Sarebbe un po’ scriteriato questo Dio, diciamolo. Ma in fondo è sempre stato parecchio scriteriato a pensarci bene. Perché mai il terremoto avrebbe dovuto colpire Norcia et similia per punire le unioni civili e le offese al sacro vincolo del matrimonio? A Norcia, secondo me, di unioni civili se ne vedono ancora poche purtroppo e le vecchine pregano ancora molto invece. Lo facevano persino scappando dalle loro case scampate alle scosse. E sono sposate le vecchine quasi sicuramente con lo stesso uomo da 50 anni, felici o infelici che siano state. Perché la Chiesa vuole così e lo vuole da tempo.
Che dire delle esternazioni su Radio Maria? Che dire ancora, anzi…. oscillo tra l’espressione semplice e forse troppo romana “se non so’ scemi non li volemo” a rimbastire per la millesima volta la polemica sulla concezione triangolare della realtà che impone la Chiesa cattolica sin dalla sua fondazione. Per cui qualunque cosa ti accada o non ti accada è legata a un terzo soggetto invisibile, impalpabile, io dico inesistente, ma che giudica e agisce. E se giudica male ti manda pure il terremoto (è il famoso libero arbitrio per prendere legnate). Una volta, nel Medioevo per esempio, era la peste, l’infertilità… Allora che dirvi?
Avete letto di tutto, di quanto coprano tutto il territiorio nazionale le frequenze di Radio Maria, di quante volte e di quante corbellerie da quelle frequenze vengono dette, di quanti finanziamenti finiscano nelle tasche dellla Chiesa grazie a cose tipo l’8xmille e invece potrebbero essere usate anche per la ricostruzione post terremoto e di quanto nei secoli dei secoli questo modo di “non pensare” che è credere all’esistenza di un Dio giudice che ti manda i malanni perché ti vuole bene e quindi ti redarguisce per farti espiare (in sintesi metodo “Pestalozzi” alla divina maniera) non abbia mai prodotto niente di buono. Né in termini di conoscenza né in termini di umanità. Allora ci vediamo domani in edicola. Perché noi abbiamo titolato “Pregare non serve”.
Lazy southern: i fannulloni del Sud. Sfaticati, indebitati, arretrati. Greci, spagnoli, italiani, portoghesi non hanno voglia di lavorare, hanno vissuto “al di sopra delle loro possibilità” e adesso la pagano, e cara anche. Insomma, la linea della Troika è questa: i “terroni europei” la crisi se la sono cercata. «La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento», scriveva invece Antonio Gramsci in Alcuni temi della quistione meridionale. La questione del Sud Europa sembra la versione europea della vecchia questione meridionale. Che sia Napoli, Atene o Madrid, il risultato non cambia. E infatti, sabato 5 novembre proprio nella città partenopea Left partecipa a una giornata di lavori organizzata dal Gue: SudÈuropa.
Il 5 novembre a Napoli: SudEuropa. Un’alternativa all’austerità
Prendiamo la Grecia. È il Paese dell’Unione dove si lavora di più: nel 2013 (austerity in corso) si sono registrate 2.037 ore per dipendente (poco più delle 2.034 dell’anno precedente): 267 ore in più della media europea (1.770), 649 più della Germania. Ma la Grecia è anche il Paese dove si guadagna di meno: lo stipendio medio è di appena 18.495 euro l’anno (in ulteriore calo dai 19.766 euro del 2012), mentre la media tedesca sfiora i 36.000 euro. Non solo, la ricerca Ocse – riporta il Sole 24 Ore – evidenzia cosa non quadra: la forbice tra quantità e qualità si scava in un’organizzazione “irrazionale” del lavoro. La Grecia adotta misure minime, o inconsistenti, per qualsiasi forma di part time e work-life balance, l’elasticità vita-lavoro che fa impennare la produttività a Nord delle Alpi. Con il risultato che un’ora di lavoro, nel 2012, oscillava poco sopra un valore di 34 dollari Usa: 20 in meno rispetto ai 59,5 di Francia e Danimarca.
