Il 22 aprile 1975, esattamente cinquant’anni fa, il Parlamento approvò il nuovo diritto di famiglia che diventa legge, la n. 151 del 19 maggio. Per comprendere la portata rivoluzionaria della norma occorre guardare alla situazione precedente. Chi si è sposato prima del 22 aprile 1975 – e io sono fra quelli – doveva sottostare alla legge precedente. All’epoca vigevano le disposizioni del Codice civile approvato con Regio decreto 16 marzo 1942, ancora in epoca fascista, seppure agli sgoccioli. E questo forse spiega, almeno in parte, la posizione del Msi che si astenne sul voto finale. Le disposizioni del codice citato recitavano all’art. 144: “Il marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo ovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”.
L’impronta fascista era molto netta. La famiglia tradizionale si reggeva sulla figura patriarcale del marito che era l’indiscusso capofamiglia, il dominus di tutto. La moglie era in posizione totalmente sottomessa e subalterna, e così i figli soggiogati dalla figura del pater familias. La figura di capofamiglia, erede della figura plurimillenaria del pater familias presente nel diritto romano, era completamente, o quasi, cancellata dalla legge.
La donna “ne assume il cognome”, annullando il proprio, e soprattutto è obbligata – obbligata!!! – ad “accompagnarlo ovunque egli crede opportuno fissare la sua residenza”. Insomma, un oggetto di proprietà del marito. La famiglia-tipo era questa, delineata da una norma di poche righe che imbrigliava la donna appena diventata sposa. Per questo si diceva: da un carcere ad un altro; da quello del padre a quello del marito.
Come fu possibile, nell’Italia di cinquant’anni fa, scardinare questo tipo di famiglia dominata dal patriarcato più marcato e più retrivo? Siamo a metà degli anni Settanta che nell’immaginario collettivo sono considerati come gli anni di piombo, quelli dei morti ammazzati da terrorismi di diversa matrice e dalle varie mafie, da stragi fasciste e da colpi di Stato non andati a buon fine. Il decennio inizia con il tentato e fallito golpe del principe nero Junio Valerio Borghese, comandante della famigerata X Mas che ha massacrato i partigiani e si è macchiata di crimini di guerra durante il periodo della Repubblica sociale italiana. Poco prima, il 12 dicembre 1969, c’era stata la strage neofascista di piazza Fontana a Milano. Ci fu un altro golpe mancato ad opera di un altro principe, Edgardo Sogno Rata del Vallino di Ponzone. Infine due stragi neofasciste devastanti nel 1974, piazza della Loggia a Brescia e il treno Italicus vicino Bologna con decine e decine di morti e di feriti.
Gli anni Settanta, però, sono stati anche altro, tanto altro ed hanno cambiato in profondità l’Italia trasformandola in una Repubblica democratica al passo con i tempi. In quel periodo furono approvate leggi che hanno resistito al tempo. Al fondo di quel movimento di rinnovamento c’era stato il sommovimento del 1968-1969, il biennio della contestazione studentesca e delle lotte operaie. Una contestazione che si propagò in Europa e negli Stati Uniti che metteva in discussione scuola, famiglia, rapporti sessuali, Chiesa cattolica, gerarchia, autoritarismo, qualità del salario e lavoro in fabbrica. Uno degli slogan più in voga all’epoca era: studenti, operai uniti nella lotta. Un punto fondamentale, sconvolgente per bacchettoni e benpensanti, era la liberazione sessuale. Nelle scuole e nelle fabbriche ci fu una possente spinta al cambiamento e alla rottura dei modelli tradizionali di insegnamento e di lavoro.
È grazie a queste spinte che nel 1970, a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, furono approvate prima la legge sullo Statuto dei lavoratori e poi quella sul divorzio che scardinava la famiglia così com’era stata concepita e strutturata da lungo tempo permettendo, a chi ne aveva necessità, di rescindere il contratto matrimoniale. Fu una liberazione per chi poteva spezzare le catene di un matrimonio oramai finito, ma fu anche un dramma per il mondo cattolico dentro cui erano forti le spinte a non toccare l’indissolubilità del matrimonio. Arrivarono altre leggi importanti, quella del 1971 che istituì gli asili nido con il concorso dello Stato, quella del 1972 sull’obiezione di coscienza, quella del 1974 sull’istituzione del Servizio sanitario nazionale e quella, sempre del 1975, del voto ai 18 anni. Nel 1974 si svolse il referendum per abrogare la legge sul divorzio, referendum voluto dai settori retrivi della Chiesa cattolica, dalla Dc guidata da Amintore Fanfani e dal Msi che subirono una clamorosa sconfitta nelle urne.
