«Le risorse europee per il Meridione restano al Sud e vanno spese», dice il ministro Giuseppe Provenzano a Left e aggiunge: «Non esiste ricostruzione senza giustizia sociale e ambientale»

La pandemia da Covid-19 ha aumentato ulteriormente le disuguaglianze in Italia. E il Sud continua a pagare un prezzo particolarmente alto su questo piano, come rilevano numerose ricerche, comprese quelle dello Svimez, di cui il ministro per il Sud e la coesione territoriale Giuseppe Provenzano è stato vice direttore dal 2016 fino a quando è entrato a far parte del governo Conte II.

Ministro Provenzano c’è chi dice che gli interventi previsti dal governo non siano sufficienti. Si potrebbe fare di più?
La crisi sanitaria, economica e sociale che stiamo vivendo è una grande tragedia collettiva. Si dice che le tragedie uniscano, e in parte è vero. Ma allo stesso tempo fanno emergere e mettono in risalto le fragilità e rischiano di allargare le disuguaglianze, che nel nostro Paese hanno sempre una forte connotazione territoriale. Se la crisi sanitaria ha colpito soprattutto le Regioni più sviluppate, la ricaduta economica e sociale al Sud si somma a fragilità strutturali e alle ferite non ancora sanate dalla crisi precedente. Come governo, abbiamo mobilitato risorse senza precedenti nella storia d’Italia. In due mesi, 80 miliardi in deficit, quello che solitamente si fa in 4 o 5 manovre di bilancio. È stato necessario, per “non lasciare indietro nessuno”. Si può sempre fare di più. Io, per dire, avevo chiesto che il Reddito di emergenza valesse per tre mesi e non solo per due. Nel complesso, rivendico di esserci mossi per salvare il tessuto imprenditoriale ma anche quello sociale. E, me lo lasci dire, per la prima volta in una crisi di queste dimensioni, a pagare il prezzo non è stato il Sud. Nel decreto Rilancio l’impegno del ministro della Salute Roberto Speranza per aumentare i posti letto in terapia intensiva riguarda per quasi il 40% il Sud.

Lei, tuttavia, ha parlato di un necessario lavoro di ricucitura territoriale…
Sì, l’Italia ha bisogno di un lavoro di ricucitura territoriale, per questo nel decreto c’è un forte sostegno alle aree interne, non ridotte a un “piccolo mondo antico”, ma attraverso servizi moderni, innovazione produttiva e sociale, attenzione trasversale per la sostenibilità. Ma ha bisogno anche di ricucitura sociale, che le istituzioni non possono fare da sole. Il Terzo settore nel Mezzogiorno è un valore in sé, e per questo lo sosteniamo investendo 120 milioni. Le scelte che abbiamo preso per il Mezzogiorno indicano, credo, un percorso per tutto il Paese.

I fondi europei di coesione destinati al Sud potrebbero essere stornati?
No, l’ho detto in Parlamento e lo ripeto. Mettere in contrapposizione sviluppo e riequilibrio territoriale è un errore del passato, da non ripetere. Ricordo che tra il 2009 e il 2011, con l’allora ministro Tremonti, circa 26 miliardi di spesa in conto capitale vennero dirottati dal Sud per coprire spese nazionali. A pagare le conseguenze del mancato investimento nel Mezzogiorno è tutto il Paese. L’Italia, per rialzarsi, deve sanare le sue fratture sociali e territoriali. Ecco perché la riprogrammazione delle risorse europee e nazionali della coesione va fatta, ma nel rispetto dei vincoli territoriali. Un momento dopo che abbiamo sancito che le risorse restano al Sud, infatti, vanno spese. Recuperando i ritardi del passato, che erano uno scandalo prima e ora, con l’emergenza economica e sociale, diventerebbero un crimine. Detto questo, dobbiamo evitare un altro spreco: che queste risorse, pensate per investimenti strategici, per i quali abbiamo previsto con legge un meccanismo di salvaguardia, vadano a finanziare spese a pioggia, prive di coordinamento con le misure nazionali. Per questo ho proposto, d’accordo con la Commissione, delle linee guida nazionali per la riprogrammazione: questa riprogrammazione dev’essere l’occasione per rafforzare in maniera strutturale gli interventi sanitari, per colmare il divario digitale a partire dalla scuola, per sostenere i settori più colpiti anche con aiuti al circolante, per promuovere innovazione sociale con i Comuni e con le reti della cittadinanza attiva.