Tassi di crescita bassi o bassissimi, disoccupazione giovanile alta, che in un contesto di alta mobilità giovanile comporta la perdita del capitale umano utile per l’attuazione di politiche di sviluppo. Mentre i Paesi del Sud si desertificano – ogni anno migliaia di giovani si spostano verso il Nord del Vecchio continente – l’Europa prosegue nella politica di austerità che fin qui non ha ridotto il divario, anzi. La forbice cresce, e con essa si aggrava la destabilizzazione politica degli Stati depressi, che restano incapaci di far fronte alle istanze popolari di benessere. Nessun investimento per il futuro (investimenti nella ricerca e nell’istruzione, o conversione all’economia verde o nuove politiche energetiche) ma solo gestione del presente. Il presente, l’ottica preferita dei mercati finanziari. Il fallimento del progetto europeo è ben visibile, così come lo sono le politiche necessarie per evitarlo.
«L’attuale crisi europea è un fenomeno complesso, non solo per le sue dimensioni generali ma anche per le tremende divergenze macroeconomiche che produce», scrive l’economista Emiliano Brancaccio già nel 2014. «Tra il 2008 e il 2013 Spagna, Italia, Portogallo, Grecia e Francia hanno perso complessivamente più di sei milioni di posti di lavoro, mentre in Germania si è registrato un aumento dell’occupazione di un milione e mezzo di unità. Inoltre, dall’inizio della crisi le insolvenze delle imprese sono diminuite in Germania, mentre sono aumentate del 90% in Italia e del 200% in Spagna. Si tratta di una forbice senza precedenti in epoca di pace, che tra l’altro alimenta le sofferenze delle banche mediterranee e accentua la loro debolezza rispetto agli istituti di credito del Nord del continente. La politica monetaria della Bce è uno strumento troppo limitato per fronteggiare da sola una crisi così asimmetrica, che ricade soprattutto sul Sud Europa e che invece sembra avvantaggiare la Germania e alcuni suoi satelliti». Il gap è evidente. Per contrastarlo, lo scorso settembre, i leader di Grecia, Italia, Francia, Portogallo, Spagna, Cipro e Malta si sono incontrati per un summit euro-mediterraneo – facendo arrabbiare non poco la Germania – «per formare un fronte anti-austerità che possa sfidare la retorica di Berlino su ulteriori misure di rigore», ha detto il leader greco Alexis Tsipras.
«L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà», profetizzava Giuseppe Mazzini. Se tanto mi dà tanto…
FILE - In this Oct. 20, 2016 file photo ,voters line up during early voting at Chavis Community Center in Raleigh, N.C. North Carolina's process for challenging voters' registration seems to harken to a bygone era when fewer safeguards were in place, a federal judge said Wednesday, Nov. 2 as she presided over a lawsuit that alleges voters are being purged unfairly. (AP Photo/Gerry Broome)
New York City – «Abbiamo tre operazioni in corso per fare in modo di rallentare e impedire il voto dei neri, dei latinos e dei liberal». Parlando con Sasha Issenberg, un giornalista americano che ha condotto un’inchiesta sull’organizzazione della campagna Trump, un membro dello staff ha detto questa frase. «Se l’è lasciata scappare perché il personale che Trump impiega non è fatto di gente abituata a relazionarsi con i media, una volta che sei lì a ciacchierare, parlano troppo», ha spiegato Issenberg a Bloomberg Tv. Non sappiamo di quale sia il piano Trump, ma sappiamo che forme per evitare che le minoranze votino sono diffuse.
Non far votare le minoranze è un esercizio nel quale i repubblicani si impegnano a ogni ciclo elettorale. Le tecniche sono molte e diverse e vedono al lavoro governatori, ufficiali delle commissioni elettorali, membri del partito che lavorano per questo. In un’elezione che ha confini mobili a causa della novità di un candidato come Trump e dello scarso appeal di Hillary Clinton, ogni voto pesa di più. E per questo il tema, sollevato molte volte in molte occasioni, quest’anno è particolarmente caldo.
Il campo di battaglia più furioso, quest’anno, è stato la North Carolina vinta nel 2008 da Obama e persa nel 2012, sempre per un pugno di voti, dove la minoranza nera è pari al 22,1% e i sondaggi indicano quasi parità.
Che strumenti hanno i repubblicani per scoraggiare e impedire la partecipazione al voto? Prendiamo l’esempio di Grace Beld Hardison, 100 anni, cittadina nera della North Carolina, che in questi giorni ha fatto scuola. Il nome di Grace è stato cancellato dalle liste nonostante lei abbia votato sempre negli ultimi 24 anni, sia registrata al voto e sia intenzionata a farlo quest’anno. Come mai? Una repubblicana ha notato che una lettera spedita dalla commissione elettorale a Grace è tornata indietro. «Ma io ricevo la posta all’ufficio postale da sempre», ha spiegato lei. Come lei, nella contea di Beaufort ci sono almeno altre 4 persone di cui si ha notizia. Nei mesi scorsi 6700 persone erano state cancellate così dalle liste elettorali, quasi tutti afroamericani registrati al voto come democratici. A volte le campagne repubblicane mandano migliaia di lettere apposta per registrare quelle che tornano indietro e tentare così di dire che quei cittadini hanno probabilmente cambiato contea. Un giudice federale, ieri, ha definito queste pratiche «folli e prive di riscontri e controlli».
