La democrazia è in pericolo negli Usa, avverte Ani DiFranco. «Non dobbiamo arrenderci, non dobbiamo accettare passivamente di essere defraudati dei nostri diritti fondamentali», dice la compositrice e cantante chiamando alla resistenza contro le illiberali e aggressive politiche di Trump. In occasione del suo tour in Italia le abbiamo rivolto qualche domanda.
Ani, il titolo del tuo nuovo album, Unprecedented Shit, è piuttosto provocatorio. Cosa significa per te nel contesto attuale?
Oh, può assumere più di un significato, immagino. Al momento, qui in America, stiamo andando in direzioni mai viste prima. La nostra democrazia sembra realmente in pericolo. Molte cose hanno preso una piega molto pericolosa, e noi non siamo ancora attrezzati per saperla gestire. Il titolo della canzone è diventato il titolo dell’album perché penso che rappresenti lo stato attuale delle cose da tanti punti di vista.
Nel corso della tua carriera ti sei sempre espressa apertamente su questioni politiche. Dato l’attuale clima negli Stati Uniti, dalle minacce alla democrazia agli attacchi ai diritti delle donne, quale pensi debba essere adesso il ruolo degli artisti nella resistenza e nell’attivismo?
È di fondamentale importanza, innanzitutto, non arrendersi e non accettare passivamente di venire defraudati dei nostri diritti fondamentali. Lo vediamo accadere quotidianamente, specialmente per grandi imprese e industrie che si piegano al volere Trump ed al suo regime. Improvvisamente Trump dichiara che il Golfo del Messico non si chiama più così ma Golfo d’America e il giorno successivo su Google appare la denominazione Golfo d’America. È incredibile vedere quanto velocemente possano accadere cose simili, ed è dunque è particolarmente importante che ci sia chi invece resiste. Non mi riferisco solo agli artisti, ma alla società nella sua interezza. In questo momento sentiamo continuamente storie di persone immigrate rastrellate in stile Gestapo, arrestate e deportate, rinchiuse in prigione e detenute illegalmente. Sono questi arresti ad essere illegali, perché quelle persone si trovano in America legittimamente. Penso a chi si piega, mettendo in atto le direttive incostituzionali del governo, e vorrei tanto che invece si credesse un po’ di più nel proprio potere di resistere. È tutto davvero orribile. Spero che gli artisti riescano ad ispirare le persone a resistere. Dopotutto non siamo altro che persone come tante altre, senza alcun superpotere, tranne forse quello di poter convincere le persone a credere nella possibilità di resistere.
Questo disco sembra più che mai vivo, urgente e profondamente personale. Puoi parlarmi un po’ del processo creativo che c’è dietro e di cosa l’ha ispirato?
Credo ci sia dietro solo una riflessione sul vivere più consapevolmente quello che accade in questo mondo in rapido mutamento. Dietro ciascun brano ci sono tematiche personali ma allo stesso tempo figlie del momento storico che sta vivendo il mio Paese. Affronto il tema della libertà riproduttiva ad esempio, così come quelli di un sistema giudiziario alla deriva, del razzismo o dell’accentramento del potere di governo nella classe ricca. Parlo anche di cambiamento climatico, e del disastro che ci aspetta. L’album inizia con “Spinning Room”, un brano nato dalla riflessione su come percepiamo ed affrontiamo un disagio, una patologia di qualunque tipo, dalle patologie più gravi come il cancro fino ai disturbi come l’insonnia. Per come la vedo io, non tutto è un problema individuale. Piuttosto è un segnale del nostro appartenere tutti alla natura. Facciamo parte di un ecosistema che stiamo uccidendo, stiamo distruggendo l’ambiente, stiamo distruggendo noi stessi, se la terra non respira, neppure noi respiriamo. Credo, ad esempio, che studiare le varie forme di ansia, trovare dei farmaci ad hoc, significhi continuare a ignorare il fatto che l’ansia proviene da un problema reale. Quando la nostra realtà psichica e fisica sente che stiamo tutti affondando, ovviamente esprime ansia. Non si tratta di un problema individuale, è un problema globale. Le canzoni di questo album nascono unicamente dalle riflessioni di chi cerca di vivere nel mondo moderno confrontandosi con ciò che sta accadendo.Dal punto di vista del sound invece sembra che tu abbia sperimentato nuove sonorità e distorsioni in alcuni brani. Credi che il processo di produzione abbia rispecchiato le tematiche dell’album?
All’interno del panorama musicale moderno, i musicisti che suonano i propri strumenti e basta, come io ho fatto per lungo tempo, sono diventati ormai un’eccezione. Rappresentano la mosca bianca in un mondo dominato da tecnologie come l’auto tune che arrivano a manipolare perfino la voce umana. Adesso però, forse perché le macchine sono connesse ad ogni aspetto della nostra vita, mi è sembrato strano che non entrassero anche nella mia musica. Così ho deciso quindi di coinvolgere BJ Burton, come produttore. Finora mi sono sempre autoprodotta, ma volevo qualcuno giovane, che avesse familiarità con le nuove tecnologie, e potesse portarle nel disco.
In passato hai anche provato a sperimentare da sola.
Sì ma non sono stata in grado di ottenere l’effetto che volevo perché non ho sufficiente familiarità con le nuove attrezzature. Con l’arrivo di BJ, l’album si è trasformato in una sorta di studio sul contrasto. Per gran parte è costituito da pezzi scarni, essenziali: voce e chitarra o solo voce e un suono sfocato, affiancati però a brani in stile molto moderno. Adoro il contrasto e gli elementi nuovi che BJ ha portato, erano esattamente quello che cercavo. Vivendo in Stati diversi, abbiamo collaborato a distanza. Io registravo le canzoni e quasi tutti i suoni, poi gliele inviavo e lui giocava con le sonorità. Abbiamo continuato a lavorare così per tutto il tempo, come se fossimo solo noi due, ciascuno racchiuso all’interno del suo piccolo mondo, è stato molto interessante a livello creativo.