Ripartire dal Sud dove la pandemia ha avuto minore diffusione. Poteva essere un’occasione per evitare rischi di nuova esplosione del contagio nelle fabbriche del Nord e intanto per creare lavoro nel Meridione?
Per la verità, la scelta difficile del lockdown ha impedito che al Sud dilagasse il contagio e ci ha dato tempo prezioso per attrezzare il sistema sanitario meridionale a fronteggiarne un’eventuale esplosione. Sono tuttavia consapevole delle sue conseguenze drammatiche. La pandemia si abbatte su un mercato del lavoro più debole, su un tessuto economico più fragile, in cui hanno una forte incidenza settori molto colpiti, tra cui la filiera del turismo. Secondo le stime Svimez, il Sud a fine anno potrebbe trovarsi sotto di 15 punti di Pil rispetto al 2008, un dato senza precedenti nella storia contemporanea. È una prospettiva insostenibile, da scongiurare con coraggio, rilanciando gli investimenti, perché solo così si crea lavoro.

Poco prima del lockdown lo scorso febbraio lei aveva presentato il Piano Sud 2030, ora che ne sarà?
Per certi versi, il Piano Sud 2030 diventa ancora più attuale. Non solo per le missioni di investimento individuate: scuola, salute, connessione digitale, sostenibilità. Ma per un punto di fondo. L’Italia deve riaccendere i motori, si dice. Ecco, bisogna accenderli tutti, compresi quelli che prima giravano piano o erano rimasti a lungo spenti. Un Paese di 60 milioni di abitanti non può farcela puntando solo su poche aree urbane e su alcune imprese “gazzelle” in grado di competere nel mondo.

Come sottrarre il Sud al ricatto delle mafie che approfittano degli effetti della pandemia per riguadagnare terreno?
Sappiamo che nelle crisi le mafie approfittano dei vuoti dello Stato, dei ritardi della liquidità e delle risposte sociali, per incunearsi con la loro risposta criminale. Le istituzioni non si sono fatte trovare impreparate, credo: hanno avvertito il rischio – che io per primo ho sollevato – e mantenuto alta l’attenzione. Lo stesso giorno in cui intelligence e forze dell’ordine lanciavano l’allarme, il varo di un piano di aiuti alimentari di 400 milioni ha mostrato il volto di uno Stato che non vuole lasciare spazi alle mafie. La sicurezza si difende rafforzando gli argini sociali, dando risposte ai bisogni. Le mafie, dobbiamo ricordarcelo, coinvolgono tutto il territorio nazionale, ma al Sud c’è un motivo di preoccupazione ulteriore: il rischio di fallimento delle imprese meridionali è di quattro volte superiore che per quelle del Centro-Nord. Ed è qui che può indirizzarsi l’offerta di soccorso mafiosa. Dobbiamo arrivare prima noi. Dobbiamo essere più veloci. Questo significa migliorare sul fronte degli aiuti, ma anche in prospettiva, nella vera fase di rilancio degli investimenti, rifiutare la falsa alternativa tra controllo di legalità e semplificazione. Un commissariamento generalizzato, a parte il fatto che è impraticabile, non risolve il problema di un’amministrazione sempre meno capace di realizzare investimenti. Io ho proposto un percorso di semplificazione fondato su centrali di committenza unificate, standardizzazione e digitalizzazione delle procedure e dei bandi, che può metterci al riparo dalle infiltrazioni mafiose e al tempo stesso accelerare gli investimenti.

L’accordo che è stato trovato per far emergere i lavoratori “invisibili” è un «compromesso onorevole», lei ha detto. L’ala di destra del M5s ha creato molti ostacoli. Perché il Movimento, che ha fatto della legalità una sua parola chiave, ha frenato su un provvedimento per liberare i lavoratori dall’oppressione del caporalato?
C’è stata una discussione complessa all’interno del governo, riflesso dello scontro che su questi temi c’è nel nostro Paese. Mi dispiace che non ci sia stato lo spazio politico di fare di più, ma abbiamo ottenuto il massimo nelle condizioni date. Non è il caso di esultare, perché si tratta di un atto minimo di civiltà. Verso persone, non braccia. Sì, confermo, lo ritengo un compromesso onorevole e vedo che sta passando un messaggio errato, e cioè che si prevedono solo sei mesi di permesso temporaneo. Non è così. Con un contratto di lavoro si ottiene un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, e se scade il contratto c’è un anno di tempo per trovarsi un lavoro. I sei mesi sono solo una possibilità in più per trovare un impiego nella legalità, per chi il contratto ancora non ce l’ha. Quanto al Movimento 5 stelle ho espresso rispetto per il suo travaglio interno, ma anche questa vicenda mostra, una volta di più, che deve fare chiarezza sulla sua natura politica. Perché non siamo in un terreno politico “post-ideologico”, qualunque cosa ciò significhi. Tutt’altro: le scelte difficili che prendiamo e prenderemo in questa fase non indeboliscono bensì rafforzano l’alternativa tra destra e sinistra.

