Il quartiere è pieno di polizia e di giornalisti, come un anno fa. Dei cattivi ricordi tornano alla mente, quella sensazione di pericolo, la paura negli occhi della gente, le lacrime anche. Sabato sera il concerto di Sting al Bataclan, domenica mattina le targhe commemorative nei luoghi degli attacchi, la sindaca di Parigi, il Presidente della Repubblica, poche parole, molto silenzio, commozione. In questo angolo di città torna a fiorire quel memoriale spontaneo che per mesi ha accompagnato la vita degli abitanti a partire dal 7 gennaio 2015. Tra il boulevard Richard Lenoir e il boulevard Voltaire, in una parte di giardinetto pubblico, c’è la lapide con tutti i nomi delle vittime del Bataclan. 90 persone, tra le quali Valeria Solesin. Un lancio di palloncini colorati davanti al municipio dell’11e arrondissement. Con il calare della sera di nuovo quel pianoforte per chi vuole suonare e far piangere chi si avvicina. La musica e il silenzio trasportano le emozioni, di parole ne sono state dette già troppe. Le lanterne tricolore scivolano sulle acque del Canal Saint Martin per allontanare le tenebre. Non ho voglia di partecipare. Penso ai versi di Ungaretti Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade/Ho tanta stanchezza sulle spalle, la recitava spesso mio padre e non solo in occasione del Natale. Vorrei restare a casa a curarmi il raffreddore e la tristezza, ho paura di riaffacciarmi su quelle strade che percorro ogni giorno.
Ho visto un documentario su Arté di Olivier Lemaire, 13 novembre, la vie d’après che racconta di come la vita quotidiana ha ripreso il suo corso dopo la tragedia, come hanno reagito gli abitanti, come ognuno ha ritrovato la forza di continuare a vivere nonostante la vicinanza alle persone e ai luoghi coinvolti. Ho scoperto così che gli Archivi della Città di Parigi hanno raccolto e stanno catalogando tutte le testimonianze lasciate dai cittadini davanti ai luoghi degli attentati. Uno a uno i reperti di questo monumento spontaneo alla memoria, che credevo fossero stati semplicemente rimossi, sono invece catalogati, messi in grandi scatole e digitalizzati. Più di 9000 reperti tra messaggi, fotografie, disegni, vignette, oggetti saranno presto visualizzabili in rete come una sorta di memoriale degli avvenimenti che hanno segnato la storia di questa città e di tutta la Francia.
Vorrei restare a casa ma non posso. È domenica, i bambini hanno voglia di uscire, le loro antenne captano il mio malumore. Decidiamo di andare a vedere con degli amici una mostra sul Medioevo alla Città delle scienze e dell’industria alla Villette, Quoi de neuf au Moyen-Âge ? (che c’è di nuovo del Medioevo ?). La mostra, una vera scoperta per piccoli e grandi, vuole confutare una serie di luoghi comuni che rappresentano il Medioevo come un’epoca oscura e arretrata, attraverso le recenti scoperte storico-archeologiche. Filmati, installazioni interattive, video, documentazione, oggetti e perfino giochi di società rimandano un’immagine molto diversa di questo lungo e complesso periodo storico. Le risonanze con la nostra epoca sono numerose e per certi versi sorprendenti: grandi migrazioni, ibridazioni culturali, cambiamenti climatici, guerre, speculazioni finanziarie, epidemie, ma anche scoperte, invenzioni, progresso, una grande ricchezza artistica e di idee. La storia dell’umanità che si ripete con le sue meraviglie e i suoi orrori. Non c’è che la conoscenza che possa fornici gli strumenti per capire ciò che accade e per lottare contro questo istinto di autodistruzione presente nell’uomo fin dalle sue origini. La conoscenza: è questa la mia preghiera di oggi, 13 novembre, un anno dopo.
