Mentre si riaffaccia l'ipotesi di un esercito comune e alcuni Paesi ripensano la leva militare, gli investimenti nella difesa europea sono sempre più massicci. E invece potrebbero esser utilizzati per un equo sviluppo globale e prevenzione delle crisi

Tra gli argomenti all’ordine del giorno al Consiglio Europeo del 21 e 22 marzo c’era la politica di sicurezza e difesa dell’Ue. Le intenzioni? “Aumentare la spesa per la difesa, e investire insieme in modo migliore e più rapido”, “migliorare l’accesso dell’industria europea della difesa ai finanziamenti pubblici e privati” e un invito alla Bei (Banca europea degli investimenti) ad “adeguare la sua politica di prestiti all’industria della difesa e la sua attuale definizione di beni a duplice uso”.
E ancora, una road map di azioni che dovrebbe rendere più flessibili gli approvvigionamenti e più veloce la catena produttiva di armi, meno macchinosi gli acquisti congiunti, come auspicava la presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen solo qualche settimana fa: entro il 2030 almeno il 40% del materiale di difesa dovrà essere acquistato in modo collaborativo, e almeno il 35% del valore degli scambi dovrà riguardare il commercio tra i 27 Stati membri.

La militarizzazione dell’Unione europea – che ora procede a passo sveltissimo per via di minacce percepite come imminenti, in primis la Russia, poi la destabilizzazione politica nel Mar Rosso – può contare su basi storiche: comincia con la politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) contenuta nel trattato di Lisbona del 2009, e si sviluppa negli anni attraverso missioni di pace, militari e di controllo delle frontiere, alcune delle quali con risultati discutibili. Alla Psdc si è aggiunta l’idea, mai sopita, di un esercito comune europeo prospettato già dall’ex presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nel 2015 in seguito all’invasione russa della Crimea. La chiamata alle armi di allora, pur rimanendo solo un’idea per via delle incompatibilità tra i Paesi membri, rappresenta ancora “l’elefante nella stanza” di Bruxelles.
Nel bilancio pluriennale europeo 2021-2027 si conta una spesa per la difesa di 13 miliardi di euro, più del quadruplo di quanto era stato previsto nel decennio precedente. I bilanci annuali per la difesa degli Stati membri, messi insieme, hanno raggiunto i 240 miliardi di euro nel 2022, in linea con le indicazioni della bussola strategica.
Investimenti che, secondo Fabio Alberti, attivista di “Un Ponte Per”, membro dell’esecutivo della Rete italiana Pace e disarmo, potrebbero essere destinati ad altri scopi su tre direttrici «in un’ottica di equo sviluppo globale e quindi di prevenzione delle crisi»: prima di tutto «il contributo dei Paesi ricchi (che hanno creato la crisi climatica) alla transizione energetica dei Paesi poveri (che la subiscono)». Poi andrebbero investiti «nell’aiuto allo sviluppo, compreso l’annullamento del debito ingiusto, anche se andrebbe discusso l’approccio attuale agli aiuti». Infine «nel trasferimento di conoscenze e nella disponibilità di tecnologie, compresa la sospensione dei brevetti a favore dei Paesi terzi. Insomma, la riduzione delle disuguaglianze a livello globale tutela la sicurezza ed evita le migrazioni meglio degli armamenti».
Eppure, pare che gli stanziamenti europei non siano ancora abbastanza secondo le critiche della Nato, dal momento che non tutti i Paesi europei dell’Alleanza Atlantica (e tra essi l’Italia) investono il 2% del Pil nella difesa come richiesto. 
Secondo Alberti, «il relativo contenimento della spesa per armamenti, sempre troppo, ma meno dei desiderata atlantici e che è uno dei fattori dello sviluppo dello Stato sociale in Europa, sta venendo rapidamente meno. Ovunque in Europa vi sono previsioni che porteranno al superamento anche di questa percentuale e il tragico è che la corsa agli armamenti non viene più nemmeno giustificata come necessità di adempiere agli ordini atlantici, ma come scelta autonoma nella direzione dell’esercito europeo».
Quale che sia la ragione, ad oggi le armi sono la prima priorità dell’Europa.

Armi a doppio taglio, anzi a duplice uso

Il progetto di una difesa comune dell’Unione Europea inizia proprio con un think tank composto dagli amministratori di aziende produttrici di armi (Saab, Airbus, Leonardo, Bae System…) che avevano beneficiato dei finanziamenti in ricerca e sviluppo e che costituiranno, nel 2016, il gruppo di personalità per lo studio di una difesa comune, sotto il coordinamento di Federica Mogherini, nel ruolo di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione.
Tra i Paesi che ricevono le armi prodotte in Europa, molti sono teatri di guerra: secondo un’indagine di Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma), tra il 2015 e il 2019 l’export di armi è aumentato del 5,5% rispetto al decennio precedente. In cima alla lista dei Paesi di destinazione, l’Arabia Saudita, che ha ricevuto per anni bombe prodotte in Italia e utilizzate in guerra contro lo Yemen. Il nostro Paese avrebbe indirettamente una parte nella destabilizzazione del territorio yemenita che ora si trova a fronteggiare con la missione Aspides.
Quanto all’impegno nella difesa dei Paesi membri, solo un mese fa Elbit System, la più importante società di armi israeliana, i cui sistemi di sicurezza, sorveglianza e aggressione sono i principali responsabili dell’apartheid palestinese, si è assicurata un contratto da 300 milioni di euro con un Paese europeo, non ancora noto, per l’acquisto di veicoli blindati e sistemi di ricognizione.
La stessa Elbit System che ha ricevuto negli anni, insieme a diverse aziende e università israeliane, 1,28 miliardi di euro dall’Unione europea per progetti di ricerca e sviluppo nel settore della difesa.