La pandemia ha cambiato il modo in cui molti artisti creano, vanno in tour e si connettono con il pubblico. Ha influenzato il tuo approccio alla musica e live?
Per me in realtà è stata una pausa davvero necessaria. Ho dei figli, sai, due, ed è stato difficile passare così tanti mesi, per tanti anni, in tour lontano da casa. Quando poi ho ripreso, dopo la pandemia, beh, all’inizio è stato molto difficile perché, se ci pensi, chi può dire quando sia finita esattamente la pandemia? Nessuno può dirlo con esattezza. Facevamo i concerti con le mascherine e lungo la strada qualcuno prendeva il Covid e si tornava a casa. Per parecchio tempo è stato un caos. Nel complesso, tuttavia, direi che mi ha aiutata a tornare sul palco più riposata e felice di essere di nuovo là fuori. Felice di essere tornata a suonare davanti a un pubblico, ma anche del fatto che avevo avuto del tempo da passare con i miei figli.
Ultimamente invece sei stata molto impegnata a Broadway con lo spettacolo Hadestown di Anaïs Mitchell, in cui interpreti il ruolo di Persefone. Dopo così tanto tempo passato in teatro, come ti senti tornare in tour con la tua band?
Benissimo. Quest’esperienza mi ha fatta crescere moltissimo. Recitare a Broadway è molto differente da quando sono solo io sul palco con la mia musica. Nei miei concerti c’è molta improvvisazione e mi affido tanto al mood del momento. Mi chiedo sempre: “Che energia mi arriva dalla sala?” “Che tipo di pubblico c’è, com’è l’atmosfera?”.
A Broadway questo è possibile?
Lì non conta quale sia l’energia nella sala, se è un sabato sera e le persone sono cariche di vibrazioni positive, o se è un mercoledì pomeriggio totalmente fiacco, in entrambi i casi lo spettacolo deve andare in scena esattamente allo stesso modo. Si tratta quindi non di improvvisare, ma di esibirsi di fronte ad un’audience senza sapere come reagirà, una modalità del tutto nuova per me e molto impegnativa. Oltretutto altri elementi legati alla performance, come la danza e la recitazione erano per me del tutto nuovi, ed è stato fantastico trovarmi ad affrontare nuove sfide a questo punto della mia vita. Mi sento come se avessi continuato ad imparare cose nuove fino all’ultima replica di Hadestown, migliorandomi ed arrivando sempre più in profondità. Sono molto felice di essermi lanciata in questa nuova e lunghissima avventura. Siamo andati in scena per sei mesi di fila e questa esperienza mi ha arricchita.
Ancora riguardo al tour in partenza, ma anche a quelli passati: C’è un brano in particolare che fa sempre parte della tua scaletta? E se sì, quale?
Adesso sto suonando le canzoni del nuovo album ogni sera, perché ovviamente sono le mie canzoni del momento, ma ci sono anche alcuni vecchi brani che funzionano sempre e che il pubblico ama. Per molto tempo ho chiuso i miei concerti con “Gravel” o “Shameless” pezzi super energici della mia discografia passata, perfetti per concludere la serata. Recentemente, parlando con i membri della mia band, stavo tuttavia riflettendo su nuovi modi per iniziare e finire un concerto. Cerco sempre di variare il più possibile includendo però alcuni dei brani più cari al pubblico. Fortunatamente, ne ho una manciata tra cui scegliere, non solo uno o due, quindi posso creare ogni volta un nuovo viaggio musicale.
La tua musica ha sempre parlato dell’empowerment femminile e ci sono brani come “Baby Roe” e “You Forgot to Speak” nel nuovo album che testimoniano una continuità in questo senso. Pensi che le conversazioni su tematiche di genere e sul potere patriarcale si siano evolute in maniera significativa rispetto a quando hai iniziato oppure no?
Si sono evolute e spesso anche involute. Sembra di fare un passo in avanti per poi deragliare e tornare indietro. Penso che questa deriva a destra che stiamo vedendo sia in America che in Europa e nel resto del mondo, rappresenti un patriarcato che sta diventando sempre più estremo. Il maschio onnipotente, il padre onnipotente, il dittatore, il leader. Questa è la direzione verso cui ci porta il patriarcato, almeno fino a quando non prenderemo sul serio il femminismo e capiremo che non riguarda solamente le donne, non è fondamentale soltanto per la liberazione della donna, ma per liberare l’umanità nella sua interezza. Fino a quando le donne non avranno potere, continueremo a vedere un netto peggioramento di tutte le malattie sociali nate dal patriarcato. Perciò chiamatemi pure femminista, ma io credo che liberare e dare potere alle donne a livello globale sia un primo passo necessario per poi risolvere problematiche come il razzismo, il classismo e il cambiamento climatico. Saremo in grado di affrontare tutto soltanto una volta che avremo creato un equilibrio tra i sessi all’interno della società, del governo, della cultura.
Grazie mille ancora del tuo tempo e della tua disponibilità.
Non vedevo l’ora di tornare a suonare in Italia e a Roma.
L’autrice: Chiara Lucarelli è docente universitaria a contratto, fotografa e giornalista freelance. Le immagini di questo articolo sono sue; le ha realizzate al concerto alla Casa del jazz di Roma il 14 giugno 2025