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Aggressioni e minacce alle minoranze. È Il giorno 1 dell’America di Trump

Sono almeno un centinaio (finora) i tweet raccolti nella pagina twitter “Day 1 in Trump’s America” che denunciano aggressioni e intimidazioni ai danni delle cosiddette minoranze – musulmani (soprattutto donne), ispanici, afroamericani e omosessuali – giustificate dalla vittoria di Donald Trump, il difensore dei Wasp (White Anglo-Saxon Protestant) per eccellenza.

LE DONNE
Mentre The Donald faceva il suo primo ingresso alla Casa Bianca in compagnia del presidente uscente Barak Obama e le strade di molte città americane si riempivano di manifestazioni contro il nuovo presidente, alcuni elettori di Trump hanno infatti pensato di farsi giustizia da soli e di applicare le teorie razziste decantate durante la campagna elettorale dal nuovo presidente. Con attacchi a donne musulmane, innazitutto.

Uno dei primi post dice: «Avevo il velo in testa. Qualcuno mi è passato vicino sulla banchina alla stazione e mi ha detto: “Sei finita, ragazzina”» (di Mehereen Kasana). Mentre Sarah A. Harvard scrive: «Non sono passate nemmeno ventiquattro ore. La sorella di un mio amico, che è musulmana, è stata minacciata con un coltello da un sostenitore di Trump in un autobus che porta al campus UIUC».

Jannatin invece racconta con sgomento della madre (molto religiosa) che gli chiede di non portare il velo per strada: «Mia madre mi ha pregato “non metterti l’hijab, ti prego” e lei è la persona più religiosa della famiglia». Questo dunque sembrerebbe l’esordio di una parte di elettorato di Trump. Ragazze che hanno sempre portato il velo si presentano in classe senza, per la prima volta nella vita, per paura di essere insultate o maltrattate per strada.

 

I LATINOS
Di ricevere insulti e minacce come quelle rivolte a giovani latinos, che scontano invece il “muro” immaginato da Trump che li dovrebbe confinare per sempre dall’altra parte. «Qualcuno nelle strade di Los Angeles ha appena gridato a una delle mie colleghe latinoamericane “tornatene da dove sei venuta», scrive Alex Gale. Rio Oracion, giovane donna di origini messicane, racconta di essere stata aggredita da un uomo per strada con queste parole: «Non vedo l’ora che Trump ci chieda di stuprarvi tutte e vi rispedisca dietro a quel fottuto muro che stiamo per costruire. Tornatene nel tuo inferno».

Maria Sanchez pubblica poi due foto della sua stanza e le commenta: «Stamattina mi sono svegliata nella mia stanza e il mio cuore si è spaccato dal dolore», perché la sua compagna di stanza aveva costruito un “muro” di oggetti tra i loro letti e le ha lasciato un biglietto «Ciao Maria, Trump ha vinto quindi.. Questo è un piccolo anticipo del muro che sta per arrivare, Izzy». E ci auguriamo fosse uno scherzo.

 

GLI AFROAMERICANI
E poi un classico del razzismo americano: insulti e minacce rivolti agli afroamericani. Macchine imbrattate di scritte «Vaffanculo negro» firmato Trump, e revival degli slogan dell’apartheid nelle scuole: «Raccoglitore di cotone, tu sei un negro, Heil Hitler».

Una donna racconta di aver incontrato quattro uomini a una pompa di benzina e di aver ricevuto insulti e minacce da loro. Uno le avrebbe detto «Quanto sei spaventata, negra puttana? Dovrei ucciderti adesso, sei uno spreco d’aria». Mentre un altro, prima di andare via, avrebbe aggiunto: «Sei fortunata che ci siano le telecamere, altrimenti ti avrei uccisa adesso».

 

Mentre il nuovo presidente si affaccia alla Casa Bianca, tutti si chiedono come saranno i giorni due, tre e tutti quelli a venire. Quante delle promesse sbandierate in campagna elettorale si avvereranno – il muro con il Messico, l’abolizione dell’Obama Care e degli accordi sul clima, tra gli altri – e soprattutto si chiedono come si comporterà l’elettorato di Trump in futuro, visto lo spirito persecutorio del primo giorno, che ricorda lo stile del Ku Klux Klan.

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Ne parliamo su Left in edicola dal 12 novembre

 

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Bataclan, un anno è passato

Big red letters read Bataclan on the main entrance of the renovated facade of the Bataclan concert hall in Paris, Friday, Oct.28, 2016. The Bataclan concert hall has unveiled its new facade almost one year after being one of the targets of the deadly attacks that killed 130 people in November in Paris. The Bataclan will reopen on Nov. 16 with a performance of British singer Pete Doherty. (ANSA/AP Photo/Christophe Ena) [CopyrightNotice: Copyright 2016 The Associated Press. All rights reserved.]

La settimana è cominciata con qualche fiocco di neve bagnata a segnare l’arrivo dell’inverno. Un inverno dello spirito che vede succedersi avvenimenti importanti che segneranno le stagioni a venire. Il 7 si è inaugurata la nuova conferenza sul clima, la Cop22 a Marrakech. Gli accordi di Parigi dell’anno scorso sono stati ratificati qualche giorno fa, eppure l’agenda politica ed economica dei governi non sembra essere particolarmente sensibile a questa catastrofica emergenza. Gli Stati Uniti d’America hanno un nuovo presidente e anche questo rischia di non essere risolutivo di un ordine mondiale assurdo e del tutto scombussolato.

