«Non bisogna chiedere alla ricerca quello che non può dare. La scienza non può fare l’indovina. Può rispondere a delle domande solo se ha informazioni adatte e verificate. Invece di fronte al Sars-Cov-2 siamo diventati tutti virologi quando in realtà la virologia italiana non è che sia così tanto sviluppata. Se ognuno parlasse di quello che conosce sarebbe molto meglio. Il problema, al fondo, è che la ricerca non è considerata importante e nelle nostre scuole manca l’insegnamento della scienza come fonte di conoscenza, non si ha chiara l’importanza del metodo scientifico. La scienza è un’attività umana e in quanto tale commette errori. Però ha in sé la capacità di correggersi molto rapidamente. Ma quando in una società non c’è questo tipo di cultura capita che un governo spenda milioni per testare l’intruglio di Stamina in un ospedale pubblico senza ascoltare gli scienziati. Una cosa senza senso. Ora tutta questa confusione la scontiamo nella lotta contro l’epidemia».
Abbiamo incontrato il professor Silvio Garattini, fondatore e presidente dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano, per parlare dei trattamenti a disposizione dei pazienti Covid ed eventualmente sgombrare il campo da false o premature speranze di cura. Ma prima di entrare in medias res il farmacologo ha voluto fare la premessa che avete appena letto. Così è più semplice comprendere come mai abbiamo sentito qualche medico affermare in estate che il virus era «clinicamente morto» sebbene la comunità mondiale degli epidemiologi sostenesse che con l’autunno sarebbe arrivata una seconda ondata; e si può anche capire perché sin dal marzo scorso i nostri media e anche diversi “esperti” non si sono fatti lo scrupolo di esaltare le presunte doti taumaturgiche di farmaci pur in assenza di evidenze scientifiche. Tutti abbiamo sentito nominare l’idrossiclorochina, il remdesivir o la clorochina e, ultimo in ordine di tempo, addirittura un integratore come la lattoferrina che sarebbe in grado di bloccare il Covid (è stato detto anche in un servizio sul Tg3 Lazio!). «La realtà – precisa Garattini – è che a oggi non esiste una cura specifica per questa malattia e che per sconfiggerla serve ancora tanto tempo».
Professor Garattini a che punto siamo?
Dobbiamo dire che la maggior parte dei farmaci utilizzati all’inizio della pandemia pur con tutte le buone intenzioni si sono rivelati completamente inutili. E anzi molto spesso dannosi.
Ci faccia degli esempi…
Partirei dall’uso, che all’inizio è stato ampio, del ritonavir, un antiretrovirale impiegato nel trattamento dell’infezione del virus Hiv-Aids. Successivamente, studi fatti in modo adeguato hanno stabilito che non c’era nessuna efficacia. Oppure il remdesivir, antivirale utilizzato per la Sars e soprattutto per l’Ebola, è stato anche approvato dalla Food and drug administration statunitense ma i risultati dello studio più importante – il “Solidarity” effettuato dall’Organizzazione mondiale della sanità – hanno mostrato che purtroppo non c’è alcun effetto sulla mortalità da Covid. Uno studio appena pubblicato sul New England journal of medicine mostra che c’è un lieve miglioramento nella durata di permanenza in ospedale che si ridurrebbe in media di circa quattro giorni.
Nei primi mesi di epidemia si parlava molto di antimalarici come la clorochina e l’idrossiclorochina.
Esatto, e anche di un antibiotico come l’azitromicina. Hanno creato speranze, aspettative e a un certo punto hanno anche ottenuto l’approvazione da parte di autorità regolatorie. Ma poi gli studi clinici controllati hanno mostrato che non c’è nessuna efficacia. Anzi c’è una forte tossicità cardiovascolare. Lo stesso è accaduto per antinfiammatori come il tocilizumab. C’era l’idea che si dovesse interrompere una catena di risposte infiammatorie da parte dei mediatori chimici pro-infiammatori, pertanto il tocilizumab era stato pienamente utilizzato. Ma poi negli studi controllati si è rivelato inefficace.
Quindi oggi cosa ci rimane?
Ci resta il…
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