Per risolvere alla radice questa enorme questione di ingiustizia sociale che riguarda lo sfruttamento di lavoratori immigrati bisognerebbe abolire la Bossi-Fini. Perché i governi di centrosinistra non l’hanno ancora fatto?
Avrebbero dovuto farlo i governi di centrosinistra negli anni scorsi, perché i rapporti di forza parlamentari erano ben diversi. Ora, la revisione non solo dei decreti Salvini, ma anche della disciplina generale sull’immigrazione era al centro della discussione sul governo, prima della pandemia. Dobbiamo riprenderla, fuori dalle bandierine ideologiche, facendo i conti con una verità: molte di quelle norme non sono solo ingiuste, sono criminogene. Il nostro compito è spingere per ottenere il massimo possibile nella situazione attuale.

Nel suo libro La sinistra e la scintilla (Donzelli) si legge «Occorre la forza e il coraggio di dedicarsi a un compito difficile, tornare a lottare per una società più giusta, che persegua la libertà nell’uguaglianza. Ci sono momenti nella storia come nella vita, in cui salvare se stessi e gli altri diventa una necessità vitale. E forse è arrivato uno di questi momenti». Lei lo scriveva l’anno scorso. La pandemia ora ci ha resi più consapevoli dell’interconnessione che ci lega, della necessità di una società più giusta e solidale?
Credo che questa tragedia non sia stata ‘a livella di Totò. Non ha colpito tutti allo stesso modo, non è stata dolorosa allo stesso modo per tutti. Come un pettine che, dopo molto tempo, va a lisciare una chioma arruffata, il Covid-19 ha mostrato tutti i nodi di questo Paese: l’eccessiva frammentazione del sistema sanitario nazionale, gli enormi squilibri tra territori, le diseguaglianze sociali sempre più profonde. Pensi a quanto è diversa l’esperienza della quarantena per un bambino, uno studente, che vive in centro a Roma o Milano e può connettersi a Internet con la fibra ottica da quella di un suo coetaneo che – magari – abita in quei paesi dell’Appennino dove non è ancora arrivato nemmeno il 4G. Oppure il rientro al lavoro di un manager che può sfruttare il lavoro agile, paragonato a quello di un lavoratore edile o di un operaio. In queste settimane abbiamo riscoperto l’importanza dei territori, di tutti i luoghi. Anche la disuguaglianza si combatte stando nei luoghi, e questo è il senso del mio Ministero, in cui provo a mantenere almeno una parte dell’ispirazione di fondo che anima il mio impegno politico. Dalla concentrazione dobbiamo passare alla diffusione dello sviluppo, dalla contrapposizione territoriale all’interdipendenza. Questa parola, così simile a “interconnessione”, nella crisi sembra avere assunto un nuovo significato, che risale alle nostre vite quotidiane ma riguarda anche i nuovi equilibri dello sviluppo, sociali e territoriali, e il rapporto tra uomo e natura. Si è evocato lo spirito della ricostruzione, in questi giorni. Ecco, non esiste ricostruzione senza giustizia sociale e ambientale.

È l’occasione perché la sinistra torni a fare la sinistra?
Credo ci sia ancora molto da imparare dalle grandi riflessioni dei classici che, in un modo o nell’altro, avevano saputo vedere ben oltre le nebbie dei loro tempi. Penso a Karl Polanyi e al suo libro sulla “Grande Trasformazione” del 1944: l’utopia di un mercato autoregolato, il pericolo dell’autoritarismo, il rapporto tra libertà, tecnologia, sensibilità sociale. Non parla forse del nostro tempo, se lo leggiamo con attenzione? Una delle cose mancate di più nella crisi precedente, la Grande recessione, è stata proprio la capacità di riconoscere l’attualità dei classici, di tornare a indagarli per formare non solo la riflessione degli studiosi, ma anche la cultura politica. Nei mesi scorsi insieme a Emanuele Felice abbiamo provato a ripercorrere le vicende del socialismo e del liberalismo. Ne è scaturito un dibattito interessante tra giovani sulla rivista Pandora. Il neoliberismo ha tradito il pensiero liberale, fino a travolgerne le fondamenta, a minare il rapporto con la democrazia. Io credo che le ragioni di un socialismo democratico, l’uguaglianza nella libertà, siano più attuali che mai e si nutrono di un pensiero che sempre ritorna: la centralità dell’umanesimo per costruire una società più giusta. La sinistra può e deve ripartire da qui niente di più e niente di meno.

L’intervista è stata pubblicata su Left del 22 maggio 2020

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