Guardo fuori dalla finestra e mi sento triste, domenica ci saranno le commemorazioni degli attentati del 13 novembre. Mi accorgo di una qualche reticenza a scrivere di questo argomento, come se il fatto stesso di ricordare fosse molto faticoso. Quello che è successo a Parigi un anno fa sembra così lontano da apparire quasi irreale. La città si è sforzata di cancellare i segni lasciati dalla strage di quella sera. I monumenti spontanei che erano sorti in vari luoghi del quartiere sono stati rimossi. Il Bataclan è stato completamente rinnovato e si prepara a accogliere un concerto di Sting il 12 novembre, e altri ne seguiranno. Sulle transenne che ancora ne chiudono l’accesso, resta soltanto qualche mazzo di fiori afflosciato. Varie iniziative sono previste per il prossimo fine settimana ma molti parigini dicono di volersene andare per non assistervi. La nuova insegna del Bataclan ha un ché di sbarazzino, le lettere sono disallineate; a mio marito fanno venire in mente il ritmo della mitraglia. Mi fermo a riflettere su questa sua bizzarra associazione. È come se a volersi lasciare a forza qualcosa indietro, si finisse per ritrovarsela davanti agli occhi senza nemmeno rendersene conto. C’è qualcosa che non torna in questa gestione della memoria. È come se si volesse controllare, incanalare il racconto di ciò che è accaduto, allorché le manifestazioni estemporanee, forse più sincere, fossero state disincentivate. Lo stato di emergenza ha messo una cappa di piombo sulla testa dei cittadini, ha prodotto dei violenti scontri durante le manifestazioni della primavera scorsa contro la legge sul lavoro, ha messo in ginocchio le forze dell’ordine che nelle ultime settimane non hanno smesso di protestare per il livello di pressione insostenibile e ha reso ancora più drammatica la situazione dei molti migranti che transitano in Francia o hanno fatto richiesta di asilo.

Mi tornano in mente i mesi di euforia vissuta a Place de La République durante il movimento Nuit Debout, l’idea che qualcosa di diverso potesse davvero accadere. Dove sono finite tutte quelle persone? Continuano a portare avanti il discorso iniziato? E dove, come lo fanno? Perché è così difficile organizzarsi, mobilitarsi? Il futuro appare quanto mai incerto in Francia, con una campagna presidenziale dall’esito del tutto imprevedibile e un passato recente che sembra inaffrontabile, quasi rimosso, a causa della sua portata traumatica. Non resta che un triste presente, dalle tinte grigie, che sembra farsi ogni giorno più pesante. L’atteggiamento della gente sembra essere di una progressiva chiusura, una sfiducia crescente che mescolata alla rabbia può provocare le peggiori reazioni.

Un trampolino per la destra europea

Trump, Trump e ancora Trump. La politica europea si è appiattita, forse necessariamente, sull’evento che potrebbe cambiare un decennio di politica internazionale. Di fronte all’elezione del 45° Presidente degli Stati Uniti, anche la ricorrenza della caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989), non ha potuto nulla. Anzi, mercoledì mattina, le telecamere delle reti televisive tedesche inquadravano l’ambasciata americana di Berlino, a due passi dalla Porta di Brandeburgo.

Sebbene si sia parlato molto delle ripercussioni del voto americano sul ruolo dell’Ue in termini di forza geopolitica e militare, la domanda principale che accomuna tutti i dibattiti nazionali è un’altra: ci sarà un’onda lunga di “trumpismo” nel Vecchio Continente?

Una cosa è certa: gli effetti più importanti sulle dinamiche di politica interna ci sono stati e ci saranno nei Paesi Ue in cui i partiti populisti di destra godono già di un forte seguito, o sono addirittura al governo. Le reazioni a caldo da parte del “Fronte Nazionale” (Fn) in Francia, del “Partito per la Libertà” (Pvv) in Olanda, di Viktor Orban in Ungheria, dell’”Alternativa per la Germania”(Afd) in Germania, dell'”Interesse fiammingo” (“Vlaams Belang”) in Belgio, di “Alba Dorata” in Grecia e del “Partito della libertà” (Fpö) in Austria, sono state raccolte da Euractiv e indicano un fronte compatto di destra che è pronto a cavalcare l’onda made in USA.

Con il secondo turno delle elezioni presidenziali in programma per il 4 dicembre, l’Austria è il primo Paese candidato a dare un segnale di continuità “trumpista” in Europa. Il leader dell’Fpö, Heinz Christian Strache, ha commentato l’elezione di Trump affermando che “la sinistra e le élite sono state punite dal voto e saranno escluse dal potere elezione dopo elezione”. In effetti, secondo gli ultimi sondaggi, il candidato dell’Fpö, Norberto Höfer, sarebbe in vantaggio rispetto ad Alexander Van der Bellen, ex-leader del Partito dei Verdi. Quest’ultimo non ha potuto far altro che definire le elezioni di Trump come un “segnale di allerta per l’Austria”.

Ma la catena potrebbe entrare in moto, appunto “voto dopo voto”. Già, perché il 2017 vedrà susseguirsi elezioni politiche in Olanda, Francia e Germania. Per quanto riguarda la Francia, Annika Joeres, su Die Zeit, sostiene che Le Pen potrebbe essere il prossimo Trump al femminile. E sebbene sia vero che il sistema elettorale francese rende estremamente difficile l’elezione di candidati radicali, secondo la ricercatrice Emilie Souyri “ci sono somiglianze importanti” fra Trump e Le Pen: “Anche in Francia ci potrebbe essere uno shock importante”. Come sostiene Olivieri Faye su Le Monde, è probabile che la strategia di Marine Le Pen si trasformi in un discorso pubblico del tipo: “Se gli Stati Uniti hanno eletto un presidente populista che sostiene una posizione protezionista e nazionalista, perché i francesi non possono fare lo stesso”? Secondo Faye, Marine Le Pen cercherà comunque di mantenere un profilo basso nei prossimi mesi in modo da normalizzare il più possibile la sua figura agli occhi dell’elettorato moderato francese. In

Germania invece, si teme che il voto americano possa mettere le ali all’Afd di Frauke Petry. Alexander Gauland, rappresentate di primo piano dell’Afd, in un’intervista per Die Welt, ha sostenuto che i progetti politici del suo partito e di Trump hanno punti di convergenza: la lotta contro le élite e l’immigrazione di massa: “Gli elettori di Trump sono contro l’immigrazione messicana, noi contro quella dagli Stati islamici”.

