Fascisti contro la democrazia (Einaudi) di Davide Conti è un libro fondamentale e necessario, per leggere il passato e capire il presente. Illumina pagine fin qui ancora buie della storia dell’Italia e, indirettamente, permette di vedere più chiaramente la matrice politica e culturale di molti provvedimenti del governo Meloni che avanzano a rapidi passi prima delle Europee.
In primis il premierato ma anche l’autonomia differenziata. Sono due controriforme – una costituzionale, l’altra no – che nel loro combinato disposto intaccano pericolosamente gli equilibri e i valori costituzionali. Il premierato svuota il senso del voto, marginalizza il ruolo Parlamento e la funzione di garanzia del presidente della Repubblica. (Su Left ne hanno scritto autorevoli giuristi a loro rimando).
Quanto all’autonomia differenziata cancella l’universalità dei diritti sanciti dalla Carta e non siamo solo noi a dirlo. Importanti rilievi critici arrivano non solo dai comitato di cittadini riuniti sotto la sigla no Ad ma anche dalla Corte dei Conti, dalla Banca d’Italia, dalla Cgil, da Gimbe e da altri autorevoli organismi. Queste controriforme volte a colpire la Costituzione antifascista non sono un frutto estemporaneo del momento ma hanno radici antiche nella storia del fascismo e nel neo fascismo. Il libro di Davide Conti ci aiuta a capire tutto questo tessendo una straordinaria trama di fatti incontrovertibili.
Detto in estrema sintesi il libro del ricercatore e consulente della procura di Bologna permette di capire da dove viene la stretta autoritaria che viviamo e che è sotto gli occhi di tutti: manganellate a studenti inermi come è accaduto a Pisa, Firenze, a Roma. Criminalizzazione del dissenso dentro le università, querele temerarie che colpiscono giornalisti, docenti, rettori come Tomaso Montanari e lo stesso Conti. (Qui la conferenza stampa alla federazione nazionale della stampa).
Non è solo la libertà di parola e di espressione ad essere colpita, ma è anche lo stesso conflitto sociale, come sana dinamica democratica ad essere censurato, impedito, criminalizzato. Da dove viene questa spinta? Quale ne è la matrice? Quali gli obiettivi?
Davide Conti lo fa capire lasciando che sia il lettore a fare l’immagine di ciò che sta accadendo, ricostruendo puntualmente la traettoria del fascismo e del post fascismo. Lo fa con prosa limpida, in maniera assolutamente non ideologica, squadernando scientificamente i documenti sul tavolo, citando le fonti, invitandoci a rileggere più a fondo la storia, illuminando circostanze e nessi.
Fascisti contro la democrazia non è un libro a tesi, non c’è pedagogismo. Semplicemente (con quel carico di lavoro che è necessario per arrivare a questa profonda semplicità) fa correre la mente in maniera appassionate, tanto che non si smette di leggere anche se è chiaro fin dalle prime pagine chi è – metaforicamente parlando – l’assassino.
Ma lasciatemi aggiungere qualche altra nota riguardo al libro, per chi non l’avesse ancora letto.
Il volume analizza 30 anni di storia dal 1946 al 1976. Già la prima data segna uno choc per chi, come me, non sapeva che proprio il 26 dicembre 1946, poco dopo la liberazione dal nazifascimo -grazie alla lotta partigiana e prima che fosse promulgata la Costituzione -, si formò l’Msi, partito dei reduci di Salò (che avevano trovato a Roma la protezione del clero). I repubblichini fondarono l’Msi non con un intento meramente nostalgico, ma con un chiaro obiettivo: essere fascisti in democrazia, costruire nuove generazioni di fascisti. E tutto questo la dice lunga su quanto in Italia sia mancata una vera Norimberga. Ci dice di una strisciante continuità (su cui ha scritto pagine importanti Claudio Pavone) e dei conti che l’Italia non ha mai fatto fino in fondo con il fascismo.
Così l’Msi è stato il convitato di pietra. E’ il baco che si nasconde nella democrazia appena nata, in quanto « aggregazione ontologicamente ostile alle istituzioni nate dalla Resistenza e alla democrazia antifascista», scrive Davide Conti.