13 novembre. Il Bataclan un anno dopo

Racconto il volto malato e violento dell’America
«So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato». Nonostante questo, Bonbon si trova alla sbarra. Comincia così la storia de Lo schiavista (The sellout, Fazi editore) nato a Dickens, un ghetto alla periferia di Los Angeles, da padre single, controverso sociologo che viene ucciso dalla polizia in una sparatoria. Di lui, a Bonbon, resta un funerale da pagare e il ricordo doloroso di esperimenti psicologici nei quali, quando era piccolo, era usato come cavia. Finché, dopo una serie infinita di angherie subite, Bonbon arriva a fare l’impensabile: resuscitare e mettere in pratica lo schiavismo.
Con questo spiazzante romanzo (Booker Prize 2016) Paul Beatty mette a segno un affresco graffiante e acutissimo della cultura americana.

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«È di nuovo tempo di Resistenza». Intervista alla direttrice di The Nation

Katrina Vander Heuven, direttrice di The Nation, il mensile della sinistra Usa per antonomasia, fondato nel 1865 e ancora la testata Usa con la più lunga storia di pubblicazioni è sbigottita: «È chiaro che i sondaggisti hanno sbagliato tutto e che quello che abbiamo chiamato il rising american electorate, una coalizione di minoranze, donne (non necessariamente sposate), giovani, che è destinata a crescere nei numeri per ragioni demografiche e che ha idee progressiste non ha avuto la forza e l’entusiasmo che è riuscito a suscitare il messaggio divisivo e brutale di Trump. E Clinton non era la candidata adatta a rispondere a quella rabbia».
Sia tra i voti di Bernie Sanders che nel voto in generale c’è un problema con i lavoratori bianchi. Non è gente a cui occorre dare risposte nuove?
È vero. Tra l’altro, una sconfitta di Trump non avrebbe significato aver battuto il trumpismo, che si è dimostrato una forza molto più grande di quanto avevamo previsto. Bernie ha fatto campagna elettorale per Clinton, ha dato tutto il suo supporto, ma per battere Trump serviva costruire una coalizione più ampia: i dati dalle zone rurali, spesso povere, disastrosi per i democratici, ci dicono che il partito di Obama non ha saputo rivolgersi a quell’America.

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La morte di Fikri, venditore di pesce. Ma non siamo più nel 2011
Una coppia che non parla, uno di fronte all’altra, senza guardarsi. Lei mangia un gelato sotto il velo rosa, lui guarda lontano, verso l’orizzonte, dal tetto del riad in questa città rossa che non sta mai zitta, dove per legge, mura e muri di ogni palazzo possono essere dipinti solo di tutte le sfumature dell’ocra. C’è tutto l’Islam che un occidentale può sopportare e tutto deve essere a sua misura, perché la prima fonte di profitto, per tutti qui intorno, sono i turisti con la loro pelle bianca in cerca di esotismo. Non ci sono orologi o persone che si chiedono che ora è. Le uniche lancette in giro sono quelle ferme sulla bancarella dell’antiquario che spinge il tavolo con le ruote lungo la piazza di Marrakesh, Jamaa el Fna, la più grande d’Africa, dove i berberi si sono mischiati agli arabi, poi agli africani e poi ai francesi. Jamaa, che non sta mai zitta, schiamazzi e urla, un Marocco in miniatura, ha una sola libreria all’angolo. Svelata e bruna, la commessa, con accanto i negozi di kebab, vende libri in francese sull’islam riformato. Di fronte, la polizia ha i fucili d’assalto puntati, e osserva.

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Il viaggio di Frida per ritrovar se stessa
Appena varchi la porta dello studio di Chiara Rapaccini, in via del Boschetto, a Roma, vieni colto da un turbinìo di colori, fortissimi. Poi lo sguardo riesce a distinguere tavole e sculture di volti e corpi di donne, primitive, picassiane. Opere su cui sono incise frasi con una calligrafia arcaica. «Scrivo mentre dipingo, dipingo mentre scrivo, tutto insieme, non c’è distinzione».
Rap (è il suo nome d’arte) si muove con eleganza tra le opere d’arte e le vignette ironiche della serie “Amori sfigati”, che tanto successo hanno in rete: è il suo spazio, di pittrice, illustratrice e scrittrice. Qua e là appaiono squarci della sua vita, i bellissimi ritratti “disegnati” del regista Mario Monicelli, il compagno di oltre trent’anni, scomparso nel 2010, da cui ha avuto una figlia. Colori e immagini forti che si ritrovano anche tra le righe del romanzo Baires, appena pubblicato per Fazi. Ma stavolta è “solo” scrittura.

