Dietro la “retorica della condivisione” il mondo virtuale nasconde una brutale commercializzazione della nostra vita, denuncia il filosofo Byung-Chul Han tra i più severi critici delle grandi piattaforme private che fanno business con i nostri dati sensibili. Secondo il filosofo tedesco di origini sudcoreane i social generano un insano narcisismo digitale, non producendo mai un “noi”, ma addirittura, ma dal suo punto vista, chiudendoci in una bolla, «che restringe, i nostri orizzonti, divorando le fondamenta stesse della democrazia rappresentativa». Dopo libri che hanno fatto molto discutere come Nello sciame. Visioni del digitale (Nottetempo) ora torna ad argomentare la sua visione critica del web e della società digitale improntata su un modello neoliberista nel libro Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete (Einaudi) analizzando come le big tech, attraverso algoritmi e intelligenza artificiale, arrivino a dominare i processi sociali, economici e politici. Basti ricordare, solo per fare un esempio, lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018.
«Decisivo per la conquista del potere – scrive Byung-Chul Han – non è il possesso dei mezzi di produzione, bensì l’accesso all’informazione che evolve in capitalismo della sorveglianza e declassa gli esseri umani a bestie da dati e consumo». Pur non condividendone la visione apocalittica tuttavia ritengo che Byung-Chul Han ponga questioni importanti su cui riflettere. Di fronte a simili scenari di strapotere degli oligopolisti digitali sulle nostre vite, quali contromisure prendere? Quali strumenti possono mettere in campo gli Stati che vedono minacciata la sicurezza? Come difendersi in quanto cittadini senza rinunciare al progresso che ha portato la rete che, pur fra luci e ombre, ha accelerato lo scambio di idee e informazioni? Come riuscire a sfruttarne i vantaggi, evitando di diventare una merce, evitando di finire nel tritacarne di un capitalismo che esercita il suo potere in maniera seduttiva e invisibile arrivando «a dissolvere l’essere umano in una misera serie di dati»? Su tutto questo ci siamo interrogati nella storia di copertina, con l’aiuto di studiosi di nuove tecnologie, di diritto alla privacy e di cybersecurity (Silvia De Conca e Marco Santarelli), di giornalisti specializzati (Simone Pieranni, Sergio Bellucci, Michele Mezza) e di psichiatri (Beniamino Gigli), per approfondire “il senso antropologico” della tecnologia per l’evoluzione culturale umana nelle relazioni. Il punto è che la tecnologia deve servire al potenziamento dell’identità umana e dei processi democratici. Ma la diffusione di pericolose fake news in rete, l’incitamento all’odio, i tentativi di sottile manipolazione che avvengono via web e attraverso chat bot inficiano questa funzione. E non parliamo di pericoli lontani nel tempo. Per fare un esempio, già il Garante della privacy è intervenuto stoppando il chat Gpt Replika che genera “un amico virtuale” per favorire il benessere, calmare l’ansia, “trovare l’amore”. Il Garante della privacy ha scritto in una nota che Replika al momento non potrà usare i dati degli utenti italiani perché ci sarebbero troppi rischi per i minori (a cui fornisce risposte inadeguate al grado di sviluppo) e per le personalità fragili. Passando da questo piano importantissimo che riguarda la tutela dei minori a quello più generale che riguarda la politica e la sicurezza degli Stati e addirittura la guerra, su questo numero Michele Mezza parla di privatizzazione della guerra ricostruendo come le big tech attraverso i social e strumenti di geolocalizzazione sono intervenute nella guerra di invasione russa in Ucraina, orientandone gli sviluppi.
Ribadiamo, lungi da noi essere apocalittici e luddisti ma appare chiaro che tutto questo chiede più che una riflessione seria: c’è di mezzo la vita delle persone. Quanto alla questione del problematico rapporto fra sicurezza degli Stati e piattaforme monopolistiche private su questo numero di Left, l’esperto di cybersecurity Marco Santarelli ci parla dell’indagine conoscitiva che il Copasir ha avviato per accertare se ci sia stata una eventuale condivisione di dati sensibili di utenti italiani con il governo cinese. La vice presidente del Garante della privacy Cerrina Feroni invece ci parla dell’indagine avviata su Facebook riguardo al trattamento dei dati “privati” dell’utenza in occasione delle politiche del 2022. Di fronte allo strapotere delle piattaforme internazionali che hanno sede soprattutto negli Usa e in Cina (dove non sono tenute a rispettare la privacy degli utenti) gli Stati spesso appaiono impotenti. Anche per questo sono particolarmente importanti gli strumenti sul piano legislativo di cui si sta dotando l’Unione europea. La Commissione Ue, in particolare, dopo oltre 20 anni ha finalmente creato nuove regole per rafforzare la tutela della privacy e dei diritti di chi “vive” sui social o naviga su siti di e-commerce. Una svolta molto ambiziosa, come ci spiega Silvia De Conca dell’Università di Amsterdam, «per far fronte a un ecosistema online cresciuto a dismisura negli ultimi anni, con problemi di complessità tecnologica, sociale ed economica senza precedenti».
In finale, segnaliamo che perfino negli Stati Uniti si potrebbe quanto meno aprire una discussione poiché è arrivato fino alla Suprema corte un caso che interroga le responsabilità delle grandi piattaforme per i contenuti e il modo in cui vengono diffusi dai loro algoritmi. Uno dei casi che ha mosso le acque è quello di una giovane, Nohemi Gonzalez, uccisa durante l’attentato del Bataclan nel 2015. La famiglia ha accusato YouTube di complicità con l’Isis per non aver censurato i contenuti video di propaganda del gruppo terroristico fondamentalista. Dubitiamo, mentre andiamo in stampa, che i giudici Usa accetteranno di mettere in discussione la Sezione 230 del Communications decency act, una legge approvata nel 1996 che garantisce alle aziende informatiche di non poter essere ritenute legalmente responsabili per i contenuti pubblicati dai loro utenti, come i post sui social. Certo, sarebbe una rivoluzione riconoscere ai colossi del web responsabilità da editori ma non ci contiamo troppo.
In apertura: illustrazione di Fabio Magnasciutti