La condizione delle donne sta peggiorando ancora in Afghanistan. «È normale che vengano trattate come bestie, mentre il civile mondo occidentale e gli organi internazionali restano in silenzio?», dice una delle due ragazze che abbiamo incontrato a Fermo, la terza città italiana, dopo Parma e Torino, ad aver introdotto l’accoglienza in famiglia. Ecco il loro racconto

«È come essere strappati con ferocia dalle braccia di tua madre, che ti ha cullato, cresciuto. La tua esistenza, la fatica, i sacrifici. Poi perdi tutto. È difficile da descrivere». Jamila è una giovane donna afgana, costretta a lasciare tutto ciò che aveva per mettersi in salvo nell’estate di tre anni fa, quando i Talebani tornarono al potere dopo il ritiro degli Stati Uniti, seppellendo ogni speranza per quel paese. Trent’anni, una laurea in Lingue e Letteratura, attivista di Unama, United Nations Assistance Mission in Afghanistan, insegnante. Una vita come cancellata, perché in Italia sulla sua “carta d’identità” è soltanto una rifugiata. Con quel sorriso delicato sembra come volersi proteggere, ma subito le sue parole assumono un ritmo incalzante. Parole che si inseguono, si intrecciano come per ricucire i lembi di uno strappo profondo. Sullo sfondo, quel dolore sordo del distacco dalla sua terra. Prima tappa, il Pakistan, e soltanto a giugno scorso l’Italia. Ad attenderla a Roma c’erano gli operatori della cooperativa Nuova Ricerca Agenzia Res che gestisce il progetto “S.A.I. (ex Sprar, ndr) Era Domani” di cui è titolare il Comune di Fermo, nelle Marche.

Da 6 mesi a Fermo dove la incontriamo, Jamila ha intrapreso un nuovo cammino. «Ricordo di aver provato la piacevole sensazione di sentirmi libera appena ho messo piede in Italia. L’energia positiva che ho avvertito da subito ha attutito il senso disorientamento che animava le mie giornate. Qui mi sento al sicuro, e questo mi aiuta a superare i momenti di malessere. Soprattutto quando mi sveglio nel cuore della notte», sussurra, mentre i suoi bellissimi occhi neri si fanno lucidi.
Jamila, una donna tra le tante fuggite dall’Afghanistan in quel maledetto agosto. Sembrava l’Apocalisse: la ferocia dei Talebani, con quella rapida avanzata attraverso il Paese, la conquista della capitale Kabul il 15 agosto. L’inferno, dopo il ritiro in seguito all’accordo tra Stati Uniti e gli stessi talebani, a quasi vent’anni dall’inizio della guerra. Intesa che era stata siglata il 29 febbraio 2020 a Doha dall’amministrazione Trump. Ad aprile il nuovo presidente americano Joe Biden aveva confermato il ritiro. Una guerra cominciata nel 2001 in seguito agli attacchi dell’11 settembre. Washington aveva identificato come responsabili il gruppo islamico Al-Qaeda e il suo leader Osama Bin Laden. Gli Stati Uniti avviarono così le operazioni militari in Afghanistan, dove si era stabilito Bin Laden, togliendo rapidamente il potere ai talebani e promettendo di sostenere la democrazia. Promessa mancata.