Sebbene tutti questi partiti combattano per un ritorno alla sovranità nazionale tout court, Thomas Krüger, della “Bundeszentrale für politische Bildung” (“Centro federale per la formazione politica”, tdr.) tedesca, parla di un’“Internazionale della destra che promuove un’immagine diversa di Europa e dei rapporti fra i suoi Paesi”. Si tratta di una tendenza intellettuale che, secondo Krüger, “poteva già essere osservata venti anni fa”, ma che non è mai stata politicamente organizzata come oggi. E se qualcuno si chiede come sia possibile che, nonostante l’opposizione mediatica, queste forze riescano a fare il pieno di consensi in giro per l’europa, Thomas Hanke, su Handelsblatt, ammonisce: dalla storica “banalità del male” siamo passati a una “banalizzazione del male” che gioca a favore delle forze politiche di destra estrema.

Un discorso a parte lo meritano Spagna e Regno Unito. Nella penisola iberica, Susana Diaz del Partito socialista spagnolo (Psoe) ha accusato Podemos di “bere dalla stessa fonte di Donald Trump”. Pablo Iglesias ha però risposto tramite un articolo pubblicato da Diario Publico. Iglesias ha commentato le elezioni di Trump con un ragionamento articolato: “Il populismo non è un’ideologia, ma una forma di costruzione del ‘fare politica’ che porta al centro del dibattito istanze ‘marginalizzate’ e che si espande nei momenti di crisi”. Iglesias ha spiegato che “i populisti possono essere di destra, di sinistra, ultra-liberali o protezionisti” e ha ribadito la differenza del suo movimento rispetto a quello “fascista di Trump”.

Il Regno Unito, il cui governo si sente ormai con un piede fuori dall’Ue, non sa se gioire o meno del risultato americano. Donald Trump dopo le elezioni ha ribadito che considera lo Uk come un “luogo speciale”. Un modo come un altro per dire che la relazione “speciale” tra Washington e Londra continuerà e sarà più forte di prima. Secondo Boris Johnson, Trump sarebbe pronto a siglare un accordo di libero scambio don il Regno Unito, un elemento che darebbe un altro tono alle negoziazioni sul Brexit con l’Ue. Commenti sprezzanti sono arrivati invece dal Labour. Ed Miliband ha commentato le elezioni di Trump come un sintomo dello “degenerazione americana”.

L’effetto Trump sulla destra nostrana

Salvini fa visita a Trump
Il segretario generale della Lega, Matteo Salvini (C) al comizio del candidato alle primarie dei repubblicani Donald Trump a Filadelfia, 25 aprile 2016. ANSA/ UGO CALTAGIRONE

Salvini ha subito cambiato la sua immagine di copertina su facebook. Lui è ora abbracciato a Donald Trump, e Matteo Renzi, affiancato, in bianco e nero, stringe invece la mano a Obama. Lui vince, insomma, e Renzi – già passato – perde. È più che ottimista, Salvini, ma non è il solo a dover ancora smaltire la sbornia, entusiasta per l’esito delle elezioni americane.

Anche in Forza Italia, la vittoria di Trump muove le cose, eccita gli animi radicali, frena e indispettisce le tentazioni moderate. Giovanni Toti, ad esempio, che è sempre stato quello che, dalla Liguria, spiegava che con la Lega bisogna lavorare insieme, ha preso la palla al balzo: serve un partito unico di centrodestra e basta con il Ppe.

«Il 5 dicembre è dietro l’angolo», dice Toti, «non abbiamo tanto tempo». Serve allora «una federazione oppure quel partito repubblicano sul modello americano più volte citato dal presidente Berlusconi», un simbolo unico per «costruire un’alternativa credibile da proporre agli italiani dopo la vittoria del No». Un’alternativa più credibile di quella a cui sta lavorando Stefano Parisi, si intende – che «mi sembra intento a lavorare ad altro, un’area moderata sulla quale nutro molte perplessità».

Ovviamente Parisi la pensa diversamente, e i due (al netto di Salvini) sono la perfetta sintesi del dibattito che si è aperto nel centrodestra nostrano con la vittoria di Trump. Stefano Parisi, infatti, dalle pagine del Messaggero Veneto, avverte i falchi di Forza Italia e Lega: «Forza Italia dovrà decidere da che parte stare o lo cominceremo a capire fra poche ore», dice infatti Parisi riferendosi alla kermesse che Salvini ha organizzato a Firenze questo week end. Nel senso: se Forza Italia sarà tutta lì, per Parisi, l’errore potrebbe esser fatale. Perché «un centrodestra a trazione leghista, anzi, a trazione leghista salviniana, è destinato a non intercettare i voti moderati e quindi a perdere. Appiattirsi sul Carroccio vuol dire semplicemente consegnarsi a Grillo», dice Parisi. Chi ha ragione?