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Di Matteo: «La Costituzione va difesa e applicata»
Nino Di Matteo difficilmente si sottrae al dibattito. Il magistrato più scortato d’Italia, da tempo impegnato nella procura di Palermo nella lotta alla mafia, è uno di quelli che crede nella responsabilità culturale di chi ha l’occasione di essere ascoltato; e le parole di Di Matteo pesano, sempre. L’abbiamo voluto intervistare sulla riforma costituzionale di Renzi e Boschi e lui, al solito, ha risposto senza mediazione.
Dicono sia vecchia, che vada cambiata, che è da sburocratizzare: ma come sta la nostra Costituzione?
Io sono sempre stato convinto che il vero gran- de problema italiano sia la forbice tra la Costituzione formale e quella materiale. Il vero problema è costituito dal fatto che molti importanti principi costituzionali non hanno mai trovato applicazione. Da una parte c’è la Costituzione scritta e c’è un’Italia che vorrebbe un progetto politico con alti principi di uguaglianza, di solidarietà e di libertà così come scritti nella Costituzione, e dall’altra parte c’è stata invece la trasformazione e l’elusione della Costituzione nella pratica politica, con un’Italia fondata sulla speculazione, sulla ricerca esasperata del potere e della sua conservazione, sul compromesso e sull’accettazione, perfino, di metodi mafiosi e poteri criminali. Io sono convinto che questo sia il vero grande problema. La nostra Costituzione deve essere applicata piuttosto che modificata.

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Il Cremlino esulta. Non perché ha vinto Trump, ma perché ha perso Clinton

E adesso? Il tweet dell’ex ambasciatore americano a Mosca Micheal McFaul dopo la vittoria di Trump diceva questo: «c’è un solo grande perdente nel mondo oggi ed è l’Ucraina». È finita la corsa, ha vinto quello ha confuso in diretta i Kurds, i curdi, con i Quds, la guardia iraniana, e ora conoscerà i codici dell’arma nucleare. E adesso? E adesso se lo chiedevano da Tallin a Kiev, da Kiev ad Aleppo. L’America che Trump vuole great, again quale sarà nel resto del mondo? Insieme alla moneta messicana, durante le ore di sfoglio dei voti, anche la grivna crollava. Ora la domanda non è più se l’Ucraina entrerà nella Nato, ma piuttosto che Nato sarà.
Se con Trump l’America smetterà di essere antirussa, non è detto che smetterà di esserlo il Congresso e il partito Repubblicano. Eppure Trump viene continuamente paragonato a quel Regan che vinse la campagna presidenziale con lo spot elettorale There is a bear in the wood, c’è un orso nel bosco. Quell’orso per gli americani col dito sempre sul grilletto del fucile, erano i sovietici. Ma adesso? Adesso è la prima volta che un Presidente americano va più d’accordo col Presidente dell’Impero che da sempre chiamano nemico, che con il suo predecessore afroamericano. Quindi adesso? Adesso chi sarà il nuovo nemico?
Lo scenario inedito, di convergenze di interessi senza precedenti, che gli esperti non hanno mai dovuto interpretare né ipotizzare prima, è quello che potrebbe venire a crearsi se le scelte geopolitiche promesse dal tycoon dai capelli grano divenissero realtà. Il Financial Time lo chiama già il grand bargain, il grande affare, un grande accordo tra Washington e Mosca, tra Trump e Putin, perché l’America non farà più lo sceriffo del mondo, non sarà più lo scudo dell’arena europea, come ha detto il repubblicano dai palchi elettorali d’America. Europa, Nato: “non tutti meritano di essere difesi, e se devono esserlo, che paghino”, mentre la Russia: “Russia, se mi stai ascoltando, trova quelle email che ha cancellato Hillary”, “Russia, beh, non sarebbe carino sconfiggere l’IS con la Russia?”.
