittadino omologato.
La società e la cultura dovrebbero capire che non abbiamo bisogno di bambini tutti uguali; le insegnati stesse gradiscono arrivino in prima elementare senza saper né leggere né scrivere perché l’importante, per loro, è di prenderli e portarli a gli stessi livelli per poi poterli valutare e pensare di aver offerto a tutti la stessa lezione, credendendo questo sia democratico, chiedendo poi all’alunno il compito di dover approfittare delle ricchezze che ha ricevuto. Beh, se invece capissimo che i bambini sono tutti diversi perché le esperienze di ognuno sono diverse e quando si incontrano si incontrano persone che, diverse tra loro, possono arricchirsi a vicenda, potremmo avere un’azione educativa rivoluzionaria, dove non si ascolterà più l’adulto che sa, ma bambini che lavorano tutti insieme. Quindi, tutto quello era la difesa dell’uguaglianza intesa come omologazione deve cedere il posto alla valorizzazione della diversità, anche nelle età, e farli incontrare in classi aperte, il gruppo classe dovrebbe essere eterogeneo. L’”uguaglianza” dell’età, così come quella delle aule, c’è solo a scuola, ma in questo modo non hanno un confronto e scambi reciproci tra di loro.
Nel suo libro “Con gli occhi del bambino” fa una dedica a Gianni Rodari, che da poco ci aveva lasciati, era il 1980. Sceglie la poesia “Un signore maturo con un orecchio acerbo”, perché proprio quella?
Successe che tempo prima illustrai il suo libro Parole per giocare e quando diedi i disegni a Gianni gli chiesi una promessa (era l’ottobre del 1979), quella che presentasse il mio libro “Con gli occhi del bambino” – tra l’altro interessanti questi due titoli vicini, uno parla degli occhi, uno dell’orecchio però il discorso è lo stesso perché la funzione dell’orecchio acerbo è di ascoltare i bambini quando gli adulti non sono capaci. – Mi piace pensare che Gianni, come scrivo nella dedica, avrebbe presentato questo libro scrivendo una poesia e allora me la sono scelta da solo, sperando che queste mie tavole rivelassero un orecchio abbastanza … acerbo.
Chi è FRATO e come nasce?
FRATO è lo pseudonimo che ho usato e che uso per firmare le vignette che disegno. Sono le due sillabe iniziali del mio nome e cognome.
Ufficialmente la racconto così: non volevo far sapere chi era l’autore di quei disegni, ritenevo, forse, l’attività di basso livello e scientificamente debole, per molto tempo infatti non si è saputo chi era FRATO.
In realtà sentivo di esser nato per diventare pittore e dedicarmi a questo, posso dire è rimasta in me una dimensione artistica che mi ha accompagnato tutta la vita: ho disegnato, dipinto, fatto scultura… ho avuto un maestro,William Congdon della scuola di Pollock che mi propose di andare a studiare a spese sue a NY, ma non ebbi il coraggio di lasciare quello che avevo iniziato a costruire. Poi però, nel ’66, quando entro al CNR, un collega che stava lavorando sul test di Rorschach – con esempi sull’aggressività non verbale – doveva provare i test ai bambini, sapendomi capace di disegnare, mi propose di aiutarlo; da questa ricerca chiamta Tema 9. Test di frustrazione per bambini in età prescolare comincio a disegnare piccoli personaggi. Questo tipo di ricerche venivano pubblicate su riviste di valore scientifico, quindi le insegnanti difficilmente le avrebbero viste. Era il 68′ cambiavano molte cose, pensai dunque che i miei disegni in quel momento storico potevano e dovevano avere anche un rapporto più diretto con il pubblico. E in quello stesso anno esce la prima vignetta di FRATO.
In Spagna conoscono molto di più FRATO, ha ricevuto anche un honoris causa. I miei libri sono stati pubblicati spesso da case Editrici spagnole e una mostra con centinaia di tavole ha girato e gira ancora in molte città della penisola ispanica. Ho cercato sempre, in quelle vignette, di denunciare le scorrettezze educative di noi adulti, che spesso pensiamo i bambini non capaci di comprendere il mondo che li circonda. FRATO
Nel 1991 ha realizzato nella sua città natale, Fano, il progetto La città dei bambini, che consisteva nel creare una città in cui i bambini fossero protagonisti. Il progetto si è diffuso in altri luoghi di Italia, e molto nell’America del Sud. Quanto è importante che l’infanzia e l’adolescenza abbiano la possibilità di decidere sugli spazi che vivono?
Il progetto è di politica amministrativa. Il libro “La città dei bambini” spiega l’importanza di un progetto di governo della città a misura di infanzia pensato insieme ai bambini, con un Laboratorio formato anche da operatori, da architetti e urbanisti. La città, così come la viviamo ha smesso di essere luogo di incontro e scambio soprattutto per i più piccoli. Sul libro c’è una divisione in capitoli che ne spiega il possibile processo e La convenzione internazionale sui diritti del fanciullo nei suoi punti. Nessuno può pensare ai bambini senza preoccuparsi di consultarli, coinvolgerli, di ascoltarli. Far parlare i bambini non significa risolvere i problemi della città, creati da noi, significa invece imparare a tener conto delle loro idee e delle loro proposte. Occorre poi molta curiosità, attenzione, sensibilità, semplicità. I bambini possono essere progettisti, offrendo le loro idee le loro proposte alle soluzioni dei diversi problemi urbanistici. Bisogna riportare i bambini ad osare, a desiderare, ad inventare e allora salteranno fuori le idee, le proposte, i contributi. Un Consiglio di bambini quindi per cambiare la città e non per far contenti i bambini.
Oltre all’uscita Un nonno per amico edito da Orecchio Acerbo uscirà sempre nel 2019
Manuale di guerriglia urbana per bambine e bambini che vogliono difendere i loro diritti, edito da Zeroseiup, è un piccolo libro di lotta da leggere, ma soprattutto da far leggere alle bambine e ai bambini.