Enpam, giri di soldi e giochi di potere. E a pagare sono i medici. L’inchiesta di Left

La sede della Fondazione Enpam l'Ente Nazionale di Previdenza ed Assistenza dei Medici e degli Odontoiatri a Piazza Vittorio Emanuele II. Roma 25 ottobre 2015. ANSA/ANGELO CARCONI

Vi siete mai chiesti che cosa succede quando ad ammalarsi è il vostro medico di famiglia? Partendo da questa domanda ci siamo ritrovati davanti a un ginepraio di società assicurative, enti previdenziali, agenzie di brokeraggio. Con i medici di medicina generale che pagano il conto.
In caso di infortunio o malattia, infatti il medico “di famiglia” si fa rimpiazzare da un collega retribuendolo per la sostituzione. Questa spesa viene poi rimborsata, alternativamente, da due diversi soggetti. Entro i primi trenta giorni di malattia il medico viene rimborsato dalla Compagnia Assicurativa Generali, in virtù di un’apposita polizza, la “30 giorni”, su cui torneremo a breve. Dal trentunesimo giorno in poi, invece, a rimborsare il medico ammalato è l’Enpam, l’Ente nazionale di previdenza ed assistenza dei medici e degli odontoiatri, tenuta ad erogare questa prestazione per statuto anche ai medici di base, che versano annualmente i contributi previdenziali. L’Enpam, oggi, ha un patrimonio che ammonta a circa 19 miliardi di euro.

Una polizza da 20 milioni l’anno
Il rapporto che lega la Fondazione senza scopo di lucro con personalità giuridica di diritto privato Enpam alle assicurazioni Generali, però, appare quanto meno inconsueto per alcuni aspetti che abbiamo preso in esame. Da novembre 2009 la polizza assicurativa “30 giorni”, quella nelle mani delle Generali, è stata rinnovata con un premio di 20 milioni di euro l’anno. Per conto di Fimmg, la Federazione italiana medici medicina generale, uno dei più importanti sindacati dei medici, le trattative sono state svolte dal dottor Alberto Oliveti (oggi presidente di Enpam), all’epoca responsabile della Commissione “Prassis”, istituita in seno al sindacato.
In quell’occasione il contratto assicurativo è stato “blindato” con la sottoscrizione della polizza fra Generali e i quattro sindacati maggiormente rappresentativi (Fimmg, Snami, Smi e Intesa sindacale) e di un accordo in base al quale qualsiasi modifica richiede il consenso unanime di tutti i sindacati. Quindi a “firmare” sono stati i sindacati e non i vertici di Enpam.
In seguito, Tar Lazio e Consiglio di Stato hanno riconosciuto invece la legittimazione a stipulare polizze del tipo di quella “30 giorni” (vicenda analoga è successa per i pediatri) esclusivamente in capo all’Enpam, pur se i sindacati avevano potuto negoziarlo e firmarlo quali incaricati della Fondazione Enpam. I sindacati non sono rappresentanti legali di Enpam, ma i giudici amministrativi hanno ritenuto che essi potessero agire sulla base di una delega implicitamente rilasciata dall’Ente previdenziale, esercitando di fatto le funzioni di quest’ultimo. L’anomalia, insomma, è stata “sanata” dalla pronuncia del giudice amministrativo.
L’Ente previdenziale ha autonomia gestionale, organizzativa e contabile nei limiti e “in relazione alla natura pubblica dell’attività svolta” (art.2, co. 1, D.Lgs. n. 509/94) ed è soggetto alla vigilanza del ministero del Lavoro, che in taluni casi esercita di concerto col ministero del Tesoro, nonché ai controlli della Corte dei Conti (art. 3, co. 5, D.Lgs. n. 509/94). In pratica, nonostante la personalità giuridica di diritto privato, la fondazione Enpam resta soggetta al regime pubblicistico, tanto che il suo bilancio è considerato tra le competenze dello Stato italiano e quindi parte integrante della legge di bilancio. Considerando queste particolarità, sorge una prima domanda: l’acquisto di beni e servizi – almeno per importi di così elevato valore – da parte di un ente come Enpam non dovrebbe passare per una procedura ad evidenza pubblica?

La disdetta e il dietrofront
Ma le domande non si fermano qui: la storia continua e si arriva al luglio 2015. L’Enpam cambia idea e il 2 luglio dello scorso anno decide di dare disdetta della polizza “30 giorni” comunicandolo a Generali, con l’intento di internalizzare il servizio o comunque di organizzare soluzioni alternative. Contestualmente, investendo 1,5 milioni di euro l’ente guidato da Alberto Oliveti costituisce una società in house, Enpam Sicura srl, che ha il compito di svolgere attività di consulenza e servizi di gestione in rapporto a molte attività della Fondazione, tutte riassunte nel c.d. “Progetto Quadrifoglio” concepito da Oliveti, le cui quattro foglie rappresentano la previdenza complementare, l’assistenza sanitaria integrativa, le assicurazioni nel campo della responsabilità civile legata alla professione e, quarta foglia, il sostegno e l’accesso al credito. A quanto pare però, in meno di tre mesi qualcosa cambia. A dicembre 2015 il presidente di Enpam Oliveti, dopo aver costituito Enpam Sicura e dato disdetta della polizza “30 giorni”, non fa nulla per procedere al passaggio di consegne, non internalizza il servizio e nemmeno procede a bandire una gara per assegnarlo sul mercato attraverso una effettiva competizione, come forse doveva essere fin dall’inizio. La Fondazione Enpam prosegue di fatto il rapporto, continuando a versare oltre 20 milioni di premi a Generali e consentendo alla Compagnia assicurativa di garantirsi utili (al lordo di imposte e costi) per circa 5-6 milioni l’anno. In pratica, Generali eroga a tutt’oggi il servizio, continuando a ricevere il “premio” della polizza nonostante la disdetta di luglio 2015, come è chiaramente evidenziato nel sito della Fondazione Enpam. Perché questa marcia indietro?