Il conflitto ha causato centinaia di migliaia di vittime e costretto milioni di persone ad abbandonare le loro case: i civili afghani hanno pagato il prezzo più alto. Dopo le operazioni di evacuazione, circa 120mila afgani erano riusciti ad andarsene, ma migliaia di persone che hanno messo a rischio la loro vita lavorando con gli alleati degli Stati Uniti, sono rimasti bloccati nel paese, esposti alle rappresaglie talebane.
Jamila riesce a fuggire in Pakistan, dove rimane per un anno. Poi con un volo dei corridoi umanitari, unica via sicura per rifugiati e rifugiate. Sette mesi fa atterra a Roma. Il suo volto si rabbuia, ora. Parla dei suoi affetti, del suo lavoro e del suo mondo. Non dorme pensando alla sua famiglia. «Le mie tre sorelle e tutte le altre donne che vivono sotto il regime dei Talebani sono in pericolo e sempre più escluse dalla sfera pubblica e sociale», dice. Resta seduta, unisce le mani, ha una postura composta, ma non ha diffidenza verso chi la sta ascoltando: «L’unica cosa che adesso è permesso alle donne afgane è mangiare e dissetarsi. A loro è vietato tutto. Esclusivamente perché sono donne non possono uscire da sole, non possono andare a scuola. Per la religione islamica l’istruzione è importante, ma resta un diritto a noi negato. Anche l’accesso alle cure in ospedale è complicato. Non possono vestirsi come vogliono, vengono frustate e umiliate in pubblico. È normale che vengano trattate così? Come bestie, mentre il civile mondo occidentale e gli organi internazionali restano in silenzio? Perché questa indifferenza nonostante l’intervento americano di esportare la democrazia?».
Una denuncia forte. Tuttavia non c’è irruenza nelle parole di Jamila. Minuta, si esprime con grazia anche quando cerchiamo di scavare più a fondo nel suo vissuto. I ricordi si soffermano sui tanti anni di impegno per l’affermazione dei diritti umani dopo aver vinto una battaglia personale all’interno della sua stessa famiglia, appartenente all’etnia Hazara: «Nella zona dove vivevo le donne di questo gruppo etnico non potevano studiare – racconta – ma io non ho rinunciato alla mia emancipazione. Sono andata contro tutto e tutti, anche ai miei stessi familiari. Sono riuscita ad ottenere una borsa di studio universitaria e a conseguire la laurea contando esclusivamente sulle mie forze e la mia tenacia». Un’esperienza che ha acceso in Jamila un grande senso di responsabilità, motivandola a scendere in campo per difendere la sicurezza e l’incolumità delle donne: «Ho intrapreso la mia lotta dopo aver avuto successo con i miei genitori, che da ostili hanno cominciato a sostenermi. Andavo casa per casa per incontrare le donne invitandole a rivendicare i loro diritti».

È un pomeriggio carico di emozioni negli uffici della cooperativa Nuova Ricerca Agenzia Res, a Fermo. La mediatrice, Tahere, ascolta dall’altra parte dello schermo. Anche lei è un’attivista dell’associazione Amad. Jamila preferisce parlare nella sua lingua, il persiano. Indossa un maglioncino grigio a collo alto, abbinato a un jeans stretto della stessa tinta. I capelli lisci e lucidi raccolti in una coda bassa, le unghie smaltate di rosa. Sull’anulare della mano sinistra, dove per la credenza cristiana si porta la fede nuziale, ha un anello in argento: «Per buon augurio la mamma regala questo gioiello alle figlie. Per me è un oggetto che ha un valore inestimabile», ci spiega.
Vive con altre cinque donne rifugiate, provenienti da diversi Paesi dell’Africa. Durante le sue giornate studia italiano, fa volontariato alla mensa sociale, ed è in attesa di essere collocata come operaia nel settore calzaturiero. Qui non potrà proseguire la sua carriera da insegnante perché i suoi titoli di studio non sono riconosciuti. Un fattore che accomuna tutte le donne afgane è proprio il senso di perdita dello status sociale che si tramuta nella perdita d’identità.
Al momento il progetto “Era Domani” – attivo dal 2016 – ospita 49 persone su 55 posti disponibili. Di trenta adulti in età lavorativa, quindici hanno un contratto di lavoro, non tutti a tempo indeterminato, mentre cinque svolgono tirocini formativi. L’inserimento lavorativo è problematico. Per le donne il settore di riferimento è limitato a quello delle pulizie o dell’assistenza agli anziani. Per gli uomini c’è l’edilizia, le fabbriche metalmeccaniche e calzaturiere, già in crisi da tempo. L’attività della ristorazione garantisce solo impieghi stagionali. In sette anni di attività nel progetto “Era Domani” sono stati accolti 228 stranieri, di cui 75 donne tra rifugiate e richiedenti asilo (fino a dicembre 2023). Tutti ricevono supporto abitativo, sanitario, legale, corsi di italiano e di orientamento al lavoro. Vengono inseriti in un contesto umano e relazionale, con la finalità di ritrovare la normalità attraverso un percorso di riscoperta identitaria e di autonomia.

