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Ideafelix, le buone idee che battono la crisi dell’editoria

La forza dei grandi classici della letteratura  è il traino di Ideafelix, una casa editrice indipendente che pubblica sei romanzi all’anno con i quali riesce a finanziare altrettanti progetti culturali.  È il piccolo-grande miracolo editoriale  realizzato da Felice Di Basilio, forte di una lunga esperienza come editor e direttore editorale in case editrici italiane .

Il primo libro pubblicato da Ideafelix è  Studs Lonigan di James T. Farrell, un classico della letteratura americana, che fu pubblicato nel 1932 negli Usa e negli anni Cinquanta in Italia da Einaudi. E poi era uscito dal catalogo.«Studs Lonigan è molto di più di un semplice personaggio letterario. È un mito, ed è stato per una buona generazione di scrittori americani una guida artistica. Grazie a Farrell scrittori come Vonnegut, Mailer, Wolfe, hanno trovato la loro cifra stilistica. Grazie a Studs hanno trovato il coraggio per raccontare la vita così com’è davvero. Ma non solo loro. Anche un grandissimo giornalista americano Studs Terkel, ha cambiato il suo nome in onore dell’opera di Farrell. Goffredo Fofi lo descrive così: “Studs… è ancora tra noi, nell’aggressività come nei sogni, più attuali dei tanti bamboleggianti romanzi su infanzia e adolescenza che si sfornano in Italia e nel mondo, senza partecipazione o visione”». Appassionata anche la testimonianza Tom Wolfe? «Essere giovani e leggere il primo romanzo di Farrell, Studs Lonigan, ti faceva fremere di euforia e meraviglia. Com’era possibile che qualcun altro capisse così bene i tuoi inesprimibili sentimenti?».
Stud Lonigan
è un romanzo di formazione di un ragazzo, tenero e coraggioso, che prova a ribellarsi a un destino di emarginazione, ma anche all’idea di peccato imposta dall’educazione cattolica. «E’ un storia di formazione alla vita,- commenta Di Basilio – sogni che non riescono a trovare la loro anima; un ragazzo che cerca una sua via, che cerca un contatto con gli altri, un linguaggio per i suoi sentimenti che a fatica riesce a esprimere. In questo Studs è un ragazzo dei nostri tempi. La religione cattolica, l’ossessione del peccato, non sono forse temi attuali?». Il fatto curioso è che risucì a sedurre anche un outsider caustico, geniale e irriverente come Kurt Vonnegut, che scriveva: «Questo è ciò che ha fatto per me e per molti altri come me quando ero molto giovane: attraverso i suoi libri mi ha mostrato che era perfettamente normale, e forse anche utile e bello, raccontare com’è davvero la vita, cosa si dice e cosa si prova veramente, cosa si fa, cosa succede. Fino a quando non ho letto le sue opere, desideravo solo essere accolto favorevolmente dalla gente che conta. Il suo lavoro è immenso. Balzachiano nella sua vastità. Se solo avesse prodotto una tale mole di opere in un Paese più piccolo, avrebbe già vinto un Premio Nobel».

Libro  straordinario che consigliamo vivamente. Ci resta però la curiosità di sapere come è nata Ideafelix e come riesce ad auro sostenersi in tempi non facili per l’editoria italiana. «Tutto è cominciato come una semplice suggestione – racconta Di Basilio -. Mi sono chiesto: ma dove stiamo andando noi editori, quale strada immaginiamo di percorrere nei prossimi cinque anni? E soprattutto qual è il futuro del libro? Avevo la forte sensazione – racconta l’editore romano – che ci fosse un forte cambiamento in atto, una specie di cortocircuito tra lettore e editore. Cambiavano le forme e i luoghi di scambio, i social prendevano molto spazio, i lettori frequentavano luoghi diversi da quelli tradizionali. Avevo bisogno di nuovi strumenti, di rimettere in discussione tutto». La scommessa di Ideafelix si basa su una precisa conoscenza del mercato editoriale e sul coraggio di provarci con un pizzico di fantasia. «Ho provato a immaginare un futuro dell’editoria molto personale. Ho ripensato il rapporto con il lettore, e soprattutto una dinamica in cui il libro diventasse un vero protagonista. E quindi ha preso forma, lentamente, un progetto editoriale in cui si cerca il rapporto diretto con il lettore, si promuove lo scambio e la condivisione di contenuti, si presenta un libro e un messaggio. Provando a pensare il libro, non solo come contenitore di storie, ma come vettore finanziario. Il suo acquisto – spiega il fondatore di Ideafelix – permette la scoperta di una storia e al tempo stesso promuove, sostiene economicamente, un progetto culturale. La cultura finanzia la cultura».

Oltre alla pubblicazione di sei romanzi all’anno, il progetto prevede un magazine on-line gratuito che pubblica racconti, saggi brevi, video, fumetti delle più importanti firme del panorama artistico-culturale per la prima volta presentate al pubblico italiano. «Abbiamo messo in atto un nuovo modello di crowdfunding, più snello e dinamico, per lanciare gratuitamente un progetto, condividerlo pubblicamente per un finanziamento collettivo».
In questo modo riuscite a finanziare dei progetti con le scuole e altre realtà con la pubblicazioni di alcuni titoli scelti che si possono acquistare online? «In questo momento le vendite del nostro primo romanzo stanno finanziando il progetto “L’alba della meraviglia”, un laboratorio didattico di filosofia pensato per le scuole elementari e che partirà nella primavera 2017 in dieci classi di una scuola romana. Siamo circa al 60% della somma totale. Speriamo di avvicinarci il più possibile alla vetta finale entro la fine dell’anno. Partecipare, sostenere la nostra iniziativa è molto semplice: si può acquistare il libro sul nostro sito – e a breve anche in alcune librerie – e su ogni copia venduta ideafelix destina il 20% del prezzo di copertina al progetto. La raccolta viene registrata e aggiornata da una contatore presente sul pagina del progetto».