Una selva di broker e intermediari
Per comprendere meglio la vicenda bisogna fare un passo indietro. Alberto Oliveti è presidente di Enpam dal 2012, mentre uno dei sindaci è il dottor Malek Mediati. Nel 2009 Oliveti è il responsabile Prassis/Fimmg che tratta e definisce la polizza assicurativa “30 giorni” con la compagnia Generali (ma a firmare la polizza per Fimmg è Giacomo Milillo, attualmente nel cda di Enpam). Nello stesso anno, Mediati, è amministratore di Metis s.r.l., società partecipata al 100% da Fimmg. Sono i giorni in cui Generali, incassato il premio di 20 milioni, riversa provvigioni per quasi 2 milioni alla propria agenzia che gestisce la polizza, ossia alla società Tema srl, titolare della agenzia speciale 63J che viene citata nella polizza Generali
La Tema srl era riconducibile al dottor Giancarlo Mosca, agente Generali che controllava anche il broker Previasme srl, di cui il medesimo Mosca era socio di maggioranza, alimentandolo finanziariamente. Il broker assicurativo Previasme srl è stato dichiarato fallito dal Tribunale di Roma in data 23 ottobre 2014come risulta dalla visura camerale. Che fine hanno fatto i soldi di Previasme?
Previasme era un broker di Fimmg: se gli iscritti al sindacato desideravano stipulare polizze assicurative di qualsiasi genere, potevano rivolgersi a questa società, pagando il servizio.
Previasme dunque erogava un servizio a Fimmg, in cambio di un corrispettivo. O almeno così avrebbe dovuto funzionare un normale rapporto di brokeraggio.
Invece, incomprensibilmente Previasme versava ogni anno oltre 600mila euro proprio alla società Metis srl controllata da Fimmg e amministrata da Malek Mediati.
Il pagamento era giustificato da un “incarico di segnalazione” firmato il 10 marzo 2009, ossia Metis avrebbe dovuto segnalare al broker Prevasme i medici che avessero necessità dei servizi assicurativi.
Il che pare assurdo per due ragioni: Metis non poteva segnalare a Previasme i medici destinatari della polizza “30 giorni”, semplicemente perché questo servizio non era liberamente scelto dal medico, ma veniva erogato obbligatoriamente (previsto dall’Accordo ccollettivo nazionale) e pagato tramite trattenute.
In secondo luogo, Metis non avrebbe comunque potuto segnalare al broker nessun interessato a prodotti assicurativi, perché se così avesse fatto, avrebbe corso il rischio di svolgere attività qualificabile come intermediazione assicurativa, pur non essendo iscritto – requisito, questo, obbligatorio – al relativo albo tenuto dall’Ivass, l’istituto che vigila sulle assicurazioni.
In ogni caso, Metis emetteva a Previasme fatture di pagamento con causale “acconti provvigionale per segnalazione vostri prodotti assicurativi anno 2011. Polizza: Generali n. 81302066-81301025”, ossia proprio le polizze “30 giorni”.
Questo almeno fino al 2011. Nel 2012 invece Metis e Previasme cambiano le carte in tavola e rifirmano un nuovo contratto, questa volta non di “segnalazione” bensì di “sponsorizzazione”. Un bel cambio d’abito, pur se non si capisce quali siano le attività realmente sponsorizzate da una società, Previasme, che di lì a poco era destinata a fallire. Per intenderci, la sponsorizzazione risale al luglio 2012, ma già da gennaio dello stesso anno, Previasme aveva presentato un piano di risanamento debitorio ai sensi della legge fallimentare. Perché una società che sta per fallire dovrebbe sponsorizzare le attività di Metis?

Consulenze e giochi di potere
Ma non finisce qui. A sua volta, e parliamo di un periodo che parte almeno dal 2005 e sino al dicembre 2010 Malek Mediati di Metis versava un corrispettivo per attività di consulenza (con relativi rimborsi spese), proprio ad Alberto Oliveti, almeno fino a due anni prima che assumesse la presidenza di Enpam. Partendo dal presupposto che trattasi di legittime consulenze, resta la coincidenza dei periodi in esame e della particolarità della intera vicenda, per cui sarebbe interessante chiarire il tipo di consulenza svolta. In ogni caso, Oliveti oggi è presidente di Enpam. Mediati oggi è sindaco di Enpam e ancora amministratore di Metis. Generali è oggi ancora la compagnia assicuratrice di Enpam per la 30 giorni in virtù di un contratto disdetto a luglio 2015.
Ultimo tassello del puzzle è proprio Enpam Sicura srl, la società appositamente creata e voluta da Alberto Oliveti e sempre da lui chiusa in fretta e furia. Presidente della srl da 1,5 milioni di euro è Giacomo Milillo, che pochi giorni fa ha dato le dimissioni da segretario nazionale di Fimmg (uno dei più forti sindacati dei medici), dopo aver ricevuto dal Cda della Fondazione una richiesta risarcitoria, proprio in relazione alle attività economiche svolte durante il suo breve incarico in Enpam Sicura. Secondo il Cda di Enpam, Milillo, in circa tre mesi avrebbe mandato a carte 48 i conti della società provocando un ingente danno alla Fondazione che la controllava al 100%. Circostanze tutte da verificare, ovviamente, ma nel frattempo Milillo restituisce le accuse al mittente, ricordando di aver relazionato sul suo lavoro i vertici Enpam in più occasioni durante la sua (pur brevissima) presidenza. A giudicare dai tempi in cui tutta la vicenda si è svolta, e viste le ingenti somme di denaro che ballano tra polizze, consulenze, incarichi e poltrone viene da pensare che la questione sia squisitamente politica. Un gioco di potere in una lotta che non fa prigionieri? Per adesso l’unica certezza è che il prossimo 18, 19 e 20 novembre si nominerà il nuovo esecutivo di Fimmg che, occorre ricordarlo, resta il sindacato maggiormente rappresentativo nell’assemblea di Enpam, assemblea che a sua volta si terrà il 26 novembre. Cosa pensano i medici di base, che versano i loro contributi all’Enpam, di tutta questa vicenda? E cosa ne sanno davvero? (LJS)