Fermo è la terza città, dopo Parma e Torino, ad aver introdotto l’accoglienza in famiglia, che fino ad ora però ha registrato poche adesioni come spiega Marco Milozzi, uno dei sette operatori dell’equipe. Per i rifugiati è prevista l’assegnazione di appartamenti in contesti condominiali nel centro cittadino, permette di mettere in contatto i rifugiati con le persone del posto. La durata del Sai è fissata a sei mesi, non abbastanza per diventare autonomi, e quindi viene spesso chiesta una proroga fino ad un anno. Terminato il progetto, ci si ritrova ad affrontare la problematica della sistemazione abitativa. I rifugiati possono offrire poche garanzie ai locatori, considerata l’instabilità occupazionale. Anche la disponibilità degli immobili in affitto è scarsa. In questa fase continuano ad essere supportati anche attraverso un contributo economico per pagare le prime mensilità di affitto.

Jamila affronta questa fase di incertezza senza proiettarsi troppo in avanti: «L’obiettivo principale – afferma – è trovare il mio equilibrio e, di conseguenza, ricostruire la mia indipendenza. Adesso non ho la serenità necessaria per concentrarmi. Mi impegnerò perché quando starò bene mi realizzerò e sarò in grado di aiutare altre persone». Sospesa in un tempo di transizione, respira l’instabilità che difficilmente lascia spazio alla pace. A tratti prevale il rammarico, misto alla rabbia, per essere stata costretta a lasciare un buon tenore di vita. Allo stesso tempo, però, il desiderio di trovare quell’equilibrio tra passato e futuro si trasforma in energia vitale. Così accoglie e valorizza, con coraggio, entusiasmo e speranza, le sue nuove opportunità. Aveva occhi da bambina quando lo scorso luglio ha messo i piedi sulla sabbia: indossava il costume per la prima volta, l’acqua le arrivava alle caviglie ed era contenta e rigida allo stesso tempo. Immaginava la sua terra oltre l’orizzonte del mare.
Quella terra dove «cinquant’anni fa le donne potevano andare a scuola o a lavoro. Si truccavano e si vestivano alla moda».

Shugoofa, 24 anni di cui tre vissuti da rifugiata in Italia, ci racconta intanto di un passato che aveva annunciato al mondo intero l’avvio di un processo di modernizzazione poi mai realizzato. Polverizzato dagli eventi politici successivi in un anomalo meccanismo in cui il tempo sembra scorrere al contrario. Solamente dopo aver pronunciato le parole «libertà e democrazia» con cui descrive il periodo repubblicano che durò fino alla proclamazione del primo stato islamico da parte dei Talebani nel 1992, Shugoofa riesce a fermare lo sguardo sulla drammatica situazione attuale. È come sprofondare nel buio.

Questa volta al centro della narrazione c’è la parola «paura», uno stato d’animo collettivo che ha spinto circa 2,7 milioni di afghani, registrati come rifugiati in tutto il mondo, a lasciare il Paese dopo quel fatidico giorno in cui il gruppo jihadista entra anche a Kabul: «Tutti coloro che collaboravano con le organizzazioni americane avevano paura. Già mentre prendevano il controllo delle varie province dell’Afghanistan, i Talebani avevano compiuto rappresaglie, torturato e ucciso appartenenti a minoranze etniche e religiose, ex soldati afgani e altre persone sospettate di simpatie per il governo civile». Shugoofa e la sua famiglia erano consapevoli di essere in pericolo: «Io facevo la cronista locale, mio marito lavorava per la Nato, mio padre era arruolato nell’esercito. Tutto ciò ci avrebbe procurato dei seri problemi». Svolgendo la sua attività giornalistica qualche rischio lo aveva già corso: «I Talebani erano ostili nei confronti di chi divulgava le notizie: i fatti di cronaca quotidiana di cui mi occupavo erano soprattutto legati a esplosioni e attacchi di cui erano loro stessi gli autori mentre si preparavano a tornare al potere».