Il prossimo progetto di Ideafelix  partirà a fine novembre  è Radio Freccia Azzurra una web radio a misura di bambino. Un laboratorio in cui il curricula scolastico si trasforma in palinsesto radiofonico.

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Bye Bye Brexit? L’Alta Corte britannica ferma May: «Si esprima il Parlamento»

Theresa May
I piani di Theresa May per l’attivazione della Brexit sono finiti nel nulla, grazie a un “pesante” sentenza dell’Alta Corte britannica che la obbliga a passare attraverso il Parlamento ponendo fine a un lungo braccio di ferro tra quest’ultimo e l’esecutivo. Il primo ministro non ha il diritto di utilizzare le proprie prerogative per richiamare l’articolo 50 e rendere esecutiva l’uscita dall’Unione europea senza coinvolgere parlamentari e colleghi. Una decisione che può far svanire l’incubo Brexit? In molti ci sperano a sinistra. Di certo getta nella ancor più nella confusione la premier May e i suoi piani di far scattare l’articolo 50 entro la fine di marzo, per lasciare l’Ue entro la primavera 2019. È una sentenza devastante per il governo, dicono molti commentatori,perché l’Alta Corte ha chimato in causa i “principi costituzionali fondamentali della sovranità del Parlamento”La sentenza, alla lettera dice: «La Corte non accetta la tesi sostenuta dal governo. Non vi è nulla nel testo della legge del 1972 (di adesione all’Ue) per sostenerlo».

Tim Farron, il leader liberal-democratico, ha salutato la decisione come «la possibilità di dire di no a una Brexit difficile, irresponsabile, che mette in pericolo la nostra economia e il nostro lavoro». Furiosio il leader dell’Ukip Nigel Farage: «È un tradimento del volere dei cittadini, un tentativo di cancellare il risultato del referendum del 23 giugno. Ora le tenteranno tutte per bloccare o ritardare l’attivazione dell’articolo 50. Se è così, non hanno idea di quale risposta dei cittadini saremo in grado di suscitare». Ma 
c’è chi ritiene improbabile che i parlamentari cerchino di bloccare Brexit, proprio nel rispetto dell’esito del referendum, al di là dell’eventualità che l’Aula sia a maggioranza pro-Remain. In ogni caso, nella Camera dei Lord ora si apre la possibilità di contestare, o addirittura ritardare il processo.

Insomma, la sentenza è un durissimo colpo per Theresa May che, stizzita, commenta: «Stanno cercando di uccidere la volontà popolare ritardandone l’attuazione. Questo è solo un modo per insultare l’intelligenza del popolo britannico». A  sollevare il caso è stato il  ricorso di un gruppo di attivisti pro Ue che chiedevano un voto del Parlamento di Westminster per avviare l’iter della Brexit. Ma a sfidarea May è stata anche la manager Gina Miller, sostenendo che la conseguenza inevitabile dell’appellarsi all’articolo 50 sarebbe stata la perdita dei diritti legali di cui godono i cittadini del Regno Unito e dell’Ue. Miller ora chiama in causa la Corte di giustizia europea, in nome della libertà di circolazione e di commercio.
Al tema Brexit è dedicato un approfondimento sul numero di Left in edicola sabato e da domani disponibile on line.

Per una panoramica  sugli effetti negativi  della Brexit nel mondo della ricerca:

Hawking e Higgs «Brexit un disastro per la ricerca». Il parere di Rovelli e altri scienziati

Il no degli artisti alla Brexit: https://left.it/2016/06/22/la-carica-degli-artisti-inglesi-contro-la-brexit/

Cosa sta succedendo a Mosul. E perché è importante liberarla

La trincea dei Peshmerga sul fronte orientale a 3-4 chilometri dall'ingresso di Mosul, dalla quale si vede a occhio nudo una torre di comunicazione che ? nel quartiere di Gawjalil. 29 ottobre 2016. ANSA/ CLAUDIO ACCOGLI

Una distesa urbana deserta, le strade squarciate dai raid aerei, il rumore costante delle mitraglie che sparano, la polvere e i militari: è la Mosul che ci mostrano i video girati negli ultimi giorni in Iraq, durante l’assedio contro il Califfato cominciato il 17 ottobre scorso.
Le truppe irachene sono entrate a Mosul dopo 28 mesi di occupazione da parte dello Stato islamico di al-Baghdadi, che proprio lì il 29 giugno del 2014 ha proclamato la nascita del Califfato.