C’è poi il caso delle mail di ufficiali elettorali di 17 contee dello Stato che invocano meno seggi, orari ristretti e altre limitazioni per il voto in anticipo.
La scusa repubblicana per agire in questo modo sono le frodi elettorali: il sistema Usa è federale, leggi diverse e una commissione elettorale per contea e assenza di un’anagrafe nazionale, e la possibilità, in teoria di votare due volte o di farlo anche se non se ne ha diritto per qualche ragione. I repubblicani accusano i democratici di registrare al voto le persone in luoghi diversi, di farle votare per posta e poi di persona, e così via. Qualche caso c’è, ma il vero tema è la discriminazione degli elettori delle minoranze.
Un modo più strutturale di disincentivare il voto delle minoranze è il cambiamento delle leggi che regolano le operazioni di voto. Ad esempio richiedendo un documento specifico per poter andare al seggio e votare. «Dovete tenere conto che negli Usa non c’è una carta di identità nazionale. L’unico documento che tutti i cittadini hanno è il social security number, ma non è un documento di identità, non ha foto» ci spiega Wendy Weiser del Brennan Center for Justice della New York University. Il centro si occupa di studiare la discriminazione al voto e anche di preparare il materiale legale per sostenere cause legali. Ecco, se una legislatura decide che gli unici documenti validi sono patente e carta di identità (che si può ottenere, ma che quasi nessuno ha), chiunque non abbia questi documenti non può esercitare il proprio diritto a votare. «Ci sono molti casi, specie tra gli anziani, in campagna o nelle grandi città, di persone che non hanno un documento con la foto o magari hanno una tessera da veterano militare o altro. Se la legge cambia, questa persona che ha votato tutta la vita con lo stesso documento si trova di colpo esclusa», aggiunge Weiser. A noi sembra strano ma non è così: le minoranze in questo Paese hanno un rapporto difficile con la cittadinanza – per colpa delle istituzioni e a volte della marginalità – e l’idea di andare a farsi un documento o il fatto di sentirsi solo dire «Lei non è nella lista», rischia di essere un deterrente.
I sistemi non sono finiti: «Diverse assemblee statali hanno cambiato i termini della registrazione al voto, magari impedendo la registrazione al seggio, o anche ridotto la possibilità di votare per posta o in anticipo». Anche questo sembra strano, ma a sette giorni dal voto già 22 milioni hanno votato e cambiare le regole di colpo significa prendere alla sprovvista chi prevede di votare in anticipo. Attenzione: negli Usa si vota il martedì, ergo chiunque lavori, magari facendo il pendolare o con turni lunghi, tende a preferire il voto in anticipo. Inutile dire che neri e latinos più spesso fanno turni pesanti di lavoro e non possono prendere permessi. Alcuni Stati hanno provato a vietare il voto in anticipo di sabato e domenica, quando invece c’è il picco di voti espressi di persona. Sempre la North Carolina si è vista bocciare la propria legge elettorale dalla Corte Suprema perché i limiti che imponeva (sempre relativi a orari, documenti e cimili) «è innegabilmente volta a prendere di mira il voto afroamericano» – nelle chiese battiste afroamericane spesso si organizza l’accompagnamento al seggio degli anziani, la legge vietava il voto anticipato di domenica. Molte altre battaglie legali sono state vinte dai difensori del diritto di voto in questi mesi.
Yavapai County, Arizona, Jemmy Emmet ha votato in anticipo per Clinton, 100 anni, il primo voto è stato per Roosevelt (Les Stukenberg/The Daily Courier via AP)
È finita qui? No, esistono metodi più subdoli e non ufficiali. Ad esemepio distribuire male le macchine elettorali: una in un seggio afroamericano grande, dieci in uno bianco piccolo, in maniera da creare lunghe file per votare; far circolare molta polizia nei quartieri neri il giorno del voto in maniera da intimidire un po’ chi ha avuto guai con la giustizia; togliere il diritto di voto anche agli ex carcerati che hanno scontato la pena; mandare lettere intimidatorie che dicano: “La frode elettorale è un grave reato federale, sei sicuro di non violare la legge?” o cose simili, che spaventano l’elettore marginale.