La data finale del libro è altrettanto e più risuonante della prima, e troppo spesso oggi ce la si dimentica: il 1976. In quell’anno il 98 per cento degli elettori andò a votare. La Dc prese il 38 per cento, il Pci il 34 per cento. Erano due partiti di massa. L’Msi toccò i suoi minimi storici. Quel risultato non fu affatto casuale. Era il risultato di una stagione di riforme per la giustizia sociale e di lotta alle disuguaglianze. Tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta la democrazia italiana fece passi da gigante: fu varato lo statuto dei lavoratori, la riforma dello stato di famiglia che liberava le donne dalla sottomissione al capo famiglia imposta dal fascismo, la scuola dell’obbligo, il divorzio, il 1981 l’abolizione del diritto d’onore, il servizio sanitario nazionale… Fu una straordinaria fioritura democratica. Intanto cresceva un apparato paramilitare ostile alla democrazia.
Quelle riforme democratiche suscitarono una risposta violentissima da parte delle forze reazionarie, dai ceti padronali, da quella parte della società che voleva la conservazione, il mantenimento del privilegio di pochi. Nel 1969, ci ricorda Conti, passò lo statuto dei lavoratori in prima lettura e poi ci fu la strage di piazza Fontana per mano di Ordine nuovo.
Il blocco più reazionario non trovò il suo braccio armato solo in gruppi eversivi di estrema destra come Avanguardia nazionale e Ordine nuovo, ma anche nell’Msi che fu partito rappresentato in Parlamento e che, con il governo Tambroni nel 1960, arrivò alle soglie del governo; partito in cui affonda le proprie radici Fratelli di’Italia che ha scelto di evocarlo anche nel simbolo: la fiamma tricolore.
Come ha rilevato Saverio Ferrari presentando il volume di Conti all’Anpi a Milano, leggendo in parallelo le biografie di Almirante e Rauti, Conti sfata il luogo comune che il fucilatore, il repubblichino Almirante, redattore de Il giornale della razza fosse diventato “solo” un fascista in doppio petto, il padre nobile della destra estraneo alla successiva violenza squadrista e alle stragi. Non è così. Fu altrettanto implicato di Rauti nella strategia della tensione, negli anni del terrorismo nero, delle stragi, dello squadrismo (Almirante disse a Firenze nel 1972 «Fuori i manganelli» mentre stringeva rapporti con soggetti militari addestrati in Spagna, in Portogallo, nella Grecia dei colonnelli).
Ma c’è un altro aspetto altrettanto inquietante che Conti documenta – e che ci fa riflettere sulle radici dell’atlantismo bellicista, nazionalista dell’attuale governo -: in tempi di guerra fredda Rauti e Almirante furono apertamente cooptati dalla Nato in chiave anticomunista. Almirante era peraltro stipendiato dagli Usa. È impressionante ciò che emerge da una serie di fatti che Davide Conti rispolvera: In un convegno Nato del 1965 all’Hotel dei principi a Roma intervenne Rauti. Nel 1961 sempre a Roma il segretario della nato Stikker aveva delineato profili e modalità d’azione delle strutture istituzionali, militari e civili sul piano della lotta al comunismo. Fu lì che si cominciò a parlare di «controinsorgenza», di guerra rivoluzionaria contro il comunismo e poi di «guerra psicologica», di «conquista delle menti», di modi per terrorizzare, irretire, per destabilizzare, creare angoscia in modo che la popolazione chiedesse legge e ordine. Poco dopo cominciò la strategia della tensione cominciarono le stragi di Stato in cui furono implicati parte dei servizi. Rauti nel 1964, all’epoca del piano Solo e all’epoca del golpe De Lorenzo, era interno ai massimi livelli militari e di intelligence. Lo stragismo durò fino al 1984. Ed è importantissimo tornare a studiare quegli anni, non perché si pensi che possano tornare tali e quali, ma perché quegli anni gettano ombre lunghe sul presente.
Qui L’intervista di Francesco Troccoli a Davide Conti Quella matrice neofascista della destra