Dopo un anno di silenzio, poche ore fa il “Califfo” ha dedicato un audio-messaggio (del quale però al momento fonti esterne attendibili non sono riuscite a verificare l’autenticità) alle sue milizie, soprattutto a quelle che combattono a Mosul. Il discorso, pubblicato sul sito dell’Isis , dal titolo “Questo è ciò che Allah e il suo Profeta ci hanno promesso”, incita i soldati a difendere l’Islam dall’offensiva dei “crociati” e degli ebrei e chiede di sferrare attacchi anche in Turchia e in Arabia Saudita. Al-Baghdadi si dice “fiducioso nella vittoria”: «La guerra totale e la grande jihad che lo stato islamico sta combattendo – afferma – aumenta solo la nostra ferma convinzione, se Dio vuole, che tutto questo è un preludio alla vittoria». Se il video fosse autentico sarebbe il primo dopo un lungo periodo di silenzio. L’esercito iracheno in passato aveva addirittura dichiarato di aver ucciso al-Baghdadi colpendo un convoglio su cui secondo le loro fonti si sarebbe trovato il Califfo, motivo per cui non ci sarebbero stati più messaggi e appelli pubblici del leader di Isis. L’ultima registrazione del leader dell’Isis, infatti, risaliva al 26 dicembre 2015, quando al-Baghdadi incitava alla “guerra santa” contro gli infedeli di tutto il mondo. In queste ore di assedio a Mosul invece, il suo discorso (se autentico) sarebbe una chiamata alle armi e alla resistenza, in un momento difficile per il Califfato.
L’antica città assira di Ninive, oggi Mosul, e capoluogo del governatorato di Ninawa, è delle tre roccaforti dell’Isis – insieme a Raqqa in Siria e Sirte in Libia – la più importante, perché si trova in una posizione strategica lungo il fiume Tigri, perché la sua numerosa popolazione può essere impiegata come milizia, perché possiede numerosi pozzi petroliferi. All’enorme valore strategico della roccaforte si aggiunge quello simbolico perché proprio qui venne dichiarata da al-Baghdadi la nascita del Califfato.

Chi è in campo contro l’Isis

Le forze militari schierate contro l’esercito di al-Baghdadi sono diverse e animate da numerose tensioni confessionali: oltre alle truppe regolari irachene appoggiate dalla coalizione degli Stati Uniti, ci sono i curdi Peshmerga (addestrati dall’esercito italiano in Kurdistan), i miliziani sunniti filo-turchi (addestrati dalla Turchia), l’esercito sciita filo-iraniano e le milizie confessionali di cristiani e Yaziti (perseguitate dall’Isis).
Trattandosi di una città a maggioranza sunnita, il governo di Baghdad ha proibito alle truppe sciite di entrare in città, per evitare rappresaglie contro i sunniti e ha intimato all’esercito turco di non entrare a Mosul, per evitare uno scontro a fuoco con le milizie regolari, in seguito all’annuncio del dispiegamento dei carri armati turchi.
La varietà confessionale e politica degli eserciti anti-Isis scesi in campo a Mosul ricorda il contesto iracheno successivo alla morte di Saddam Hussein, diviso tra sunniti e sciiti e teatro di interessi stranieri e contrastanti, dove l’Isis è nato e si è fatto spazio.
Al momento la variegata compagine anti-jihadista di 40 mila soldati sta avanzando verso il centro della città, dove si sono barricati i 5000 miliziani Isis rimasti e dove risiede ancora un milione e mezzo di civili iracheni, intrappolati in città.

Crisi umanitaria

Finora nel conflitto iracheno hanno perso la vita 1,792 persone, di cui 1,120 civili – riportano le Nazioni Unite. Le forze irachene dovranno aprire dei corridoi umanitari per permettere agli abitanti di Mosul, e soprattutto a 600 mila bambini, di trovare riparo altrove, per evitare che si replichi quello che è successo ad Aleppo – dichiara Maurizio Crivellaro, il direttore di Save The Children in Iraq.
Nelle ultime settimane, riporta Ravina Shamdasani delle Nazioni Unite, 25 mila civili sono stati usati dai miliziani dell’Isis come “scudi umani”, trasferiti con la forza da una parte all’altra della città sui camion e costretti a stare sui tetti e nelle strade della città per scoraggiare i raid nemici.
Gli altri – conclude – sono barricati nelle case, terrorizzati e in attesa dell’arrivo dei liberatori.
Molti civili, dall’inizio del conflitto, sono finiti in mezzo al fuoco incrociato: tra loro il Guardian inserisce un’intera famiglia uccisa per errore da un raid americano alcuni giorni fa, nel villaggio di Fadhiya, a pochi chilometri da Mosul.
Il 28 ottobre, inoltre, 52 uomini ex membri dell’esercito iracheno sono stati convocati dagli esponenti dello Stato Islamico tramite i megafoni delle moschee di alcuni quartieri e ricevuti in un collegio pubblico a est di Mosul con la scusa del ritiro dei loro documenti, precedentemente confiscati. Coloro che hanno risposto alla chiamata sono stati uccisi in un’esecuzione di massa, nonostante fossero ufficialmente “pentiti”- racconta Mohamed al Musali della milizia di quartiere anti-Isis “Cavalieri di Mosul”.

La strategia dei jihadisti

Oltre all’uso dei civili come “scudi umani” e alle esecuzioni sommarie contro gli ex militari iracheni, le milizie di al-Baghdadi hanno riempito le trincee di petrolio (facilmente reperibile a Mosul) in attesa dell’arrivo delle forze nemiche e hanno cosparso le strade di ordigni artigianali carichi di esplosivo e di sostanza chimiche nocive. Secondo l’IHS – riporta la Bbc – i combattenti Isis hanno perso molto terreno dall’inizio del conflitto, tanto da giustificare il sospetto dei Peshmerga curdi che al-Baghdadi sia accorso a Mosul per motivare il suo esercito da vicino. Sulla presenza del leader jihadista in città l’Indipendent si dichiara dubbioso, perché le foto scattate che lo ritraggono a Mosul sono ancora di dubbia autenticità. «Qualora fosse così – dichiara Fuad Hussein, il capo di gabinetto curdo del presidente Massoud Barzani al giornale britannico – e Al Baghdadi venisse ucciso, l’intero sistema Isis cesserebbe».
Per Hussein la caduta di al-Baghdadi e del suo Califfato è data per certa: «È ovvio che perderanno, – ha detto – ma non sappiamo quanto tempo sarà necessario perché questo accada». I tempi del conflitto, continua Hussein, dipenderanno dalla strategia che il Califfato metterà in pratica d’ora in avanti, soprattutto per quanto riguarda i cinque ponti che collegano le due sponde del fiume Tigri, per ora risparmiati dai jihadisti. Se l’Isis decidesse di far saltare i ponti, rallenterebbe l’avanzata dell’esercito nemico, ma rinchiuderebbe al-Baghdadi in un vicolo cieco, in una trappola al centro della città, circondato dagli eserciti nemici.
«Lasceremo ai seguaci di baghdadi un corridoio aperto a ovest. – ha dichiarato l’alto ufficiale Yahya Rasul dal Joint Operation Command di Makhmur – Sarà un corridoio della morte per loro. Li spazzeremo via con i raid aerei. La zona diventerà il cimitero dei jihadisti».