Nel complesso, il sistema elettorale americano è un disastro, eppure una percentuale crescente di gente partecipa al voto e non si contano frodi vere, la ragione per cui vengono promulgate certe regole è vincere le elezioni impedendo il voto: «Tra 2005 e 2006 il Dipartimento di Giustizia ha condotto una lunga indagine; ha trovato 86 casi individuali di voto doppio o non regolare, tutto sommato il sistema funziona» conclude Weiser. C’è poi chi, Bernie Sanders, per esempio, annuncia che nel nuovo Congresso presenterà una proposta per il voto la domenica. Una cosa razionale.
PS: La buona notizia è che in North Carolina circa il 40% delle persone ha già votato e che pare di capire che tra questi, Clinton abbia un vantaggio cospicuo. Vedremo.
epa05346990 Turkish deputy Selahattin Demirtas, co-leader of the left-wing pro-Kurdish Peoples' Democratic Party (HDP), takes selfie with supporters before a rally for a bill lifting the immunity for certain lawmakers, in Istanbul, Turkey, 05 June 2016. Kurdish HDP lawmakers face having their immunity lifted claiming it is an attempt by the AKP to consolidate more power for itself. The AKP claims the HDP is the political wing of the Kurdistan Workers' Party (PKK) and that its MPs should therefore be criminally investigated. EPA/SEDAT SUNA
Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, i due co-leader dell’ HDP partito turco di opposizione pro-Curdi sono stati messi agli arresti dal governo turco, violando l’immunità parlamentare. Al momento sono detenuti come almeno altri 9 membri del parlamento. A quanto riportano i media nazionali, gli 11 parlamentari sarebbero stati fermati a causa di una serie di indagini anti-terrorismo.
Il provvedimento di fermo preso nei confronti dei deputati è giustificato da «presunta propaganda a favore dei militanti curdi del Pkk», sospettati di essere dietro lo scoppio di una bomba e un’ondata di recenti attacchi. Qualche ora dopo l’arresto infatti di Demirtas avvenuto a Diyarbakir (la città della Turchia in cui la comunità curda è più numerosa) un’autobomba sospetta è esplosa ferendo ben 20 persone.
Immagini dopo l’esplosione di un’autobomba a Diyarbakir
Nonostante le accuse l’HDP nega qualsiasi legame con il PKK. Per quanto Demirtas, dopo l’elezione in parlamento, sia riuscito a raccogliere attorno a sé un certo consenso internazionale per le sue posizioni politiche liberali, i critici tendono a sottolineare come non sia di fatto riuscito a distanziare in maniera netta il suo partito dalle posizioni del Pkk. Una debolezza che Erdogan non si è risparmiato di sfruttare a proprio vantaggio e che gli dà l’occasione per colpire un’opposizione scomoda. L’HDP infatti era entrato per la prima volta in parlamento l’anno scorso, ottenendo ben 59 seggi e diventando il terzo partito del Paese.
Durante la notte inoltre il gruppo di monitoraggio Turkey Blocks ha denunciato che nel Paese l’accesso ai principali social media è stato bloccato. Facebook, Twitter e Youtube sono risultati inaccessibili a partire dall’1.20 ora locale, si legge sul sito dell’organizzazione (https://turkeyblocks.org). Limitazioni anche per Instagram e WhatsApp. Demirtas ha annunciato il suo arresto con un tweet prima del blocco.
Diyarbakırda evimde zorla gözaltına alınma kararı ile emniyet yetkilileri kapımdalar
Secondo Turkey Blocks, l’oscuramento è legato agli arresti riportati.
Il clima che si respira in Turchia è lo stesso che era stato imposto da Erdogan dopo il fallito, e presunto, colpo di stato che aveva permesso già al leader turco di sospendere o restringere diritti e libertà ed epurare le istituzioni da oppositori scomodi, scavalcando il parlamento.
Dopo il fallito colpo di stato sono stati 100mila gli impiegati nel settore pubblico che hanno perso il loro lavoro perché accusati di essere legati ai gruppi che si erano sollevati contro il governo.