La legge contenente le norme del nuovo diritto di famiglia aveva alle spalle il possente movimento d’idee e di mobilitazioni che aveva spinto ad infrangere un muro che sembrava invalicabile. La norma è figlia di un percorso politico durato molti anni. Non c’è dubbio che l’introduzione del divorzio, che fu confermato in modo plebiscitario dal referendum del 1974, costituì una spinta potente. Fu anche molto importante, anzi determinante, la convergenza che si realizzò tra donne provenienti da diverse estrazioni politico-culturale – le cattoliche da una parte, le socialiste, laiche e comuniste dall’altra – le quali, seppero superare le divisioni provocate dal referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio e votare insieme la legge con la sola eccezione del Msi.
Le protagoniste principali di questo processo pluriennale furono sicuramente le donne che avevano un’estrazione sociale diversa, e, soprattutto, donne organizzate in circoli, associazioni e movimenti. Senza il loro protagonismo, la loro determinazione, la loro fierezza, la loro determinazione, la loro partecipazione corale e gioiosa, quelle battaglie non sarebbero state vinte. Si può dire con assoluta certezza che la promulgazione della legge 151/75 fu una vittoria soprattutto delle donne organizzate ma anche di quelle che non appartenevano a nessuna associazione o partito, che finalmente vedevano realizzata e riconosciuta la loro dignità sociale e la parità di diritti con gli uomini all’interno del matrimonio. Molte di quelle donne che resero possibile la vittoria al referendum e l’approvazione della nuova legge erano cattoliche che si erano ribellate alle indicazioni retrive della Chiesa e della Dc. Per questo motivo furono autentiche conquiste di civiltà.
Prima il padre controllava la vita della moglie che gli era, per legge, e per cultura molto antica, assoggettata, e nella funzione di padre esercitava in via esclusiva la potestà sui figli. La riforma capovolse l’impostazione precedente e introdusse la parità tra marito e moglie sia nei rapporti personali che nelle relazioni con i figli. La concezione della famiglia subì un mutamento radicale trasformandosi da una istituzione gerarchicamente organizzata in una società tra uguali basandosi sui principi di uguaglianza tra uomo e donna. Un mutamento dirompente travolse l’antica contrapposizione tra filiazione legittima, cioè i figli nati in costanza di matrimonio e filiazione illegittima, figli nati da genitori che non erano uniti dal vincolo del matrimonio. In conseguenza di ciò fu tolto dal codice ogni riferimento al “figlio illegittimo”. Prima della nuova norma un genitore sposato non poteva riconoscere i figli nati da un rapporto adulterino; con la nuova legge il riconoscimento era possibile. Non solo, ma prima dell’introduzione della riforma, i nati fuori del matrimonio che non potevano essere riconosciuti non avevano neanche il diritto di sapere di chi fossero figli. La riforma inoltre cancellava molte delle discriminazioni, quanto a diritti successori, dei figli naturali, pur senza equipararli completamente ai figli legittimi. Avevano così termine le odiose e crudeli discriminazioni tra bambini che tanta infelicità avevano creato. Si pensi soltanto a come venivano definiti in modo spregiativo: bastardi, figli di NN (padre non noto); e alle conseguenti discriminazioni subite.
Chi era il titolare a guidare l’orientamento e le scelte della famiglia? Mentre prima toccava al marito definire orientamento e scelte, adesso è compito di entrambi i coniugi che sono investiti dagli stessi diritti e dagli stessi doveri; e ciò vale anche per i figli. La patria potestà un tempo prerogativa del padre adesso è condivisa ed esercitata di comune accordo da entrambi i genitori. La moglie manteneva il cognome e poteva aggiungerlo a quello del marito.
Fino ad allora era stata in vigore la separazione dei beni tra marito e moglie, mentre la nuova legge introduceva la comunione dei beni, e aboliva la dote che, seppure oramai retaggio del passato, per secoli aveva condizionato la vita delle ragazze, discriminandole, e delle loro famiglie.
Insomma, la legge rispondeva ai reali mutamenti intervenuti nella società che era cambiata e dentro la quale era cresciuto il senso di parità tra uomo e donna e della pari dignità e responsabilità nei confronti della famiglia e dei figli. Non era una legge perfetta, e infatti in seguito furono fatti degli aggiustamenti, ma fu una legge sicuramente innovativa che schiudeva il futuro.
L’autore: Enzo Ciconte è saggista e docente di Storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre. è stato consulente per la Commissione parlamentare antimafia, e , da deputato del Pci ha fatto parte della Commissione Giustizia.