Undici operai in pausa pranzo seduti su una trave sospesa a 250 metri d’altezza. Era il 1932 quando quella celebre foto apparve sul supplemento domenicale del New York Herald Tribune, diventando un’immagine simbolo della Grande depressione, ma non solo.

Fabio Magnasciutti l’ha reinventata per la copertina di Left creando un’immagine pittorica originale e ricca di significati, incarnati anche dalla presenza di donne e immigrati, insieme ad operai, sospesi nel vuoto di certezze di questa ripartenza. Una Fase due necessaria per battere il virus della crisi economica e sociale, ma in cui i lavoratori devono unire le forze per poter affermare il diritto al lavoro in condizioni di sicurezza. Per costruire insieme un diverso modello di società e di sviluppo a dimensione umana.

Quello che ci si para davanti è un bivio di enorme portata. Approfittando della crisi potrebbero imporsi altri suprematisti come Trump che ora (scrive Gasparini) alza nuovi muri contro i migranti, e nuovi Bolsonaro che - come raccontano i reportage di Ferracuti e Menchini - sta agevolando la distruzione della foresta amazzonica e lo sterminio gli indios anche lasciando dilagare il Covid-19.

Oppure, andando nella direzione opposta, dalla crisi sanitaria potrebbero nascere nuovi sistemi sociali più solidali e inclusivi.

Non c’è tempo da perdere, dobbiamo impegnarci per realizzare questa svolta. È questo il momento per costruire una società più democratica e giusta. E le lotte per i diritti dei lavoratori ne sono un asse portante. Entrando nella fase due, mentre il coronavirus non è ancora sconfitto, occorre programmare una ripartenza in sicurezza per tutti.

Lo scenario in cui si festeggia il primo maggio 2020, purtroppo però, è desolante. E non solo per l’assenza di momenti di concreta partecipazione di piazza. Quest’anno lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni e come mette in luce l’inchiesta di Filippi ne è stata fatta strage, in anni e anni di politiche neoliberiste, con riforme come la legge Fornero e il Jobs act.

La pandemia ora ha brutalmente evidenziato tutto ciò che non va nel modello di sviluppo che è stato adottato anche dai governi di centrosinistra. Politiche di austerity e di attacco al welfare hanno prodotto ingiustizia sociale e disuguaglianze. L’emergenza sanitaria ha acuito i problemi preesistenti, aggiungendo crisi a crisi.

Da anni su Left documentiamo la precarizzazione del lavoro, il lavoro povero, quello intermittente, i finti lavori autonomi, iper sfruttati, il caporalato che attanaglia in primis gli immigrati e non solamente nel settore agricolo, come ci ricorda qui l’attivista sindacale Selly Kane.

Durante il lockdown chi svolge lavori essenziali ha fronteggiato l’emergenza restando sempre in prima linea a rischio della propria salute: operatori sanitari, operai, riders ecc. Essenziali, elogiati come eroi, ma non protetti. E, temiamo, continueranno ad esserlo nella fase due.

Solo una percentuale ridotta di persone ha potuto lavorare da casa durante il lockdown. E anche in questo ambito sono emerse enormi differenze. Pensiamo per esempio agli addetti ai call center, ai freelance o ad altre categorie in smart work in assenza di un contratto nazionale e senza diritti. Ma per altri versi pensiamo anche ai docenti scolastici che si sono visti raddoppiare il carico di lavoro con la didattica a distanza.

Il 4 maggio tornano al lavoro 2,7 milioni di italiani. Ma tanti altri non hanno mai smesso di lavorare soprattutto nelle fabbriche del Nord dove, su pressione di Confindustria, sono state previste deroghe tramite autocertificazione delle aziende presso le prefetture. Le ragioni dell’economia hanno prevalso su quelle della sicurezza e della tutela della salute. Certo, non possiamo ignorare il problema: il rischio di una crisi economica di portata ben superiore a quella del 2008 è reale.