«Dopo la vittoria del no, voglio raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 della Costituzione, quello del Concordato tra Stato e Chiesa». Con un tono della voce molto deciso, Lidia Menapace, 92 anni, staffetta partigiana, pacifista ed esponente del movimento femminista nonché senatrice nel 2006 per Rifondazione comunista, espone tranquillamente i suoi progetti per il dopo referendum. Rappresentante del No a Bolzano, dove vive, Lidia non esita a rilanciare la posta, per nulla intimorita dal dispiegamento di forze del fronte del Sì, anche se sollecita i vari comitati del No ad estendere la lotta, con una mobilitazione più a tappeto. Una donna forte Lidia Menapace e una incrollabile certezza nella capacità di coinvolgere le “cittadine e i cittadini – nominiamole le donne, dice, se no non esistono” -. Lidia, quali sono i punti inaccettabili della revisione costituzionale?
In generale è inaccettabile tutta la procedura. Questo è un testo giuridico fondamentale e quindi se ci fosse anche qualcosa di giusto, poiché la procedura è sbagliata, io la respingo. La procedura, ricordo, è garanzia. In questo caso, è confusa. Sono abbastanza vecchia per ricordarmi il dibattito sulla Costituzione, fu partecipatissimo, molto limpido, chiaro. Non è la stessa cosa adesso e la dimostrazione è che nonostante tutti i giochi di equilibrio – in cui è bravo -, Renzi non è riuscito a ottenere i voti che servivano perché la sua proposta diventasse legge immediatamente. Ha dovuto promuovere il referendum che, ricordo, è obbligatorio, non è stata una scelta. Hai accennato al clima in cui è nata la Costituzione. Com’era, in particolare?
Tutti si immaginano che la Costituzione sia stata costruita da un bel gruppo di giuristi seduti attorno a un tavolo con la massa fuori tranquilla e ignara. Invece no. L’Italia era appena uscita dai bombardamenti, le città erano distrutte e la confusione era tanta. Ma ci fu una specie di passione collettiva, anche se non in nome della patria perché queste cose dopo il fascismo uscivano dalle orecchie. La passione dominante era quella dell’essere liberi, di questo si discuteva ovunque: nelle osterie, nei treni, per strada, nelle scuole. Le persone chiacchieravano, suggerivano che bisognava fare questa o quell’altra cosa. E poi leggevano i giornali e cercavano qualche riscontro con quello che stavano sancendo le madri e i padri costituenti. Mi ricordo che una volta il partito socialista e quello comunista votarono in modo diverso sull’articolo 7 del Concordato. Te lo ricordi bene…
Certo, lo ricordo benissimo. I socialisti, più laici, votarono contro l’introduzione del Concordato nella Costituzione, mentre Togliatti in particolare pensava che non avrebbe potuto mantenere in Italia un Pci forte se non avesse trovato un accordo con il Vaticano. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mettere il Concordato nella Costituzione e così ci ritroviamo questo articolo 7. Tu che ne pensi a proposito dell’articolo 7?
Se mi si chiedesse di voler cambiare qualcosa nella Costituzione, ecco io direi sì, perché la Costituzione non è un dogma. E uno degli articoli che vorrei cambiare è proprio l’articolo 7. Mi piacerebbe cominciare a raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 subito dopo aver vinto con il no. Dei Concordati non c’è più bisogno dopo il Concilio Vaticano II, sono un relitto del passato. Io sono favorevolissima al massimo della libertà religiosa, ma l’idea che per paura che i cattolici non siano perseguitati in Italia li si mettano sotto la protezione di un altro Stato, veramente fa ridere e piangere insieme. Con l’abrogazione del Concordato verrebbero meno anche molti privilegi fiscali di cui gode la Chiesa…
Sarebbe praticamente un riequilibrio, perché la Chiesa dovrebbe pagare l’affitto di tutti i palazzi che occupa dove ci sono anche i ristoranti e da cui ricava profitti senza pagare nemmeno le tasse perché basta mettere una statuina e farne un luogo di culto. È una vera vergogna. E poi in ogni Paese i cattolici mantengono i loro preti, con le offerte magari detraibili dal fisco però tutto è regolato e limpido invece da noi la Chiesa si prende l’8xmille anche da quelli che pensano di non darglielo: il Concordato è davvero una pecca in una Costituzione peraltro assai bella. Tolto quel cappello dell’articolo 7 che impedisce all’Italia di essere un Paese laico, si potrebbe vedere tutto l’inghippo della Chiesa nella società italiana. Questa è una cosa da correggere assolutamente. E per questo io raccoglierei subito le firme. Che cosa c’è poi che non va nella revisione costituzionale?
