Quasi un secolo fa, negli Usa, Carter G. Woodson (1875-1950), oggi noto come il padre della Black History, proclamò la Negro history week: una settimana da celebrare in tutto il Paese con lo scopo di incoraggiare gli statunitensi a studiare la storia dei neri. La settimana cadeva a febbraio, mese di nascita del presidente Abraham Lincoln (1809-1865) e del politico e attivista abolizionista Frederick Douglass (1818- 1895), e si proponeva di estendere a tutti Usa il Douglass’day proposto verso fine Ottocento come giornata di festa per gli studenti delle colored schools dell’area di Washington dalla giornalista e attivista Mary Church Terrell (1863-1954), una delle prime donne afroamericane a laurearsi. Durante quella settimana Woodson distribuiva agli studenti delle colored schools, anche nelle zone rurali, giornali e riviste contenenti discorsi e foto di persone afroamericane che finalmente prendevano la parola, e divulgava ai giovani che incontrava la sua idea che se una razza non ha una storia diventa “trascurabile” agli occhi del mondo, e possibilmente soggetta al rischio di essere sterminata. Era la seconda metà degli anni Venti; cinquant’anni dopo circa, la Negro history week verrà ulteriormente ampliata dagli studenti ed educatori dell’Università del Kent a Black history month, in seguito ufficialmente riconosciuto dal governo statunitense nel 1976.
Torino è la terza città in Italia, dopo Firenze e Bologna, rispettivamente alla settima e alla quarta edizione del Black history month, dove febbraio è il mese dedicato alla valorizzazione e celebrazione della storia dei neri. Dell’eredità di Woodson, qui, si è fatta carico una donna, il suo nome è Suad Omar: somala ma in Italia da trentaquattro anni, mediatrice culturale, attivista, formatrice, poetessa e scrittrice, e un entusiasmo dirompente tra gli intercalari esotici del suo italiano. L’associazione che ha fondato nel 2007 insieme ad altre sei donne di origine africana (Adass, Associazione donne Africa subsahariana e seconda generazione) ha coordinato i lavori per la seconda edizione del Black history month Torino (1-26 febbraio), patrocinata da Città di Torino in collaborazione con numerose altre associazioni del territorio. La rassegna si snoda nell’arco di quattro settimane mediante convegni, incontri con autrici e autori, mostre, proiezioni di film, attività per le scuole, cene etniche, concerti, performance artistiche, e attraversa spazi diversissimi della città, dallo spazio museo di palazzo Madama alla Casa di quartiere di San Salvario, mettendo in rete comunità, persone e luoghi. Quest’anno le tre tematiche attorno a cui ruotano gli eventi in programma sono radici, identità ed empowerment, e si inseriscono in grassetto tra i fili colorati delle lunghe trecce della donna disegnata sulla locandina.
«Vogliamo raccontare un’altra Africa attraverso gli occhi delle donne, da un lato, e delle seconde generazioni, dall’altro. Dalla cura del corpo a quella dei capelli, dalla scrittura alla poesia. L’obiettivo è quello di far conoscere, sperimentare, scoprire e riscoprire includendo ed educando», mi spiega al telefono Suad, e le sue parole sembrano continuare in quelle di Cecilia Pennacini, professoressa ordinaria di Antropologia culturale e direttrice del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino, coinvolto nell’organizzazione di alcune mostre ed eventi della rassegna: «Anche l’Italia ha bisogno di conoscere la storia dell’Africa – che è una storia antica, di civiltà importanti, e che conosciamo poco. Altrimenti si rischia di semplificare o addirittura di dar luogo a fenomeni pericolosi come xenofobia e razzismo» (Per approfondire si può leggere l’articolo di Pennacini Innovazione dal Mediterraneo in giù apparso sul numero di Left Africa, il futuro è qui).
Suad mi spiega che ad organizzare la rassegna ci hanno pensato ragazze e ragazzi di seconda generazione, quei giovani le cui identità sono «in bilico tra diverse appartenenze, che spesso sentono il bisogno di riconnettere», come osserva l’antropologa Pennacini. «Hanno dai 14-15 anni in su – dice la portavoce di Adass – e sono loro le persone chiamate in causa: perché conoscano le proprie radici, scoprano le proprie identità e acquisiscano l’empowerment che gli permette di raccontare che esistono. Attraverso l’arte africana, frutto della diaspora e del melting pot culturale».

Cecilia Pennacini ci parla del difficile rapporto dell’Italia con il proprio passato coloniale: «Delle colonie italiane in Africa c’è poca memoria: di questo pezzo della nostra storia, che è una storia che condividiamo con l’Africa, si parla poco anche a scuola. A me sembra molto interessante il fatto che gli afro-italiani e gli afrodiscendenti che vivono in Italia, che cominciano a essere piuttosto numerosi, sia di prima che di seconda generazione, hanno preso in mano questa iniziativa per cominciare a parlare di Africa dal loro punto di vista. Mi sembra interessante perché i giovani di origine africana che vivono in Italia hanno poche occasioni di studiare e informarsi sulla storia dell’Africa e anche sulla storia dell’Italia in Africa, che è una storia drammatica. Il Black history month – conclude – è anche un’occasione per l’Italia di ripensare il passato coloniale, questo passato che si ripercuote a tanti livelli sul presente. Farlo attraverso le donne e i giovani che ruotano intorno ad Adass, che hanno una memoria familiare del colonialismo e della migrazione, e magari analizzando le loro testimonianze dal punto di vista degli storici dell’Africa e antropologi, è un modo per far riemergere questi temi poco ricordati». Il Black history month, dunque, come strumento attraverso cui riappropriarsi della narrazione della storia che le diaspore scrivono in Italia, rileggere e riscoprire le radici coloniali e gli esiti che queste hanno prodotto sull’identità dei corpi neri, tuttora troppo spesso razzializzati.