Secondo il report Un’Unione militarizzata dell’Enaat (Rete europea contro il commercio delle Armi) dietro le missioni europee per promuovere la pace c’è il concetto di “sicurezza per lo sviluppo”, ovvero l’idea che finanziando le forze armate in Paesi terzi si possa (es)portare la pace. Peccato che quando questo avviene nei governi autoritari, “il rafforzamento del settore della sicurezza porta solo a maggiore repressione”.
Ma come fanno le esportazioni ad aggirare il Trattato sul commercio delle armi che vieta la fornitura di armi a Paesi che si macchiano di violazioni dei diritti umani e di crimini internazionali? Con il “duplice uso”, militare e civile, che fa sbiadire il confine tra il settore civile e l’industria delle armi, proprio quello che l’ultimo consiglio europeo vuole deregolamentare.
Non suona, in questo modo, bellicoso “promuovere le sinergie tra ricerca e innovazione nell’ambito civile, della difesa e dello spazio e investire nelle tecnologie critiche” come da Dichiarazione di Versailles del 2022, tenutasi a pochi giorni dall’invasione russa dell’Ucraina. Ancora una volta, quindi, la difesa diventa preparazione della guerra sotto mentite spoglie.
Investimenti così massicci non sarebbero semplici da attuare se la loro approvazione passasse in modo sistematico dai Parlamenti nazionali e dal Parlamento europeo. Invece sempre più spesso questa chiamata alle armi tenta di aggirare il percorso democratico. Le decisioni sul budget per la difesa sono appannaggio della Commissione e del Consiglio Europeo mentre il Parlamento, in quanto codecisore insieme al Consiglio, è tenuto ad esercitare un controllo sul bilancio della Difesa ma non sullo Strumento europeo per la pace, dal momento che è fuori bilancio, nato proprio per rendere più flessibili i finanziamenti ed espandere territorialmente le missioni. È da lì che provengono, non a caso, i massicci aiuti militari all’Ucraina degli ultimi anni.
Secondo Fabio Alberti «la tendenza a sottrarre ai Parlamenti, considerati troppo condizionabili dalle opinioni pubbliche, le decisioni sulla guerra non è solo europea, ma generale. Se ne trova traccia anche nei documenti Nato. In Italia l’abolizione della competenza parlamentare sulla guerra (che è nella Costituzione) è stata tentata con il referendum costituzionale di Renzi ed è praticata di fatto con il decreto missioni che viene portato in Parlamento sempre più tardi (lo scorso anno è stato votato addirittura in novembre, quando ormai le missioni erano quasi concluse). Anche per la missione Aspides il ministro Tajani ha inizialmente affermato che non ci sarebbe stata necessità del voto parlamentare. Per fortuna su questo è stato fermato».
Nella relazione annuale 2022 sull’attuazione della Psdc è lo stesso Parlamento europeo che “deplora di non essere in grado di esercitare un adeguato controllo sui progetti Pesco (Cooperazione strutturata permenente)” e invita pertanto l’Ue a “rafforzare il controllo esercitato dal Parlamento sulla politica per la Difesa”.
Anche l’Italia è in linea con questo “stato di emergenza della difesa” che si va creando: proprio il 25 gennaio scorso è stato approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge che riforma la legge quadro sulle missioni internazionali (145/2016) rendendo i procedimenti di autorizzazione e finanziamento delle missioni italiane più “snello”. La tendenza, commenta Alberti, è sempre la stessa: «L’accentramento delle decisioni militari sull’esecutivo e in alcuni casi addirittura sul solo dicastero della difesa. La cosiddetta semplificazione elimina doppi controlli e passaggi che limitano i rischi di decisioni avventate in nome della cosiddetta prontezza. Invece prima di impegnare il militare è bene pensarci due volte».
Forse è troppo tardi anche per il controllo parlamentare: secondo un sondaggio di Eurobarometer della primavera 2023, a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina il 77% degli intervistati dell’Ue era a favore di una politica di difesa e sicurezza comune tra gli Stati membri, mentre il 16% si diceva contrario. Inoltre, l’80% riteneva che l’acquisto di attrezzature militari da parte degli Stati membri dovesse essere meglio coordinato e il 69% che l’Ue debba rafforzare la propria capacità di produrre attrezzature militari .
E mentre su Bruxelles aleggia il progetto di un’accademia militare europea finalizzata alla nascita dell’esercito comune, nel frattempo, dal canto loro, alcuni Paesi membri ripensano alla leva militare: la Danimarca l’ha resa obbligatoria anche per le donne, la Lettonia ha reintrodotto quella maschile dall’inizio del 2024, il presidente francese Macron ha ipotizzato l’invio di soldati degli eserciti europei in Ucraina.
Con l’intenzione dichiarata di prevenire le guerre, l’Europa della difesa è ormai pronta a tutto. Anche alla guerra.

Nella foto: La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (CC-BY-4.0: © Unione europea 2022– Fonte: PE)