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La tessera dell’Anpi alla dem Puppato e la differenza tra il parteggiare e il servire

Laura Puppato arriva nella sede del PD per la riunione della Direzione, Roma, 20 ottobre 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me. (Groucho Marx)

Io vorrei davvero capire per quale oscuro motivo qualcuno (in questo caso l’onorevole DEM Laura Puppato) debba avere il diritto di iscriversi a un’associazione di cui non condivide i valori, davvero. Mi spiego: la Puppato ha acceso ieri l’ennesimo can can lamentandosi del fatto che l’Anpi le abbia rifiutato la domanda di iscrizione spiegando di non volere tra suoi associati un’esponente politica di rilievo nazionale che ha deciso di spendersi per una riforma costituzionale che l’associazione non condivide.

Appena avuto notizia del rifiuto ovviamente sono partiti gli squadristi dal ditino celere (il senatore Esposito in primis e poi a seguire molti altri democratici) per denunciare il fascismo dell’associazione partigiani. Proprio così: “squadristi” li hanno chiamati. Ogni tanto penso che se qualcuno ci osservasse dallo spazio durante questa campagna referendaria sarebbe già fiaccato dai troppi conati per labirintite. Ma tant’è.

Comunque, non entrando qui nel merito della decisione dell’Anpi, non mi stupisce più di tanto che i componenti del Pd rimangano basiti di fronte alle posizioni di chi ostinatamente decide di tenere la propria posizione. Questi che sparano a palle incatenate contro l’Anpi del resto sono quello stesso partito che ha deciso di rimuovere (temporaneamente, eh) i propri deputati che in commissione non garantivano voti servili per la modifica della legge elettorale; sono gli stessi che oggi sono contro l’Europa e ieri mettevano il “ce lo chiede l’Europa” in tutte le salse; sono gli stessi che hanno votato contro la riforma costituzionale del 2006 insieme al Movimento Sociale e oggi vedono Casapound ovunque nelle tasche degli altri; la Puppato e quegli altri sono quelli che stanno deliberatamente spaccando un Paese in nome della Costituzione che è stata scritta per ricucirlo.

Fondamentalmente la Puppato forse non ha bene in mente la differenza tra il parteggiare e il servire. Il servitore indossa (come lei) i panni dell’agente provocatore per alimentare ogni giorno un caso che possa alzare la polvere sul merito della riforma mentre chi parteggia tiene la barra dritta. Forse esagera o forse no ma parteggiare, cara Puppato, significa avere ben presente in testa da che parte stare e decidere di farsi presidio senza seguire le convenienze. Colui che parteggia, in italiano, è un partigiano. Appunto.

Buon venerdì.

(p.s. per quelli che qui sotto mi scriveranno “quindi sei d’accordo con la scelta di non dare la tessera Anpi alla Puppato?” dico che no, probabilmente non hanno fatto bene, io non l’avrei fatto, no. Ma rispondo subito che mi interessa la differenza tra parteggiare e servire, appunto. E che se la Puppato dice di essere orgogliosa della sua riforma ma di non apprezzare Smuraglia (che dell’Anpi è Presidente, per inciso), di non condividere le posizioni dell’associazione a cui si vorrebbe iscrivere e se la Puppato permette ai suoi compagni di partito di riempire di insulti l’Anpi forse c’è un problema di connessione, eh. Almeno che non voglia cambiare anche l’Anpi “da dentro”. Ma anche no. Dai. Su.)

Addio a Leonard Cohen, poeta della musica

Leonard Cohen

“Leonard Cohen una voce fuori dal coro, poesia pura. Essenzialità e rigore, maledettamente sensuale. Billie Holiday cantava Speak low, e nessuno più di lui ne ha fatto il proprio stile. L’espressione più bella per dire che non serve urlare“. Così Ermanno Giovanardi, ex La Crus, parla del grande cantautore canadese scomparso poche ore fa. Leonard Cohen è stato un punto di riferimento non solo per la generazione di artisti che si è affacciata sulla scena fra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta.

Cohen era un formidabile compositore di liriche, forse più di Bob Dylan e di Joan Baez. Diversa era la loro formazione, del resto: Leonard Norman Cohen era nato il 21 settembre 1934 a Westmount, nel Quebec, aveva radici culturali fortemente europee. La poesia di Federico Garcia Lorca è stata la sua prima fonte di ispirazione E affascinato dall’epos omerico e della lirica di Saffo, dopo essersi laureato alla McGill University, andò a vivere per qualche tempo nell’isola greca di Hydra, dove pubblicò le sue prime raccolte di poesie: Flowers for Hitler nel 1964 e i racconti The Favourite Game nel 1963 e Beautiful Losers nel 1966.

Ma i primi anni furono durissimi, i suoi componimenti non avevano destato attenzione, le difficoltà economiche lo costrinsero ad andare a lavorare in una fabbrica di vestiti a Montreal, finché  decise di dare una svolta alla sua vita trasferendosi nella Grande Mela. Era il 1966 ed erano gli anni in cui New York era travolta da una potente onda folk-rock. In quel clima di fermento artistico incontrò la cantante Judy Collins, che accettò di inserire in un proprio disco una canzone di Cohen: era la mitica ”Suzanne”: indicava una nuova strada, un modo completamente nuovo di comporre e poi di cantare, per lui, con una voce profonda e maschile.