Trump non marcerà contro Assad in Siria, non vuole il TTIP con l’Europa. L’uomo che ha dichiarato che “non è importante conoscere la differenza tra Hamas e Hezbollah” cosa farà in Ucraina, in Siria, in Europa, lo saprà lui e lo sapremo noi, solo dopo il 20 gennaio. È la prima volta nella storia che gli Imperi che hanno diviso il mondo e il Novecento potrebbero andare d’accordo. Il primo vuole chiudere l’America nella sua vecchia casa, il secondo chiama casa quella che chiama sé stessa nuova Europa. Potrebbe essere la fine, la fine della guerra fredda o entrambe.
Era il 2009, non era l’Ucraina ma l’Ossezia, quando Hillary regalò al Ministro degli Esteri russo Lavrov il tasto reset, per far ripartire i rapporti Usa-Russia. C’era scritto senza cirillico, ma in caratteri latini perezagruska, reset ma anche overload. Tra il riavvio e il sovraccarico quale sfumatura è stata prediletta di quella parola-bottone negli ultimi anni si è visto con il fuoco delle due propagande incrociate.
La politica delle sanzioni voluta soprattutto dagli Stati Uniti contro la Russia dopo l’annessione della Crimea è una grande incognita da svelare. Trump quest’estate ha detto che avrebbe riconosciuto la Crimea perché “da quello che ho sentito, vogliono stare con i russi piuttosto che con chi erano”. Era ormai mesi fa, quando Poroshenko stringeva la mano di Hillary, mentre lui la stringeva all’egiziano Abdel Fatah Al Sisi. È stato il terzo leader da cui ha ricevuto le congratulazioni a telefono ieri il miliardario, dopo la premier britannica May e l’israeliano Netanyahu. È stato Raul, da Cuba, a nome dei Castro, l’ultimo a fare degli auguri a denti stretti al neoeletto. Putin no, non ha ancora chiamato. Il Cremlino ha sentito le chiacchiere, ora ci sarà il vaglio dei fatti. Se nella Piazza Rossa della Capitale forse si esulta non è perché ha vinto Trump, ma perché ha perso Clinton.
E adesso? Adesso anche lontano da quella Mosca, che disse Obama nel 2014, “era dal lato sbagliato della storia”, si stanno chiedendo ormai quale sia quello giusto.
Usa, Sanders e Warren alla riscossa. La sinistra vuole cambiare i democratici

La sinistra democratica è più forte che mai ed è la parte del partito uscita senza ferite dalle elezioni: gli Stati persi da Clinton sono quelli dove Sanders aveva vinto e dove alcune questioni da lui poste sono più sentite. Per questo non si farà sfuggire l’occasione di dimostrare che a forza di flirtare con il potere, quella parte dei democratici alla Clinton, hanno finito per essere identificati con i miliardari. E sono stati puniti.
La prima battaglia che Bernie Sanders e i suoi preparano è quella per la leadership del Dnc, il Democratic National Commitee, la cui testa non è un segretario di partito, ma un coordinatore, stratega, organizzatore. Che però alloca risorse, lancia campagne, crea reti nazionali. Una figura chiave, insomma.
Ieri Bernie Sanders ha concesso la prima intervista tv dopo la vittoria di Trump. Parlando con la Cnn il senatore del Vermont ha detto: «Ero convinto che Clinton avrebbe vinto e non ha senso chiedersi se io avrei fatto meglio, se Trump lavorerà per la middle class, ci lavorerò assieme, se continuerà con razzismo, sessismo e xenofobia, mi opporrò furiosamente. Trump ha detto che sarà il campione dei lavoratori: bene, alzasse il salario minimo. Dobbiamo fare in modo che le lavoratrici guadagnino uguale ai lavoratori, ricostruire le infrastrutture e rivedere i trattati commerciali». La sintesi è nel tweet qui sotto: «Se Trump dirigerà la rabbia del Paese verso le minoranze saremo il suo incubo peggiore».
If Donald Trump takes people’s anger and turns it against Muslims, Hispanics, African Americans and women, we will be his worst nightmare.