Migliaia di euro al mese per gli ex-Commissari europei

Secondo il settimanale tedesco Die Zeit, 16 ex-Commissari europei percepiscono un’indennità  di diverse migliaia di euro al mese nonostante ricoprano, attualmente, altre posizioni lavorative.

Die Zeit fa riferimento a una lista di nomi che sarebbe riuscita a ottenere dalle stesse istituzioni europee soltanto dopo settimane di ostruzione.

Tra i nomi rivelati da Die Zeit figurano Connie Hedegaard, ex-Commissario all’ambiente, Dacian Cioloș – oggi Primo ministro della Romania, ma al tempo Commissario alle politiche agricole – e Janusz Lewandoski, ex-Commissario al bilancio, oggigiorno parlamentare europeo. Inoltre, a quanto riporta Die Zeit, tra i nomi sarebbe indicato anche Ferdinando Nelli Feroci, attualmente Presidente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). Feroci aveva temporaneamente sostituito Antonio Tajani tra il giugno e il novembre del 2014, prima che la Commissione Barroso lasciasse il posto a quella di Jean Claude Juncker.

Secondo Die Zeit, si parla di indennità minime pari a 99 mila euro l’anno.  Come è possibile?

L’istituzione dell’indennità risale al 1967 e prevede che i Commissari in uscita possano richiedere, per un massimo di tre anni, fino al 65 per cento dello stipendio percepito durante la propria permanenza nelle istituzioni.

L’indennità ha lo scopo di evitare conflitti di interesse dovuti al potenziale impiego degli ex-Commissari in settori sensibili.

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GermaniaDie Welt Il Comitato tedesco dei saggi dell’economia boccia il bilancio politico della grande coalizione e chiede più impegno  per le riforme

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Usa 2016/Baseball, suprematisti bianchi e chiese in fiamme. Il clima e i sondaggi

A supporter of Democratic presidential candidate Hillary Clinton shouts prior to Clinton arriving at a campaign rally Wednesday, Nov. 2, 2016, in Tempe, Ariz. (AP Photo/Ross D. Franklin)

In un ciclo elettorale durante il quale i due contendenti alla Casa Bianca volano nei sondaggi solo grazie alle disgrazie e alle rivelazioni degli avversari, Donald Trump ha un terzo delle possibilità di vincere le elezioni di martedì prossimo. Se la cosa non vi spaventa smettete pure di leggere. Altrimenti seguite un noioso ragionamento che serve a portarci al numero 272, ovvero i collegi elettorali (i grandi elettori) che nominano il presidente.

Stati e sondaggi

Ciascuno Stato ne ha un numero uguale a quello dei rappresentanti e senatori che manda a Washington e per vincere ne servono appunto 272. Naturalmente ci sono Stati che votano, in questa epoca storica, sempre per un partito e altri che votano sempre per l’altro. Poi ci sono la Florida, l’Ohio (dove Left ha fatto un lungo reportage in edicola da sabato), l’Iowa, il New Hampshire, il Nevada, la North Carolina, il Colorado, la Virginia, il New Mexico che cambiano voto. Alcuni più spesso, altri meno. Quest’anno si dice si sia aggiunta l’Arizona. Bene, conquistando molti di questi si vince.

Nei giorni scorsi Hillary Clinton era in vantaggio ovunque. Oggi no. E Secondo FivethirtyEight, il sito di Nate Silver, uno dei maghi dei numeri elettorali in circolazione, ha solo il 68% delle possibilità di vittoria.
Sono tante, ma una settimana fa erano il 90%. Ma, prima del primo dibattito, Trump e Clinton erano persino più vicini di adesso.

Tra gli swing states, gli Stati in bilico (o meglio gli Stati pendolo, che cambiano voto) Trump è in vantaggio o pareggia in North Carolina e Ohio. Clinton negli altri e il suo vantaggio in questi, in teoria è più sicuro di quello di Trump. In Florida i due sono pari. Se le cose restassero così e il repubblicano vincesse lo Stato degli esuli cubani arrabbiati con Obama, Clinton vincerebbe lo stesso. A Trump servirebbe la Pennsylvania. Tra l’altro la North Carolina è molto in bilico: i sondaggi sono molto diversi tra loro. La mappa qui sotto, che attribuisce la Florida a Trump, vede Hillary vincere di un soffio.