Leonard Cohen ha creato infinite perle avendo il coraggio di procedere per “arte del levare”, liberando la poesia pura, togliendo ogni orpello, ogni artificio. Con il coraggio di mettersi a nudo per dare una voce al proprio mondo interiore, con semplicità. Traendo forza dai silenzi e da composizioni all’apparenza scabre.

Leonard Cohen ci lascia album pieni di struggente malinconia come il suo primo Songs of Leonard Cohen e capolavori assoluti come Songs of love and hate. Un disco che ha nutrito generazioni di musicisti. A cominciare da Nick Cave, che ha più volte raccontato quel suo primo incontro, sconvolgente, con quell’album: «Non avevo mai sentito nulla di simile. Ha avuto un impatto determinante, cambiando radicalmente il mio modo di intendere la musica da qual momento in poi. Mi dette l’idea e il modo per far incontrare quelle scure e dannate poesie in cui ero immerso con sonorità rock». Così nacque il primo album di Nick Cave and the bad seeds Avalanche. Questa e altre testimonianze, compresa quella di Fabrizio De André che tradusse tre canzoni di Cohen, si possono leggere ne I famosi impermeabili blu: Leonard Cohen, di Massimo Cotto, un libro che oggi vale la pena di rispolverare.

Un anno dopo il Bataclan, a Molenbeek la vita è (un po’) cambiata

epa05263985 Children from Molenbeek hold placards during a march against terror in Brussels, Belgium, 17 April 2016. At least 31 people were killed with hundreds injured in terror attacks in Brussels on 22 March. Islamic State (IS) claimed responsibility for the attacks. EPA/JULIEN WARNAND

«Sono caduti molti tabù in questo anno. La gente parla, non c’è più reticenza e ci sono molte iniziative dal basso. Io tendo sempre a vedere il bicchiere mezzo pieno, ma questo è un risultato positivo, anche se a livello più generale si sarebbe dovuto fare di più». Annalisa Gadaleta commenta con Left l’anno trascorso dagli attentati a Parigi del 13 novembre 2015 che, oltre a fare 130 vittime, hanno sconvolto la vita di Molenbeek, comune di 97mila abitanti a pochi km dal centro di Bruxelles. Annalisa, immigrata qui dalla Puglia nel 1994, di Molenbeek è diventata assessore alla Cultura e all’istruzione, eletta per i Verdi. Da questa cittadina, detta Belgistan per il numero elevato di abitanti di fede musulmana, provenivano gli attentatori. E sempre qui, a marzo 2016 venne arrestato Salah Abdeslam, il terrorista sopravvissuto.

Dopo un anno abbiamo chiesto ad Annalisa Gadaleta che cosa è cambiato,  la vita delle persone, il clima che si respira. Ricordavamo l’agitazione dei giorni di novembre quando l’avevamo chiamata a poche ore dalle perquisizioni delle forze dell’ordine alla ricerca di Abdeslam. Le scuole chiuse, le perquisizioni, donne e bambini terrorizzati di fronte agli uomini in divisa. «Adesso la parola si è liberata – dice -. La gente non ha più paura di parlare di radicalismo religioso, dell’influenza del salafismo». E cita come esempio un libro di un giovane imam di 28 anni, Khalid Benhaddou, che ha scritto Is dit nu de islam, tradotto in italiano È davvero questo l’Islam?. La presentazione sarà mercoledì 15 novembre a Molenbeek e Annalisa ci tiene a specificare che l’imam è un giovane cittadino fiammingo, dallo sguardo molto aperto, che parla in fiammingo anche nella moschea.

Anche Annalisa Gadaleta ha scritto un libro, insieme al sociologo italiano Leonardo Palmisano, Conversazione a Molenbeek, che sarà presentato il 1° dicembre. L’assessore in un post su Fb invita tutti i cittadini a partecipare per un dibattito sereno, e senza preconcetti. A Left racconta le conquiste quotidiane che hanno contribuito a cambiare un po’ il clima. «Un gruppo di donne che fa teatro adesso porterà in scena uno spettacolo su una madre che ha perso il proprio figlio combattente in Siria. Anche questo serve per discutere. Prima, per esempio, le madri non osavano porre domande sui figli che potevano essere attratti dal radicalismo islamico», continua Annalisa Gadaleta. Le scuole come le moschee, aggiunge, sono aperte al pubblico e nascono sempre più spesso momenti di discussione.

«Ma c’è qualcosa che non è stato fatto. Sì, il piano nazionale antiterrorismo, l’aumento di risorse per le forze dell’ordine di cui prima erano carenti, ma basta? La sicurezza non si ottiene solo con la repressione ma anche con la prevenzione», sottolinea l’assessore. Sarebbero stati necessari, dice, interventi più capillari a livello nazionale di collegamento con le associazioni, per l’istruzione, le politiche per la casa. «Insomma era necessaria una visione globale».