Parliamo ancora un po’ della mucca di Bersani

Monti e Bersani alla Camera
Pierluigi Bersani e Mario Monti, durante la seduta per l'elezione del Presidente della Repubblica, 18 aprile 2013 ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Commentando le elezioni americane, Pier Luigi Bersani ha scritto il commento più virale, per merito di una delle sue battute, che funzionano sempre, bisogna dire (o almeno accendono un riflettore, perché spesso, in realtà, non si capisce bene cosa intenda). «Per dirla in bersanese», ha detto l’ex segretario dem, «la mucca nel corridoio sta bussando alla porta». L’avrete letto.

Siccome la battuta è per iniziati, a caldo, qui su Left, vi abbiamo tradotto la metafora in salsa emiliana, che riprende un avvertimento già rivolto a Matteo Renzi. La mucca, che all’epoca era nel mezzo del corridoio, un corridoio del Nazareno, sarebbe l’avanzata delle destre, che Renzi, tutto preso dalle sue strategie di comunicazione, per Bersani, non vede. La mucca, dice Pier Luigi Bersani, ha percorso ormai tutto il corridoio, è arrivata alla nostra porta, e sta bussando. La metafora funziona? Forse più del «tacchino sul tetto», ma non è comunque importante.

Una volta tradotta ci interessa dire che la metafora, efficace o no, dice una cosa giusta. Dice che agli squilibri che stanno dietro la vittoria di Trump, che stanno dietro la rabbia cavalcata dalle «destre della protezione» (come le chiama giustamente Bersani) si dovrebbe rispondere da sinistra, con politiche di sinistra. Perché è proprio folle – anche se non inspiegabile – che l’America delle disuguaglianze finisca per votare un esemplare dell’1 per cento che, si diceva, su quelle disuguaglianze campa.

Quello che vorremmo dire a Bersani, però, è che la mucca c’era anche nel 2011. Magari era sulle scale, almeno da noi, ma c’era. E la risposta scelta fu Mario Monti. Nel 2013, poi, la mucca era sul pianerottolo e ancora – senza riuscire a stanare i grillini – si è scelto Letta: non proprio Bernie Sanders. Ecco perché è interessante parlare ancora un po’ della mucca di Bersani.

Perché ci permette di ipotizzare un fallimento di Renzi – tutto impegnato a ammantare la solita via, la Terza via – ma perché ci permette di inquadrare anche gli errori fatti prima di Renzi (e che proprio l’arrivo di Renzi hanno favorito). Errori di Bersani, spesso, pur con l’attenuante delle condizioni ambientali.

Lo scrive bene Maurizio Davolio in una lettera che l’Unità ha ovviamente schiaffato in prima pagina. Una lettera contro Bersani (fate dunque la tara: Davolio è presidente del Sì). «Ma la fiducia al Governo Monti», scrive Davolio, «la legge Fornero, ecc non sono state scelte Bersani regnante? La più macroscopica violazione e umiliazione della sovranità del Parlamento e violazione della Costituzione non è avvenuta quando si è inserito il pareggio di bilancio in Costituzione, anche questa con Bersani regnante? Io allora quelle scelte le condivisi, ma per favore se sei pentito chiedi scusa e dillo che ti sei sbagliato. Altroché mucca nel corridoio. Lui non l’ha vista nel febbraio del 2013, anzi l’aveva scambiata per un giaguaro».

Un uomo solo e pericoloso al comando

epa05624764 People participate in a protest against the election of Donald Trump as President of the United States in New York, New York, USA, 09 November 2016. President-elect Donald Trump will become the 45th President of the United States of America to serve from 2017 through 2020. EPA/JUSTIN LANE

New York – Per un anno abbiamo parlato della storia sbagliata. Sottovalutato la rabbia e la disillusione che covava nel profondo dell’America, che decade da molti anni e a cui nessuno ha saputo dare una risposta. Donald Trump ha vinto la presidenza degli Stati Uniti negli Stati dove non ci si immaginava avrebbe vinto, più e meglio di quanto chiunque – persino lui e i suoi strateghi – potessero prevedere. In una corsa nella quale entrambi i candidati non erano apprezzati, più persone hanno creduto in quello che gli ha raccontato le cose con il loro linguaggio, che ha solleticato le loro frustrazioni e promesso un mondo che non esiste, ma è migliore di quello in cui vivono.

La fatica e il disorientamento degli elettori di Michigan, Pennsylvania, Wisconsin, Ohio, Stati che erano tutti democratici e che Trump ha vinto o perso di un soffio, hanno prevalso sullo status quo clintoniano. Il soffio che è bastato a portare il miliardario newyorchese senza nessuna esperienza politica alla presidenza degli Stati Uniti.

Il Paese che ci consegnano queste elezioni è più spaccato di quello ereditato da Obama: in 24 anni, sei presidenze, il confronto tra i due partiti si è inasprito, le distanze sono aumentate, ogni presidente ha promesso di unire senza riuscirci. Dopo la rivolta di Obama contro Clinton e il modo di funzionare di Washington e quella del Tea Party contro Obama nelle elezioni di mezzo termine del 2010, siamo a una nuova insurrezione dell’elettorato americano. Prima delle basi democratica e repubblicana contro i loro partiti, con i successi totalmente inaspettati di Bernie Sanders e dello stesso Donald Trump, poi con il ribaltamento di tutte le previsioni possibili.