Ma al contempo non possiamo ignorare che la ripartenza avviene senza aver prima divulgato approfondite analisi scientifiche. Molti dati, secretati dal Cura Italia fino a metà aprile, non stati ancora diffusi e questo ostacola il lavoro dei ricercatori accusa Luca Ricolfi dalle colonne de Il Messaggero. «Entrare in fase 2 è doveroso. Farlo senza stime su quanti siano i contagiati è da irresponsabili», scrive Marco Cappato su Twitter. «Per questo serve fare il tampone a un campione rappresentativo. Incredibilmente - dice il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni- questa misura semplice non è attuata». Del resto, altrettanto incredibilmente, non una parola ha dedicato il premier Conte a questa fondamentale misura di prevenzione nella conferenza stampa del 26 aprile in cui ha illustrato quel che avverrà dal 4 maggio in poi.

I dati sulla curva dell’infezione dai territori affluiranno da maggio all’Istituto superiore di sanità ha detto il presidente del Consiglio. Insomma prima riapriamo, poi vediamo come va.

Il nuovo Dpcm pone dei paletti alle riaperture indiscriminate, certo. Ma non tutti quelli che ci saremmo aspettati: perché per esempio le lezioni in classe sono sospese e le messe in chiesa potrebbero ripartire? Sono inaccettabili in tal senso le pressioni della Conferenza episcopale. Oltretutto proprio gli assembramenti per riti e celebrazioni religiose sono stati un potente veicolo di trasmissione del contagio in molte parti del mondo, come abbiamo raccontato due numeri fa.

E poi, riuscirà il governo a frenare i presidenti di Regioni che scalpitano per più ampie riaperture avendo già messo in atto fughe in avanti?

People before profit. E non è solo uno slogan. Già due anni fa titolavamo in copertina “Prima le persone”. Forse allora a qualcuno sembravamo astratti o utopisti. Ora la pandemia ha reso chiara a molti l’importanza di un solido sistema sanitario nazionale e pubblico, ha mostrato l’importanza della ricerca e di politiche solidali che mettano al centro l’interesse collettivo, che prevedano una ridistribuzione non solo della ricchezza ma anche di opportunità culturali (quanti ragazzi sono stati esclusi in Italia dalla didattica a distanza perché privi degli strumenti necessari, in particolare nelle aree più disagiate?). Abbiamo imparato la dura lezione imposta dal coronavirus che ha messo drammaticamente in evidenza le debolezze del nostro sistema produttivo e sociale o vogliamo suicidarci riproponendo la ricetta neoliberista basata su un’idea disumana di Homo oeconemicus tutto teso al profitto e al consumo e privo di legami sociali che non siano strumentali a una maggiore produttività? (Della necessità di una nuova antropologia scrive un gruppo di valenti economisti ne L’essere umano e l’economia, che proponiamo di leggere). Durante lunghe settimane di lockdown chi ha potuto permettersi di stare a casa e di avere un po’ di tempo per sé ha riscoperto il valore dell’arte, della musica (dai balconi e non), della lettura. I lavoratori dell’arte e della cultura sono fra quelli che soffrono di più la crisi, per il duro stop che ha subito il mondo dell’editoria e per la cancellazione degli spettacoli dal vivo, come ci ricorda Gegè Telesforo qui intervistato.

è tempo di riconoscere l’identità degli artisti e l’importanza del loro lavoro che deve avere anche un adeguato riconoscimento economico, come diciamo da sempre. Essenziali ma precari, sono in Italia gran parte dei musicisti, degli artisti, degli scrittori. Ma anche i giornalisti che non sono i soliti volti televisivi e che durante questa pandemia hanno lavorato duramente, insieme agli edicolanti, per garantire un’informazione rigorosa e partecipe. Anche questo è servizio pubblico.