Quella di Shugoofa, studentessa universitaria e collaboratrice de La Resistenza, emittente che aveva sede nella valle di Panjshir, a nord-est di Kabul, dove l’opposizione ai talebani (che appartengono alla maggioranza Pashtun) da parte degli abitanti di etnia Tagiki è ancora persistente, è una testimonianza di coraggio. A partire dal resoconto delle ultime ore vissute in Afghanistan, trascorse fuori dall’aeroporto insieme a suo marito, ai genitori, alla sorella e alla massa di persone che attendeva con il cuore in gola di partire: «Abbiamo fatto vari tentativi prima di riuscire a prendere un aereo dell’esercito italiano. Dell’arrivo a Roma ho ricordi sbiaditi. Siamo stati in tenda per sette giorni prima di avere una destinazione. Ero confusa e spaventata al punto che quando avvertivo dei rumori mi tornavano in mente il frastuono delle esplosioni».
Shugoofa ha gli occhi grandi di un marrone che richiamano i toni caldi delle terre senesi, il viso dai lineamenti dolci e decisi, parla con disinvoltura del suo vissuto: «In Afghanistan avevo una vita tranquilla, Io ero appagata e libera. Le attività terroristiche non erano così intense nella zona dove vivevo. Se io dicessi che i miei momenti più belli sono quelli trascorsi nel periodo degli studi universitari, forse nessuno oggi mi crederebbe perché tutti hanno la convinzione che in quel Paese la condizione delle donne è sempre stata difficile».
Da poco più di un anno Shugoofa è diventata mamma di una bimba di nome Alisa: «Sono felice che mia figlia sia nata in Italia perché in Afghanistan non c’è alcun rispetto per le donne. Per i Talebani tutto si concentra sulle proibizioni al mondo femminile. Le notizie che mi arrivano quando mi metto in contatto con i miei parenti rimasti lì sono preoccupanti: mi riferiscono di condizioni di povertà e di assoluta oppressione».
Shugoofa è chiamata a rinunciare alla spensieratezza dei suoi ventiquattro anni: «Ci sono ostacoli anche qui e siamo preoccupati perché il nostro futuro è incerto: senza un’occupazione non potremo permetterci neppure di pagare l’affitto. Siamo nel progetto Sai da un periodo lungo e ci restano ancora quattro mesi per concludere il percorso. Il tempo per trovare un lavoro sia per me che per mio marito si assottiglia. Entrambi dobbiamo adattarci ad attività diverse rispetto alla carriera lavorativa che avevamo intrapreso nel nostro Paese». Anche se resta con i piedi per terra, sognare di fare la giornalista la rende libera e determinata: «Non vado tanto lontano con la fantasia perché cerco di concentrarmi sul presente e affrontare la realtà passo dopo passo. Sono disposta a fare qualsiasi lavoro per adesso. Nel frattempo sono tornata sui libri: sto frequentando i corsi online per completare l’ultimo anno accademico in giornalismo e poi chissà…».

Il sentimento di riconoscenza per il posto che l’ha accolta e messa in salvo riesce a tenere a freno la profonda nostalgia di casa: «Mi mancano i sapori, il cibo, il paesaggio. Cerco sempre qualcuno con cui poter parlare la mia lingua ma voglio costruire qui la mia nuova vita». Sorride e stringe tra le mani il suo smartphone, l’unico strumento che le permette di rimanere in contatto con il suo mondo e di realizzare video da pubblicare sul suo canale YouTube.

 

Testo e foto di Rosita Mercatante