Con questa revisione promossa da Renzi, si vorrebbe uno stato centralistico, che si riprende tutte le competenze delle regioni e questo non lo tollero. Preferisco uno stato fondato sulle autonomie che uno stato centralistico. Si dice che i consiglieri regionali rubano, perché, i governi no? Se mai si deve riuscire a trovare la maniera di tenere sotto controllo l’attività politica pubblica, senza cambiare la Costituzione. A proposito delle donne, la ministra Boschi ha polemizzato qualche tempo fa sul fatto che ci sono poche donne nel comitato del No. Tu che sei stata femminista che nei pensi?
Io non sono stata femminista, sono femminista! Perfetto! Ma che cosa rispondi, è vero che le donne non si interessano dei problemi costituzionali?
No, se mai è il comitato che non si interessa delle donne. Non è che il Comitato del Sì brilli per presenza rilevanti di donne, ma siccome è assolutamente dominato da Renzi, sia uomini che donne restano negli angolini bui perché lui occupa tutti gli spazi. Ma il Comitato del No deve essere più attivo nel coinvolgere le donne. Le donne sono più numerose degli uomini e se non sono rappresentate dai comitati resta fuori la maggioranza dell’elettorato. Bisogna sensibilizzare di più le donne?
No, le donne sono sensibili, bisognerebbe sensibilizzare di più il comitato. Al di là dell’impostazione accademica, la cosa da fare sarebbe una mobilitazione a tappeto con volantini semplici ed efficaci, non con documenti di 20 pagine in stretto linguaggio giuridico. Bisogna fare riunioni di caseggiato e soprattutto ascoltare le donne. Se non si fa così, si perde. Tutti questi illustrissimi personaggi e uomini politici che si sono autonominati comitato nazionale si decidessero a fare un po’ di lavoro pratico. Come vedi la partecipazione delle forze di sinistra e del M5s? Sono attivi?
Sì, anzì, noto che in un periodo di grande distrazione politica e assenza di interesse, questo referendum riesce a scuotere anche le aree più grigie. Quindi bisognerà, dopo la vittoria del No, non far ricominciare la morta gora. Io intanto ho già cominciato a buttare l’idea di raccogliere le firme per abrogare il concordato…
Le tracce di una scritta del Monte dei Paschi di Siena, rimossa dalla facciata di un palazzo del centro di Napoli, sede di una delle filiali cittadine della banca, 11 ottobre 2016. ANSA / CIRO FUSCO
Vi prego, fatemi capire. Il Monte dei Paschi di Siena, la banca di coloro che si atteggiavano a maghi della finanza nonostante la gestissero alla guisa di inetti paninari troppo viziati, ha comunicato ieri di voler legare l’eventuale ricapitalizzazione all’esito del referendum? Del tipo: se non vinciamo noi ci portiamo il pallone a casa perché la palla è mia e non si gioca più. Come nelle partitelle in cortile sotto i panni stesi. Una cosa così.
In pratica hanno messo nero su bianco la propria incapacità delegando il futuro dell’istituto all’amicizia cordiale con i guitti del governo riconoscendo che senza un rapporto amicale sarebbero incapaci di garantirsi un futuro. Tradotto sarebbe come il giovane che addossa il proprio fallimento a una cattiva raccomandazione. Una cosa così.
Ci sarebbe da ridere se non fosse che questa cappa portatrice di servilismo sembra infilarsi impunita (e poco analizzata) nelle diverse pieghe di un Paese che appare già troppo crepato per riuscire a dare l’impressione di potersi salvare. Se vince il sì, in pratica, sono sicuri di poter continuare a proliferare nel loro essere servili. Voi dareste davvero i vostri soldi a gente del genere?
Perchè, badate bene, l’autoritarismo funziona quando si spande intorno una certa arrendevolezza, quando sboccia una mitezza di critica che combacia con l’arrendersi: questo Paese è stretto in una morsa di autocensura che si ferma ancora prima del farsi censurare.
Il “caso MPS” è la fotografia di una cappa che stringe il nodo alla gola dei vigliacchi. E così succede i grandi analisti cedano a un peccato di servitù. E vedrete che quasi tutti si ingegneranno per normalizzare. Normalizzare, sminuire, ridurre: è il tempo dei timidi che passano per statisti.
