Lunedì notte è stata una lunga notte per chi vive a Washington. L’attuale occupante della Casa Bianca ha voluto dimostrare qualcosa. Le proteste erano in corso da giorni in risposta al brutale omicidio di George Floyd, morto dopo essere stato soffocato per 8 minuti e 46 secondi dal ginocchio di un ufficiale di polizia nella città di Minneapolis. Floyd era stato trattenuto con un fragile pretesto, aver provato a fare un acquisto con una banconota da 20 dollari falsa.
Nella calura di questa prima estate, le proteste sono iniziate spontaneamente. E si sono presto surriscaldate. Sono stati incendiati edifici a Minneapolis, cittadina di medie dimensioni vicino alla foce del fiume Mississippi, quella grande via d’acqua che corre attraverso il Paese fino al Golfo del Messico a New Orleans, una sorta di argine ma anche di simbolo della ricchezza naturale e delle forze che sono emanate da questa terra. Le proteste hanno poi preso corpo iniziando a espandersi nel resto del Paese, anche qui a Washington, la capitale della nazione.
È importante ora ripercorrere alcuni fatti di cronaca. Il pomeriggio del primo giugno, dopo essersi nascosto in un bunker mentre la folla si riversava per le strade, l’occupante della Casa Bianca ha deciso di parlare al “popolo americano”. Donald Trump lo ha fatto parlando retoricamente di «sicurezza», in un modo consacrato da tempo, parlando di «legge e ordine», usando una dozzina di altri termini che i bianchi in America hanno sempre usato per parlare di una pace costruita sulla repressione delle persone che hanno un altro colore di pelle. Trump usava uno stile e un immaginario che risalgono ad un altro tempo, quando il continente era diverso. Dopo riferimenti agghiaccianti alle «grandi e belle» forze armate statunitensi, ha attraversato la piazza che porta dalla Casa Bianca fino alla chiesa di St. John. Piuttosto che affrontare i manifestanti pacifici riuniti fuori parlando con loro – come hanno fatto in passato anche altre figure di destra, perfino Richard Nixon – si è fatto aprire un varco dalle forze di sicurezza che sparavano gas lacrimogeni. Trump voleva che i fotografi lo immortalassero mentre attraversava la piazza fino alla chiesa. Una scena che riporta alla mente la figura di Mussolini di fronte a San Giovanni, a Roma, mentre le sue mani piccole e goffe armeggiavano con una Bibbia…
Chi ha un minimo di sensibilità, sobbalza di fronte alle immagini di questi eventi. Eppure Trump le ha immediatamente usate come pubblicità per la sua campagna presidenziale.
Ma torniamo alla cronaca del primo giugno 2020, di sera, quando per noi abitanti della città di Washington è scoppiato il caos. Tutta la notte è stata un’esplosione di sirene, di proiettili sparati per strada – poco lontano da dove abito – di macchine della polizia che sfrecciavano nelle aree residenziali. Ad un certo punto ne ho contate venti, tutte di fila. A poca distanza da me, un cittadino della nostra bella città ha protetto decine di manifestanti mentre le forze di sicurezza, fuori, li minacciavano. Ha offerto loro un riparo. Così sono potuti tornare a casa, senza mandati di arresto.
La storia è più forte quando la leggi in un libro di testo, ma dobbiamo provare a fare storia nell’immediato. Come bianco americano sono in difficoltà nel raccontare quel che succede. In America, molti di noi hanno creduto a lungo che non potesse succedere qui. Ma quelli di noi che vivono quotidianamente credendo che, nonostante i nostri problemi, la democrazia prevalga sempre, si trovano di fronte alla dolorosa evidenza che molti cittadini statunitensi non hanno affatto vissuto in una democrazia. Non è possibile leggere i nostri libri di storia senza pensare a chi è stato oppresso, al loro lavoro sfruttato per il benessere degli altri…
La rabbia e l’inquietudine che ho provato e che anche i miei vicini hanno sperimentato, lunedì notte, quando le sirene della polizia si sono scatenate, con le pale degli elicotteri che ci giravano sulla testa…
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