[su_divider style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

L'editoriale è tratto da Left in edicola da venerdì 1 maggio
Leggilo subito online o con la nostra App [su_button url="https://left.it/prodotto/left-18-2020-1-maggio/" target="blank" background="#ec0e0e" size="7"]SCARICA LA COPIA DIGITALE[/su_button]

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Undici operai in pausa pranzo seduti su una trave sospesa a 250 metri d’altezza. Era il 1932 quando quella celebre foto apparve sul supplemento domenicale del New York Herald Tribune, diventando un’immagine simbolo della Grande depressione, ma non solo.

Fabio Magnasciutti l’ha reinventata per la copertina di Left creando un’immagine pittorica originale e ricca di significati, incarnati anche dalla presenza di donne e immigrati, insieme ad operai, sospesi nel vuoto di certezze di questa ripartenza. Una Fase due necessaria per battere il virus della crisi economica e sociale, ma in cui i lavoratori devono unire le forze per poter affermare il diritto al lavoro in condizioni di sicurezza. Per costruire insieme un diverso modello di società e di sviluppo a dimensione umana.

Quello che ci si para davanti è un bivio di enorme portata. Approfittando della crisi potrebbero imporsi altri suprematisti come Trump che ora (scrive Gasparini) alza nuovi muri contro i migranti, e nuovi Bolsonaro che – come raccontano i reportage di Ferracuti e Menchini – sta agevolando la distruzione della foresta amazzonica e lo sterminio gli indios anche lasciando dilagare il Covid-19.

Oppure, andando nella direzione opposta, dalla crisi sanitaria potrebbero nascere nuovi sistemi sociali più solidali e inclusivi.

Non c’è tempo da perdere, dobbiamo impegnarci per realizzare questa svolta. È questo il momento per costruire una società più democratica e giusta. E le lotte per i diritti dei lavoratori ne sono un asse portante. Entrando nella fase due, mentre il coronavirus non è ancora sconfitto, occorre programmare una ripartenza in sicurezza per tutti.

Lo scenario in cui si festeggia il primo maggio 2020, purtroppo però, è desolante. E non solo per l’assenza di momenti di concreta partecipazione di piazza. Quest’anno lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni e come mette in luce l’inchiesta di Filippi ne è stata fatta strage, in anni e anni di politiche neoliberiste, con riforme come la legge Fornero e il Jobs act.

La pandemia ora ha brutalmente evidenziato tutto ciò che non va nel modello di sviluppo che è stato adottato anche dai governi di centrosinistra. Politiche di austerity e di attacco al welfare hanno prodotto ingiustizia sociale e disuguaglianze. L’emergenza sanitaria ha acuito i problemi preesistenti, aggiungendo crisi a crisi.

Da anni su Left documentiamo la precarizzazione del lavoro, il lavoro povero, quello intermittente, i finti lavori autonomi, iper sfruttati, il caporalato che attanaglia in primis gli immigrati e non solamente nel settore agricolo, come ci ricorda qui l’attivista sindacale Selly Kane.

Durante il lockdown chi svolge lavori essenziali ha fronteggiato l’emergenza restando sempre in prima linea a rischio della propria salute: operatori sanitari, operai, riders ecc. Essenziali, elogiati come eroi, ma non protetti. E, temiamo, continueranno ad esserlo nella fase due.

Solo una percentuale ridotta di persone ha potuto lavorare da casa durante il lockdown. E anche in questo ambito sono emerse enormi differenze. Pensiamo per esempio agli addetti ai call center, ai freelance o ad altre categorie in smart work in assenza di un contratto nazionale e senza diritti. Ma per altri versi pensiamo anche ai docenti scolastici che si sono visti raddoppiare il carico di lavoro con la didattica a distanza.

Il 4 maggio tornano al lavoro 2,7 milioni di italiani. Ma tanti altri non hanno mai smesso di lavorare soprattutto nelle fabbriche del Nord dove, su pressione di Confindustria, sono state previste deroghe tramite autocertificazione delle aziende presso le prefetture. Le ragioni dell’economia hanno prevalso su quelle della sicurezza e della tutela della salute. Certo, non possiamo ignorare il problema: il rischio di una crisi economica di portata ben superiore a quella del 2008 è reale.