Alla fine, parlando del suo lavoro, ammette che «è stato un anno particolarmente duro». «La popolazione era iperstigmatizzata, dovevamo rassicurare le persone, specialmente dopo l’arresto di Abdeslam c’era il terrore». Nel colloquio con Palmisano, Annalisa suggerisce che  la scuola va potenziata: bisogna ripensare l’istruzione, ripensare il welfare. Si comincia da qui a prevenire e quindi a estirpare i fenomeni di radicalismo.

Rock e impegno per il ritorno di Sting. Con il nuovo album e live al Batalclan

Sting

Il nuovo album di Sting, atteso da anni, esce l’11 novembre e s’intitola semplicemnte 57th & 9th, dal nome della strada che ha attraversato ogni giorno per recarsi nello studio di registrazione di Manhattan, dove è stato realizzato questo album, inciso quasi di getto, seguendo l’ispirazione del momento. Il cantante e compositore inglese lo presenta il 12 novembre live a Parigi, al teatro Bataclan appena riaperto, per ricordare la strage di un anno fa. L’incasso di questo primo concerto, andato esaurito in poche ore, andrà a due fondazioni dedicate alle vittime dell’attentato del 13 novembre 2015.

Gordon Sumner, in arte Sting, ha composto un album innervato di temi politici e sociali, a  cominciare dal brano “Inshallah,” dedicato all’odissea e al dramma dei migranti.  Il  disco, che segna un ritorno a sonorità rock, è stato registrato dall’ex Police riprendendo storiche collaborazioni: al suo fianco ci sono il chitarrista Dominic Miller e il batterista Vinnie Colaiuta; da segnalare anche la presenza di Josh Freese (Nine Inch Nails, Guns n’Roses), del chitarrista Lyle Workman e ancora la band San Antonio The Last Bandoleros per un pizzico di tex mex a un disco che si annuncia carico di energia ma anche di incontri inediti fra rock e  musica classica. All’insegna di quella ricerca continua, che il cantante nato a Newcastle 65 anni fa, dice essere il suo “elisir”, ciò che lo tiene in forma non solo in senso fisico. «Questo disco parla di ricerca e del viaggio, della strada che porta all’incontro con lo sconosciuto. Ho cercato un tono più immediato rispetto ai miei ultimi lavori », racconta Sting nell’intervista in cui presenta questo quattordicesimo album che viene dopo il concept The Last Ship del 2013 e dopo la raccolta di musiche barocche Songs From The Labyrinth, del 2006.

In questo nuovo lavoro, insomma, Sting dice di voler recuperare qualcosa di quei cinque indimenticabili album registrati con i Police; qualcosa  della sua “anima” rock, ma con l’esperienza maturata in tutti questi anni, anche nella scrittura di testi meno di superficie «Vorrei mostrare che scrivo meglio di quando ero giovane», dice con un pizzico autoironia.

Prodotto da Martin Kierszenbaum – il disco pubblicato da Sony music – è stato registrato, quasi all’impronta, con sessioni chiuse in poche settimane. «In questo album ci siamo ritrovati a creare qualcosa di forte, rumoroso ma anche di meditato. È avvenuto tutto in modo molto veloce, molto spontaneo, cercando di sorprendere prima di tutto noi stessi, sparando che il risultato poi sorprenda anche gli ascoltatori» aggiunge il musicista inglese, che in questo disco offre note autobiografiche in “Heading South On The Great North Road”, mentre in “I Can’t Stop Thinking About You”, il brano che ha anticipato l’uscita del cd, allude all’ispirazione che viene da nuovi, inaspettati incontri, dal coraggio di andare in profondità nei rapporti.

Accanto a questa vena intima, come accennavamo, nei testi di 57th & 9th, affiorano temi globali, con uno sguardo rivolto alle aree del mondo lacerate dai conflitti, ai migranti, alle giovani guerrigliere costrette a imbracciare le armi per difendere se stesse e il proprio futuro (“Pretty Young Soldier”) , mentre “One Fine Day” parla di climate change in linea con l’impegno che ha sempre caratterizzato il musicista inglese che con la mogie Trudie Styler nel 1989, ha fondato l’organizzazione Rainforest Fund per l’Amazzonia. Nell’album  ci sono anche omaggi a David Bowie e a Prince scomparsi  quest’anno.  All’impagabile genietto di Minneapolis e alla sua indimentacabile Purple rain, in particolare, è dedicato il brano “50.000”.

qui il video di Sting che canta fragile al Bataclan:

Sting
Sting

«Che magnifica notizia!». I falchi del mondo salutano la vittoria di Trump

epa05455316 A view of a graffiti mural by Lithuanian artist Mindaugas Bonanu depicting US Republican presidential candidate Donald Trump (R) kissing Russian President Vladimir Putin on the wall of a barbacue restaurant Keule Ruke in Vilnius, Lithuania, 04 August 2016. EPA/VALDA KALNINA

La vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane ha sollevato un polverone di commenti, messaggi di supporto e di sfiducia, strizzate d’occhio e preoccupazioni. Oltre alle manifestazioni di protesta negli Usa, come non se ne vedevano da tempo. In alcuni casi emblematici ha prodotto un forte entusiasmo sbandierato ai quattro venti, allo scopo di inaugurare o rinsaldare l’alleanza con gli Stati Uniti di Trump.