— Bernie Sanders (@SenSanders) 10 novembre 2016
Ma il tema non è il posizionamento rispetto a Trump: tutta la sinistra lo incalza su cose che ha sparato, tutto e il contrario di tutto, e chiede che dia seguito alle promesse in materia di economia. Irrealizzabili se vuole anche – come vuole fare – abbassare le tasse. Del resto, per il posto di Segretario al Tesoro si parla dell’ex Goldman Sachs Steven Mnuchin e dell’attuale amministratore delegato della banca d’affari Jamie Dimon. Non male per uno che ha fatto propaganda anti-sistema e usato i discorsi di Clinton rivolti proprio ai banchieri come argomento contro di lei.
Parlando del suo partito, Sanders ha detto che «è difficile sostenere di essere il campione dei lavoratori e della middle class se poi raccogli fondi dalle banche, dobbiamo cambiare modo di finanziarci, si sono milioni pronti a donare piccole cifre, come è successo durante la mia campagna ». Per il Dnc la sinistra democratica avanza la candidatura di Keith Ellison, eletto rappresentante del Minnesota, afroamericano. I gruppi liberal chiedono un partito più giovane e diverso. Con la preoccupazione però espressa da alcuni che l’eccesso di diversità sia costato qualcosa: «Dobbiamo rendere la diversità una forza, non una debolezza» ha scritto Debbie Dingell, rappresentante del Michigan, eletta in una contea dove risiedono molti musulmani. Non una somma di interessi delle comunità, insomma, ma un messaggio unificante. Obama ci era riuscito nel 2008.
La richiesta è quella di un Dnc più attivo, capace di condurre e coordinare campagne sul territorio e cose simili. Che non sia, insomma, solo una macchina di finanziamento per le campagne elettorali dei singoli candidati, come spesso accade. Tra le autocandidature, anche quella di Howard Dean, ex governatore del Vermont, e già a capo della struttura, con un certo successo organizzativo – e gran capacità di uso delle tecnologie – nei primi anni di Obama. Potrebbe essere una figura di mediazione: fa parte della leadership, è di sinistra.
Altra figura chiave (possibili competizioni in vista?) è Elizabeth Warren. Ha lo stesso posizionamento di Sanders. «Pronti a cooperare: ha promesso di fare la lotta alle banche? La faccia. Ma non tocchi la Sanità e non si metta a fare politiche xenofobe o noi risponderemo a ogni passo». Warren è forse la figura che in questo momento è più popolare assieme a Sanders, donna, origini umili, economista di alto livello, mette una passione ed un’emozione enorme nella sua attività ed è la nemica giurata di Wall Street. Una candidata potenzialmente ideale. Già se ne parla.
Il discorso di Warren ai sindacati il giorno dopo la sconfitta di Clinton
Inchiesta P3, le richieste di condanna per Verdini e Carboni imbarazza il governo
Una superloggia, la P3: un comitato d’affari che avrebbe gestito l’assegnazione di una serie di appalti pubblici in Sardegna per la realizzazione di parchi eolici. E, tra il settembre e l’ottobre 2009 avrebbe tentato di avvicinare i giudici della Corte Costituzionale per influire sul giudizio relativo al Lodo Alfano, la legge sull’interruzione dei processi per le alte cariche dello Stato. Inoltre, avrebbe provato a ottenere la candidatura dell’ex sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, alla carica di presidente della Regione Campania in cambio appunto degli interventi compiuti sulla Corte Costituzionale. Un processo, quello in corso a Roma, che potrebbe confermare l’esistenza di un volto criminale nei vertici del Pdl e gettare un’ombra sulla maggioranza di governo.
Nove anni e mezzo di reclusione per Flavio Carboni e quattro anni per il senatore Denis Verdini. Sono alcune delle richieste di condanna avanzate dalla procura di Roma nei confronti di 18 imputati accusati, a seconda delle posizioni della violazione della legge Anselmi sulle società segrete, associazione per delinquere, corruzione, abuso d’ufficio, illecito finanziamento ai partiti e diffamazione nell’ambito del processo sulla cosiddetta P3.
