Una recentissima indagine svolta dall’International Council of Museums e riferita a circa 1.600 musei di 107 Paesi dei cinque continenti, ha registrato con la forza dei dati il disastroso impatto della pandemia sulle istituzioni museali in tutto il mondo: il 95% delle strutture ha conosciuto lockdown più o meno prolungati (in certi casi tuttora in corso), e oltre il 12% dei musei – in particolare in Africa, Asia e Paesi arabi – teme addirittura di non poter riaprire i battenti. Il crollo delle risorse ha provocato contraccolpi pesanti sull’occupazione per quanto riguarda lavoratori free lance, precari o comunque con contratti a tempo determinato che in oltre il 50% dei casi non sono stati pagati durante le chiusure e che, per quasi il 40%, sarà vittima di riduzioni del personale già preannunciate.
Come noto, del resto, i musei sono stati investiti dal crollo dei flussi turistici destinato a prolungarsi nel tempo: se l’Ocse, per quest’anno, ha previsto una diminuzione fra il 50 e il 70% delle attività turistiche a livello mondiale, il rapporto Nemo (Network of European Museum Organizations) sull’impatto del Covid-19 rileva una perdita di entrate, per i musei delle zone a maggiore attrattività turistica, fra il 75% e l’80%.
Anche in Italia la situazione non è certo più rosea: nel 2020 la spesa per turismo nel nostro Paese sarà ridotta di 66 miliardi di euro rispetto al 2019 con dimezzamenti previsti per le città d’arte, a partire da Venezia e Firenze (dati Enit).
Di fronte a tali previsioni, in questi mesi – di necessità, virtù – si sono succedute, da parte di direttori di siti e musei, reiterate e appassionate dichiarazioni sulla necessità di una palingenesi post-Covid orientata ad un uso del patrimonio diverso, più meditato o, come si dice ora, “slow”. Ma non appena si è avviata la fase 2, ecco tornare le consuete modalità da marketing con i numeri dei visitatori snocciolati come trofei, mentre il ministro Franceschini, in audizione parlamentare, pochi giorni or sono, ha dichiarato testualmente, a mo’ d’auspicio: «Fino a gennaio di quest’anno dibattevamo di come gestire un boom talmente forte che si parlava di overbooking, di città d’arte che non riuscivano più a contenere il numero di turisti, di ticket di ingresso, di conciliabilità tra turismo in crescita e tutela del nostro patrimonio paesaggistico e artistico. Sembra un…» .
Maria Pia Guermandi è archeologa ed è responsabile progetti europei presso l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna
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