ISRAELE. La dichiarazione più rilevante è arrivata dal ministro dell’educazione israeliano Naftali Bennett, leader del partito di destra religiosa “Focolare ebraico”che appresa la notizia della vittoria di Trump, ha detto: «È finita l’era dello Stato palestinese». Poi ha aggiunto:«La sua vittoria è una formidabile occasione per Israele di annunciare l’immediata revoca del concetto di uno Stato palestinese nel cuore della nostra terra, che va direttamente contro la nostra sicurezza e contro la giustezza della nostra causa». «Questa – ha concluso il ministro – è la concezione del presidente eletto così come compare nel suo programma politico e di sicuro deve essere la sua politica».
Dichiarazioni di supporto sono giunte immediatamente anche da parte del premier israeliano Benyamin Netanyahu che ha commentato: «Trump è un amico sincero dello Stato di Israele. Agiremo insieme per portare avanti la sicurezza, la stabilità e la pace nella nostra regione». «Il forte legame tra Usa e Israele si basa su valori, interessi e destino comuni. Sono sicuro che Trump ed io – ha concluso il premier – continueremo a rafforzare l’alleanza speciale tra i due Paesi e la eleveremo a nuove vette». Rispetto alle tensioni vissute durante i mandati di Barak Obama, Netanyahu immagina un periodo di collaborazione con gli Usa all’insegna dello «stesso destino di terra promessa».

TURCHIA. Alla notizia dell’elezione di Trump, il premier turco Binali Yildirim ha mandato al neo-presidente un messaggio che conferma il tifo che Ankara ha fatto lui per tutta la campagna elettorale, fino alla vigilia del voto, quando ha definito Hillary Clinton “una politica dilettante”: «Personalmente e a nome del mio Paese, accolgo con favore il risultato elettorale e auguro agli Stati Uniti un futuro di grande successo». Facendo riferimento al magnate e imam considerato la mente del golpe in Turchia di luglio, da anni residente in America, poi ha scritto «Se Trump ci consegna Fethullah Gülen, apriremo una nuova pagina delle relazioni tra i nostri due Paesi», cambiando rotta rispetto all’ultimo periodo di scontri diplomatici.

L’elezione del tycoon americano arriva mentre si acutizza lo scontro tra Unione Europea e Turchia, a causa delle violazioni dei diritti umani di cui si è macchiato il governo turco dal golpe militare a oggi. Per Bruxelles le repressioni di Erdoğan sono “incompatibili con i valori europei”: la volontà di ripristinare la pena di morte (abolita nel 2004), gli arresti del direttore del giornale Cumhuriyet, dei leader del secondo partito di opposizione HDP (Partito Democratico dei Popoli), di giornalisti, soldati e funzionari dello Stato squalificano la Turchia e le impediscono di ottenere la libera circolazione per i suoi cittadini nell’area di Schengen. A tali dichiarazioni, riportate nel rapporto annuale della Commissione di Junker, Erdoğan ha risposto: «Dicono sfacciatamente e senza vergogna che l’Ue dovrebbe rivedere i suoi negoziati con la Turchia. Fatelo. Ma non rivedeteli soltanto, prendete una decisione finale. Ma che succede se i negoziati finiscono e si aprono le porte, dove metterebbero quei tre milioni di rifugiati? È questo il loro timore. Ecco perché non possono andare fino in fondo».

RUSSIA. Un fragoroso applauso è arrivato dalla Duma russa alla notizia della vittoria di Trump e il governo di Vladimir Putin ha dichiarato «Abbiamo sentito le dichiarazioni elettorali dell’allora candidato alla Casa Bianca Donald Trump mirate a ripristinare i rapporti fra la Russia e gli Usa. Noi capiamo e ci rendiamo conto che sarà un percorso difficile dato il deterioramento in cui si trovano le nostre relazioni. La Russia è pronta a far la sua parte e desidera ricostruire i rapporti a pieno titolo con gli Usa».
«Putin – riporta una nota del Cremlino – ha espresso la speranza di un lavoro congiunto per far uscire le relazioni russo-americane dalla crisi, per affrontare le questioni internazionali pressanti e cercare risposte efficaci alle sfide relative alla sicurezza globale». Inaspettatamente sono arrivate parole accoglienti anche da parte dell’ultimo leader sovietico Michail Gorbačëv: «Non escludo che con il nuovo presidente americano ci possa essere un miglioramento notevole dei rapporti russo-americani».
Molti commentatori statunitensi hanno definito Putin “il vero vincitore delle elezioni”, dal momento che non ha fatto mistero della sua preferenza per Trump negli ultimi mesi. Ma la vittoria del candidato repubblicano ha fatto crollare il prezzo del petrolio e Putin, il politico “del sistema”, preferisce evitare le situazioni di incertezza. Non gli resterà che aspettare la fine della transizione da Obama al nuovo presidente per avviare i primi accordi.