Il ministro per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca, Stefania Giannini, interviene al convegno tenuto a Città della Scienza "Italy-China Science, Technology & Innovation Week", Napoli, 27 ottobre 2016. ANSA/CESARE ABBATE
Che cos’è una comunicazione efficace? A che cosa serve? Due fra le domande più urgenti che dovrebbero porsi i docenti italiani visto che il ministero dell’Istruzione chiede alle imprese coinvolte nell’alternanza scuola-lavoro (asl) – dalla Fiat Chrysler Automobiles all’IBM, dalla General Electric a McDonald’s, dalla Hewlett-Packard a Intesa San Paolo – di impegnarsi, tra l’altro, per trasmettere agli studenti la competenza di comunicare efficacemente.
Per il Miur una comunicazione efficace può anche prescindere dalla completezza delle informazioni. Per esempio, il comunicato stampa del Miur, con il quale si traccia un bilancio del primo anno dell’esperienza Alternanza scuola-lavoro, riporta con toni trionfalistici il dato del 139% in più di partecipanti alle attività di asl rispetto all’anno prima, quando l’asl non era un obbligo di legge. Ma questo dato di fatto (la subentrata obbligatorietà), che spiega la crescita vertiginosa del numero di studenti coinvolti nell’alternanza scuola-lavoro, è considerato un dettaglio trascurabile al Miur.
Le cose non cambiano se passiamo a un altro obiettivo “trasversale” che si prefiggono di conseguire le imprese chiamate in soccorso della scuola italiana: trasmettere competenze organizzative. E passiamo pure sopra alla considerazione che non si ricorda un inizio d’anno scolastico tanto caotico, con organici ancora carenti nonostante il sovrappiù dei docenti di potenziamento, risulta comunque difficile capire quale idea di organizzazione abbiano al Miur quando, a distanza di un anno dall’entrata in vigore dell’asl, stiamo ancora aspettando una norma che disciplini questioni rilevanti circa l’alternanza. Per esempio, deve essere garantita la gratuità della pratica di asl per studenti e famiglie? O quali conseguenze comporta per gli studenti la mancata frequentazione delle ore previste in asl?
Per di più, nel giorno della pubblicazione dei dati sul primo anno di asl, si annuncia un nuovo rinvio della promulgazione della Carta dei Diritti e dei Doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro. I sedici partner delle scuole promossi dal Miur “Campioni dell’alternanza”, ancor prima di cimentarsi nell’impresa, hanno elencato gli obiettivi della loro collaborazione. Oltre a trasmettere competenze comunicative e organizzative, diffonderanno tra gli studenti italiani senso di responsabilità, spirito d’iniziativa e di adattamento, capacità di collaborare, di lavorare in gruppo, di negoziare, di affrontare un colloquio, di gestire il tempo e la conoscenza della Costituzione e dei diritti del cittadino.
C’era bisogno di coinvolgere tanti soggetti esterni, tagliare ore di insegnamento, ridurre il diritto allo studio, disgregare il sistema nazionale di istruzione e stanziare 100 milioni l’anno (sulla destinazione dei quali, peraltro, la comunicazione del Miur latita) per inseguire obiettivi già ampiamente raggiunti dalla didattica ordinaria?
E, passando agli obiettivi più specifici, perché i nostri studenti dovrebbero concentrarsi su come soddisfare un cliente e disinteressarsi alla storia di una civiltà antica? Se vogliamo spingere la loro curiosità verso il funzionamento delle imprese, perché non informarli sulla storia dei diritti dei lavoratori o sui motivi dell’ampio ricorso al lavoro interinale?
Si è voluta rovesciare sulla scuola l’incapacità di politici e imprenditori di realizzare un’efficace politica occupazionale, dimenticando colpevolmente che i nostri studenti sono contesi da imprese, università e centri di ricerca stranieri proprio perché ben formati dal nostro sistema di istruzione.