Una mappa del voto possibile: vince Clinton di un soffio, Trump prende i due swing States pesanti, Ohio e Florida

schermata-2016-11-02-a-19-39-16(Washington Post)

Gli Stati che abbiamo elencato sono cruciali, una sorpresa negativa può arrivare da una parte e una positiva dall’altra. Oppure ci può essere una lotta all’ultimo voto qui e la come fu in Florida nel 2000. Per questo, tutta la famiglia Clinton, quella Obama, quella Biden, Bernie Sanders e altri ancora stanno battendo ciascuno quello più appropriato. Il presidente, ad esempio, andrà in North Carolina, dove il voto anticipato dei neri è calato molto rispetto a 4 anni fa. E senza una massiccia partecipazione non si vince. Per lo stesso motivo Hillary sarà a Philadelphia con Kate Perry e Stevie Wonder terrà un concerto nella stessa città il giorno prima. Una parla ai millennial, l’altro ai neri. Sanders deve darsi da fare per riportare a casa i suoi sostenitori a cui non piace Clinton (ne abbiamo parlato ieri). Anche i repubblicani stanno facendo la stessa cosa, ma hanno meno figure di prestigio da mandare in giro. E soprattutto, una macchina meno organizzata per registrare al voto e portare la gente a votare. Ieri Paul Ryan, speaker della Camera ha ammesso obtorto collo in un’intervista Tv che sì, anche lui voterà Trump. E Ted Cruz, che ha insultato TheDonald in ogni modo, ha fatto campagna con il vice Pence.

Il baseball e gli spot delle campagne

Cubs e Indians, la finale americana del baseball

Mentre dormivate si giocava la finale delle World Series di baseball – si chiama world, ma è il campionato professionistico Usa. A giocare Cleveland Indians e Chicago Cubs, due squadre che non vincevano rispettivamente dal 1948 e dal 19o8. Come se in Italia si giocasse una finale di serie A tra Pro Vercelli e Cavese. Le World Series si vincono quando una delle due squadre vince quattro partite. Ieri era la finalissima al 10 inning (supplementari), dopo che i Cubs avevano recuperato due vittorie. I nove inning regolari si erano conclusi sul 6 a 6 dopo una rimonta di Cleveland. Poi, al decimo inning, per la prima volta dopo quasi 110 anni, i Cubs hanno vinto il campionato battendo gli Indians 8-7. Che c’entra questo con le elezioni? C’entra: la partita sarà una delle cose più viste dell’anno e le due campagne hanno comprato spazio per annunci pubblicitari, due sono questi, ce ne sono altri due per campagna. Sono tutte collezioni di orrori di Donald Trump: avendo capito di non essere un candidato capace di piacere, Hillary ricorda agli altri tutte le malefatte di Trump.

Trump accusa Hillary di essere vecchia politica e si propone come il Change

Hillary ci riporta al tema degli insulti e delle molestie alle donne

Nel complesso, il tema resta quello di “Chi vi piace di meno?”. E in questa settimana i repubblicani, anche quelli a cui non piace Trump, sono tornati a decidere che andranno a votare. Tra i democratici, ormai lo sappiamo, non c’è entusiasmo.

Gli aiuti dei democratici a Clinton contro Sanders

Tra le cose che hanno danneggiato Hillary c’è la vicenda di Donna Brazile. Commentatrice Cnn era stata nominata capo del DNC, l’organizzazione democratica, dopo che chi la precedeva, era stata beccata ad aiutare Hillary contro Bernie Sanders. Qualche giorno fa Donna Brazile è stata beccata (o meglio, l’ennesimo leak di Wikileaks, che è in guerra con Hillary) a cercare di passare informazioni sulle domande che Cnn avrebbe fatto a Clinton, in occasione di un dibattito con Bernie Sanders. Si è licenziata da Cnn, ha fatto una pessima figura ed ha cementato l’immagine di Clinton come di una che lavora nell’ombra con alleati disonesti. Un’immagine che spinge più repubblicani ad andare a votare e meno democratici a farlo. (Anche se in Florida sembra che un terzo o quasi dei repubblicani che ha quasi votato in anticipo abbia votato Hillary).

Suprematisti bianchi alla riscossa

Infine c’è la vicenda dei suprematisti bianchi che vorrebbero essere rilevanti in questo voto. C’è David Duke, ex Ku Klux Klan, candidato in Louisiana e cercheranno di votare, di farsi vedere armati ai seggi negli Stati dove è possibile e, nel caso di vittoria di Clinton, potrebbero creare disordini. «La possibilità di violenza il giorno delle elezioni è molto reale» dice Mark Potok del Southern Poverty Law Center a Politico. «Donald Trump ha raccontato i suoi sostenitori per settimane e settimane e settimane, che stanno per assistere a elezioni rubate dalle forze del male in nome delle elite». Più che creare disordini dopo, è probabile che facciano di tutto per spaventare le minoranze e non mandare neri e latinos a votare. Intanto, per darci un’idea qualche genio ha dato fuoco a una chiesa afroamericana del Mississippi, scrivendo sui muri “Trump”. L’Fbi indaga per hate crime.

Terremoto Centro Italia, Sos dalla montagna: «Aiutate l’economia»

Nuovi crolli dopo il forte terremoto nelle aree già colpite dai simsi degli scorsi giorni, 30 ottobre 2016. ANSA/ESERCITO ITALIANO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