IN EUROPA. Manifestazioni di entusiasmo sono arrivate anche dall’Europa, a cominciare dall’Ungheria di Viktor Orbán – che condivide molti dei valori del neo-presidente Trump, soprattutto in materia di sicurezza nazionale – il quale ha commentato «Che magnifica notizia. La democrazia è ancora viva!».
Anche il premier spagnolo Mariano Rajoy si è congratulato con il neo-presidente per la vittoria: «Continueremo a lavorare per rafforzare le relazioni che ci uniscono agli Usa, un socio indispensabile» ha scritto su Twitter. Il nuovo ministro degli esteri di Madrid Alfonso Dastis ha inoltre affermato che ci sono “eccellenti prospettive” per lo sviluppo delle buone relazioni fra Spagna e Stati Uniti. Conciso e sintetico il messaggio della cancelliera tedesca Angela Merkel che rinsalda il rapporto preferenziale tra Germania e Stati Uniti: «Mi congratulo con il vincitore delle elezioni presidenziali negli Usa, e offro stretta collaborazione. Abbiamo valori comuni: con nessun altro Paese, al di fuori dell’Unione europea, abbiamo un legame più profondo». Entusiasta Nigel Farage, il numero uno del partito antieuropeista e populista britannico Ukip: «Sembra che il 2016 stia per essere l’anno di due grandi rivoluzioni politiche» ha commentato, enfatizzando il successo di Trump, che sarebbe «più grande di quello della Brexit». «Al presidente Trump vanno i miei auguri. Sono sempre stato e sarò sempre il più leale alleato degli Stati Uniti in Europa, riconoscente al Paese che ha garantito la nostra libertà per tutto il ventesimo secolo», ha dichiarato il leader di Fi, Silvio Berlusconi dicendosi «convinto che il presidente scelto dal popolo americano potrà garantire con autorevolezza ed equilibrio il difficile ruolo degli Stati Uniti come paese-guida del mondo libero, nell’ambito dei complessi e delicati equilibri mondiali».

Ma il primo messaggio su Twitter rivolto a Trump è stato quello della leader del Front National Marine Le Pen (che tra sei mesi si candiderà alle elezioni in Francia), quando ancora non era ufficiale la vittoria del candidato repubblicano: «Felicitazioni al nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e al popolo americano libero!».

 

«Trump fenomeno nuovo della democrazia recitativa». Parla lo storico Emilio Gentile

epa05623706 Supporters of US Republican Donald Trump celebrate outside Hilton Midtown, in New York, New York, USA, 08 November 2016. US businessman Republican Donald Trump has won the US presidential election. Americans voted on Election Day to choose the 45th President of the United States of America to serve from 2017 through 2020. EPA/ALBA VIGARAY

Non ha affatto paura di Donald Trump il professor Emilio Gentile, anche perché aveva previsto il successo del candidato repubblicano. Anzi, alla fine della telefonata si lascia andare anche a una battuta. «Mi merito anche un piccolo premio Nobel per la profezia azzeccata», dice sorridendo. In effetti, lo storico noto a livello internazionale per i suoi studi sul fascismo, è autore di un libro fondamentale per comprendere la vera natura degli Stati Uniti (La democrazia di Dio, Laterza) in cui mette in evidenza la profonda religiosità degli americani che hanno addirittura nella loro moneta la frase “in God we trust”. Negli ultimi anni Gentile ha analizzato il rapporto tra leader e cittadini (Il capo e le folle, Laterza), e i cambiamenti della democrazia occidentale.

Professor Gentile, lei nel suo ultimo libro In democrazia il popolo è sovrano. Falso! per Laterza, parla di come oggi la democrazia sia diventata sempre più “recitativa”, con il capo che “ci mette la faccia”. Che cosa pensa della elezione alla Casa Bianca di Donald Trump?
Confesso che per me non è stata una sorpresa perché avevo immaginato che i motivi agitati da Trump fossero gli stessi che toccavano moltissimi americani. Sono tutti quei cittadini che non avevano il coraggio di dichiarare apertamente di votare per il candidato repubblicano e hanno dichiarato di votare per Clinton. Forse si sono vergognati di dire apertamente di accettare un candidato che tutta la stampa più autorevole e importante, tutti i canali televisivi e persino lo stesso presidente in carica consideravano un cialtrone o un pericoloso avventuriero, o peggio ancora, uno che rischiava di mettere in pericolo la pace nel mondo. È probabile che dietro a questo voto ci sia stato un risentimento per l’amministrazione di Clinton, per le stesse guerre di Bush e infine la delusione per il presidente Obama.

Chi sono gli elettori di Trump?
È la classe media degli stati centrali che soffre di più della globalizzazione e della riduzione dei salari che ha reso inadeguata la capacità di potere d’acquisto negli ultimi 35-40 anni. Per questo motivo gli americani a un certo punto hanno visto in Trump qualcuno che fosse disposto a gridare contro tutto questo. Senza che dall’altra parte ci fosse un candidato che desse veramente l’assicurazione di cambiare.
Probabilmente un personaggio come Sanders con la sua retorica più confacente ai deboli, ai disperati, avrebbe reso più faticosa l’ascesa di Trump. C’è una cosa che mi ha sorpreso, però.

Che cosa professore?
Il tema della “democrazia recitativa” andrebbe rivisto alla luce di due risultati di queste elezioni. Intanto per la seconda volta perde una candidata che ha il maggior sostegno del maggior partito, che ha il sostegno del presidente uscente, che ha speso un miliardo e 300mila dollari, cioè ha fatto una campagna in cui si è dimostrato che il denaro non sempre garantisce una vittoria. E soprattutto l’altro risultato è il fatto che Trump ha combattuto contro il suo partito. Questo è davvero un fenomeno nuovo. Non ricordo, almeno nel secolo scorso, casi simili. Sì, ci sono stati alcuni presidenti che non erano quelli che il partito desiderava ma non si è mai verificato che un candidato venisse squalificato dal suo stesso partito come è avvenuto in queste elezioni.