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Di meno peggio in meno peggio si arriva solo al peggiore

epa05625579 A matryoshka doll with the face of US President-elect Donald Trump surrounded by other matryoshkas is displayed on the table of the street souvenir vendor in the Andriyivskyy Descent in downtown Kiev, Ukraine, 10 November 2016. Americans on 08 November chose Republican candidate Donald Trump as the 45th President of the United States of America, to serve from 2017 through 2020. EPA/ROMAN PILIPEY

«Come sarà il mondo quando vi sveglierete e – se rimane lo stesso mondo delle 5.19 – scoprirete che ha vinto Trump?». Ci ha svegliato così Misha Iaccarino, nostra inviata nel mondo. E noi ci siamo svegliati e siamo corsi in redazione. È l’alba di mercoledì mattina e ieri sera abbiamo sbagliato la copertina. Il volto scelto era quello di Hillary Clinton e il senso era che aveva vinto “la meno peggio”.

L’editoriale rifletteva sulla volta che abbiamo cominciato ad accontentarci del “meno peggio” e in uno dei passaggi diceva: «L’errore, quello che ha fatto la sinistra, è stato quello di cedere la prima volta – ormai troppo tempo fa – alla logica del meno peggio. Non ne è più uscita… e noi, elettori di sinistra, a furia di turarci il naso non respiriamo nemmeno più. Sopravviviamo. E invece dobbiamo trovare “il tempo per vivere”, come ci ha detto Pepe Mujica, “il nostro presidente del mondo”. Così, il progetto di una società giusta ha ceduto il passo al Tina (there is no alternative). Anche perché l’alternativa al nostro meglio era lo spauracchio del tanto peggio (qui da noi Berlusconi il tanto peggio e Prodi il meglio)… Abbiamo cominciato ad allearci tatticamente “contro” e non “per”, i nostri obiettivi si allontanavano mentre gli schieramenti opposti si avvicinavano. E abbiamo finito per perdere di vista che lo scopo non era governare l’esistente ma trasformarlo, che il modo in cui si fanno le cose è parte integrante del risultato che si vuole conseguire».

E poi continuava: «Allora, di fronte a questo voto americano abbiamo pochi punti fermi da cui partire. Intanto, Trump ha riempito pericolosamente un vuoto politico di cui sono responsabili tanto i democratici ora ricompattati, quanto i repubblicati ormai ridotti a brandelli. In secondo luogo, Clinton ha tratto vantaggio dall’appoggio di Sanders e Warren ma la sua prospettiva non è quella di un cambiamento radicale. Aver lottato contro la povertà o essere sensibile al tema dei mutamenti climatici la rende migliore di Trump ma non colma le distanze con quello che per noi vuol dire essere sinistra».

Ora, mentre scriviamo con gli occhi stanchi dalla redazione semivuota, possiamo solo aggiungere che nessun appoggio è bastato a Hillary. Che se il voto è contro il sistema e tu ne sei parte non c’è sinistra che ti possa miracolare. Non c’è il rifiuto per quel sistema. Non si sentiva e questo è il risultato. Michael Walzer dice «la nostalgia vale per tutti». Cosa intenda Trump per “far tornare grande l’America” lo capiremo nel tempo, ma gli Americani di quello che a noi appare un incubo, hanno fatto il loro sogno più forte. L’editoriale della copertina sbagliata che pensava alla vittoria di Hyllary “la meno peggio” finiva così: «A proposito di dinastie, neanche l’ipotesi provocatoria e romantica di Michelle Obama come futura presidente mi convince. Vorrei piuttosto una ragazza – o un ragazzo – che dalla periferia dell’impero abbia l’opportunità di prendere le redini del comando per le sue capacità e non per le sue buone relazioni. Magari grazie a un eterogeneo, vivace e innovativo movimento di cui è espressione. È chiedere toppo? Penso che noi abbiamo il diritto di chiedere il meglio, non il meno peggio. Anche perché, come abbiamo visto e pagato a caro prezzo, al meno peggio non c’è mai fine».

Possiamo solo aggiungere, dopo questa nottataccia, che a forza di meno peggio si arriva al Peggiore. è inevitabile. La Storia lo insegna e noi lo abbiamo scritto tante volte. Occorre saper rifiutare il peggio e il meno peggio. E occorre indubbiamente cominciare a “chiedere troppo” e a “pretendere” il meglio. Senza paura. Un cambiamento radicale.
«Vorrei piuttosto una ragazza che dalla periferia dell’impero…».

Ne parliamo su Left in edicola dal 12 novembre

 

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Così Trump ha vinto le elezioni (anzi, Hillary ha perso). Analisi dei flussi elettorali

elettori in fila a un seggio di New York
Voters wait in line to cast their ballots at a polling site in the Chelsea neighborhood of New York, Tuesday, Nov. 8, 2016. (AP Photo/David Goldman)

La polvere si è depositata e possiamo guardare ai numeri dell’America che ha eletto Donald Trump. C’è una cosa che salta agli occhi e che abbiamo cercato di scrivere in altro modo parlando della incapacità di entrare in relazione con la gente e di costruire un messaggio forte e una narrazione: la sconfitta è soprattuto di Hillary Clinton. Donald Trump ha infatti preso meno voti di Mitt Romney nel 2012, ma ha vinto. Rispetto a Obama nello stesso anno, a Hillary mancano 5 milioni e mezzo di voti – ben nove rispetto al trionfo del 2008. La prima lettura da dare è quindi che la campagna democratica non è stata in grado di portare gente a votare.

IL SISTEMA ELETTORALE
Diciamolo subito: il sistema elettorale Usa è discutibile – ma ci sono delle ragioni, anche sensate, perché sia così.