Stando alla procura, gli imputati avrebbero violato la legge Anselmi, tentando di condizionare il funzionamento degli organi costituzionali. Oltre che per Carboni e Verdini, i pm Mario Palazzi e Rodolfo Sabelli, hanno sollecitato altre 16 condanne e una assoluzione. In particolare una pena di 8 anni e mezzo di reclusione è stata chiesta per Pasquale Lombardi, ex giudice tributarista, e per l’imprenditore Arcangelo Martino, considerati insieme a Carboni gli organizzatori dell’associazione per delinquere contestata. In merito al medesimo procedimento, sono state chieste condanne minori per posizioni che non rientrano nell’associazione per delinquere. Tra questi ultimi, 1 anno di reclusione è stato richiesto per l’ex governatore della Sardegna Ugo Cappellacci; 1 anno e 6 mesi per Nicola Cosentino; cinque anni per Vincenzo Carbone, ex primo presidente della Cassazione; e un 1 anno e 6 mesi per l’ex assessore della Regione Campania Ernesto Sica. A decidere sulle richieste dell’accusa saranno i giudici della nona sezione penale. La prossima udienza è fissata per il prossimo 3 febbraio.
Flavio Carboni, sassarese del ’32, grande amico di Pippo Calò, cassiere di Cosa Nostra, sembra il comune denominatore di questo e altri misteri italiani degli ultimi trent’anni: dalla banda della Magliana all’omicidio di Roberto Calvi, dal sequestro Moro ai piani sovversivi di Licio Gelli, fino al caso Orlandi. Negli anni ’70 fa fortuna con investimenti in società immobiliari, finanziari ed editoriali, acome le speculazioni edilizie a Olbia e in Costa Smeralda. La sua prima e unica condanna è stata di 8 anni e sei mesi di reclusione per il fallimento del Banco Ambrosiano, insieme a Licio Gelli e Umberto Ortolani. Carboni è stato accusato di concorso nell’omicidio del banchiere Roberto Calvi, avrebbe poi venduto la borsa e i documenti di Calvi a un alto prelato dell’Istituto per le Opere di Religione, il monsignor Pavel Hnilica. Nel ’78, durante il sequestro Moro, Carboni aveva avvicinato esponenti della Dc proponendosi di chiedere l’intervento della mafia per la sua liberazione. Il suo nome è entrato anche nell’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Entrato e uscito da diverse inchieste, per truffa, bancarotta, concorso in corruzione, finanziamento illecito, Denis Verdini è stato l’artefice del Patto del Nazareno, ex coordinatore del Pdl e poi stampella di Renzi nell’attuale maggioranza di governo dopo la rottura col cavaliere. Un passato nel Pri, poi in Forza Italia e un presente in Ala, Alleanza liberal-popolare/Autonomie. Dall’inchiesta emerge che il 23 settembre 2009 avrebbe avuto luogo un incontro in casa Verdini con Carboni, il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, i magistrati Antonio Martone e Arcibaldo Miller, oltre ad Arcangelo Martino e Raffaele Lombardi. In questa riunione si sarebbe delineata la strategia di persuasioni indebite da adottare sui giudici della Consulta intorno all’approvazione del lodo che il 7 ottobre seguente verrà poi bocciato perché ritenuto incostituzionale.
L’allora leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro definisce la cupola che si sarebbe costruita attorno a Flavio Carboni una «nuova loggia massonica», con le stesse caratteristiche della vecchia loggia Propaganda 2. Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito pemocratico, chiede all’esecutivo di far luce sulla vicenda, mentre il senatore e capogruppo dell’Udc Giampiero D’Alia richiede l’intervento della Commissione parlamentare Antimafia.
Trump, la destra razzista all’incasso. Le minoranze hanno paura

New York – È la mattina di mercoledì e Isabel e Mercedes, due signore messicane sulla quarantina stanno piegando i panni nella lavanderia a gettoni dove lavorano per una signora cinese. Parlano a bassa voce delle elezioni, tra loro, in spagnolo. «Avete visto che disastro?», chiedo loro. «Una catastrofe: stavo appunto dicendo alla mia amica di come mio marito sia nervosissimo. Siamo qui da tanti anni, ma lui non ha ancora i documenti. Ora abbiamo un po’ paura». «Io conosco diverse persone con i figli nati qui, ma senza documenti. Cosa faranno adesso? Non pensavo che avrebbe vinto Trump, qui a New York non piace a nessuno di quelli che conosco». Persino la signora cinese padrona della lavanderia – e i cinesi non parlano spesso di politica, lavorano e si fanno gli affari loro – dice qualcosa in uno spagnolo stentato (misteri dell’immigrazione e del pianeta globale): «Trump es malo, es un grande problema».