«Era una stagione eccezionale. Dopo molti anni di crisi ci stavamo riprendendo e adesso si lavorava veramente tutti, dall’albergo al negozio di alimentari fino all’officina meccanica, perché quando ci sono tanti turisti c’è anche chi ha bisogno di cambiare una gomma». Alberto Quaglietti è un albergatore di Preci (Perugia), uno dei luoghi più colpiti dalle due scosse di terremoto del 26 e 30 ottobre. Originario di Spoleto, si è trasferito a vent’anni lassù tra i monti Sibillini nel 1980 e ha visto così passare sotto i suoi occhi anche l’altro terremoto, quello del 1997. La sua è una storia comune a molti altri commercianti, artigiani e piccoli imprenditori dell’area tra Marche, Umbria e Lazio, colpita dalle scosse del 2016: in 197 comuni (erano 62 dopo il 24 agosto) 11mila imprese con 40mila addetti coinvolti. Per il 30 per cento impiegati nell’agricoltura, un 20 per cento nella manifattura e poi il turismo che stava prendendo piede sempre di più. «In pratica è come se il terremoto si fosse concentrato sul parco dei Monti Sibillini», continua Quaglietti. Si tratta di una zona interna, di montagna e alta collina, che adesso rischia moltissimo in termini economici.
Giorni fa sul Corriere della Sera Dario De Vico incitava all’innovazione (anche attraverso reti e aggregazioni) per far ripartire una cultura imprenditoriale nel Centro Italia. Purtroppo lassù lo scenario è molto complesso. Come racconta l’albergatore di Preci, in queste zone i paesi sono scarsamente abitati con frazioni di poche decine di abitanti sparsi tra i boschi e la montagna – Preci ha 750 abitanti e 18 frazioni -. Le principali attività sono legate al turismo, in tutte le sue pieghe: escursioni a piedi o a cavallo, visite a musei e a borghi storici e d’arte. Sono fioriti quindi, dopo anni di crisi, strutture alberghiere e campeggi, ristoranti, negozi di prodotti tipici e dell’alimentare di qualità. Il prosciutto di Norcia e le lenticchie di Castelluccio di Norcia sono un esempio per tutti. Nelle Marche, scendendo dalle colline verso il mare l’attività economica è più diversificata. E anche in questo caso, dopo la crisi della manifattura calzaturiera di qualche anno, fa, c’era stata una ripresa. La regione che fa parte della cosiddetta “terza Italia” della produzione locale, quel made in Italy tante volte evocato, adesso deve ricominciare da capo. Da dove? Il sindaco di Matelica (Macerata) Alessandro Delpriori, che è uno storico dell’arte, ha lanciato un appello al ministro Franceschini affinché «si metta in sicurezza il patrimonio storico artistico, perché solo così si mette in sicurezza il futuro». Il sindaco del paese marchigiano – 10mila abitanti e 3mila sfollati – focalizza l’attenzione sul turismo. È questo il futuro per queste zone. «Pensiamo a Norcia: viveva con San Benedetto e il prosciutto». È la stessa cosa per Preci. Continua con passione Alberto Quaglietti: «Quassù l’aria è fine, non ci sono grandi vie di comunicazione, la natura è incontaminata. Si possono fare tutti gli sport all’aria aperta e in più godere di una ristorazione ottima. Siamo a due passi dallo spendido spettacolo della fioritura di Castelluccio di Norcia, poi c’è la montagna». Il suo albergo si trova in un palazzo del ‘500 appartenuto alla famiglia Scacchi, una dinastia di chirurghi del XVI-XVII secolo che ha operato in tutta Europa, come racconta Quaglietti. Suae ac amicorum comodidati, per la comodità sua e degli amici è l’antico motto inciso sul capitello di una finestra e diventato il “logo” dell’albergatore. Il quale non vorrebbe andarsene da Preci. E questo è il dilemma delle piccole attività imprenditoriali da aiutare in tutti i modi, sia dal punto fiscale che dal punto di vista logistico. «Io non me ne vorrei andare. Anche perché mi dispiace per i miei dipendenti, 5 ragazzi del posto bravi e competenti. Tra di noi c’era un buon rapporto. E poi perché si deve dare il segnale che la vita riprende, in ogni modo». L’edificio è inagibile, secondo Quaglietti ci vorranno 3-4 anni perché sia di nuovo fruibile, ma nel frattempo, dice, «se il comune mi trovasse un luogo alternativo, potrei riprendere l’attività». Anche uno spiazzo su cui costruire una struttura prefabbricata in legno, basterebbe. In effetti l’unico ristorante rimasto aperto a Preci insieme ad un bar è una struttura che era stata installata all’inizio del Paese dopo il terremoto del 1997. Era in legno, e adesso non ha subito danni.

Se questo è un referendum: rimandano, mescolano, si impietosiscono

Ogni tanto mi capita di sperare di sbagliarmi. Così quando sottovoce mi sono permesso di sottolineare che il sasso lanciato da Castagnetti (che proponeva di rimandare il referendum a causa del terremoto, ne ho scritto qui) difficilmente avrebbe potuto essere una banale mossa estemporanea e qualcuno mi ha bacchettato dandomi del pessimista compulsivo e complottista (gufo, come si dice di questi tempi) ho sperato che avesse ragione lui.

E invece, mannaggia, il flebile tweet di Castagnetti era solo il flauto d’apertura di una fanfara che nelle ultime ora sta suonando fino alla grancassa: sindaci, deputati, senatori, misconosciuti intellettuali del sì e un crogiolo di sostenitori ripetono che sì, che è davvero il caso di spostare il referendum per rispetto agli evacuati del terremoto. Alcuni di loro, addirittura, vogliono farci intendere che i terremotati tra l’altro non potrebbero votare compromettendo la veridicità del risultato finale.

Tra i misconosciuti spunta il meno misconosciuto, tale ministro Angelino Alfano, che rilascia una dichiarazione alle agenzie: questo referendum non s’ha da fare, dice Alfano. Anche lui. E non passa nemmeno il tempo di un caffè che Matteo Renzi (sempre abile nel fingersi ago di una bilancia che è stata spesso solo una brutta messinscena) smentisce l’ipotesi di uno slittamento della data del referendum. Se avete buona memoria ricorderete che anche sull’articolo 18 ci fu un balletto simile. Se avete buona memoria ricorderete anche come è andata a finire.

Mentre di solito si usa la tattica del poliziotto buono e del poliziotto cattivo tra il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno si sperimenta la nuova formula del poliziotto responsabile e del poliziotto scemo: Angelino, del resto, si trova a capo di un partito che ormai esiste solo in Parlamento e in molti lo raccontano terrorizzato dall’ipotesi di un rimpasto di governo che lo vedrebbe retrocedere (lui con la sua truppa di sottosegretari) al ruolo del soldato semplice e politicamente morituro.