E che cosa significa?
È ormai la conferma della tendenza a stabilire un rapporto diretto e quasi personale tra il capo e la folla e a scavalcare le strutture tradizionali. Il capo che sa intuire gli orientamenti della collettività in agitazione. Tra l’altro, è interessante che lui parli di movimento. Anzi, ha suscitato un movimento, è questo che tra l’altro ha detto nel suo discorso.

Quindi anche la forma partito viene meno?
Certo, Trump ha vinto contro il suo partito! Quest’uomo, sostanzialmente dall’esterno, ha conquistato il partito. Qualcosa di molto simile a quello che ha fatto Renzi nel Pd. Quindi si sta verificando ormai – e io posso pensare di essere stato tristemente profetico nel Il Capo e la folla – che la democrazia intesa come un complesso processo che si avvale di stadi intermedi per arrivare a rendere sovrano il popolo attraverso i suoi rappresentanti viene scavalcato da questo rapporto diretto tra un popolo che non si sa che orientamento ha, ma è pur sempre il popolo. Una mia amica americana mi ha detto che il popolo non è sovrano: eh no, questo è il popolo sovrano, solo che il popolo non sempre sceglie come noi vorremmo. Ma quando sceglie, lo fa sovranamente. In questo caso contro il partito, un presidente in carica, contro una candidata fortissima che per la seconda volta viene data per vincente e che ha impiegato una somma di denaro notevolissima. Da questo punto di vista tutte le nostre categorie razionali per spiegare fenomeni come questi saltano completamente.

Che cosa ha determinato la vittoria di Trump? La paura del ceto medio, la progressiva povertà?La paura, e dall’altra parte anche una volontà di riscatto. Lui ha agito come ha fatto Regan dopo Carter. E in questo caso Obama è stato visto come un presidente che ha reso quasi assente l’America oppure l’ha lasciata in balìa a un corso storico che ha visto emergere altre grandi potenze.

Però, come fa notare lei, se ci fosse stato Sanders…
Di fronte a una questione sociale molto forte come quella vissuta dagli Usa adesso, la carta da giocare era quella di Sanders.

È una lezione per la sinistra che non deve abbandonare il proprio popolo?
Questo dovrebbe essere fondamentale. Ormai il problema della sinistra non è più quello di pensare a un popolo inteso come un proletariato ma a tutti coloro che oggi vengono privati della possibilità di essere cittadini. Oggi il tema fondamentale non è la distinzione tra destra e sinistra, ma la nostra costituzione che almeno nei principi che nessuno dice di voler toccare, parla della Repubblica fondata sul lavoro, dove i lavoratori sono tutti coloro che hanno la dignità di poter essere dei liberi cittadini. È questo che ha travolto l’America, loro si sentono sempre meno cittadini. Da questo punto di vista Trump è un uomo di destra che ha usato un linguaggio di sinistra e per questo è stato riconosciuto negli Stati dove ci sono le classi operaie, come la Pennsylvania che ha sempre votato democratico.

Senta professore, ma lei è preoccupato per l’elezione di Trump?
Io sinceramente, pensando al caso di Nixon o di Regan – forse più Nixon – ritengo che i presidenti che si presentano con una faccia trucida, con messaggi violenti, sono quelli che, adattandosi al realismo, riescono poi a fare delle scelte che un presidente di sinistra non può fare. Ad esempio, il discorso dopo la vittoria ha fatto fa vedere un altro Trump. Molto cavalleresco nei confronti di Hilary Clinton, il che è una cosa straordinaria. Ha anche detto che non sarà contro nessuno e cercherà un accordo con tutti. Non ha usato nessuna metafora di tipo aggressivo, polemico, razzista, addirittura ha detto che tutti devono unirsi al di là della razza o della religione. Certo, è un po’ tipico degli americani fare il presidente di tutti, però vedremo quanto farà, tenendo conto anche del fatto che possiede un potere che Obama non ha, avendo tutto il congresso repubblicano. Una cosa è sicura, poi. Lui non è stato protetto dalla destra religiosa, non è molto amato anche perché non rappresenta un esempio illuminante dal punto di vista della morale. Comunque rispondendo alla domanda,  non ho paura, perché la paura viene dalle cose impreviste. Questa era prevista.

Cambio di guardia in Estonia. Via il più giovane premier dell’Ue, arrivano i filorussi

Vladimir Putin sorseggia un bicchiere di champagne durante una cerimonia

Un paio d’anni possono bastare. La litigiosa coalizione tripartitica si è spaccata: 63 parlamentari hanno sfiduciato Taavi Rõivas e il suo governo. Taavi Roivas, 37 anni, era il più giovane primo ministro dell’Unione europea. Troppe differenze tra il partito riformatore di centrodestra del premier e i suoi alleati: i socialdemocratici di sinistra di Sven Mikser e i conservatori nazionalisti di Unione della Patria e Res Publica. Al centro della discordia: tasse e politiche economiche. E l’accusa di avere provocato la stagnazione economica. Le campagne estoni si spopolano, il sistema sanitario nazionale e quello scolastico non sono stati riformati. Troppo giovane eppure manca di energia, ha una laurea in marketing ma manca di nuove idee nuove per rispondere ai problemi del Paese, accusano gli ormai ex alleati.

