Ogni volta che si paventa un rischio segue la frase di rito, «Spero di sbagliarmi», accompagnata dal consueto «ma». Questa volta non occorre neanche fare lo sforzo, perché sono proprio i diretti interessati a dare conferma di quanto ho sostenuto sul numero di Left di aprile, nell’articolo Come la destra ribalta il senso delle parole. E come sempre in queste situazioni, al timore si accompagna purtroppo un’amara soddisfazione per aver avuto ragione. In queste pagine di left ho cercato di riflettere sul fatto che questo governo manipola linguaggio e comunicazione, per alterare la visione del Paese, soffermandomi sulla parola squadrismo.
Ora, è interessante constatare come l’altro giorno, dopo gli usi passati della presidente Meloni e del ministro Sangiuliano, un altro ministro, Lollobrigida, sia tornato a servirsi dello stesso termine, esattamente nei modi che notavamo. L’episodio, di cui rende conto La Stampa in un articolo del 23 aprile, rientra nella cornice della “Conferenza degli addetti scientifici e spaziali e degli esperti agricoli 2024”, che si è tenuta in Piemonte al Castello del Valentino, alla presenza del presidente della Regione e del rettore del Politecnico di Torino, e con la partecipazione di tre ministri: Bernini (università e ricerca), Tajani (esteri) e Lollobrigida appunto (agricoltura). I tre esponenti dell’esecutivo – ripetendo il mantra secondo cui l’università non si deve schierare, non deve prendere una posizione ma restare neutra – sono tornati ad attaccare gli studenti universitari che manifestano per chiedere che il massacro di Gaza cessi, e che l’Italia sospenda alcuni accordi fra le nostre università e quelle israeliane. In questa occasione il ministro Lollobrigida non ha esitato a dire: «Credo che i padri costituenti intendessero questo come opposizione ferma a quello che aveva rappresentato il fascismo prima e che ora rappresentano le squadracce organizzate che tendono di utilizzare gli stessi metodi condannabili che il fascismo usava allora». Ecco allora che ancora una volta dei giovani, che esprimono il loro dissenso rispetto alle posizioni del governo (alzando la voce, attaccando in modo duro, se serve anche occupando aule e sedi degli organi universitari, ma questa non è violenza squadrista), che chiedono un maggior rispetto dei diritti internazionali per arrivare alla pace, vengono marchiati – in modo inaccettabile – come fossero delle camicie nere (proprio come lo furono Almirante e Rauti e molti esponenti della fiamma dell’Msi) per il semplice fatto di aver manifestato, o essere entrati per far sentire la propria voce in un Senato accademico, presentato chissà perché da Lollobrigida come luogo sacro: i luoghi di rappresentanza, proprio per la loro natura, non devono vivere separati dalla popolazione (idea di sacralità del potere), ma saper interagire, e quando serve “accogliere” nelle più diverse forme, in base alle circostanze (idea democratica certo estranea a questa classe politica), perché gli studenti devono far sentire la loro voce nelle sedi che ritengono opportune, basandosi certo su una riflessione matura e seria, che, pur con difetti o problemi, non si può dire che sia mancata in questo caso. E comunque, entrare in una sala per prendere la parola, magari alzando la voce ma senza fare alcun atto violento, non mi sembra un gesto paragonabile alle operazioni delle squadracce… Si continua a stravolgere la realtà delle cose, presentando un mondo alla rovescia, e scegliere di usare queste parole ci sembra che in qualche modo faccia purtroppo ricadere a distanza – nella visione in realtà non tanto taciuta di questo governo – le stesse accuse contro i giovanissimi manifestanti pisani di due mesi fa. Allora come oggi, molti ministri dimostrano ignoranza della Costituzione, che infatti vorrebbero cambiare: hanno sostenuto che le manifestazioni sono contro la legge e che si possono organizzare solo se vengono autorizzate, e dunque ignorano l’art. 17, che sancisce la libertà di riunirsi pacificamente senza dover chiedere alcun permesso (al massimo si deve dare un preavviso), e l’art. 21, che consente di manifestare in assoluta libertà le proprie idee (e tutela la libertà di stampa, sempre più minacciata come risulta dal recente caso Scurati, e dalle proposte di carcere per i giornalisti). C’è una mancata comprensione da parte di questi politici di una serie di aspetti. L’università acritica, che non prende posizione, ha smesso