In un Paese normale, tra le altre cose, un ministro che viene smentito nel tempo di un amen dal suo Presidente del Consiglio alzerebbe le mani, bisbiglierebbe un ciao grazie e farebbe le valigie. In un Paese normale. Qui invece possiamo essere certi che il giochino di tentare di spostare il referendum a tempi migliori sia solo all’inizio.

Intanto per rimanere in tema Renzi e i suoi sono sfiorati dall’idea di imbastire una Leopolda improntata sul pietismo con passerella di famiglie senza un tetto e folle da imbonire (ne potete leggere qui). Che differenza ci sia tra una senatrice grillina che grida al complotto e un partito (di governo) intero che usa il terremoto e la disperazione come leva elettorale lo potete decidere voi.

Siamo solo all’inizio. Da qui al 4 dicembre i colpi di coda si moltiplicheranno. Uno al giorno. Tutti i giorni. Per stare nel merito, come dicono loro.

Buon giovedì.

Il filo dell’acqua. Il racconto dell’alluvione. Solo nel 2026 l’Arno sarà in sicurezza

Piazza Duomo, Firenze, 1966

A Cinquant’anni dall’alluvione che colpì Firenze il 4 novembre 1966, l‘Arno è ancora  nelle condizioni in cui era allora. Tanto che il presidente del comitato alluvione, Giorgio Federici dice che «la speranza è mettere in sicurezza il fiume che attraversa Firenze entro il 2026» . Lo scrive nella prefazione del testo teatrale  Il filo dell’acqua (pubblicato da Scienza Express) scritto da Francesco Niccolini, regista e drammaturgo che con Arca Azzurra Teatro, dopo l’anteprima il 2 novembre nella rassegna Tutto Esaurito di Radio 3   lo presenta  il 5  al Teatro Verdi di Pisa Affidando la narrazione a tre attori della compagnia fondata da Ugo Chiti – Dimitri Frosali, Massimo Salvianti e Lucia Socci – capaci di dare vivo spessore all’impasto linguistico del testo, ricco di accenti  toscani. Come era già accaduto per Il racconto del Vajont scritto con Marco Paolini,  anche questa volta Niccolini ha fatto un lungo lavoro d’inchiesta e di ricostruzione storica prima di mettersi a scrivere. La prima domanda dunque non può che essere sull’attualità.
«Rispetto a dieci anni fa  quando lavorai per la prima volta a questo testo  la situazione dell’Arno è incredibilmente peggiorata» risponde Niccolini che del Filo dell’acqua è anche regista insieme a Roberto Aldorasi. «Al punto che ho deciso di cambiare il finale. Nella prima versione andava sott’acqua solo la Toscana, parte della Liguria e del Piemonte. Oggi finiscono sott’acqua due terzi dell’Italia con sempre nuove città che finiscono alluvionate. L’unica cosa che non cambia mai – denuncia il drammaturgo toscano – sono  le criminali affermazioni dei sindaci quando danno la colpa a una pioggia senza precedenti. E questo non è accettabile, perché non è vero. Piogge violente ci sono sempre state. Il problema è che  di anno in anno è diminuita la cura, e la prevenzione e  intanto si è continuato a costruire dove non si dovrebbe». La geografia dell’Italia a rischio alluvioni è sempre più vasta dunque?  «Non c’è nemmeno bisogno di studiare molto, basta aprire i giornali  per vedere squadernata questa geografia che va da Padova, a Vicenza alla Puglia. Da marzo a dicembre, non più solo da ottobre a dicembre, questa è a realtà». Quanto alla città di Firenze è ancora fortemente a rischio. Tanto che il comitato alluvioni spera che la messa in sicurezza dell’Arno possa avvenire entro il 2026 inviando Francesco Niccolini a preparare per quella data una nuova edizione de Il filo dell’acqua! Una data che la dice lunga su quanto la situazione sia difficile.  Anche e soprattutto a causa della deregulation,  dei ripetuti condoni che si sono succeduti negli ultimi trent’anni. Dagli anni Novanta ad oggi abbiamo vissuto pericolosamente in Italia? «Abbiamo sempre vissuto pericolosamente rispetto alla mancata tutela del territorio. Ma dall’ultimo ventennio del secolo scorso – sottolinea Niccolini – con i condoni è stato possibile costruire ovunque. Il paesaggio italiano è bellissimo ma la penisola ha anche delle fragilità.  Non possiamo chiudere gli occhi  davanti allo scempio  ambientale che facilmente scivola nel crimine. Ne paghiamo pesantemente le conseguenze». Il prezzo pagato fu altissimo nel caso del Vajont, «morirono duemila persone. L’avvocato Canestrini che difendeva i Comuni offesi, denunciò il genocidio di un popolo».  «A Firenze i morti furono 37 e avrebbero potuto essere molti di più se non si fossero verificate alcune circostanze fortunate. A cominciare dal fatto che era festa civile, nessuno andava a scuola o a lavorare,  nessuno era andato a messa,  i fiorentini quando l’Arno ha esondato erano quasi tutti a casa», racconta l’autore de Il filo dell’acqua. « Ma i vertici  dell’amministrazione fiorentina erano del tutto impreparati, non sapevano cosa fare, e non hanno fatto niente, neanche dare l’allarme. Noonostante questo, nonostante le colpe  e l’inerzia dello Stato che per alcuni giorni, a sua volta, non ha fatto nulla, non è stata una catastrofe irreparabile. In quei giorni sono state scritte alcune delle più belle pagine di intervento civile, pensiamo a quello che è accaduto con gli “angeli del fango” – rimarca Niccolini -,  che salvarono le opere d’arte e e s’impegnarono nella ripulitura di migliaia di libri. La storia dell’alluvione in Toscana è completamente diversa dalla storia del Vajont, da quest’ultima si esce completamente distrutti, dentro e fuori. Dall’alluvione fiorentina emerse una componente meravigliosa di umanità solidale che allora sapeva ancora riconoscere qualcosa di importante da salvare». Tanto che viene da chiedersi come sia avvenuto il degrado culturale che oggi porta la classe di governo a disinvestire nella tutela del patrimonio storico artistico.
«Questa è la grande sciagura dell’Italia – dice Niccolini -, noi più di altri Paesi europei, siamo stati vittime dell’americanizzazione, del rapporto con i media, siamo diventati dipendenti dalla Tv, abbiamo dimenticato l’importanza che una cultura viva per la qualità della vita, per la mente e la felicità dei cittadini.  Abbiamo acceso la tv e ci siamo spenti, siamo diventati un popolo corrotto che non riesce a distinguere nulla.  Ha prevalso il modello del successo tv, la ricchezza in moneta sonante». Ne ha risentito molto anche il mondo del teatro italiano? «Moltissimo. Io vado spesso vado all’estero  e vedo una abissale differenza. In Italia tante compagnie mi dicono : se non troviamo un grande nome e un titolo forte non riusciamo a fare lo spettacolo. Non c’è più il valore della compagnia, il valore dello spettacolo, cose che trent’anni fa si potevano fare con tranquillità entusiasmo e successo ora nessuno ha più il coraggio di farle. Non accade così a  Parigi, a Marsiglia,  a Praga.  Nella stessa Svizzera i teatri sono sempre pieni. Noi invece ci siamo rassegnati al modello televisivo».

