Inquinamento, consumo di suolo che minaccia una penisola già fragile dal punto di vista idrogeologico, sfregi al volto del paesaggio. Dopo i mesi di lockdown, dopo aver sgranato gli occhi di fronte alla natura che tornava a respirare e a riprendersi spazi, è già ricominciata la corsa distruttiva perché “si deve far ripartire l’economia”. Perché bisogna tornare a produrre e a crescere. Senza domandarsi quale crescita sarebbe auspicabile.
È la solita prassi cieca di voler trasformare il mondo senza trasformare se stessi. La stessa che vediamo in azione da quando il capitalismo si è imposto come pensiero unico, addirittura come ultimo orizzonte della storia, quasi fosse un dato di natura e non un fatto storico-culturale e, come tale, modificabile. Economisti e politici neoliberisti, dai Chicago boys alla Thatcher e Reagan, fino a Blair e ai suoi epigoni nostrani ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che non c’è alternativa. Nel mondo dei cittadini ridotti a meri consumatori l’unica felicità possibile è quella paradossale, fugace e anestetica del comprare merci, come se non ci fosse un domani, annullando ogni dimensione non cosciente, come se non esistesse la possibilità di potersi realizzare come esseri umani.
C’è qualcosa di profondamente malato nel modello di vita che ci viene proposto e imposto. Un modello di capitalismo predatorio che in Italia si traduce in capitalismo parassitario e familistico come è quello di gruppi industriali che dopo aver goduto di fondi pubblici, aver delocalizzato e spostato la sede in paradisi fiscali, tornano scandalosamente a chiedere ulteriori soldi allo Stato. Come ricordava la settimana scorsa su Left Giulio Cavalli sono numerose le aziende, anche editoriali, che avendo fatto utili in tempo di pandemia ora non si peritano a chiedere aiuti pubblici e cassa integrazione. “La democrazia secondo Confindustria” abbiamo scritto la settimana scorsa in copertina stigmatizzando le richieste corporative di chi ha anteposto le ragioni della produzione e del profitto a quelle della salute e del lavoro in sicurezza. Non stiamo parlando di responsabilità penali, quelle eventualmente le accerterà la magistratura, ma certamente di responsabilità culturali, di indirizzo, nel cercare di imporre un paradigma di pensiero per cui la tua vita vale solo se produci. Responsabilità culturali tanto più gravi perché il paradigma capitalistico che rivendica di essere scientificamente fondato si è dimostrato del tutto incapace di affrontare la pandemia.
L’aziendalizzazione della sanità, la salute trattata come fosse una merce, la massimizzazione del profitto anteposta al benessere delle persone hanno prodotto la tragedia che sappiamo. Il modello lombardo è stato incapace di programmare una efficace risposta alla crisi sanitaria. Altrimenti non ci sarebbero stati così tanti morti e, in modo particolare, fra gli operatori sanitari e gli operai (e loro familiari) costretti ad andare al lavoro e non adeguatamente protetti. Altrimenti non sarebbero stati contagiati così tanti anziani nelle Rsa. I risultati sono stati agghiaccianti: una intera generazione è stata sterminata.
Il cinismo di politiche che distruggono l’ecosistema è stato, come sappiamo, un fattore scatenante del Covid-19 e non ci aiuta a uscire dalla crisi. Per farlo dobbiamo rimettere al centro la salute e la tutela dell’ambiente, l’attenzione al territorio, un sistema di sviluppo più umano e sostenibile. Vanno quindi ripensati criticamente i fondamenti del pensiero economico come suggerivano la settimana scorsa su Left gli economisti Longobardi e Ventura, dobbiamo tornare a investire nella sanità pubblica, in formazione e ricerca, come ha scritto il sindacalista Cgil Andrea Filippi, ma dobbiamo anche avanzare proposte che concretizzino quel Green new deal di cui tanto si parla, attuando finalmente la nostra Costituzione che nella sua sapiente tessitura lega strettamente salute e ambiente. Per questo serve una visione complessiva.
Non bastano, per quanto possano essere un importante inizio, provvedimenti come l’ecobonus, come ci spiegano i brillanti esperti, politici e attivisti che intervengono in questo numero, a cominciare dai giovani dei Fridays for future che stanno facendo crescere anche in Italia una sensibilità nuova e l’attenzione ai temi dell’ambiente e alla ricerca scientifica. Che l’Italia entri in una fase green è il nostro auspicio ed osserviamo con grande attenzione e interesse le iniziative europee e italiane che vanno in questa nuova direzione. La crisi ci obbliga a un radicale cambiamento.
Il governo abbia il coraggio di lanciare un piano straordinario per la messa in sicurezza del territorio, per la bonifica di quelli inquinati, per la riqualificazione dell’edilizia, che significhi risparmio energetico ma anche migliore qualità della vita. Serve coraggio, per fare un salto di paradigma, ma anche rigore. Le scorciatoie possono essere molto pericolose. Come avverte la Corte dei conti che ha fatto pesanti rilievi alla bozza del decreto Semplificazioni perché, «in contrasto con i principi costituzionali», esclude la responsabilità per danno erariale dei pubblici amministratori.
Attenzione: sburocratizzare sì ma non allentare i controlli. Dopo il disastroso Sblocca cantieri del governo Conte I, l’Autorità anticorruzione (Anac) mette in guardia dalla deregulation degli appalti che rischia di favorire la criminalità. In particolare, desta preoccupazione l’affidamento diretto, senza gara né comparazione di imprese e preventivi, di appalti fino a 150mila euro. Non piace nemmeno la deroga a tutte le norme, salvo quelle penali, per alcune grandi opere «di rilevanza nazionale». Il modello Genova» difficilmente potrà essere replicato. E c’è anche chi come Bonelli dei Verdi avverte: «Servono cantieri green non sanatorie». La via per uscire dalla crisi passa attraverso investimenti per la riconversione ecologica e sostenibile e per la creazione di posti di lavoro. Giustizia ambientale e giustizia sociale devono andare di pari passo. Tornare alle vecchie fallimentari ricette neoliberiste, fatte di deregulation e condoni, ora sarebbe una vera pazzia.
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