di essere università, cioè luogo in cui si sviluppa il pensiero critico (capace di analizzare il reale nella sua complessità, ponendo problemi per avanzare soluzioni e accrescere la conoscenza), luogo della dialettica, che prevede anche contrapposizioni forti, senza con questo negare mai all’altro dignità e rispetto (lezione che la destra dovrebbe cercare di fare un po’ sua). L’università non entra in guerra, e ci mancherebbe, dato che la cultura è dialogo e scambio, ma come può essere università, come può concorrere alla formazione intellettuale dei ragazzi, se chiede loro di non guardare al mondo, di non reagire davanti a ciò che accade, riflettere criticamente e prendere una posizione? Inoltre, come chiarito dal rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari in recenti interviste, salvo eccezioni limitate e da non generalizzare, gli studenti stanno protestando non per chiedere la sospensione degli scambi e dei rapporti tout court con gli atenei israeliani, anche perché si sa bene che a Tel-Aviv e Gerusalemme sono numerosi gli intellettuali che accusano e criticano in modo aspro l’operato del governo Netanyahu, odierno e passato, più di quanto non si faccia in Occidente. Si sta chiedendo la sospensione di un preciso accordo, non direttamente fra università ma fra governi, siglato dal nostro ministero degli Affari esteri, e lo si fa perché parte di questi accordi potrebbe portare a impieghi in ambito militare dei risultati delle ricerche. Queste paure non possono essere minimizzate – «tutto può essere trasformato in arma», o «allora stacchiamo internet, che è nato in ambito militare», come ha detto la ministra Bernini – perché queste istanze non vengono avanzate in assoluto, ma per una situazione specifica, dato che è in corso una guerra tremenda e sproporzionata che vede coinvolto il Paese con cui si hanno gli accordi. Rispondere come ha fatto la ministra non ha senso, e poi, per capire che non si possono mettere in dubbio i timori sollevati dagli studenti, basta guardare il peso e l’ingerenza che aziende come Leonardo S.p.A. hanno nei programmi di ingegneria di vari atenei, per finanziare bandi e dottorati. Ma nonostante tutto questo, abbiamo assistito nelle ultime settimane a continue manganellate (Bologna, Roma, Torino), che ignorano il monito del capo dello Stato dello scorso febbraio ( “I manganalli con i ragazzi sono un fallimento“), e che certo non rappresentano la reazione utile a momenti di tensione, che pure si possono generare in una manifestazione. Ci possono essere stati purtroppo soggetti che sono andati oltre il limite, ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, strada invece imboccata sistematicamente dall’esecutivo in situazioni di questo tipo. E poi, se i manifestanti devono mantenere comportamenti pacifici, le forze dell’ordine devono ricordarsi che gli strumenti più potenti a loro disposizione generano una disparità fra le forze in campo, e su questo punto si misura la proporzionalità dell’azione, che rientra fra i doveri di polizia e carabinieri (la manganellata come risposta ad un insulto, per quanto irrispettoso, è un atto senza senso, e gravissimo). Ma soprattutto, ci siamo avvicinati a questo 25 aprile in un clima preoccupante. Ministri di una maggioranza che sembra ignorare, fra gli altri, gli articoli 17 e 21, come cardini fondanti dell’antifascismo (in opposizione netta al ventennio), si permettono di avanzare interpretazione delle intenzioni dei padri costituenti, quando con l’idea del premierato hanno già fatto capire che il nucleo principale dell’equilibri costituzionali è a loro estraneo. E continuano imperterriti nella loro operazione di riscrittura, inquinando il linguaggio, senza nemmeno essere tanto originali visto che tornano sempre sulle stesse parole, come squadrismo e squadraccia, lanciando segnali ambigui. E si tratta dello stesso ministro che, nella confusa comunicazione costruita ad hoc, è arrivato al punto di affermare, sempre pochi giorni fa, che la parola antifascismo sarebbe generica, e anzi avrebbe causato molte morti, e che per questo loro la rifiutano, dimenticandosi programmaticamente che l’antifascismo è sempre e comunque la giusta reazione (che certo deve evitare a sua volta la violenza, cosa non riuscita in alcuni casi purtroppo) contro fascismo e neofascismo, le vere cause di innumerevoli stragi in Italia e in Europa.
Matteo Cazzato è dottorando in filologia all’Università di Trento