Dopo l’anteprima il 2 novembre a Tutto esuarito, il festival teatrale di Radio 3  trasmesso live dalle sale di via Asiago a Roma, lo spettacolo Il filo dell’acqua, prodotto da Arca Azzurra, va in  scena in prima nazionnale al 5 novembre al Teatro Verdi di Pisa  l’8 novembre al Teatro Puccini di Firenze. 

Il 4 novembre Radio3 dedica uno speciale all’alluvione, trasmettendo in diretta dal Niccolini di Firenze

l libro Il filo dell’acqua di Francesco Niccolini sarà presentato al Pisa book festival , l’11 novembre

  E tantissime sono le iniziative fiorentine dedicate al 4 novembre 1966, a cominciare dalla mostra degli straordinari scatti di Balthazar Korab  e poi la rassegna della Fondazione Toscana Alluvione, 50 anni dopo il fiume in città che si tiene dal 7 al 23 novembre. 2 prime nazionali per un mese di spettacoli, proiezioni e incontri, tra la Pergola, il Niccolini e il Teatro Studio.

 

alluvione Firenze
alluvione Firenze

alluvione 1966
alluvione 1966

alluvione Firenze
alluvione Firenze

Alluvione di Firenze 1966 : zampata dell' Arno al lungarno della Zecca
Alluvione di Firenze 1966 : zampata dell’ Arno al lungarno della Zecca

L’ultima mossa di Renzi. Una Leopolda sul terremoto

Renzi fa visita ai terremotati
Il presidente del consiglio Matteo Renzi, Agnese, a Preci (Perugia), uno dei paesi dell'epicentro del terremoto, 1 novembre 2016. ANSA/TIBERIO BARCHIELLI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Aveva chiesto una tregua alle opposizioni per il terremoto, aveva chiesto di placare le polemiche e raffreddare il clima della campagna per il referendum costituzionale. Poi però è andato, con moglie al seguito, a Preci e nei luoghi del sisma e, oggi, ha annunciato che la Leopolda – settima edizione – sarà dedicata proprio al terremoto. «Non si può chiedere alle opposizioni di non fare polemiche, e poi prendersi la scena per farsi campagna elettorale», dicono così dalle opposizioni, tornate alla solita temperatura, dalla Lega ai 5 stelle. «Renzi non speculi sulla pelle dei terremotati», dice Calderoli. «Quella di Renzi è una pantomima», aggiunge Loredana De Petris di Sinistra italiana, «fatta peraltro solo per ottenere dalla Ue margini di spesa da usare poi per misure propagandistiche».

«Sarà un’edizione speciale e credo particolarmente ricca di emozioni», dice però Renzi, incurante. «Venerdì sera», spiega presentando l’appuntamento del weekend, «discuteremo soprattutto di terremoto, protezione civile, terzo settore, leggi sociali, volontariato. Lo faremo a qualche giorno di distanza dal terremoto e a cinquant’anni dall’Alluvione di Firenze. Chiuderemo i lavori con una bella spaghettata all’amatriciana di solidarietà». Non solo. «Sabato mattina i nostri ormai consueti tavoli di lavoro saranno aperti al contributo di tutti, sugli argomenti più vari», nel pomeriggio, invece, «apriremo i lavori con un intervento di un caro amico della Stazione Leopolda Brunello Cucinelli che ci racconterà il suo progetto per Norcia, luogo dello spirito». Ancora terremoto, dunque, con Cucinelli che ha annunciato di volersi impegnare in prima persona per la ricostruzione del monastero benedettino distrutto.

È così sarà una Leopolda aggressiva, quella che da venerdì andrà in scena a Firenze. Un po’ come al solito, dunque, in barba alla tregua. Sempre, ovviamente, pensando al referendum: «Lavoreremo sulle riforme costituzionali», dice ancora Renzi, «andando a smentire – una per una – tutte le bufale di questi mesi. Mostreremo come questa riforma può davvero cambiare la vita degli italiani».