«Non capitolerò in silenzio», aveva detto Rõivas alla vigilia del voto di fiducia. Da un po’ gli alleati chiedevano le sue dimissioni, ma il giovane Taavi ha resistito e loro lo hanno sfiduciato: 63 voti contrari, 28 a favore e 10 si sono astenuti. Insomma, dei 101 parlamentari Taavi non ha potuto contare nemmeno sui “suoi” 30. La presidente estone, Kersti Kaljulaid, ha dato il via alle consultazioni con i sei partiti presenti in parlamento. Socialdemocratici e conservatori, intanto, hanno già annunciato che prenderanno subito a dialogare con Partito di centro per una nuova coalizione di governo.

Il Partito di centro è il partito di riferimento della minoranza etnica russa in Estonia e, ovviamente, è appoggiato dal governo russo. Il nuovo premier estone sarà con buone probabilità il 38enne Jüri Ratas, da pochi giorni alla guida del partito (al posto del vecchio Edgar Savisaar, 66 anni, troppo legato alla Russia). E il giovane Ratas ha già messo le mani avanti: l’Estonia continuerà a essere saldamente parte della Nato e dell’Unione europea (dove, nel secondo semestre del 2017, assumerà la presidenza di turno). E l’Estonia sarà anche il più piccolo dei Paesi baltici ma è il confine tra la Nato e la Russia di Putin. Confine geografico e, a questo punto, anche politico.

Qualcosa su Eesti Vabariik. Dei tre Stati baltici (con Lituania e Lettonia), l’Estonia è quello più a Sud e le sue pianure si estendono per circa 45mila chilometri. Commercio e turismo sono le principali fonti per l’economia che esporta soprattutto in Svezia e Finlandia e importa principalmente dalla Germania. Piccole dimensioni e grande spirito nazionalista, sarà perché l’Estonia (come anche gli altri due Stati baltici) è stata dominata per secoli: dagli svedesi prima e dai russi poi. Per duecento anni, e fino al 1917, è parte dell’Impero Russo. Poi, tra occupazioni tedesche e indipendenze strappate e perse, dal 1940 torna a far parte della “Grande madre Russia”, questa volta sotto forma di Unione Sovietica, fino al 1991 (eccetto i tre anni di occupazione nazista,dal 1941 al 1944). Da allora è una Repubblica parlamentare indipendente, dal 2004 è membro della Nato e dell’Unione europea. Nel 2011 è il 17esimo membro dell’Eurozona, uno dei Paesi con il più basso debito pubblico. Nel parlamento europeo l’Estonia conta sei deputati: 3 nei democratici e liberali, uno per i popolari, uno per i socialisti e democratici e uno per i verdi europei. Nel 2015, l’Estonia ha contribuito al bilancio dell’Ue con 0,185 miliardi (0,92%) e l’Ue ha speso in Estonia 0,443 miliardi (2,21%). Siede anche alla Nato, all’Ocse ed è firmatario del protocollo di Kyoto.
Alti livelli di “sviluppo umano”, istruzione, libertà di stampa, libertà politica ed economica, assicurano le Nazioni Unite. L’e-Stonia (soprannome conquistato sul campo) è uno dei primi Paesi al mondo per innovazione, diffusione e utilizzo delle nuove tecnologie: più di 1.140 punti wi-fi. Il popolo estone, oggi, è composto soprattutto da cittadini estoni (84,14%). Le due principali minoranze sono i cittadini russi (russi, ucraini, bielorussi che insieme contano il 7,03%) e gli “slavi ex sovietici”, dal 1991 senza alcuna cittadinanza ma residenti in Estonia (7,26%). Gli “slavi” non raggiungono nemmeno il 15 %, eppure, governeranno il Paese. E Putin è lì, dietro la porta.

Il tribunale boccia Onida. Ma del quesito si può comunque parlar male

Il quesito del referendum costituzionale

«Non ritiene il Tribunale di ravvisare una manifesta lesione del diritto alla libertà di voto degli elettori per difetto di omogeneità dell’oggetto del quesito referendario». Così il giudice civile di Milano, Loreta Dorigo, archivia anche il ricorso presentato dal costituzionalista Valerio Onida, che sosteneva – in estrema sintesi – che il quesito referendario coprisse contenuti troppo eterogenei, diversi tra loro, per garantire la libertà di voto degli elettori.

Sul quesito referendario, dunque, essendo già stato cassato anche il ricorso presentato da Sinistra italiana e Movimento 5 stelle, non si può più di niente. Ad eccezione, ovviamente, della polemica politica, che è sempre legittima, di chi può comunque sostenere – non senza ragione – che il testo che gli italiani si ritroveranno sulla scheda è favorevole al governo. È un testo enfatico, che occhieggia all’antipolitica, parla dell’abolizione del Cnel, ad esempio, ma non di come è stato riformato l’istituto referendario o il meccanismo di elezione del presidente della Repubblica.