Ma al contempo non possiamo ignorare che la ripartenza avviene senza aver prima divulgato approfondite analisi scientifiche. Molti dati, secretati dal Cura Italia fino a metà aprile, non stati ancora diffusi e questo ostacola il lavoro dei ricercatori accusa Luca Ricolfi dalle colonne de Il Messaggero. «Entrare in fase 2 è doveroso. Farlo senza stime su quanti siano i contagiati è da irresponsabili», scrive Marco Cappato su Twitter. «Per questo serve fare il tampone a un campione rappresentativo. Incredibilmente – dice il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni– questa misura semplice non è attuata». Del resto, altrettanto incredibilmente, non una parola ha dedicato il premier Conte a questa fondamentale misura di prevenzione nella conferenza stampa del 26 aprile in cui ha illustrato quel che avverrà dal 4 maggio in poi.

I dati sulla curva dell’infezione dai territori affluiranno da maggio all’Istituto superiore di sanità ha detto il presidente del Consiglio. Insomma prima riapriamo, poi vediamo come va.

Il nuovo Dpcm pone dei paletti alle riaperture indiscriminate, certo. Ma non tutti quelli che ci saremmo aspettati: perché per esempio le lezioni in classe sono sospese e le messe in chiesa potrebbero ripartire? Sono inaccettabili in tal senso le pressioni della Conferenza episcopale. Oltretutto proprio gli assembramenti per riti e celebrazioni religiose sono stati un potente veicolo di trasmissione del contagio in molte parti del mondo, come abbiamo raccontato due numeri fa.

E poi, riuscirà il governo a frenare i presidenti di Regioni che scalpitano per più ampie riaperture avendo già messo in atto fughe in avanti?

People before profit. E non è solo uno slogan. Già due anni fa titolavamo in copertina “Prima le persone”. Forse allora a qualcuno sembravamo astratti o utopisti. Ora la pandemia ha reso chiara a molti l’importanza di un solido sistema sanitario nazionale e pubblico, ha mostrato l’importanza della ricerca e di politiche solidali che mettano al centro l’interesse collettivo, che prevedano una ridistribuzione non solo della ricchezza ma anche di opportunità culturali (quanti ragazzi sono stati esclusi in Italia dalla didattica a distanza perché privi degli strumenti necessari, in particolare nelle aree più disagiate?). Abbiamo imparato la dura lezione imposta dal coronavirus che ha messo drammaticamente in evidenza le debolezze del nostro sistema produttivo e sociale o vogliamo suicidarci riproponendo la ricetta neoliberista basata su un’idea disumana di Homo oeconemicus tutto teso al profitto e al consumo e privo di legami sociali che non siano strumentali a una maggiore produttività? (Della necessità di una nuova antropologia scrive un gruppo di valenti economisti ne L’essere umano e l’economia, che proponiamo di leggere). Durante lunghe settimane di lockdown chi ha potuto permettersi di stare a casa e di avere un po’ di tempo per sé ha riscoperto il valore dell’arte, della musica (dai balconi e non), della lettura. I lavoratori dell’arte e della cultura sono fra quelli che soffrono di più la crisi, per il duro stop che ha subito il mondo dell’editoria e per la cancellazione degli spettacoli dal vivo, come ci ricorda Gegè Telesforo qui intervistato.

è tempo di riconoscere l’identità degli artisti e l’importanza del loro lavoro che deve avere anche un adeguato riconoscimento economico, come diciamo da sempre. Essenziali ma precari, sono in Italia gran parte dei musicisti, degli artisti, degli scrittori. Ma anche i giornalisti che non sono i soliti volti televisivi e che durante questa pandemia hanno lavorato duramente, insieme agli edicolanti, per garantire un’informazione rigorosa e partecipe. Anche questo è servizio pubblico.

L’editoriale è tratto da Left in edicola da venerdì 1 maggio

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