Vediamo perché partendo da un dato: Hillary Clinton ha preso più voti di Donald Trump, circa 400mila: con un sistema proporzionale, in teoria sensato quando si elegge una persona, avrebbe vinto lei. Come Al Gore nel 2000. Questo è un dato interessante e confortante per il futuro: nelle ultime sette elezioni i democratici hanno preso più voti in sei. Due, Hillary Clinton e Al Gore, però le hanno perse con il sistema degli electoral college. È una serie mai capitata nella storia americana.

Un sistema proporzionale però, cancellerebbe di fatto alcuni Stati dalla politica Usa: ci sono tre Stati sopra i 20 milioni (New York appena sotto) e 9 Stati sotto il milione e mezzo. La California da sola fa il 12% della popolazione, il Wyoming e il Vermont di Bernie Sanders lo 0,18%. Ma gli Usa sono una federazione e i poteri, la rappresentanza vanno in qualche modo bilanciati.

Infine, il sistema, per quanto discutibile, è sempre lo stesso, per vincere bisogna sapere come ottenere 272 collegi elettorali, non come prendere più voti. Il sistema ha però una falla di altro tipo: tra gli Stati con più bassa partecipazione al voto c’è proprio la California. Perché? Perché si sa già chi vince, i democratici, e quindi è inutile andare a votare: se il partito di Obama prende il 52% o l’80% il numero di collegi elettorali espresso è lo stesso. Poi ci sono fattori culturali, ma certo, in Florida o Virginia, swing states, si vota di più.

LA PARTECIPAZIONE AL VOTO
Il secondo dato generale riguarda proprio la partecipazione al voto. Un elemento chiave. Il numero definitivo lo avremo tra un paio di settimane, ma le previsioni parlano del 56,5%. È un dato più basso delle ultime tre elezioni presidenziali: che in serie erano stati, 58,6% (2012) 62,2 (2008) 60,7 (2004).

LE DONNE. Veniamo a chi ha votato cosa. Il dato simbolicamente peggiore per Hillary Clinton è quello relativo alle donne: il 53% delle bianche ha scelto il candidato repubblicano a prescindere dai suoi comportamenti e dal fatto che dall’altra parte ci fosse la prima candidata donna della storia. Le donne delle minoranze hanno votato in massa e il dato assoluto, bianche più minoranze, pende per Hillary (54%, che è sempre un punto in meno di Obama nel 2012). Interessante il dato sulle donne con titolo di studio: tra le minoranze le donne meno istruite votano più Clinton, tra le bianche più Trump (e viceversa). Un segno tra mille di una divisione tra i poveri su linee razziali, una forza per i repubblicani.

LE MINORANZE Il dato che meglio fa capire la sconfitta di Clinton, la sua mancanza di appeal è quello sul voto delle minoranze. I bianchi hanno votato Trump al 58% e sono il 70% degli elettori. Tra questi Hillary, pur essendo bianca, ha perso due punti. Il distacco è quasi identico a quello inflitto da Romney a Obama. Il problema allora sono le minoranze. Non solo hanno votato meno che in passato ma pur assegnando un trionfo a Clinton, il voto è -5% rispetto a Obama tra i neri, -6% tra i latinos, -8% tra gli asiatici. Il dato che più sorprende è quello ispanico: Trump ne ha dette di tutti i colori contro i bad hombres messicani, eppure. C’è forse in una piccola parte della popolazione ispanica, che comunque ha votato al 65% democratico, l’idea di un sogno americano da realizzare. Se si è cittadini, non si è colpiti dalle minacce di espulsioni. Nel complesso, ma il dato non c’è, è probabile che la partecipazione al voto dei neri sia calata di parecchio. Così si spiegano il risultato della Pennsylvania e in parte dell’Ohio, dove le comunità afroamericane urbane bilanciano la campagna più conservatrice.

CHI NE PORTA DI PIÙ AI SEGGI
E questo è il punto centrale: alle elezioni americane, come molte altre ormai, vince chi porta i propri elettori ai seggi, non chi convince più gente a cambiare voto. Stavolta i bianchi avevano dell’entusiasmo, le minoranze no. I neri non avevano più il loro presidente e gli ispanici non hanno avuto una riforma dell’immigrazione (colpa dei repubblicani, ma chi comanda la paga). E il messaggio di Hillary alle minoranze – e alle donne – è stato: abbiate paura, tremate, arriva il mostro. Il messaggio di Trump: cambiamo tutto, spazziamo via la vecchia politica. Uno era in positivo, l’altro in negativo.

IL TITOLO DI STUDIO
Andiamo avanti: chi ha una laurea vota di più democratico, chi non ce l’ha repubblicano: un controsenso dal punto di vista del ruolo che i partiti dovrebbero ricoprire, ma è una tendenza occidentale. Il dato è clamoroso tra i maschi bianchi senza laurea: 72% per Trump. Non a caso non abbiamo fatto che parlarne su Left: il malato d’America sono loro e rappresentano un terzo dell’elettorato.

E I GIOVANI?
Clinton vince tra i giovani e anche tra i 35-44enni, ma rispetto a Obama perde 5 punti tra gli under 30. Quei voti non sono andati a Trump, ma all’indipendente verde Stein e al libertario Johnson, che in quella fascia di popolazione hanno preso il 5%. Il problema più grande per Clinton è il tonfo tra i 45-64enni, la gente cresciuta nell’era Reagan, la parte più cospicua dell’elettorato, il 40%. Il messaggio di Trump era perfetto per loro. Qui ha perso 3 punti rispetto al basso 47% di Obama. Il fatto è ancora più singolare perché il presidente Bill Clinton era quello che era riuscito a farsi votare dai cosiddetti Reagan democrats, gente con caratteristiche sociali da democratico, che era passato ai repubblicani nei 12 anni (Reagan e Bush senior) dell’era reaganiana.

 


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