A firefighter steps over cracks in a road in Norcia, central Italy, after an earthquake with a preliminary magnitude of 6.6 struck central Italy, Sunday, Oct. 30, 2016. Central Italy was hit by another powerful earthquake Sunday, toppling buildings that had recently withstood other major quakes and sending panicked residents back into the streets, but causing no immediate loss of life. (AP Photo/Gregorio Borgia)
Mi fa male il cuore vedere cosa è successo in quei luoghi a cui ho dedicato anni di studio e di ricerca». Intercettiamo il sindaco di Matelica Alessandro Delpriori mentre fa un sopralluogo al monastero dei benedettini del paese marchigiano. Storico dell’arte e autore di un volume su pittura e scultura tra Spoleto e Valnerina, è tra i primi a sollecitare il governo sul futuro dei territori tra Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo. Dopo aver scritto una lettera al ministro Franceschini in cui aveva ricordato che «la storia e l’arte qui sono l’identità stessa della popolazione e non salvarle significa cancellare per sempre quell’identità», a Left precisa: «È chiaro, prima di tutto dobbiamo pensare all’incolumità dei cittadini e per questo ci siamo noi amministratori. Io chiedo al Mibact però di pensare al nostro futuro, alla salvezza di un imponente e diffuso patrimonio storico-artistico. Non è un vezzo o un lusso. Noi viviamo di turismo. Se non si mette in sicurezza questo patrimonio significa toglierci qualsiasi tipo di speranza». E se dal ministero fanno sapere che il personale scarseggia e la Soprintendenza delle Marche si ritrova a fronteggiare l’emergenza con due architetti e uno storico dell’arte, il sindaco di Matelica lancia una proposta: «Se manca il personale, diamoci una mano. Io ho già una lista di 50 storici dell’arte tra ordinari, associati, ricercatori, dottorandi e assegnisti di ricerca. Tutti pronti a partire non solo per mettere in sicurezza ma anche per catalogare le opere in pericolo. Si potrebbe costituire un corpo di Protezione civile per il patrimonio storico-artistico. E sarebbe un laboratorio straordinario non solo per l’Italia, ma per l’Europa intera».
Pier Luigi Bersani durante l'assemblea della Sinistra Riformista Pd, Roma, 23 giugno 2016. ANSA/ANGELO CARCONI
È dallo studio di Repubblica che l’ex segretario del Pd cerca così di scrollarsi di dosso l’accusa che gli muovono i compagni di partito più vicini a Renzi: aver dimenticato i suoi stessi insegnamenti sulla Ditta e, soprattutto, condannare l’Italia, sostenendo il No, a un nuovo governo di larghe intese. A un nuovo governo con Silvio Berlusconi.
Bersani a Renzi: «Stiamo tirando la volata a una nuova destra». Verdini: «“No, tranquillo, siamo quella vecchia».
Non chiede, Bersani, a questi colleghi di spiegargli quale sarebbe la differenza tra un nuovo governo con Berlusconi e l’attuale governo con Verdini – domanda che sarebbe stata lecita ma in effetti scivolosa, accordando Bersani la fiducia al governo con Verdini – ma assicura a Renzi il suo appoggio in caso di vittoria del No. Non si dica che i suoi dubbi sulla riforma sono dunque strumentali. Guai! «Se vince il No bisogna fare un’altra legge elettorale, Renzi resta e si ragiona sul da farsi», dice Bersani. «Renzi resterà perché il governo non c’entra con il referendum». E se non resterà – è il sottotesto – è perché non vorrà lui, troppo preoccupato di logorarsi.
Ma si può essere contro rif cost e italicum perché “apre la strada alla nuova destra”? Se la aprisse alla sx invece andrebbe bene? #bersani
Con l’annuncio di Bersani, finalmente sul No, però, il clima nel Pd resta caldissimo. E anzi si accende ancora di più, nonostante la blindatura del governo (scenario abbastanza prevedibile: la legge elettorale va fatta, e se non è Renzi serve un altro per governare l’annetto che manca). Volano veri e propri insulti, come quelli recapitati all’ex segretario da Fabrizio Rondolino, editorialista dell’Unità, renzianissimo. Scrive Rondolino, rilanciando su twitter un pezzo che dà conto della partecipazione di Bersani alla prossima manifestazione del No: «Un uomo squallido, privo di principi, intimamente vigliacco». Nientemeno.
Con Rondolino potrebbe ripetersi paradosso del referendum diventato pro/contro Renzi. Capace che qualcuno vota NO per allontanare Rondolino https://t.co/x5fF7oTO0Y
Durissima – considerando che Rondolino è uomo vicino al presidente del Consiglio – è però anche la replica: «Da certa gente è meglio essere insultati che omaggiati, così che si capisca che non ho niente da spartire», dice Bersani. Che si mostra pronto a rispondere a tono a tutti, premier compreso, se continueranno a insultarlo. A dire che è un sabotatore.
Bersani: “sbrano chi mi insulta”
Ce li ricordiamo Crimi e Lombardi tutti mozzicati alla fine dell’incontro.