Le preoccupazioni di Isabel e Mercedes e della loro datrice di lavoro sono le stesse di milioni di cittadini e non che vivono negli Stati Uniti nel giorno uno dell’era Trump. Musulmani, messicani, neri, omosessuali sono preoccupati a vario titolo. E hanno ragione. Magari il presidente eletto non farà quello che ha promesso – non è tecnicamente fattibile cacciare 12 milioni di persone e non è costituzionale bandire qualcuno per la religione che professa – ma ha già fatto alzare la testa alla peggiore feccia di questo Paese. Se il presidente si permette certe frasi, perché io che sono un uomo della strada non posso fare di peggio?
E allora ecco che da tutte le parti arrivano notizie preoccupanti e angoscianti. Sono una minoranza, ma oggi si permettono di dire e fare cose che prima non osavano nemmeno pensare. È successo lo stesso in Gran Bretagna, dopo la vittoria del Sì alla Brexit.
Intendiamoci, non è questo l’elettorato di Trump, questi ci sono sempre stati. Ma oggi si sentono forti, passano all’incasso, si appropriano di una vittoria che in realtà non hanno ottenuto loro e chiedono visibilità. Trump, nei mesi di campagna li ha corteggiati, vezzeggiati, non li ha condannati quando era necessario. E così il Ku Klux Klan annuncia una marcia in North Carolina il 3 dicembre. Il gruppo locale, circa 150 membri, è tra i più attivi del Paese.
Come scrive Richard Cohen del Southern Poverty Law Center, un centro che documenta le attività dell’estrema destra, fa educazione alla diversità e porta in giudizio casi di razzismo, xenofobia e i cosiddetti hate crimes:
Andrew Anglin, del Daily Stormer, un sito web nauseante e popolare tra i neonazisti, ha dichiarato, «il nostro leader glorioso è salito a Dio Imperatore. Non commettere errori su di esso: abbiamo fatto questo».

David Duke (ex leader del Ku Klux Klan e candidato in Louisiana) è stato altrettanto chiaro, twittando che «la nostra gente hanno giocato un ruolo enorme nella elezione Trump!»
Kevin MacDonald, un antisemita e ex professore senza peli sulla lingua, ha scritto: «Questa è una vittoria straordinaria. Fondamentalmente, si tratta di una vittoria della gente Bianca nel corso degli oligarchici, élite ostili».
Poi c’è la reazione della gente comune, la feccia comune. Ecco tre esempi che abbiamo trovato sui social network, postati da persone preoccupate.
Carosello di auto con la bandiera confederata (sudista) nel nord dello Stato di New York
Un episodio riportato da Shaun King, giornalista del Daily News a New York: ragazzine che chiedono a una ragazza ispanica o afroamericana (non è chiaro) «Non dovresti sederti in fondo tu? Ha vinto trump!»
This was in Queens, NY. She was asked to go to the back of the bus.
Day 1 of Donald Trump. pic.twitter.com/c4TBmYCoCe
— Shaun King (@ShaunKing) 10 novembre 2016
Un preside di una scuola in Pennsylvania scrive che nel suo istituto sono apparse svastiche sui muri, ci sono state aggressioni e cose simili. In un’altra scuola dello Stato si segnalano urla heil Hitler e insulti («raccogli cotone») verso gli afroamericani.
The texts in the green come from a school admin in Bucks County, Pennsylvania outside of Philadelphia. pic.twitter.com/qVTIdnRP2S
— Shaun King (@ShaunKing) 10 novembre 2016
La presidenza Trump è appena cominciata. Chissà se l’Fbi, che gli ha dato una così bella mano a vincere, ora si darà da fare per portare in tribunale queste persone che violano la legge vigente negli Stati Uniti.

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