Ma è corretto, formalmente, scritto secondo quanto prescritto dalla legge 352 del 25 maggio 1970. Che, all’articolo 16, stabilisce che il quesito, in caso di referendum costituzionale, cita o l’elenco degli articoli modificati o il nome della legge. Renzi è stato dunque più furbo del fronte del No, dando alla legge, al momento della presentazione, un titolo ammiccante. «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario», c’è scritto sulla legge e sulla scheda, «la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione».

Sta ora dunque al fronte del No ricordare ciò che la scheda non dice. Che i senatori non saranno eletti direttamente ma nominati dai consigli regionali (salvo sorprese in cui sperano ottimisti alla Gianni Cuperlo); che per i referendum il quorum scende ma solo per chi raccoglie 800mila firme; che le leggi di iniziativa popolare arriveranno in parlamento solo con 150mila firme: oggi sono 50mila. O che – come vi spiegherà il giudice Di Matteo su Left in edicola da sabato e in digitale qua sotto – non dice nulla, il quesito, di come la riforma impatterà sulla giustizia o sull’elezione dei giudici della Corte che Camera e Senato non eleggeranno più in seduta comune.

Ne parliamo su Left in edicola dal 12 novembre

 

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Dopo il T-day, l’Europa ragiona sulla propria sicurezza

Al di là dei complimenti e gli auguri di circostanza, l’Europa sta già prendendo le misure al fenomeno Trump. Commenti importanti sono arrivati dalla Germania, dove a Berlino, in occasione del discorso sull’Europa, Jean Claude Juncker ha ribadito che «l’Europa deve mirare a un esercito europeo comune». E sebbene Juncker abbia scherzato sul fatto che il testo del suo discorso fosse stato preparato prima del così detto T-day (Trump Day, ndr.), non possono certo essere coincidenze.

La politica estera è lo snodo delle relazioni tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Alain Lamassoure, eurodeputato conservatore francese, nonché ex-ministro per l’Europa tra il 1993 e il 1995, ha rilasciato un’intervista a Euractiv in cui afferma che l’Unione «ha ora la responsabilità di gestire autonomamente la propria politica di sicurezza». Inoltre, l’Europa «deve impegnarsi in primo piano per difendere la democrazia e la libertà a livello globale». Lamassoure ha poi specificato che Trump «non ha esperienza in materia di politica estera» e che, sebbene si sia dichiarato isolazionista, molto dipenderà dal circolo di consiglieri che lo affiancheranno.

Intanto, secondo quanto riporta Politico.eu, i ministri degli Affari Esteri dei Paesi membri dell’Ue avrebbero già deciso di incontrarsi domenica prossima per discutere informalmente le conseguenze delle elezioni americane. Walter Steinmeier, ministro degli Affari Esteri della Germania, ha già annunciato che «molte cose diventeranno più complicate».

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Vi ricordate le studentesse in Erasmus morte sul bus? Ecco, era colpa loro

La notizia era rimbalzata sui giornali di tutta Europa e ci aveva scosso un po’ tutti qui in Italia. Del resto tra le tredici studentesse decedute il 20 marzo in Catalogna per un’incidente tra il bus che le trasportava e un’auto ben sette erano italiane. I cinquantasette studenti sul pullman erano tutti del progetto Erasmus, di diverse nazionalità arrivati all’università di Barcellona per la loro esperienza internazionale.

Dopo l’incidente l’autista aveva confessato di essersi addormentato e i Mossos d’Escuadra, la polizia regionale catalana, aveva subito aperto un’inchiesta penale. Il dolore dei famigliari non ha bisogno nemmeno di essere scritto: le foto di quei giorni sono l’immagine di chi perde una figlia mentre è intenta a immaginarsi un futuro.

«Che vengano accertate al più presto le responsabilità» aveva detto il Presidente Sergio Mattarella, profondamente addolorato, nel suo intervento sincero e commosso poche ore dopo la tragedia. L’accertamento della responsabilità, del resto, pur essendo scaduto in una formuletta linguistica piuttosto abusata, è il minimo che un Paese possa offrire ai propri cittadini. Sembra poco, forse, ma l’accertamento della verità e delle responsabilità, è il sintomo di una politica che funziona, che non si nasconde e che è capace di dare risposte.

Ieri il giudice del tribunale di Amposta, vicino a Tarragona, ha archiviato la causa penale. Dice, il giudice, che non ci sarebbero responsabilità nella meccanica del mezzo o nell’imperizia dell’autista. Il padre di Serena Saracino, Alessandro, ha dichiarato di essere “sotto choc, ancora” e di voler ricorrere in tutte le sedi possibili. E di volere una risposta dall’Europa. Già l’Europa. Se dobbiamo “fare l’Europa” allora che l’Europa si faccia garante. Oltre ai bilanci, del resto, sarebbe il caso che l’Europa si occupi delle persone e dei loro dolori.

“Quando non ci sono i colpevoli allora i colpevoli sono i morti” mi ha detto un giorno un famigliare di una vittima dell’incidente di Linate accaduto nel 2001. Già. Sono colpevoli i morti.

Buon giovedì.